Il premio per la migliore regia è
forse uno dei più vicini al concetto di “cinema” in quanto tale,
destinato a chi riesce meglio a muovere i fili della pellicola. Un
illustre riconoscimento che può mettere in mostra la bravura e la
meticolosità di un regista, che magari, anche trovandosi di fronte
a storie più o meno deboli, riesce ad esaltarle con la propria
mano, aggiungendo quel tocco in più che lo contraddistingue. In
questa edizione abbiamo a che fare con titoli a loro modo tutti
interessanti, per motivi diversi: che siano le sperimentazioni
contenute in regie meno standardizzate come quelle di
Alfonso Cuaròn o Alexander Payne
ed in parte anche di Steve McQueen; oppure un
dinamismo più acceso come nel caso di David
O.Russell, o ancora una mano esperta e consapevole come
quella di Martin Scorsese, tutte le pellicole
candidate hanno ragionevolmente degli aspetti interessanti da
sottolineare.
Alfonso Cuarón per
Gravity – Ha già vinto il premio per la Miglior
Regia ai BAFTA, ai Golden Globes ed è il grande favorito anche agli
Oscar. Perché in film come Gravity, il discorso
registico occupa una posizione di sicuro rilievo. Quella che
comunemente potrebbe essere definita come una pellicola statica,
lenta, per qualcuno noiosa, privilegia invece una magnifica
espressione registica, in una minuziosa attenzione verso il
movimento di macchina, mai lasciato al caso. In un film quasi privo
di attori, per larghi tratti di dialogo e di azione, nel senso più
dinamico del termine, all’immagine va conferito il ruolo
principale. E per farlo, c’è bisogno di non abbandonarla mai. Ecco
perché Cuaròn utilizza pochi stacchi e mai lo schermo nero. Anche
quando c’è bisogno di cambiare situazione, di cambiare scena, non
c’è mai spazio per uno stacco improvviso o una dissolvenza, ma il
regista è capace di restare anche per minuti e minuti fermo su
qualcosa, prima di riprendere il movimento. Come un continuum
fluttuante che non deve interrompersi mai. I lenti movimenti di
macchina e i lunghissimi piani-sequenza, si muovono per davvero in
modo “lento”, ma sono talmente avvolgenti che risultano incessanti.
Quindi non siamo di fronte soltanto ad un discorso di effetti
speciali, ma ad una orchestrazione dell’impatto visivo, talmente
curata da diventare poesia.
Cuaròn sa utilizzare la macchina da
presa ora per risaltare e documentare quanto più possibile
dell’immensità spaziale; ora per spostarsi dentro alle
sensazioni umane del personaggio, lasciando la strada al sacro e al
sovrannaturale, con una regia che diventa in questa circostanza
quasi intima. Ci sono poi finezze per l’occhio, come un movimento
di macchina circolare che ruota per 360°, richiamando il moto
rotatorio della terra. Insomma, l’attenzione per il dettaglio in
tutte le sue componenti che il regista messicano ha palesato, fanno
di Gravity una poesia, dove Cuaròn sa dove e quando
scrivere le rime.
Alexander Payne per
Nebraska – Ciò che inevitabilmente balza subito
all’occhio nel film di Payne, è il bianco e nero della fotografia.
Una scelta che potrebbe etichettare il regista come alternativo a
tutti i costi. Ma non ci sembra questo il caso, perché in Nebraska
il bianco e nero è utilizzato per conferire maggior significato
all’immagine e per arrivare a quell’impatto visivo freddo e
distaccato che, probabilmente, era nella mente del regista sin dai
primi pensieri sul film. Un racconto che si svolge quasi sempre con
una visuale in terza persona, favorendo raramente una qualunque
identificazione coi personaggi e alimentando un senso di distacco
dall’azione principale. Il tutto porta ad una staticità di fondo,
ma si identifica anche con la caratterizzazione dei personaggi,
poveri di emozioni, o meglio poveri nel manifestarle. Dunque avremo
sempre dei campi medio-lunghi, rarissimi primi piani che entrano
nel cuore dei protagonisti, pochi movimenti di macchina. Per non
parlare poi dei dialoghi, ancora più freddi e scarni. I privilegi
sono donati alle inquadrature fisse, che riprendono anche lo snodo
di più azioni contemporanee, senza necessariamente seguirle tutte.
Un senso poi generale di lentezza, che qualcuno troverà noioso e
inconcludente, ma fortemente voluto. Siamo nel campo del non-utile,
del contrario di necessario, ma non del superficiale: qui c’è una
regia che non ha paura di mostrare soprattutto quello che non serve
e che non è utile alla narrazione del film, ma lo fa per una
precisa scelta, in linea con il sapore della pellicola stessa.
Steve McQueen per 12
Anni Schiavo – La pellicola che probabilmente strapperà la
statuetta nella categoria Miglior Film, potrebbe, almeno a livello
concettuale, dire la sua anche per ciò che riguarda la regia. Per
un certo verso, avviene quello che succedeva con il
Nebraska di Alexander
Payne: la regia non ha paura di dilungarsi o di mostrare
anche ciò che non serve o che comunque potrebbe essere gestito in
modo più avvincente, con stacchi o enfatizzazioni (pensiamo alla
lunga scena dell’impiccato). McQueen ha un tocco ed una finezza di
fondo, che anche senza far parlare i suoi personaggi, può
raccontare molto. Siamo lontani però da un’importanza dell’immagine
fine a se stessa, perché ogni scena, anche solo visiva, vuole
mirare ad un aspetto di più grande, in un certo senso, già
rappresenta qualcosa. Quindi primi piani o inquadrature più ampie
sono sempre al servizio di una condizione umana, atta a risaltare
nello specifico le differenze che passano tra la pelle bianca e
quella nera. Si parte dalla perdita d’identità anagrafica e,
passando per violenze fisiche e psicologiche, si arriva alla totale
riduzione dell’individuo a “cosa”. Certo, sono aspetti che vengono
messi in risalto con un profondo e toccante script, per altro
proveniente da una storia vera, ma i fili che muovono l’immagine
sono sempre al suo servizio.
Di 12 Anni
Schiavo va anche citato il montaggio, specialmente
quello sonoro, dove urla, pianti, battiti di mani e persino
canzoni, partono da una scena e finiscono in altre totalmente
sconnesse dalle precedenti, come a sottolineare una quotidianità
della vita in schiavitù che si ripete continuamente. Montaggio si,
ma che odora fortemente di scelte registiche.
David O. Russell per
American Hustle – American
Hustle privilegia un discorso di sceneggiatura (firmata
dallo stesso regista insieme a Eric Warren Singer)
e di prestazioni attoriali, rispetto ad un discorso registico. Il
plot generale si potrà trovare avvincente o noioso, sorprendente o
piatto, ben scritto o mancante, ma senz’altro è il piatto forte da
presentare agli Academy. Tuttavia, si lascia spazio per qualche
goliardica esibizione degna di una mano esperta, che oltre al
dialogo e alla storia fine a se stessa, punta anche a regalare
delle finezze per lo sguardo. La mano è quella di ‘O Russell,
quella vista anche in altre sue pellicole, la stessa del fortunato
Il Lato Positivo. Rispetto ad esempio ai
diretti concorrenti Gravity o
Nebraska, la camera qui è più mobile,
l’azione più avvolgente e il movimento generale lascia trasparire
un dinamismo molto più marcato.
Sottolineiamo poi il vizio del
regista (ma non in senso negativo, piuttosto come marchio di
fabbrica) di quei rapidi movimenti di macchina che vanno ad
incontrarsi con i volti delle figure umane, una sorta di zoom molto
veloci per entrare nel cuore dell’emotività del personaggio. Una
regia di questo tipo aderisce meglio anche agli standard di genere,
che deve privilegiare il suo essere rapido soprattutto nei
dialoghi, misterioso al punto giusto ed avere un ritmo sempre
sostenuto, per non cozzare contro punti morti. O.Russel sa gestire
con esperienza l’aspetto registico, ma crediamo che almeno agli
Academy di quest’anno, venga messo in secondo piano in favore di
altri aspetti.
Martin Scorsese per
The Wolf of Wall Street
– La parola chiave per Scorsese in questo film è “eccessivo”.
Eccessive sono le situazioni che vengono presentate nella
pellicola; eccessivo è il linguaggio utilizzato; eccessivo è
l’utilizzo rapido del montaggio; eccessivi ed estremizzati sono gli
usi di droga, alcohol, prostitute, soldi e quant’altro. Cosi,
doveva essere eccessiva anche l’immagine in sé, che non perde
occasione per abbracciarsi da tutti i punti di vista, alternando
sequenze molto lunghe, dominate da dialoghi irriverenti, a
spezzettature per rappresentare al meglio l’esagerato caos che
ruota intorno a Di Caprio e company.
Scorsese è troppo consapevole,
troppo esperto per non giocare le carte giuste nelle diverse
situazioni e sa che una scena può acquistare un maggiore valore
emotivo, se la si esalta con una sapiente regia. Discorsi di
qualità e quantità che vanno dosati a puntino per raggiungere un
apice visivo. Così una camera fissa può essere tavolta preferita a
continui stacchi sui volti dei personaggi, anche se si tratta di
una scena di sesso, magari per risaltarne la freddezza dei
protagonisti stessi.
Ma almeno in questa edizione degli
Academy, riteniamo che anche per Scorsese possa valere il discorso
fatto per O.Russell: l’impianto registico generale rischia di
scivolare al secondo piano, in favore del lavoro attoriale (Di
Caprio su sutti) o più in generale di una complessità della
sceneggiatura, rappresentata da un ampio arco narrattivo,
dall’ascesa alla caduta di un protagonista. O ancora, questa
eccessività ostentata in tutti i suoi aspetti, forse rischia di
penalizzarlo in toto ad Hollywood.
Per i bookmakers,
Gravity ha già la vittoria in tasca:
scommettendo 1 euro, ad esempio, si vincono 1,08 cent. (al netto 8
centesimi). Del resto un film che ripone le sue forze in modo così
determinato nell’immagine, non può passare inosservato dal punto di
vista registico, specie quando la mano che guida il tutto è così
attenta al dettaglio. Già staccato 12 anni
Schiavo, che vale circa 7 volte la puntata, ma lo
ripetiamo: è altamente probabile che il film di McQueen si porti a
casa il premio più ambito. American
Hustle vale circa 30 volte la puntata, mentre nelle
ultime posizioni troviamo a parimerito
Nebraska e The Wolf of Wal
Street che valgono 70 volte tanto. Sembra non esserci
partita. Prima di emettere verdetti, l’imperativo categorico è
aspettare la notte del 2 marzo.