Manca ancora molto alla messa in
onda dell’ottava e ultima stagione di Il trono di
Spade, che non apparirà sul piccolo schermo prima
della primavera 2019. Gli attori però hanno ultimato le riprese e
c’è chi parla già della serie in tono malinconico. Si tratta di
Nikolaj Coster-Waldau, interprete di Jaime
Lannister, che ancora non si riesce a capacitare come il suo
personaggio e quello della sorella Cersei (Lena
Headey) siano arrivati fino alla stagione conclusiva.
“È stata una sorpresa” ha
detto l’attore “Ogni volta che ricevevamo la sceneggiatura
pensava ‘Ok, probabilmente sarà questa l’ultima’. Ma no. I ragazzi
Lannister sono arrivati fino alla fine”. Sull’ultima stagione
ha poi dichiarato: “Ho scritto agli autori quando ho finito di
leggere la sceneggiatura e ho subito detto loro: ‘Non penso
che avreste potuto fare di meglio per porre fine a questa storia’.
Per me è stato molto soddisfacente e anche molto sorprendete, tutte
cose che speravo. Ha tutto molto senso, non è come in
quelle storie in cui l’assassino si rivela all’improvviso
all’ultimo atto e tu pensi ‘Oh, non l’ho visto arrivare’. Qui hanno
fatto davvero un ottimo lavoro!”.
Da queste parole si potrebbe forse
leggere tra le righe che i Lannister sopravvivranno fino alla fine,
arriveranno quindi all’episodio finale e magari fino alla
conclusione dell’intera serie. Quello che è certo al momento è che
l’attore è rimasto davvero soddisfatto del finale, speriamo che lo
possano essere anche gli spettatori.
Oggi sarà presentato in concorso a
Venezia 75 At eternity’s Gate, il film
diretto da Julian Schnabel con
protagonisti Willem Dafoe, Rupert Friend, Oscar Isaac,
Mads Mikkelsen, Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Niels
Arestrup.
Questo film è un insieme di scene
ispirate a dipinti di Vincent Van Gogh, eventi della sua vita
comunemente accettati come fatti realmente accaduti, dicerie e
scene completamente inventate. Il fare arte dà l’opportunità di
realizzare qualcosa di concreto, che esprime una ragione di vivere,
se esiste una cosa simile. Nonostante tutta la violenza e le
tragedie sofferte da Van Gogh nella sua esistenza, non c’è dubbio
che abbia vissuto una vita caratterizzata da una magica, profonda
comunicazione con la natura e la meraviglia dell’essere. L’opera di
Van Gogh è fondamentalmente ottimista. Le convinzioni e la visione
alla base del suo singolare punto di vista rendono visibile e
fisico ciò che è inesprimibile. Sembra essere andato oltre la
morte, incoraggiando gli altri a fare altrettanto.
Questa non è una biografia del
pittore realizzata con precisione scientifica. È un film sul
significato dell’essere artista. È finzione, e nell’atto di
perseguire il nostro obiettivo, se tendiamo verso la luce divina,
potremmo addirittura incappare nella verità. L’unico modo di
descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte. “Riuscire a
creare qualcosa di imperfetto, di anomalo, qualcosa che alteri e
ricrei la realtà in modo tale che ciò che ne risulta siano anche
delle bugie, se si vuole, ma delle bugie più vere della verità
letterale”.
(Vincent Van Gogh).
Il rilascio dell’ultimo poster di
Aquaman ha rivelato un dettaglio che
potrebbe essere molto gradito dai fans: Zack
Snyder compare tra i crediti del film. Il regista è stato
infatti inserito nella lista dei produttori esecutivi insieme alla
moglie Deborah Snyder. Questa presenza non
dovrebbe essere del tutto una sorpresa, in quanto gli Snyder in
questi ultimi anni sono stati fondamentali nella prosecuzione
dell’universo espanso DC. Solo come regista Snyder ha firmato per
la casa L’uomo di acciaio, Batman V Superman: Dawn of Justice e
Justice League, mentre come produttore
compare anche in Suicide Squad e Wonder Woman. Inoltre è stato proprio lui a
scegliere Jason Mamoa come protagonista del
film.
“Zack è qualcuno che veramente
mi ha salvato la vita. Questa opportunità è arrivata solo grazie a
lui. Quindi se ti piace Aquaman puoi tranquillamente
ringraziare Zack Snyder all’istante, perché niente sarebbe accaduto
se non fosse stato per lui.” ha detto l’attore.
Parole simili sono state pronunciate anche dalla controparte
femminile Amber Heard che all’inizio di quest’anno
diceva: “Zack mi ha portato ad essere una regina
guerriera.”.
Aquaman sarà
diretto da James Wan, al suo esordio nel mondo dei
cinecomic, ed oltre ai due attori sopracitati vedrà nel cast anche
Willem Dafoe, Yahya Abdul-Mateen
II, Tamuera Morrison, Nicole
Kidman e Patrick Wilson. Il film uscirà
nelle sale USA il prossimo 21 Dicembre mentre in Italia bisognerà
attendere il 1 Gennaio 2019.
Arriva in queste ore, grazie ad
un’intervista rilasciata alla stessa attrice a
Porter, una notizia davvero inaspettata per chi ha amato la
Wonder Woman di Patty
Jenkins. Nel prossimo capitolo, Wonder Woman 1984, ci sarà anche Robin
Wright nei panni di Antiope. Il primo episodio non si era
chiuso affatto bene per questo personaggio e la sua storyline
sembrava proprio destinata a chiudersi con un solo film della saga
all’attivo, ma la Wright non solo ci sarà, ma anche girato alcune
sequenze sul set insieme a Connie Nielsen che
interpreta Hippolyta. Questa informazione è già molto importante
per i fans, sarebbe stato forse chiedere troppo all’attrice
spiegare anche il come ed il perché di un suo ritorno. Forse sarà
protagonista di alcuni flashback?
Quel che è certo è che in questo
episodio la protagonista Gal Gadot si troverà
catapultata negli anni ’80, al centro della Guerra Fredda a
combattere Cheetah, una nuova avversaria a cui Kristen
Wiig ha prestato il volto. Insieme a lei le new entry del
cast sono Pedro Pascal, Natasha
Rottwell, Gabriella Wilde e Ravi
Patel. Ritornerà a vestire invece i panni di Steve Trevor
Chris Pine. Wonder Woman 1984 uscirà nelle sale a fine
2019, una data provvisoria potrebbe essere quella del 1
Novembre.
Altro giorno, altro
film. Dopo aver visto commedie brillanti, biopic ‘spaziali’, remake
horror e film western, la 75esima Mostra
d’Arte Cinematografica di Venezia ci propone un thriller,
portando sul grande schermo l’ultimo film di David
Oelhoffen, dal titolo Fratelli nemici – Close
Enemies, presentato in concorso.
In Fratelli
nemici – Close Enemies Nati e cresciuti nei sobborghi di
Parigi, Manuel (Matthias
Schoenaerts) e Driss (Reda Kateb), un tempo quasi
fratelli più che semplici amici, hanno poi preso strade diverse,
anzi, opposte. Mentre il primo per poter sopravvivere in quel
quartiere malfamato ha scelto la strada della criminalità
diventando un narcotrafficante, l’altro, al contrario, è diventato
un poliziotto. Ma qualcosa di terribile farà incrociare di nuovo le
loro vite. In attesa di un grande carico di droga proveniente dal
Portogallo da consegnare ad un certo Reyes, il SUV di Manuel viene
attaccato e la sua banda sterminata. Costretto a darsi alla macchia
per sopravvivere, si troverà a dover chiedere aiuto proprio al suo
peggior nemico.
C’è chi dice che
thriller e action movie siano appannaggio esclusivo degli
americani. Oelhoffen, invece, con il suo Fratelli nemici –
Close Enemies, si diverte a dare del filo da torcere ai
suoi colleghi a stelle e strisce. Utilizzando l’ormai collauda
struttura di genere, il regista imbastisce un film classico nel
senso più stretto del termine. Abbiamo infatti un cattivo ragazzo
dal cuore tenero che di giorno gioca a pallone con il figlio e di
notte spaccia e un cattivo ragazzo che invece ha cambiato vita; non
mancano inoltre droga, poliziotti, inseguimenti e tante
sparatorie.
Quella di David
Oelhoffen sembrerebbe la ricetta per il perfetto
thriller/action movie ma in realtà anche Freres Ennemis presenta
non pochi problemi. Nonostante il genere cinematografico di
appartenenza, il film in alcuni momenti sembra soffrire a causa del
suo ritmo altalenante; si alternando, infatti, momenti d’azione
davvero avvincenti che tengono lo spettatore incollato allo schermo
ad altri invece fin troppo lenti e quasi statici. Ma a risollevare
le sorti di un film tutto sommato abbastanza banale, ci pensano i
due meravigliosi protagonisti; Matthias Schoenaerts è
perfettamente a suo agio nel ruolo nel ruolo del cattivo in cerca
di vendetta laddove Reda Kateb invece è il suo perfetto
antagonista.
Fratelli
nemici – Close Enemies non brilla certo per
originalità sia nel contenuto che nella forma ma è un film godibile
proprio per la sua semplicità, pieno di interessanti spunti di
riflessione e che metterà d’accordo gran parte del pubblico in
sala.
Arriva in concorso a Venezia il
western poetico The Sisters Brothers del regista
francese Jacques Audiard. Una nuova incursione,
dopo The Ballad of Buster Scruggs dei
fratelli Coen, nel cuore selvaggio della frontiera
americana vista con uno sguardo inusuale, divertente e
commovente.
I due fratelli Charlie ed Eli
Sisters sono due killer al servizio di un potente chiamato Il
Commodoro. Sono molto legati tra loro, soprattutto dopo la morte
del padre violento e l’allontanamento da casa. Si proteggono l’uno
con l’altro, volendosi un gran bene, ma manifestandolo in modo
burbero, tra scherzi, litigi e zuffe. Il loro lavoro consiste nel
ritrovare persone scomode o banditi. Non esitano a uccidere, senza
porsi troppe domande. Charlie in particolare, il fratello più
giovane, ha una vera dote naturale per le carneficine. Eli, invece,
anche se altrettanto spietato ed esperto con le armi, ha un’indole
tranquilla, sentimentale e anela a una vita normale. La loro nuova
missione consiste nel rintracciare e riportare indietro un chimico,
detentore di una prodigiosa formula per rivelare la presenza
dell’oro nei fiumi. Comincia così una spietata e movimentata caccia
all’uomo, attraverso il cuore del selvaggio west, ma
soprattutto attraverso il profondo di se stessi.
The Sisters
Brothers è una fiaba tenerissima e struggente, che ruota
attorno al legame e ai sentimenti più intimi di due fratelli,
magnificamente interpretati da John C. Reilly e Joaquin Phoenix.
È un western, perché ambientato nel
selvaggio cuore dell’America dei coloni e popolato di pistoleri,
mandriani, cercatori d’oro e tutta la fauna tipica da saloon, ma
non è un western classico, perché rifugge tutti i canoni del
genere, evitando gli stereotipi e trasformando abilmente ogni
elemento di questa tipologia di racconto, per contribuire a
scandagliare l’emotività e il bisogno di amore che alberga sul
fondo dell’animo di ognuno, anche della canaglia più spietata.
A Reilly e
Phoenix si aggiungono anche gli ottimi Jake Gyllenhaal e Riz Ahmed,
rispettivamente un collega cacciatore di taglie dei due fratelli e
il povero indifeso chimico geniale. Anche loro due sono
perfettamente calati nel ruolo e riescono a regalare sfumature
indelebili, che rimangono scolpite nel cuore dello spettatore.
Il regista Jacques Audiard,
reinventa boschi, praterie, villaggi e città del selvaggio west,
nel bel mezzo dell’ Europa, lavorando sapientemente tra boschi e
praterie, con colori e luci, assecondando ogni mutamento di stato
d’animo dei personaggi e imbastendo un’irresistibile, sanguinaria
combriccola di forsennati, bisognosi solo di un briciolo di affetto
e tranquillità.
Il film è pieno di invenzioni e
situazioni, a volte divertenti, altre volte malinconiche, altre
ancora struggenti. Ma è imprevedibile, fuori da ogni schema, scorre
veloce di sorpresa in sorpresa, senza mai subire rallentamenti o
indurre intuizioni legate a dispositivi narrativi ormai consolidati
e stantii. Tutto questo grazie a una magnifica sceneggiatura
scritta dallo stesso Jacques Audiard insieme a
Thomas Bidegain. Ma il merito è dovuto anche al
romanzo omonimo di Patrick de Witt da cui è tratto
il film.
I meravigliosi costumi sono
dell’italiana Milena Canonero, le scenografie di
Michel Barthélémy, che ricostruisce sapientemente anche le strade
della vecchia San Francisco e un hotel di gran lusso, fornito dei
primi bagni con toilette e vasca privata. Le musiche sono
invece di Alexandre Desplat, che si allontana
dagli stereotipi, per regalare una partitura dal sapore fiabesco,
perfetta per sottolineare i turbamenti dei quattro protagonisti.
Questi sono solamente alcuni dei creatori di questa favola western,
frutto di una co-produzione di tanti paesi europei tra cui Francia,
Belgio, Romania e Spagna.
The Sisters
Brothers potrebbe definirsi un emo-western, che
conquisterà e commuoverà anche chi non è avvezzo a tale genere, ma
che certamente mostrerà il lato più tenero e nascosto del selvaggio
west, finora mai raccontato così delicatamente in un film. E per
gli amanti di sparatorie, bordelli e saloon… nulla da temere: tutti
accontentati!
Venezia 75: Jacques
Audiard presenta The Sisters
Brothers
Alla conferenza stampa di
The Sisters Brothers era presente il regista
Jacques Audiard, lo sceneggiatore Thomas
Bidegain, il compositore Alexandre
Desplat, e solamente uno degli attori, John C.
Reilly.
Il regista racconta che la genesi
dell’idea del film parte dal libro di Patrick
deWitt, da lui letto in precedenza, ma che mai avrebbe
pensato di portare sullo schermo, perché ambientato nel far west,
cosa della quale non è mai stato un grande appassionato. Ma quando
gli è stato proposto il progetto, ha accettato con entusiasmo, con
l’idea di uscire dagli schemi e di lavorare in maniera del tutto
personale.
È rimasto colpito soprattutto
dall’emotività dei personaggi descritti nel libro, intuendo di
poter costruire lo script dando risalto soprattutto a questo. Il
romanzo conteneva poi invenzioni ed elementi irresistibili, che ha
voluto tenere e portare nel film. Lo reputa un romanzo di
formazione, incentrato su due fratelli rimasti bloccati all’età di
dodici anni e di averlo voluto trasformare in un film basato sui
rapporti e sulla continua ricerca della felicità.
Audiard ha escluso nel modo più
categorico di non ispirarsi a Sergio Leone o altri maestri del
genere western, di non aver cercato riferimenti precisi. Non voleva
fare un film western, bensì una fiaba.
Forse l’unico lontano riferimento
può essere stato per lui La notte del cacciatore di Charles
Laughton, film del 1955 con Robert Mitchum.
Desplat racconta di come ha cercato
in tutti modi di comporre una musica da western che non fosse
troppo western, cercando una via di fuga senza rimanere in
trappola. Mentre Bidegain ha confermato l’impostazione e le idee di
Audriard, con il quale ha scritto il film.
John C. Reilly dice
di aver letto il manoscritto del libro prima della pubblicazione,
rimanendo entusiasta e sognando di portare sullo schermo quel
personaggio creato su misura per lui.
Ci si riconosce pienamente e trova
vincente la chiave inusuale su cui si costruisce tutta la storia.
Spende grandi complimenti per il suo collega Joaquin Phoenix,
reputandolo un grandissimo e scrupoloso attore, ossessionato dalla
verità.
Reilly ha poi scherzato sui suoi
rapporti con i vari animali sul set, lamentandosi del suo cavallo
che petava in continuazione e raccomandando che con i ragni bisogna
restare fermi e molto calmi, soprattutto quando ti camminano sulla
faccia e stanno per entrarti in bocca, come succede al suo
personaggio nel film.
First
Mannarra l’avvincente storia della missione
della NASA per portare un uomo sulla Luna. Il film si concentra
sulla figura di Neil Armstrong e gli anni tra il 1961 e il 1969.
Resoconto viscerale e in prima persona, basato sul libro di James
R. Hansen, il film esplora i sacrifici e il costo, per Armstrong e
per l’intera nazione, di una delle missioni più pericolose della
storia.
[brid video=”383701″ player=”15690″ title=”Jason Clarke
intervista all’ di Il Primo Uomo”]
Il regista ha così commentato il film First
Man
Prima di iniziare a lavorare
a First Man, conoscevo la storia della missione sulla
Luna, la storia di successo di una conquista leggendaria… ma nulla
di più. Dopo avere iniziato a esplorare il tema in profondità, sono
rimasto sbalordito di fronte alla follia e al pericolo
dell’impresa: il numero di volte in cui è stata sull’orlo del
fallimento così come il pesante tributo costato a tutte le persone
coinvolte. Volevo capire cosa potesse avere spinto quegli uomini a
intraprendere un viaggio nella vastità infinita dello spazio, e
quale sia stata l’esperienza vissuta, momento dopo momento, passo
dopo passo. E per poter capire dovevo necessariamente addentrarmi
nella vita privata di Neil. Questa è una storia che doveva essere
articolata tra la Luna e il lavello della cucina, tra l’immensità
dello spazio e il tessuto della vita quotidiana. Ho deciso di
girare il film come un reportage, e di catturare sia la missione
nello spazio che i momenti più intimi e privati della famiglia
Armstrong come un testimone invisibile. Speravo che questo
approccio potesse mettere in luce il tormento, la gioia, i momenti
di vita vissuta e perduta in nome di uno dei traguardi più celebri
della storia: lo sbarco sulla Luna.
Il ragazzo più felice del
mondo potrebbe essere Francesco, un ragazzo che a 14 anni
mandò una lettera a Gianni Pacinotti, in arte
Gipi, per esternargli la sua devozione di fan e
chiedergli un disegno. Se non fosse che Francesco, forse, non
esiste, è un’identità fittizia di un amante dei fumetti,
probabilmente con disturbi mentali, che per oltre 20 anni ha
mandato la stessa lettera da ammiratore a moltissimi fumettisti
italiani.
L’incredibile storia vera in cui si
è imbattuto l’autore de La mia vita disegnata male
è diventata così il pretesto per il film che Gipi
ha presentato alla Mostra diVenezia
75 nella sezione Sconfini. Il progetto
era quello di un documentario, in cui Pacinotti raccoglieva le
testimonianze dei suoi colleghi fumettisti, oltre 50, che avevano
ricevuto la stessa lettera nel corso degli anni e con tutti loro
andava da “Francesco” per renderlo, appunto, il ragazzo più felice
del mondo. Da una parte un’idea geniale, dall’altra il problema di
come raccontarla, senza ledere la privacy di questo misterioso fan,
e allo stesso tempo senza tradire la storia.
E così l’intuizione è stata quella
di trasformare il “problema di come raccontare” la vicenda
nel film stesso. Per farlo, Gipi ha chiesto ai suoi amici di
aiutarlo, letteralmente, sprofondando finalmente nel metacinema,
che tante volte ha accarezzato; il pisano si circonda di persone
che sono suoi amici nella vita vera, spingendoli davanti alla
macchina da presa, sullo schermo, per metterlo al centro
dell’attenzione e per demolire il suo narcisismo senza ferirlo
troppo in profondità (sono pur sempre suoi amici).
Con il solito acume auto-critico e
analitico, Gipi realizza questa stramba commedia che non manca di
diventare territorio di profonda riflessione su quello che è
davvero il mestiere del cantastorie, di chi vuole sottoporre il
proprio mondo interiore, le proprie fantasie, le proprie storie al
giudizio del pubblico e a cosa vuol dire esporre se stessi a questo
rischio. Riflessione particolarmente cara a lui che in tutto il suo
lavoro ha messo una parte di sé e della sua vita privata. Fama,
fan, disegno, storie: il film tocca tutte le sue ossessioni ma non
dimentica il gioco, la leggerezza e la risata forte e genuina che
esplode dal petto, per un’intuizione brillante, o una battuta
politicamente scorretta.
Davide Barbafiera, Gero
Arnone e Francesco Daniele sono i
coprotagonisti e gli incaricati a demolire l’ego e ad accompagnare
l’amico, in quello che, nel finale, diventa un road movie
anomalo, che si risolve in un lieto fine inaspettato. Con i tre
co-protagonisti, sullo schermo si avvicendano anche molti volti
noti del fumetto italiano, qualcuno chiamato a testimone nel ruolo
di se stesso, qualcun altro che ha accettato di trasformarsi in
attore per un giorno: tutti amici di Pacinotti nella vita vera. Una
scanzonata compagnia che mette in scena un film disordinato, che
prende tante direzioni, ne segue altre ancora, in nome
dell’intuizione, della storia da seguire, e nonostante questo
mantiene intatto lo spirito del suo autore, uno spirito da bambino
saggio che non ha mai smesso di disegnare.
Il ragazzo più felice del
mondo è Gianni stesso, perché nonostante il pericolo di
esporre il suo cuore e la sua vita al mondo intero, continua a
farlo per amore delle storie. E non c’è forma di devozione più
rischiosa e più grande.
Nell’epoca delle rivendicazioni
femminili arriva, in Concorso alle Giornate degli
Autori di
Venezia 75, una storia di una donna che attraverso il
suo corpo prova a rinnegare la sua natura di madre e abbraccia
completamente la sua volontà: Pearl. Opera prima
di Elsa Amiel, è la storia di Lea Pearl, una
bodybuilder che ha consacrato la sua vita a questo sport. Ma a che
prezzo? Lo scopriamo subito nella storia. Quando era ancora Julia,
la protagonista ebbe un bambino dal compagno, ma abbandonò entrambi
e adesso la sua vita e soprattutto il suo corpo sono totalmente
cambiati. Ma cosa le accadrà quando questo passato le viene
sbattuto in faccia inaspettatamente? Alla vigilia di una
importantissima competizione, Lea dovrà fare di nuovo i conti con
quella che è stata, e con un bambino di quattro anni.
Amiel gira il film in lingua
doppia, francese e inglese, dove la prima sembra essere riservata
alla componente emotiva, ai dialoghi con il bambino, con l’ex
marito, insomma allo scontro dei sentimenti. L’inglese è invece la
lingua pragmatica della bodybuilder e del suo allenatore, la lingua
delle dosi di ormoni, della dieta ferrea, del divieto di bere acqua
e della preparazione atletica.
Il cuore del film però è il corpo
di Julia/Lea e il contrasto che vive nel momento in cui ricorda il
passato di madre, o meglio di donna che ha dato alla luce un
bambino, visto che madre in senso proprio non lo è mai stata. E
appena il suo corpo rientra in contatto con il figlio, ricompare
del sangue mestruale, che da anni, a causa dei bombardamenti di
ormoni, non si manifestava più. Un risveglio del suo corpo
d’origine che lei per prima rifiuta ma che imparerà ad accettare
nel corso del film, con un esito inaspettato.
La Amiel sceglie una strada poco
battuta per raccontare la femminilità e la lotta della donna con e
dentro al suo corpo, per sempre prigioniera di un contenitore che
può essere plasmato o assecondato.
Torna in Concorso alla
Mostra di Venezia 75Mike Leigh, che
15 anni fa conquistò il Leone d’Oro con Il segreto di Vera
Drake. Questa volta il regista settantacinquenne sceglie
una sanguinosa pagina della storia inglese, il massacro di
Manchester, evento poco noto ma decisivo per il percorso della
democrazia del Regno Unito.
La trama di Peterloo
I fatti: il 16 agosto 1819 a
St. Peter’s Field si svolse un raduno pacifico, a
favore della democrazia, che promuoveva il suffragio universale e
la rappresentanza politica diretta. Questa pacifica assemblea si
tramutò in una strage con decine di morti e centinaia di feriti a
causa della decisione dei magistrati locali di far intervenire la
guardia nazionale a cavallo, a sciabole sguainate. La decisione
scellerata venne presa a seguito del clima di fermento e timore, da
parte dei nobili inglese, generato dalla recente Rivoluzione
Francese. L’esito fu un massacro, appunto, che generò un’ondata di
proteste in tutto il Paese.
Leigh si pone come obbiettivo
ambizioso quello di raccontare non solo la strage ma tutto ciò che
venne prima, descrivendo con minuzia la situazione sociale, quella
dei lavoratori nelle fabbriche, delle donne senza il diritto di
voto, dei giovani di ritorno dalle guerre napoleoniche. L’eco di
Waterloo non si era ancora spento, e la strage a St. Peter’s Field
divenne presto “il massacro di Peterloo” per i giornali dell’epoca.
Per costruire il suo affresco storico, il regista scende nei minimi
dettagli della ricostruzione storica, dando voce a tutti. Dalla
casalinga stanca, al bimbo cencioso, agli operai ridotti alla fame,
ai nobili, i magistrati, al re matto e persino alla sua cortigiana.
Tutti in Peterloo trovano spazio, parola, inserendosi in un disegno
dettagliatissimo.
Peterloo si fa
quindi costantemente dialogo tra opposti, tra gli illuminati eredi
della Francia rivoluzionaria, ai conservatori al potere, tra gli
oratori che infiammavano i cuori degli affamati senza armare le
loro mani, ai privilegiati che non esitavano a delegare la violenza
alle loro “braccia”.
A pagare le spese di questa
coralità così strutturata e dettagliata è il ritmo del film, che si
dilata e appesantisce l’affresco storico. Dopotutto non c’era altro
modo di raccontare la stessa vicenda, dal momento che l’azione del
film culmina negli ultimi 30 minuti, con un saggio di grande
perizia tecnica di Leigh, nella regia del caotico e impari
scontro.
Oggi sarà presentato in concorso a Venezia 75 The
Sisters Brothers, commedia wester con
protagonisti Joaquin Phoenix, John C. Reilly, Jake
Gyllenhaal, Riz Ahmed.
Diretto da Jacques
Audiard, The Sisters
Brothers racconta di Charlie ed Eli Sisters che
vivono in un mondo selvaggio e ostile. Hanno le mani sporche di
sangue: sangue di criminali, ma anche di innocenti. Non hanno
scrupoli a uccidere. È il loro lavoro. Charlie, il fratello più
giovane, è nato per uccidere. Eli, invece, sogna una vita normale.
Il Commodoro li ingaggia per scovare un uomo e ucciderlo. Comincia
così una spietata caccia dall’Oregon alla California: un viaggio
iniziatico che metterà alla prova l’insano legame tra i due
fratelli. Un sentiero che condurrà alla loro umanità?
Il terzo giorno di festival in laguna finalmente
si respira un’aria diversa. Mentre fuori la pioggia continua a
cadere, in sala, grazie a Olivier Assayas,
l’atmosfera si fa più leggera e frizzante. E’ stato presentato in
concorso a Venezia 75 l’ultimo film del regista
francese dal titolo Doubles Vies con l’eccezionale
coppia Guillaume Canet e Juliette
Binoche.
In Doubles Vies, Alain
(Guillaume
Canet) è un editore parigino di successo che fa fatica
ad adattarsi alla rivoluzione digitale che sta investendo il mondo
della comunicazione e dell’editoria. Mentre cerca di capire come
muoversi all’interno di questo territorio per lui ancora
inesplorato, continua il suo lavoro, leggendo e selezionando nuovi
manoscritti da pubblicare. Tra questi c’è il nuovo romanzo di
Leonard (Vincent Macaigne), suo autore e amico da
lungo tempo, libro che Alain non è però intenzionato a mandare in
stampa. Il lavoro di Leonard è vecchio e stantio eppure Selena
(Juliette Binoche), moglie di Alain e attrice di
successo, sembra aver preso molto a cuore il progetto…
Dopo ben otto anni di assenza dal suo ultimo
Apres Mai ( titolo italiano Qualcosa
Nell’Aria), il regista Olivier Assayas torna
al festival di Venezia presentando un film
dallo stile completamente diverso. Doubles Vies è
infatti una commedia brillante, genere quasi del tutto estraneo
alla cinematografia di Assayas. Partendo dal mondo dell’editoria,
il regista fa una riflessione assai arguta ma non priva di
humor e di una buona dose di sarcasmo, sulla tecnologia e
su come quest’ultima abbia contribuito negli ultimi anni a
trasformare i canali di comunicazione. Dai libri agli ebook, dalle
lettere a Whatsapp, ormai ognuno di noi sembra non poter
fare a meno di smartphone, computer e tablet per comunicare. Ma se
la tecnologia ha reso le interazioni più efficienti e veloci, come
mai i protagonisti di Double Vies sembrano fare così tanta fatica a
interagire tra loro?
Alle riflessioni di Assayas sulla cultura
contemporanea che cambia con l’evolversi della società, si
aggiungono anche i problemi di comunicazione delle coppie. Abbiamo
infatti un matrimonio in crisi – quello di Alain e Selena – e un
rapporto disfunzionale e assai bizzarro anche tra Leonard e la sua
compagna Valerie (Nora Hamzawi), molto più
preoccupata del suo lavoro che del suo rapporto di coppia. Ma se il
regista è molto abile nel costruire scene con i suoi protagonisti
che dialogano sul rapporto odierno tra forma e contenuto, risulta
meno convincente quando tratta l’argomento sentimentale.
Dopo un inizio un po’ lento Doubles
Vies – che in Italia uscirà in sala con il titolo di
Non-Fiction – prende pian piano il suo ritmo, mostrando
allo spettatore una struttura narrativa abbastanza schematica e
ripetitiva. Assayas ricicla quasi in maniera ossessiva sempre gli
stessi concetti rendendo il film divertente ma soprattutto
ridondante. Tutti i personaggi di Doubles Vies sono sempre pronti a
sciorinare pensieri più o meno acuti sui problemi comunicativi
della società contemporanea ma molto meno inclini ad affrontare i
loro di problemi. Non c’è alcun tipo di introspezione e il film,
pur riuscendo a strappare non poche risate allo spettatore, risulta
facilmente dimenticabile.
Arriva in concorso a
Venezia 75 uno dei film più attesi, che
certamente aprirà molte discussioni, ovvero
Suspiria di Luca Guadagnino,
remake del notissimo e omonimo capolavoro di Dario Argento.
La storia, anche se dalla Svizzera
si sposta in Germania, è quella che tutti conoscono, relativamente
fedele all’originale argentiano, ma con molte aggiunte,
arricchimenti e orpelli, soprattutto nella parte finale. Nella
Berlino degli anni settanta, prima della caduta del Muro, in una
prestigiosa compagnia di danza, che ha sede in un funereo palazzo
monumentale, si annida una setta di streghe sanguinarie. Una nuova
arrivata si trova a scoprire giorno dopo giorno gli orrori che si
nascondono nella scuola, ma la brama di entrare a far parte della
compagnia la spingerà a rimanere invischiata in un morboso e
crudele meccanismo.
È chiaro che non si
dovrebbe mai fare un paragone tra un film originale e un remake, ma
alcune volte, come in questo caso, il primo film è così entrato di
prepotenza nella memoria collettiva che risulta impossibile veder
scorrere le immagini senza far tornare la mente indietro. Quello
che immediatamente emerge dal paragone è un differente approccio
espressivo e sicuramente anche d’intenti. Oltretutto, quarant’anni
di distanza tra i due film hanno visto l’evoluzione di un radicale
cambiamento nelle modalità di produzione e realizzazione di un
opera cinematografica.
Suspiria di
Dario Argento è un film sentito, spontaneo,
istintivo, libero, con delle felici intuizioni che si sono aggiunte
agli stilemi creati con Profondo Rosso e altri titoli precedenti,
da quel momento presi a modello da miriadi di film-maker in ogni
parte del mondo; basta pensare ai colori sgargianti, alle luci
taglienti, alle geometrie ipnotizzanti, alla musica, alla
messinscena dei complicati omicidi. Suspiria di
Luca Guadagnino è una pellicola assai
ragionata, forse troppo, algida, trattenuta, patinata, che
purtroppo non crea coinvolgimento, né tensione. Dal punto di vista
visivo, nonostante una grande eleganza e accuratezza, poco o nulla
aggiunge al ricchissimo panorama del cinema horror contemporaneo,
alla continua ricerca di invenzioni e innovazioni.
La scelta di ambientare la storia a
Berlino durante il periodo della divisione delle due Germanie è
interessante, visivamente funzionale e molto intrigante. Le
ricostruzioni scenografiche sono puntuali e di grande effetto,
aiutate anche da una bellissima fotografia. Ma questo viene
subito soffocato da un continuo inserimento forzato di elementi
storici reali, come il dirottamento del volo Lufthansa, la Baader
Meinhof, tornando indietro nel passato fino all’olocausto.
L’inserimento storico, che avrebbe funzionato perfettamente senza
fatti storici eclatanti, allontana invece da quel necessario senso
di astrazione e di non-luogo che sembra affacciarsi in molti
momenti della storia. I continui inserimenti di telegiornali e
notizie spezzano una narrazione già intricata e dipanata su una
lunghezza eccessiva.
Anche l’uso di continue
citazioni visive, in momenti di sogno, allucinazione o visione,
aumenta ulteriormente la sensazione di distacco emotivo; per
coglierne alcuni si va dagli scatti Francesca
Woodman alle performance di Marina
Abramović, fino ad arrivare al Pasolini di Salò o
le centoventi giornate di Sodoma.
La recitazione appare forzata, a
volte eccessiva, anche se la bravura di un cast tutto femminile
prova a contenere per quanto possibile la mancanza di spontaneità.
In alcune scene particolarmente cruente affiora un velo ironico,
probabilmente del tutto involontario. Suspiria di
Luca Guadagnino è un film con buoni presupposti,
visivamente intrigante, ma che non coinvolge e soprattutto non crea
inquietudine o paura. Fa però venire una voglia incontenibile di
rivedere l’originale, lasciandosi stordire dai colori e dalle
sinistre musiche dei Goblin.
All’incontro con la stampa di
Suspiria,
presentato in Concorso a Venezia 75, erano presenti Luca
Guadagnino e le interpreti Tilda Swinton,
Dakota Johnson, Chloë Grace
Moretz, Mia Goth e Jessica
Harper, la protagonista di Suspiria di
Dario Argento, qui impegnata in un ruolo diverso,
a quaranta anni di distanza.
Il regista spiega che ha scelto di
ambientare il film a Berlino negli anni settanta per i colori che
rimandano all’Autunno Tedesco, il corrispettivo dei nostri Anni di
Piombo e anche perché tali cromatismi gli suggeriscono in senso
d’inconscio che trasmettono i dipinti di Balthus. Inoltre una città
divisa da un muro gli ha permesso di lavorare nel modo giusto sul
concetto di inclusione-esclusione.
Alla domanda immancabile del perché
cimentarsi in un remake, risponde che il suo film non è un
rifacimento, bensì una espansione del film di Dario Argento, con
una componente politica fortemente accentuata. Aggiunge che uno dei
suoi maggiori punti di riferimento è stato Rainer Werner
Fassbinder, i cui film hanno creato in lui un vero e
proprio shock emotivo. Li considera cibo che permette di avere le
intuizioni e adora il modo in cui riusciva a descrivere le donne,
rendendole tridimensionali.
Tilda Swinton elogia Guadagnino, dicendo che non era
affatto facile descrivere così bene dei personaggi femminili, da
parte di uno sguardo maschile, ma sente che il film è stato diretto
anche da lei e dalle altre interpreti. Il rischio era di
banalizzare e di cadere nei luoghi comuni. Sposta poi il discorso
sulle donne regista, ricordando Kira Muratova,
recentemente scomparsa e dimenticata. Dice che se fosse venuto a
mancare un regista uomo, si sarebbe dato molto più peso alla sua
scomparsa.
Afferma poi con orgoglio che il
cinema è uno stato libero senza connotazioni di genere.
Tutte le attrici hanno sottolineato
come sia stato intrigante e riuscito il lavoro con Guadagnino.
Hanno raccontato della difficoltà di recitare con una doppia
lingua, inglese e tedesco. Jessica Harper si è sentita
superfortunata per essere stata coinvolta in entrambi i film, a
quarant’anni di differenza. Ha potuto rivivere una sua ossessione
che durava da tanti anni, ha visto tecnologie diverse e ha compreso
che i due registi sono due grandi visionari.
Mia Goth ha
parlato del lavoro di gruppo, della convivenza del grande albergo
utilizzato come set, dello spirito di squadra e del comportarsi
come una vera compagnia di danza, con tanto di allenamenti
durissimi, riscaldamento e coinvolgimento fisico.
Chloë Grace Moretz dice che cercava da tempo insieme a
Guadagnino il progetto giusto sul quale poter collaborare e di
essere felice di averlo trovato in Suspiria. Ha potuto trasformarsi
come mai aveva fatto prima, di aver affrontato una vera e propria
sfida recitando in una lingua con un suono così diverso, lavorando
come in teatro, portando avanti 15 pagine di sceneggiatura nella
stessa ripresa.
Suspiria
ha un cast internazionale di grandissimo livello, tra cui
Dakota Johnson,
Tilda Swinton, Mia Goth, Lutz Ebersdorf, Jessica Harper,
Chloë Grace Moretz, Angela Winkler, Sylvie Testud, Renee’
Soutendijk, Ingrid Caven, Malgorzata Bela
Dopo il photocall ecco le foto del
red carpet di Suspiria, con Tilda Swinton, Dakota
Johnson, Luca Guadagnino, Thom Yorke, Jessica Harper, Chloe Grace
Moretz, Mia Goth, David Kajganich.
VIDEO CORRELATO _ LE INTERVISTE DA
VENEZIA 75
Il regista in merito al film ha
commentato “Ogni film che realizzo è come un esordio per me: un
nuovo inizio che parte dalle memorie che hanno costruito il mio
immaginario. A dieci anni, a Cesenatico, ebbi l’epifania
di Suspiria: un poster in un cinema chiuso.
Trentasette anni dopo debutto al cinema (dell’orrore) grazie al
potere evocativo di Dario Argento, capace di scatenare gli
immaginari. Suspiria nasce nel 1976 ed esce nel
1977. Il nostro Suspiria è ambientato nel 1977,
un anno fecondo per le rivoluzioni femminili-femministe.
In un’accademia di danza di fama
mondiale si muove una presenza oscura, che inghiottirà il
direttore artistico della troupe, una ballerina ambiziosa e uno
psicoterapeuta in lutto. Qualcuno soccomberà all’incubo. Altri,
alla fine, si sveglieranno.
Guarda la nostra intervista a
Gipi, fumettista pisano regista del
film Il ragazzo più felice del mondo,
presentato a Venezia 75, nella sezione
Sconfini.
[brid video=”383708″ player=”15690″ title=”Gipi intervista al
regista di Il ragazzo pi felice del mondo”]
È una storia vera. C’è una persona
che da più di vent’anni manda lettere a tutti gli autori di fumetti
italiani spacciandosi per un ragazzino di quindici anni. Nelle
lettere chiede sempre “uno schizzetto” in regalo. C’è un fumettista
italiano, Gipi, che inizia a indagare su questa persona. Vuole
girare un documentario, trovare questa persona, intervistare gli
altri autori che hanno ricevuto la lettera. Per realizzarlo,
recluta degli amici. Sono solo degli amici.
Venezia 75: Il ragazzo più felice del mondo, recensione del film di
Gipi
Completamente incompetenti. Ma c’è
una storia da raccontare e, per Gipi, raccontare storie è la cosa
più importante che c’è. Ma questa è anche una storia non scritta,
che si adatta alle scoperte del momento. Ma le cose non vanno mai
come vorremmo. E durante la lavorazione del documentario tutto si
trasforma, sfugge, scappa di mano. Ed è così che Gipi si troverà a
dover riflettere sul senso stesso del “raccontare storie” e sulle
scelte morali che stanno a monte di questo desiderio. Cercando “il
ragazzo più felice del mondo”, in una ricerca maldestra e dai
contorni comici e deliranti, Gipi troverà tutt’altro, e lo stesso
documentario, alla fine, si trasformerà in un film.
Il remake, specie di un grande
classico del cinema, è sempre una procedura rischiosa; bisogna
stare attenti a non commettere l’errore di violare la sacralità di
alcune pellicole cercando allo stesso tempo di produrre qualcosa di
originale e non troppo scontato. Citazione ma non imitazione,
originalità senza stravolgimento: un compito non facile per il
regista di turno. Eppure il coraggio e la dedizione di Bradley Cooper, per la prima volta dietro la
macchina da presa, sono stati premiati. Il neo regista ha
presentato, infatti, a Venezia 75 la sua prima
opera, un remake contemporaneo del classico A Star Is
Born con una protagonista d’eccellenza.
Il famoso musicista country rock
Jackson Maine (Bradley
Cooper) sta vivendo un momento di crisi artistica ed
esistenziale quando conosce la vulcanica Ally (Lady
Gaga). Lui è una star e lei una semplice cameriera che
sogna un giorno di sfondare nel mondo della musica. Il loro
incontro del tutto casuale segnerà l’inizio di una nuova e forse
migliore vita per entrambi, una vita fatta di opportunità, musica e
amore.
Dopo averlo visto ricoprire i ruoli
più svariati come quello del cecchino in American Sniper o
del festaiolo impazzito in Una Notte Da Leoni, finalmente Bradley Cooper si gode il suo vero momento di
gloria con A Star Is Born. Interprete,
co-sceneggiatore e regista, Cooper rende omaggio a uno dei classici
del cinema più amati di sempre, realizzando un film che non ha
nulla da invidiare alle sue tre versioni precedenti. Pur dovendo,
infatti, fare i conti con coppie di attori del calibro di
Janet Gaynor e Fredric March per
la versione originale del 1937, di
Judy Garland e James Mason per quella
del 1954 e di Barbra Streisand e Kris
Kristofferson per quella più amata del 1976, il duo
Cooper/Gaga funziona alla perfezione.
Con barba lunga e incolta, capelli
al vento, chitarra elettrica e voce graffiante, Bradley Cooper trasforma il suo Jack Maine in
una vera e propria star, un artista maledetto dal fascino
irresistibile che trova in Lady Gaga la sua
perfetta metà. Già conosciuta e amata dal grande pubblico, Gaga
stavolta dà il meglio di se stessa abbandonando la teatralità dei
suoi estrosi costumi di scena in favore di un look acqua e sapone,
rendendo la sua protagonista un mix quasi perfetto di talento
esplosivo e vulnerabilità. Le canzoni struggenti e prepotenti di
lui si fondono con la potenza vocale ed emotiva di lei dando vita a
performance da brividi.
In A Star Is Born
si parla indubbiamente di amore e musica e di come questi due
elementi siano l’uno il combustibile dell’altro ma il film di
Cooper si spinge molto più in là. Prendendo spunto
dalle travagliate vite dei protagonisti, il regista affronta lo
scottante ma sempre attuale tema della dipendenza da alcol e droghe
e della forza a volte distruttiva della popolarità. Grazie
all’incredibile alchimia tra
Bradley e Gaga lo spettatore si trova non solo quindi
ad assistere a questo melodramma musicale ma a esserne parte
integrante.
Tutti gli elementi di questa
incredibile opera prima sono in perfetto equilibrio, dalla
travolgente colonna sonora, alla sceneggiatura così onesta e
diretta, rafforzata dall’interpretazione emotivamente sfacciata dei
due protagonisti. Si tratta di un remake contemporaneo un po’ fuori
dalle righe, di un piccolo capolavoro di genere che, nella sua
forse scontata semplicità, riuscirà a commuovere ed emozionare
anche lo spettatore più scettico.
Oltre alla protagonista, abbiamo
avuto il piacere di intervistare anche il
regista Damien Chazelle, acclamato per il suo
La La Land e che torna a Venezia con Il
primo Uomo. Ecco cosa ci ha detto del suo ultimo film:
[brid video=”383712″ player=”15690″ title=”Damien Chazelle
intervista al regista de Il primo Uomo”]
First
Mannarra l’avvincente storia della missione
della NASA per portare un uomo sulla Luna. Il film si concentra
sulla figura di Neil Armstrong e gli anni tra il 1961 e il 1969.
Resoconto viscerale e in prima persona, basato sul libro di James
R. Hansen, il film esplora i sacrifici e il costo, per Armstrong e
per l’intera nazione, di una delle missioni più pericolose della
storia.
Il regista ha così commentato il film First
Man
Prima di iniziare a lavorare
a First Man, conoscevo la storia della missione sulla
Luna, la storia di successo di una conquista leggendaria… ma nulla
di più. Dopo avere iniziato a esplorare il tema in profondità, sono
rimasto sbalordito di fronte alla follia e al pericolo
dell’impresa: il numero di volte in cui è stata sull’orlo del
fallimento così come il pesante tributo costato a tutte le persone
coinvolte. Volevo capire cosa potesse avere spinto quegli uomini a
intraprendere un viaggio nella vastità infinita dello spazio, e
quale sia stata l’esperienza vissuta, momento dopo momento, passo
dopo passo. E per poter capire dovevo necessariamente addentrarmi
nella vita privata di Neil. Questa è una storia che doveva essere
articolata tra la Luna e il lavello della cucina, tra l’immensità
dello spazio e il tessuto della vita quotidiana. Ho deciso di
girare il film come un reportage, e di catturare sia la missione
nello spazio che i momenti più intimi e privati della famiglia
Armstrong come un testimone invisibile. Speravo che questo
approccio potesse mettere in luce il tormento, la gioia, i momenti
di vita vissuta e perduta in nome di uno dei traguardi più celebri
della storia: lo sbarco sulla Luna.
Ecco le foto del cast di
Suspiria a Venezia 75, in attesa di vederle
sfilare questa sera sul red carpet. Presenti Tilda
Swinton, Dakota Johnson, Luca Guadagnino, Thom Yorke, Jessica
Harper, Chloe Grace Moretz, Mia Goth, David Kajganich.
VIDEO CORRELATO _ LE INTERVISTE DA
VENEZIA 75
Il regista in merito al film ha
commentato “Ogni film che realizzo è come un esordio per me: un
nuovo inizio che parte dalle memorie che hanno costruito il mio
immaginario. A dieci anni, a Cesenatico, ebbi l’epifania
di Suspiria: un poster in un cinema chiuso.
Trentasette anni dopo debutto al cinema (dell’orrore) grazie al
potere evocativo di Dario Argento, capace di scatenare gli
immaginari. Suspiria nasce nel 1976 ed esce nel
1977. Il nostro Suspiria è ambientato nel 1977,
un anno fecondo per le rivoluzioni femminili-femministe.
In un’accademia di danza di fama
mondiale si muove una presenza oscura, che inghiottirà il
direttore artistico della troupe, una ballerina ambiziosa e uno
psicoterapeuta in lutto. Qualcuno soccomberà all’incubo. Altri,
alla fine, si sveglieranno.
Incompiuto per oltre 50 anni, trova
la sua strada verso la sala cinematografica grazie ad un’operazione
certosina, che sintetizza 96 ore di girato in due ore film film,
presentato a Venezia 75, come evento speciale: The Other
Side of the Wind, di Orson Welles è stato
completato.
Per lungo tempo il film è rimasto
“nel cassetto” salvo poi essere preso e portato a compimento per
volontà di Peter Bogdanovich, con l’aiuto del
montatore Bob Murawski e scelto da Barbera come
gioiello all’interno del programma della Mostra del 2018. Il film è
dunque prima di tutto un omaggio di un allievo al maestro, che
porge omaggio e si presta al gioco di specchi e rimandi che mescola
la vita del protagonista del film, Jake Hannaford (John
Huston), con quella di Welles stesso.
The Other Side of The
Wind può essere letto come una riflessione sul doppio,
sulla presenza di vecchio e nuovo che si fronteggiano, nell’arte e
nella vita. Le due parti prendono le sembianze di Hannaford /
Huston da una parte, e di Otterlake / Bogdanovich, dall’altra, il
giovane. La stratificazione dell’opera si arricchisce, oltre alla
riflessione sugli opposti, anche del tema del doppio, di echi
shakespeariani, di riflessioni derivanti anche dal periodo storico
in cui Welles girò. Un miscuglio anarchico che trova la sua forma
grazie a un’opera di riorganizzazione monumentale.
Nonostante l’egregio lavoro svolto
da Bogdanovich e la compiutezza dell’arco narrativo, il film
denuncia la sua produzione travagliata, che ne rende difficile la
visione e che gli conferisce prevalentemente un valore simbolico,
in quanto riporta al cinema il nome di un dei più grandi della
storia della settima arte.
Si sa ancora poco su
Avengers 4, quarto capitolo del
franchise attualmente ancora senza titolo. Il film in questo
momento si dovrebbe trovare in post-produzione ma, come spesso
succede nelle grandi produzione hollywoodiane, c’è stato il bisogno
di tornare sul set e girare alcune scene aggiuntive. Proprio dalle
location e dagli attori richiesti dal casting, Atlanta Filming
tramite Twitter ha dedotto che in questo nuovo episodio ci sarà più
spazio per Wakanda, il regno di Pantera Nera.
Molto probabilmente il voler mettere in primo piano questa location
vorrà dire dare maggiore spazio ad alcuni personaggi, come quello
di Shuri, la sorella minore di T’Challa in Wakanda, considerata
l’essere più intelligente dell’intero universo Marvel.
Proprio qualche giorno fa i fratelli
Russo avevano annunciato che il loro lavoro sul montaggio era
partito già nei mesi estivi e speravano di poter completare la
post-produzione già a Marzo, potendo quindi rispettare l’uscita
fissata per il 3 Maggio 2019. “È stato davvero gratificante
vedere che un film di questa portata e dimensioni e con un pubblico
così vasto sia riuscito a chiudere la storia con un pugno allo
stomaco. Nonostante questo abbiamo constatato come l’audience sia
rimasta con noi, dando valore a quello che abbiamo fatto e
continuando a tornare in sala.” hanno poi dichiarato.
C’è una grande attesa per la nuova
serie TV originale NetflixLe terrificanti avventure di
Sabrina che ripercorrerà le vicende della celebre strega
adolescente resa famosa dall’omonima serie televisiva. In
un’intervista l’ideatore Aguirre-Sacasa si è
sbilanciato su cosa gli spettatori si dovranno aspettare da questo
revival e rivela anche un esplicito omaggio: “Amo
L’Esorcista di William Friedkin. Stiamo scrivendo un intero
episodio omaggio al film in questo momento!”. I fan
del classico horror del 1973 potranno dunque finalmente gioire dopo
che, solo qualche mese fa, il film TV ispirato al cult è stato
cancellato.
Le terrificanti avventure di
Sabrina prenderà ispirazione dalla serie di fumetti
firmata dallo stesso Aguirre-Sacasa ed illustrata
da Robert Hack. Verrà prodotta da Warner Bros.
Television in accordo con Archie Comics e Netflix che la
distribuirà. Inizialmente sarebbe dovuto essere uno spin-off della
serie Riverdale, grande successo di quest’anno,
ma attualmente non si hanno avuto conferme di un’eventuale
collegamento tra le due. Ad interpretare la giovane strega sarà
Kiernan Shipka, che gli appassionati del piccolo
schermo hanno imparato a conoscere per il suo ruolo in Mad Man, che
sarà affiancata da Ross Lynch, Lucy
Davis, Miranda Otto, Jaz
Sinclair, Tati Gabrielle, Sorte
Perdomo, Michelle Gomez, Ricard
Coyle e Bronson Pinchot. La serie
esordirà sulla piattaforma il prossimo 26 Ottobre.
Mentre l’attrice e cantante
Lady Gaga si gode in questi giorni il successo
ottenuto alla Mostra di Venezia per il suo ruolo in
A Star is Born, c’è chi non si arrende ad un suo rifiuto. La
Warner, infatti, continua a farle pressioni per una sua
partecipazione a Birds of Prey, il cinecomic tutto
al femminile di prossima lavorazione. A lei sarebbero stati
riservati i ruoli o della Cacciatrice o di Black Canary, sebbene
qualche mese fa l’attrice si era dichiarata estranea al progetto.
Secondo il sito
Superbromovies, sempre attento ai rumors del settore, la posta
in gioca si sarebbe alzata e la Warner avrebbe messo sul piatto
molti più soldi rispetto a quelli proposti solo tre mesi fa.
Birds of
Prey è un progetto DC ancora in lavorazione e
fortemente voluto da Margot Robbie che ha già
interpretato Harley Quinn in
Suicide Squad e che in questo film apparirebbe nel doppio ruolo
di interprete e produttrice. Tutte le eroine al femminile
dell’universo DC verranno coinvolte per combattere una minaccia
comune che dovrebbe essere quella di Maschera Nera, un personaggio
nato come villani di Batman e che ancora deve fare il suo debutto
cinematografico. La Warner avrebbe già stilato una lista delle
attrice da coinvolgere che, oltre a quello di Lady Gaga, vede i
nomi di Vanessa Kirby, Alexandra
Daddario e Blake Lively. Vedremo come le
trattative si svolgeranno nei prossimi mesi.
Black
Panther è stata la sorpresa al botteghino USA della
scorsa stagione cinematografica. In poche settimane si è guadagnato
un posto di rilievo tra film del 2018 ed è diventato uno dei
maggiori successi di pubblico e di critica nella storia dei
cinecomic. Questo ha portato il protagonista Chadwick
Boseman a pensare in grande e puntare dritto ai più grandi
premi di Hollywood: gli Oscar. E non si sta parlando della
statuetta riservata al Miglior Film Popolare, assoluta novità
introdotta da quest’anno, ma proprio delle nomination tecniche che
l’attore pensa che il film dovrebbe guadagnare.
“Un buon film è un buon
film e chiaramente non importa quanti soldi ci siano voluti per
realizzarlo. I film che vengono nominati e vincono di
solito non sono blockbuster, ma quello che conta dovrebbe essere
solo il livello di difficoltà” ha dichiarato Boseman che ha
poi aggiunto: “Quello che abbiamo fatto è stato molto
difficile, abbiamo creato un mondo, abbiamo creato una cultura, una
religione, una spiritualità, una politica, abbiamo dovuto creare un
accento, abbiamo dovuto prendere da diverse etnie diverse per
creare stili di abbigliamento e acconciature. Quindi per quanto mi
riguarda sfido qualsiasi film a confrontarsi con il livello di
difficoltà di questo film che è piaciuto al pubblico e che non è
popolare, è elitario.”.
Per quanto riguarda il premio come
Miglior Film Popolare al momento non si conoscono ancora le regole
con cui verrà assegnato, ma se contasse il gradimento del pubblico
espresso al box office Black Panther dovrebbe essere sicuramente
uno dei candidati. Per le speranze di Boseman, invece, forse è
troppo presto per Hollywood per accettare un blockbuster nelle
maggiori categorie dei premi.
In queste ore si stanno facendo
sempre più insistenti i rumors che vorrebbero più di un antagonista
nel prossimo capitolo dedicato all’uomo ragno, Spider-Man: Far From Home.
Quello che si sa sulla trama al momento è che il giovane eroe
interpretato da Tom Holland se la dovrà vedere con
il Mysterio di Jake Gyllenhaal, ma potrebbe non
finire qui. Si ipotizza, infatti, la presenza anche di Mark Raxton,
chiamato poi Molten, che nei fumetti è il
fratellastro di Liz Allen, un personaggio visto già alla fine di
Homecoming. I suoi poteri sono quelli di emettere radiazioni e
scoppi di calore, mostrando una forza ed una resistenza fuori dal
normale. Questa identità è però nascosta da un quotidiano lavoro
come importante uomo d’affari.
Al momento non si ha nessuna
conferma tranne l’avvistamento di un giocattolo di prossima
distribuzione proprio dedicato a Molten. Questo è l’ennesimo
mistero che si lega al film in quanto, al contrario di quanto
accaduto per altri prodotti Marvel, si sta adoperando molta
riservatezza attorno alla sua lavorazione. La storia al momento
nota di Spider-Man: Far From Home ruota attorno ad un viaggio in
Europa che il giovane Peter Parker conduce insieme a Nick Fury e
Maria Hill durante il quale incontrerà Mysterio e Hydro-Man.
La lavorazione di Guardiani della Galassia
3 sta diventando sempre più dura. Dopo il noto
licenziamento di James
Gunn da parte della Disney, il film era stato dapprima
confermato, poi successivamente messo in pausa. A dare questa
notizia sullo stop delle riprese fu proprio Dave
Bautista qualche mese fa, aggiungendo il suo sdegno per
quanto successo al regista. Ora l’attore torna a parlare del film,
confermando le voci sulla sospensione del progetto. Durante
un’apparizione a The Jonathan Ross Show ha inoltre ribadito la sua
solidarietà a James Gunn: “Non sono per niente contento per
quello che hanno fatto a Gunn. Non voglio entrare troppo nel merito
e non voglio iniziare una conversazione politica, ma posso dire che
in questo modo stanno spegnendo il film. Ho un problema, ho
un problema morale e politico per quello che hanno
fatto”.
L’attore ha poi continuato: “Io
voglio bene a James. Mi ha cambiato davvero la vita, quindi ammetto
che sia anche una cosa personale. Ho faticato, ho sofferto la fame
per tre anni, riuscivo a malapena a trovare un lavoro. Ho
incontrato poche persone che mi hanno sostenuto lungo la strada e
James è riuscito veramente a cambiare il corso delle
cose.”.
Dave Bautista non è
stato il solo a sostenere Gunn nel momento del licenziamento:
l’intero cast di Guardiani della Galassia ha espresso apertamente
la propria solidarietà tramite una lettera congiunta online che
però non è riuscita a smuovere la Disney che ora si trova in grave
difficoltà con l’intero progetto. Difficilmente il film potrà
uscire nel 2020, come inizialmente previsto.
In concorso oggi a Venezia
75 sarà presentato anche Frères Ennemis
di David Oelhoffen con protagonista l’attore Matthias
Schoenaerts. Al suo fianco Reda Kateb, Adel
Bencherif, Sofiane Zermani, Nicolas Giraud, Marc Barbe, Sabrina
Ouazani, Gwendolyn Gourvenec e Astrid Whettnall.
Nel film, nati e cresciuti in una
periferia in cui domina la legge del narcotraffico, Manuel e Driss
erano come fratelli. Da adulti però finiscono per prendere strade
opposte: Manuel ha scelto di abbracciare la vita del criminale,
Driss l’ha rinnegata ed è diventato un poliziotto.
Quando il più grande affare di Manuel va storto, i due uomini si
incontrano di nuovo e si rendono conto che entrambi hanno bisogno
l’uno dell’altro per sopravvivere nei loro mondi. Nonostante
l’odio, fra tradimenti e rancori, riscoprono l’unica cosa rimasta a
unirli nel profondo: l’attaccamento viscerale al luogo della loro
infanzia.
COMMENTO DEL REGISTA
Thriller
mozzafiato in cui tradimento, vendetta e sopravvivenza spingeranno
i due travolgenti protagonisti a mettere in dubbio la lealtà e la
fiducia verso i loro due mondi. Il film è interpretato da due tra i
più iconici e brillanti attori della loro generazione, Matthias
Schoenaerts e Reda Kateb, per la prima volta insieme sullo schermo.
Dopo l’acclamato successo di Loin des hommes,
Oelhoffen va alla ricerca di una fratellanza che superi i legami di
sangue.
Presentato nella sezione
Fuori Concorso di
Venezia 75, Aquarela è il nuovo film
del regista russo Victor Kossakovsky, che porta
stavolta sul grande schermo un viaggio cinematografico sulla
bellezza e brutalità dell’acqua. Una vera e propria ode, a tutte le
forme da essa assumibili, specialmente quella più selvaggia che sin
da subito nel film pone a contrasto l’elemento con l’essere
umano.
Essere umano che è destinato ben
presto a svanire dalla pellicola, significativamente costretto a
soccombere data la disparità dello scontro. L’acqua diventa così
prima e unica protagonista del film, invadendo ogni inquadratura
della sua mutevolezza. Differenti colori, movimenti, energie si
susseguono sullo schermo, e il connubio tra musica heavy metal e le
ricche immagini non fa che esaltare il senso di minaccia di cui si
vuole investire l’elemento. Grossi blocchi di ghiaccio sembrano
muoversi nell’acqua come immensi mostri marini a ritmo di
musica.
Girato a 96 fotogrammi al
secondo, il film acquista così una fluidità che appunto ricorda
quella sinuosa dell’acqua, del suo ondeggiare, e questa scelta di
ripresa si sposa perfettamente con ciò che il regista vuole
trattare ed esaltare. Il risultato sono delle immagini e sequenze
di estrema bellezza, che ritraggono paesaggi ora pacifici ora
violenti.
A metà tra il documentario e il
film anti narrativo, Aquarela fonda la propria
forza sulla messa in scena, su ciò che lo spettatore è chiamato ad
ammirare. Dinanzi al film quest’ultimo dovrebbe infatti lasciarsi
pervadere dalle sensazioni che esso comunica senza ricercare un
filo narrativo, elemento presente anche se in maniera allusiva, ma
certamente distraente dall’intenzione del regista di scorrere su
chi guarda come, appunto, acqua, in grado di lasciare tuttavia
traccia del proprio passaggio.
Nonostante la bellezza di quanto è
possibile osservare però, troppo spesso il film si abbandona a
digressioni di eccessiva durata, che rallentano il ritmo e la
visione, già non favoriti dalla natura del film. Risulta difficile
infatti riuscire a non stancarsi presto della pellicola, facendo
così arrendere, in più di qualche momento, lo spettatore alla noia
piuttosto che al sublime delle immagini. Il limite del film risulta
così essere insito nella sua stessa natura, perdendo alla lunga
l’attrattiva che aveva inizialmente generato.
I due instancabili Ethan e
Joel Coen sbarcano al lido con The Ballad of
Buster Scruggs, un western atipico e sorprendente,
avvincente, canterino, colorato, divertente e schietto. È come un
libro per ragazzi, colmo di vivaci illustrazioni, da sfogliare
avidamente, pagina dopo pagina.
The Ballad of Buster
Scruggs è la raccolta di sei storie di frontiera del
vecchio west, apparentemente slegate una dall’altra, ma che tutte
insieme contribuiscono a raccontare un mondo selvaggio e ostile,
popolato di personaggi bislacchi. Un universo fiabesco, che se non
fosse storicamente conosciuto, potrebbe certamente sembrare il
frutto della fantasia di una mente alterata. Certo, di loro, i
Coen, aggiungono invenzioni e felici tocchi espressivi, che
conferiscono alla storia una riconoscibilità inconfutabile, ma in
fondo raccontano qualcosa che parte dalla vita reale dei loro
antenati e che conoscono molto bene.
Si inizia con le prodezze di un
istrionico pistolero canterino, incallito giocatore di poker e
assassino per vocazione, passando alla disastrosa rapina di un
povero ladro sprovveduto, che si trova a fronteggiare un banchiere
bellicoso con un’armatura fatta di pentole. È poi la volta di
un povero torso umano, esibito di villaggio in villaggio, in un
piccolo freak-show itinerante, accudito in tutto dal suo
impresario, un uomo triste e rassegnato, per approdare alla vicenda
di un codardo e instancabile cercatore d’oro, che non si arrende di
fronte a nulla, pur di difendere il suo filone. Ci si sposta nelle
sconfinate praterie per seguire la movimentata storia di una
ragazza rimasta sola, per l’improvvisa morte del fratello, durante
un lungo viaggio in carovana. E infine, si assiste ad una
paradossale e surreale conversazione di un gruppo di passeggeri a
bordo di una diligenza, diretta verso una meta oscura e
misteriosa.
Venezia 75: Joel e Ethan Coen
raccontano The Ballad of Buster Scruggs
The Ballad of Buster
Scruggs è un film antologico, simile a una miniserie per
la televisione, ma strutturato in forma cinematografica per uscire
completamente dagli schemi della serialità, senza rimanere
ingabbiato, andando oltre e cavalcando libero nelle praterie
sconfinate del vecchio west, seguendo le divertite pulsioni
espressive di Joel ed Ethan Coen. Sapere che si
tratta di una produzione Netflix conferma la validità delle nuove forme di
diffusione e finanziamento digitali, lasciando sperare tanta nuova
libertà per gli autori. Anche Roma di Alfonso Cuaròn è una
produzione Netflix, e anche in quel film si avverte enorme positiva
libertà di raccontare e sperimentare.
The Ballad of Buster
Scruggs è scritto magnificamente, è una vera gioia seguire
i dialoghi astrusi e assistere alle divertenti gag, alternate a
scene di pura azione e improvvise esplosioni di violenza. Il cast è
perfetto in ogni ruolo, dai protagonisti alle figure più piccole e
tra questi spiccano Tom Waits, James Franco, Brendan
Gleeson e Liam Neeson.
The Ballad of Buster
Scruggs è un’incantevole libro illustrato d’altri tempi,
che si anima davanti agli occhi dello spettatore, facendolo tornare
improvvisamente ragazzo e scaraventandolo a capofitto tra la
polvere e le frecce dei pellirossa, tra le pallottole e i capestri,
tra cavalli, vacche, galline e altri animali. Come per magia le
pagine scritte e le illustrazioni prendono vita, presentando una ad
una le nuove creature del mirabolante bestiario dei fratelli
Coen.