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Michael Mann racconta il suo film a cine-filos

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Si presenta nella piccola sala del Palazzo delle Esposizioni avvolto in una giacca scura e una sgargiante camicia verde che spunta dal colletto: è Michael Mann, noto e molto apprezzato regista di molti capolavori del cinema contemporaneo, da Heath – La Sfida, a Collateral. In occasione dell’attesissimo Nemico Pubblico, in Italia il 6 novembre, Mann ha incontrato la stampa e ha spiegato le ragioni del suo eroe: “Abbiamo considerato in primo luogo la leggenda di Dillinger, il suo mito. Poi ho scelto di metterne a fuoco la vita reale, le passioni che muovevano l’uomo, al di là dei generi cinematografici e degli stereotipi del personaggio. Si è tentato di mostrare un uomo che aveva raggiunto l’eccellenza in un arte particolare: quella delle rapine alle banche. Ho provato a mostrare la sua rinascita dopo un lungo periodo di reclusione. Che decide di fare? Che strada intende seguire? Vuole recuperare il tempo perso.” Mann ha esposto l’hic et nunc della vita del gangster, la sua mancanza di prospettiva futura, ma allo stesso tempo il profondo carisma del personaggio, e al suo fianco “una gang nichilista, feroce che corre senza la voglia di raggiungere un traguardo.”

Kenneth Branagh parla del suo Thor

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Kenneth Branagh parla del suo Thor

Le domande sono state incentrate soprattutto sul suo annunciato Thor, trasposizione al cinema del fumetto che vede protagonista l’eroe delle mitologia nordica, ma anche il suo lavoro d’attore tra cinema e teatro. Per quanto riguardo il suo prossimo cine-fumetto Kenneth Branagh è stato molto chiaro: Scelgo la storia perché la ritengo interessante e non faccio caso alla fonte, poco importa se si tratti di Shakespeare o di un fumetto. Thor mi piace perché parla di una divinità del Tuono, il che è affascinante.

Rispondendo alla nostra domande su come riesce a parlare al cinema con le parole del teatro in maniera efficace Branagh ha parlato della complessità di alcune scelte che si trova a fare: “in Molto Rumore per Nulla, la figura dell’uomo vigoroso e macho non può essere descritta a voce dalle donne come avviene a teatro, così ho pensato che la cosa migliore fosse inquadrare direttamente Denzel Washington su un cavallo bianco. Chi meglio di lui rappresenta il fascino mascolino nella sua totalità(ride)“.

Concedendosi a molte foto e a pochi autografi Kenneth Branagh ha lasciato la sala sorridente e ha affidato il pubblico alla proiezione della serie Wallander, tratta da una serie di racconti svedesi, nella quale interpreta il tormentato protagonista.

Nine: recensione del film di Rob Marshall

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Nine: recensione del film di Rob Marshall

Dopo i fasti di Broadway arriva sugli schermi italiani Nine, il musical diretto dal candidato al premio Oscar per Chicago (miglior film), Rob Marshall. Dopo Cathrine Zeta-Jones e Renee Zelwegger, Bob si trova a dirigere un cast di stelle ad impersonare tutte le donne della vita del protagonista, il regista Guido Contini, bene interpretato da Daniel Day Lewis. Le sue donne, la madre Sofia Loren, la moglie Marion Cotillard, la musa Nicole Kidman, l’amante Penelope Cruz, la costumista e amica Judy Dench, la prostituta Fergie e la giornalista di moda Kate Hudson, incorniciano i suoi pensieri, le sue angosce, la sua crisi artistica, con numeri davvero eccezionali diretti con grande senso del gusto e del ritmo.

A chi non può fare a me no di pensare a di Fellini, film d’ispirazione del musical americano, è lo stesso Marshall a rispondere all’inizio della conferenza stampa romana: “Non è un remake del film di Fellini, ma una trasposizione cinematografica del musical”. E con questa dichiarazione si chiude il confronto artistico tra le due pellicole. Anche se c’è da dire che lo stile onirico della narrazione ricorda e ricalca non solo lo stile di Fellini in generale, e non solo , ma proprio la sua impostazione mentale di cosa erano per lui la vita i sogni e il cinema. Come già detto un cast d’eccezione a ricostruire questa vicenda, e tra tutte le magnifiche attrici due menzioni speciali: a Marion Cotillard che interpreta la moglie, Luisa, di una delicatezza e di una decisione insieme davvero impressionanti, una giovane attrice che si affaccia ad una carriere che ci auguriamo sia lunga e solida, ma già decorata di un Oscar e di molti titoli e collaboratori di tutto rispetto. Altra protagonista da segnalare è senza dubbio Kate Hudson, forse la ‘sorella minore’ in un cast così altisonante, ma davvero una sorpresa per energia, vocalità e senso della scena.

Nine, non è un remake del film di 8 ½ di Fellini

Ma da meno non sono le altre splendide donne: l’amante Penelope Cruz (alias Carla) che mette al servizio di Marshall il suo talento ma anche la sua prorompente bellezza latina e la sua sensualità, inedita la Dench con caschetto, convince e diverte; e ancora la Loren, in un piccolo cameo, sicuramente provata dagli anni, ma con una presenza scenica immutata, aggiunge fascino ad una pellicola ispirata a Fellini e che a suo tempo fu interpretata dal suo amico Marcello. E quando si parla di musical e c’è lei, l’algida Nicole, non si può non dire che come canta lei nessuna, anche se il personaggio è appannato dagli altri, e pur risultando importante per Guido/Daniel, resta un po’ meno impresso delle altre.

Ma il ritmo, la sensualità più diretta viene affidata, ancor prima che al corpo, alla voce e alle movenze di Fergie: un po’ ingrassata, la cantante interpreta Saraghina, la prostituta che ‘insegna’ l’amore ai giovanissimi curiosi, trai quali anche Guido. Be italian, da lei interpretato è senza dubbio la sequenza più coinvolgente dell’intero film, rivista e reinterpretata in maniera magnifica.

E fondamentalmente è questo il Nine di Marshall, un film estetico, che pur presentando tematiche e relazioni complesse, si ferma alla superficie, alla bellezza dei costumi, delle inquadrature, ad una struttura narrativa semplice ma che non chiede nient’altro che di essere guardata e apprezzata. Un inno a quell’Italia resa famosa da Fellini, a quell’eleganza che sembrava universale negli anni ’60, a quella vita ‘dolce’ che resterà sempre uno stereotipo di bellezza nel passato del Paese.

Nine: cast e trama

NINE è un musical che racconta la vita del famoso regista Guido Contini (il 2 volte Premio Oscar Daniel Day Lewis) alle prese con uno dei momenti più drammatici della sua ispirazione creativa. A complicare ulteriormente la situazione le numerose e bellissime donne che gli gravitano attorno: la moglie, il premio Oscar Marion Cotillard, l’amante, il premio Oscar Penelope Cruz, la sua musa creativa, il premio Oscar Nicole Kidman, la confidente e collaboratrice, il Premio Oscar Judi Dench, un’avvenente giornalista di moda, Kate Hudson, e la madre, il premio Oscar Sophia Loren.

Nel cast del film Nine protagonisti sono Daniel Day-Lewis, Penélope Cruz, Sandro Dori, Marion Cotillard, Sophia Loren, Kate Hudson, Nicole Kidman, Stacy Ferguson, Judi Dench, Martina Stella, Elio Germano, Ricky Tognazzi, Giuseppe Cederna, Enzo Squillino Jr., Giuseppe Spitaleri, Roberto Nobile, Valerio Mastandrea, Remo Remotti, Monica Scattini, Roberto Citran

Avatar: recensione del film di James Cameron

Avatar: recensione del film di James Cameron

Quando risultano poche 3 ore di film. Pensando a vari aggettivi  con il quale iniziare la recensione del film dell’anno, mi è risultato difficile individuarne uno che cogliesse a pieno tutta l’essenza di Avatar. Così ho pensato a tutto ciò che si prova nel vedere il film e mi sono detto perché non scrivere un commento… Quando risultano poche 3 ore di film.

Sono poche perché nella visione non si riesce a coglierne il passare; Sono poche perché il mondo creato dal regista è talmente ben delineato e costruito nel minimo dettaglio che risultano troppo poche per riuscire a dargli un’equa giustizia. Sono poche perché grazie al 3D vivere per solo 3 ore in quel mondo è davvero troppo poco.

Detto questo, sperando di essere riuscito a esplicarvi  quanto sia imperdibile un film come Avatar, veniamo a cosa c’è di negativo nel complesso. Sicuramente è da sottolineare una sceneggiatura troppo (forse) semplice a discapito di una rappresentazione che ha nel complesso e nell’assurdo (visivo) una forte peculiarità. Un soldato occidentale vive tra gli indigeni di una tribù primitiva. Si innamora della nativa principessa, si divide tra la fedeltà alla sua vecchia civiltà e alla nuova che lo ha accolto e il restante può essere immaginato …

Zoe Saldana e Sam Worthington in Avatar (2009)
Foto di Courtesy of WETA – © 2007 Twentieth Century Fox – All Rights Reserve

Anche il triangolo che si va a formare fra Jack Sully (Sam Worthington), Neytiti (Zoe Saldana) e  Tsu’tey  (Alonso)  è volutamente tenuto a bada quasi a volerlo soffocare per non doversi poi trovare qualche conflitto di troppo da risolvere nello svolgersi delle folgoranti sequenze di guerra.  Ma la semplicità narrativa da forza a dei principi semplici e chiari che sono disseminati nel film e che non hanno bisogno di essere esposti in maniera complessa per poter assumere dei connotati universalmente tangibili.

Per la sua essenza semplice, la storia scorre veloce e chiara lasciando anche spazio a momenti ti autentica riflessione. Veniamo dunque ad uno dei tanti pregi del film e nello specifico del regista: l’equilibrio. James Cameron nel film è abilissimo nel bilanciare scene mozzafiato con momenti profondamente riflessivi che ci permettono di assorbire con la dovuta tempistica i vari riferimento concettuali.

La semplicità della storia inoltre permette a James Cameron di arrivare ad un livello talmente alto di messa in scena che si ha quasi la voglia di possedere un avatar e poter gironzolare in Pandora.  L’aspetto estetico e visivo è dichiaratamente centrale nel film, ma come sta accadendo da qualche anno ad oggi gli effetti digitali sono molto spesso fini a se stessi; ecco il punto chiave, in James Cameron non lo sono o meglio la spettacolarità che con essi si può produrre è solo un espediente per riuscire a sopportare un attimo narrante, un atteggiamento o una sensazione, trasformandola in qualcosa di più di quello che potremmo afferrare nella vita reale.

Avatar, il film campione d’incassi di James Cameron

Stephen Lang in Avatar (2009)
© 2007 Twentieth Century Fox – All Rights Reserve

Quello che accade nel visivo, ahimè, non avviene nel campo del sonoro. Infatti, altra nota dolente che non riesce mai a venire fuori se non per pochi attimi è la colonna sonora composta da James Horner. Le sue partiture accompagnano sufficientemente la narrazione ma non riescono mai ad essere degne dell’epicità delle immagini e ad avere una personalità tale da potersi distinguere.

In conclusione in Avatar il cast è assemblato con cura, tutti i personaggi sono credibili nelle proprie vesti e all’altezza del compito, forse un punto in meno a Giovanni Ribisi per il quale anche la scrittura del suo personaggio differisce dalle sue caratteristiche.

Sherlock Holmes: recensione del film di Guy Ritchie

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Sherlock Holmes: recensione del film di Guy Ritchie

Quando si parla di romanzi al cinema si tende a storcere sempre un po’ il naso, qualche volta il fedele lettore resta deluso, altre volte lo schermo non rende davvero giustizia ai personaggi di carta e inchiostro. Peggio ancora quando si tratta di classici di grande seguito e tradizione rivoluzionati per aspetto e caratteristiche. Tuttavia non è il caso dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie, un bel film, nient’altro da dire, in perfetto stile del regista.

Il nostro Sherlock egregiamente impersonato da Robert Downey jr. nella sua seconda giovinezza offre un ritratto convincente avvincente e irriverente dell’investigatore privato più famoso di sempre, nato dalla penna di Sir Artur Conan Doyle, affiancato dal fedele e mai come ora intrigante Dottor Watson, un Jude Law in gran forma. Ottimo duetto dunque che si completa e si equilibria con una ironia leggere e mai fuori luogo. Sono proprio loro la forza del film, la loro alchimia, il loro essere vicendevolmente d’aiuto all’altro, il loro rispecchiare un rapporto d’amicizia che a scanso di accuse varie di omosessualità latente non ha paura di mostrarsi nella sua genuina sincerità. Tutto questo a scapito però dei personaggi secondari, le donne in particolare, che ci sono ma risultano un decor quasi trascurabile.

Sherlock Holmes sequel

Ritchie sottopone al pubblico,com’era già stato annunciato, un Sherlock Holmes intatto nelle sue facoltà deduttive ma decisamente più sporco, prestante ed eccentrico di quello che eravamo abituati a pensare. E lo stesso trattamento è stato riservato a Watson, non più composto medico sottomesso seppur apprezzato,ma compagno, spalla e qualche volta artefice. Ma Guy Ritchie fa di più, non solo fa uscire il mito fuori di sé con la già citata operazione di “svecchiamento”,ma lo riconduce alle sue origini.

Niente è davvero profondamente diverso dal romanzo: lo Holmes di Conan Doyle alterna periodi di eccessiva attività mentale a periodi letargici, è abile nei travestimenti, è irriverente verso le istituzioni ma sempre a loro fa riferimento, mantenendosi sul filo di ciò che è lecito. E tutto questo Ritchie ce lo mostra senza i filtri che la penna di Doyle ha avuto considerando i tempi.

Il regista offre uno spettacolo a suon di pugni allo spettatore contemporaneo, ma allo stesso tempo strizza l’occhio al fedele lettore (ad esempio inquadrando l’insegna di Baker Street, o il numero 221b della stessa strada) dando equilibrio ad un film che si lascia vedere nonostante il sostanzioso numero di minuti. E’ un po’ quello che è successo James Bond, quando invece di un attore bello ed elegante, è stato interpretato dal forzuto e un po’ trucido Daniel Craig, un cambio di rotta decisamente azzardato ma riuscito.

Sherlock Holmes – il montaggio riesce a tenere alta la suspense

Assolutamente ben fatte le scene d’azione, il montaggio riesce a tenere alta la suspense anche se alcuni tratti del film risultano prolissi. Per quanto riguarda la trama, l’esoterismo massonico di sottofondo ricorda vagamente le trama di From Hell che viene rievocato anche nell’ambientazione ma che non lasciano spazio a nessuna credenza extra sensoriale. Tutto è spiegato con la scienza e con qualche trucco da prestigiatore, il resto lo fa l’uomo, con le sue paure.

Scritto bene e recitato ancora meglio, lo Sherlock Holmes di Ritchie è sicuramente un film da vedere che lascia spazio a possibili sequel che forse inaugurerà un nuovo filone alternativo a quello dei cinefumetti.

Dorian Gray: recensione del film con Colin Firth

Dorian Gray: recensione del film con Colin Firth

Dorian Gray è un film che vuole sottolineare la sua autonomia rispetto all’opera da cui è tratto a partire dal titolo: il film di Oliver Parker è infatti ispirato al capolavoro dell’eccentrico Oscar Wilde, Il Ritratto di Dorian Gray, ma ne prende le distanze poiché volto a sottolineare gli aspetti più vari del personaggio di Dorian.

Se il romanzo muoveva dal ritratto e lasciava immaginare al lettore i vizi del protagonista, senza mai esplicitarli (ad eccezione di un delitto molto rilevante da lui commesso), il film è incentrato totalmente sulla figura di Dorian. Apprendiamo diversi aspetti del suo passato e tangibile è la sua evoluzione: ingenuo ventenne egli diventa poi un uomo corrotto dedito al piacere che maturerà infine la distinzione tra piacere e felicità.

Sedotto dalle parole di Lord Henry Wotton, Dorian Gray deciderà di vendere l’anima pur di conservare in eterno bellezza e giovinezza: a invecchiare è il suo ritratto, che riporterà tutti i marchi della sua progressiva depravazione. Il ritratto è una presenza oscura il cui orrore è intuibile per gran parte del film, per poi essere esplicitato in scene molto efficaci. Molte inquadrature adottano il suo punto di vista quando è l’anima di Dorian a scrutare dopo essere indagata. Originale e di forte impatto la scelta di rendere il ritratto una creatura viva e orripilante, che marcisce ed emette spaventosi suoni: di grande suggestione l’uso degli effetti speciali, soprattutto nel finale che lascia un po’ stupito lo spettatore (e l’appassionato del romanzo).

Dorian Gray è un dark come previsto, con una nota horror accentuata

Dorian Gray cast

Il film è dark come previsto, con una nota horror accentuata. Le scenografie, gli ambienti vittoriani e la fotografia fredda e cupa contribuiscono a rendere più tenebrosa la vicenda narrata. Il tono dark è evidenziato anche dalla suggestiva colonna sonora composta da Charlie Mole, mentre l’accurata ambientazione è consolidata dagli ottimi costumi d’epoca di Ruth Meyers. Dorian Gray non è però un’opera esente da difetti: la prima parte è certamente superiore alla seconda, nella quale la sceneggiatura prende maggiormente le distanze dall’opera di Wilde; a partire dal personaggio inventato di Emily Wotton sino al finale, di certo spettacolare ma anche un po’ distante dal romanzo. Degna di nota è anche un’anticipazione narrativa: il delitto commesso da Dorian avviene molto prima del previsto e non nell’ultima parte della vicenda, come nel romanzo.

Ma Dorian Gray non può essere apprezzato se paragonato al capolavoro di Wilde: bisogna guardarlo come un’opera a sé. È però opportuno sottolineare che lo spirito del romanzo è conservato nel film e che trovano spazio anche gli aforismi più amati. Il protagonista non sarà biondo e dagli occhi azzurri come nell’opera originale, ma ha gli occhi e il volto di Ben Barnes, che di fascino non manca: e l’obiettivo di Parker è proprio quello di insistere sull’idea che gli ideali della bellezza mutano con il tempo, ed è per questo che Dorian Gray è un giovane dagli occhi e capelli scuri. Tuttavia, come il film insegna, non bisogna soffermarsi sull’aspetto: per questo è necessario riconoscere che la prova di Ben Barnes supera certamente  le aspettative. Il giovane attore è espressivo e incarna perfettamente il Dorian ingenuo e corrotto poi.

Notevole anche l’interpretazione di Colin Firth: Henry Wotton è di certo un personaggio che si discosta dai ruoli interpretati da lui in passato, ma l’attore si dimostra assolutamente all’altezza del mordace e filantropo tentatore che influenza Dorian. Buone anche le prove di Ben Chaplin, ovvero il pittore Basil Hallward, e Rebecca Hall (Emily Wotton). Al di là del tema dell’immortalità, sempre attuale e riprodotto nel film come nel libro (“Sono un dio”, dice Dorian), Dorian Gray è quindi un film che sarà apprezzato da chi non indugerà nel paragone con il romanzo. Certamente non è un film che lascia indifferenti, ma che susciterà impressioni positive o negative a seconda dello spettatore. E come ci ricorda Oscar Wilde: “Vi è solo una cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé”.

Triage: recensione del film con Colin Farrell

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Triage: recensione del film con Colin Farrell

A dispetto dello scorso anno, nel 2009 Roma apre bene. Triage di Tanovic (premio oscar per ‘No man’s land’) racconta la storia di un fotoreporter Mark, interpretato da un Colin Farrell davvero in vena alle prese con un misterioso trauma subito in Kurdistan, mentre cercava di immortalare il reportage della vita.

Per la prima parte Triage scorre lento, senza grandi cambiamenti nel ritmo narrativo, costringendosi all’interno di schemi convenzionali, addirittura banali, nonostante la profonda esperienza che il regista ha della guerra (Tanovic è bosniaco). Le scene sono crude pur non mancando di una certa bellezza estetica, soprattutto nelle inquadrature di paesaggio, gli interpreti buoni, trai quali spicca il medico ‘di frontiera’, interpretato da Branko Djuric, già compagno di viaggio di Tanovic per No Man’s Land e ora responsabile di una performance davvero notevole, fredda e coinvolgente insieme.

Triage Uno sguardo sulla guerra da parte di chi la guerra la vive ma non la fa.

Nella seconda macro sequenza, che possiamo individuare nel ritorno a Dublino di Mark e nella progressiva presa di coscienza dei protagonisti che ‘qualcosa è cambiato’, il ritmo di Triage rallenta ancora e se all’inizio abbiamo visto l’attaccamento del protagonista al suo lavoro, adesso possiamo entrare nelle dinamiche di coppia, scoprendo un’altrettanto importante figura femminile, Helena (Paz Vega) moglie di Mark e motore dell’azione in questo frangente. Anche la Vega, come Farrell e Djuric, offre una buona interpretazione, avvalorata anche dall’uso di una lingua, l’inglese, che non è la propria.

La svolta sia tematica che stilistica avviene con l’entrata in scena di Christopher Lee, nei panni dello psichiatra franchista Joaquin Morales, nonno di Helena e intenzionato, su richiesta della nipote, a portare la guarigione nella mente tormentata del fotoreporter.

Un ritmo un po’ discontinuo che si salva verso il finale e regala un’impronta fluida al racconto pur non rendendolo eccelso. Ma se nel ritmo il film ha qualche pecca, nella sceneggiatura e nell’interpretazione ha i due punti forti. Una scrittura di dialoghi salda e precisa, funzionale ma anche lievemente sarcastica, che riecheggia nella profonda e possente voce di un Lee che si conferma una leggenda, un uomo che ha fatto la storia del cinema, ma anche la storia dell’occidente così come lo conosciamo, avendo vissuto sulla sua pelle le grandi guerre moderne, soprattutto i 5 anni del secondo conflitto mondiale.

Attori superlativi che forse vanno al di là di quello che è il valore registico, che pure regala qualche bel momento e soprattutto un finale straziante, in grado di commuovere ma anche di smuovere gli animi, un finale che ti accompagna per un po’ fuori dalla sala. Triage è nuno sguardo sulla guerra da parte di chi la guerra la vive ma non la fa.

Planet 51: recensione del film d’animazione

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Planet 51: recensione del film d’animazione

In un pianeta esterno alla nostra galassia, la vita prosegue placida ed ordinaria senza grandi scossoni, fino a che atterra dalla spazio profondo una navicella aliena. Da essa uscirà un temibile…..astronauta della Nasa! Questo è Planet 51: una piccola storia che potrebbe definirsi un E.T. alla rovescia. Il Captano Charles T. Baker, fascinoso astronauta americano, arriva su un pianeta sconosciuto convinto di dover piantare solo una bandierina. In realtà avrà una sorpresa, si troverà davanti ad una civiltà del tutto uguale alla nostra, solo costituita da omini verdi e simpatici: degli alieni! Solo che la sua prospettiva sarà capovolta, è lui infatti l’alieno, il diverso proveniente da un altro mondo.

Come il piccolo E.T. si deve nascondere dalla forze armate grazie all’aiuto di Elliot, così Charles sarà costretto a scappare dalle autorità locali che vogliono rinchiuderlo nella base 9 (tipo la ‘nostra’ area 51?).

Planet 51: una piccola storia che potrebbe definirsi un E.T. alla rovescia.

Ancora una volta il cinema, questa volta quello d’animazione, ci sottopone ad un grave problema sociale, quello della xenofobia, raccontandoci una storia dai toni leggeri e non molto pretenziosa, infarcita di citazioni e che spesso tocca la retorica più bassa in diversi dialoghi. Planet 51 affronta l’argomento che dovrebbe essere quello centrale con un distacco che a volte sfugge e senza la dovuta profondità concettuale che altri prodotti dello stesso genere sono riusciti a dare. La retorica dei contenuti però non impedisce un buon tratteggiamento dei personaggi, qelli secondari e ‘non umani’ soprattutto, mi riferisco a Rover, la sonda spaziale spaventosamente simile al famosissimo Wall-E, e ovviamente al cucciolo di cane alieno, un piccolo Alien in miniatura che conserva sia le caratteristiche fisiche del mostro di Cameron (forma della testa, corrosività dei liquidi corporei) sia quelle caratteriali (vedi la sorte del povero postino).

Planet 51 è un film senza pretese che offre ugualmente degli spunti di ilarità e di interesse, se non altro (per i cinefili) quello di rintracciare le varie citazione di cui il film è pieno, da quella banale dell’atterraggio con la colonna sonora (auto-cantata dall’astronauta) di 2001: Odissea nello Spazio, a quella palese di E.T. (la fuga in bicicletta), a quella un po’ più ricercata di Non aprite quella porta nel finale.

Nonostante la modestia del progetto e del risultato finale Planet 51 è da considerarsi un prodotto coraggioso almeno per quello che riguarda l’aspetto produttivo (coproduzione Spagna/Uk/USA), infatti nessuna delle grandi Major imperanti nel settore dell’animazione, vedi Pixar o DreamWorks, ha collaborato al progetto.

Nemico pubblico: recensione del film con Christian Bale

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Nemico pubblico: recensione del film con Christian Bale

Il digitale è nato come la strumento della diretta, sfrutta l’immediatezza dell’immagine. Poi arriva Michael Mann, e tutto quello che si studia sul digitale come mezzo economico per realizzare un film di bassa qualità va in fumo. Perché Mann con il digitale ci ha realizzato Collateral, Miami Vice ed ora arriva Nemico Pubblico, il suo film forse più personale più aperto alla sperimentazione, ma allo stesso tempo un film che rivoluziona il modo di guardare al cinema e al genere in particolare.

La trama del film

La storia è quella famosissima oltreoceano di John Dillinger, un criminale specializzato nelle rapine in banca che nei primi anni ’30 ha fatto tremare le istituzioni americane. Ma questo Dillinger che Mann ci dipinge con la sua spettacolare fotografia sgranata è un po’ più articolato, complesso rispetto alle sue precedenti rappresentazioni. Mann è partito dalla fine, da quando il bandito John deve ricominciare la sua vita dopo un lungo periodo di reclusione. E lui scegli di raccontarlo alla vecchia maniera, come fosse un western. Un uomo prima di tutto, un duro che si atteggia a divo, ma che nella realtà ha ispirato in prima persona la costruzione della figura divistica negli anni dello star system.

Con Nemico pubblico Michael Mann ha riportato sulla schermo la figura mitica del crimine

Nemico pubblico cast

Mann ha riportato sulla schermo la figura mitica e umana attraverso un incredibile Johnny Depp che nelle corde oscure del bandito ha trovato le sue, offrendo in questo modo un’interpretazione davvero convincente che affascina e si confà alla figura carismatica che ci viene presentata. Una persona carismatica dunque ma anarchica, che si scontra sia con la criminalità organizzata che ovviamente con la legge, impersonata da un bravissimo Christian Bale nei panni di Melvin Purvis, l’agente speciale che ha dato la caccia a Dillinger.

Una recitazione sommessa fatta più di silenzi e sguardi che di parole che si aggiunge alle già numerose rilevanti interpretazioni di Bale. Ma chi brilla davvero in un universo di uomini è Marion Cotillard, semplicemente eccezionale nei panni della donna del bandito Billie Frechette: se qualcuno avesse avuto dubbi sul fatto che il suo Oscar fosse stato assegnato agli strati di trucco in La Vie en Rose, adesso deve ricredersi. Marion riesce ad essere potente e fragile, bella e crudele mantenendo le sue sembianze delicate.

Quello che però lascia un po’ l’amaro in bocca è una scrittura non troppo perfetta. A tratti apparentemente poco attenta a quelli che sono i nodi del racconto, sicuramente una sceneggiatura meno rarefatta avrebbe dato i giusti accenti ad una storia intrigante e ad un personaggio di tutto rispetto e di grande spessore. Peccato anche per l’aspetto musicale del film, che se nel finale regala insieme ad un sapiente montaggio attimi di reale suspense, nel corpo del film è estremamente rarefatta e quando compare, lo fa con prepotenza violentando il corso delle immagini.

Nonostante questo, Nemico Pubblico è un’esperienza visiva totale; la ripresa in digitale da l’impressione non  di un film d’epoca, ma di essere esattamente lì, nel 1934, con Dillinger e la sua gang rabbiosa e anarchica ad accumulare denaro senza mai curarsi del futuro, ed è esattamente ciò che Mann voleva accadesse. Proiettare lo spettatore nella storia, fargli vivere tutto ciò che è davvero successo, negli stessi luoghi che nel tempo sono diventati quasi leggendari, fargli assaggiare quasi l’odore della polvere da sparo che copiosamente viene utilizzata lungo tutto il film.

Una pellicola forse leggermente al di sotto delle aspettative, ma che surclassa i generi e le definizioni aprendo ancora una volta una sperimentazione visiva e concettuale del cinema laddove si credeva fosse stato già detto tutto. E questo tipo di rivoluzioni spettano soltanto a chi, come Mann, conosce profondamente il cinema e per questo è in grado di modificarne i codici.

Brotherhood: recensione di Nicolo Donato

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Brotherhood: recensione di Nicolo Donato

Tutti ne parlano, nessuno ne racconta. L’omosessualità è senza dubbio un tema inflazionato e talvolta banalizzato. Ecco che dalla Danimarca arriva un piccolo gioiello e ogni racconto visto o ascoltato in precedenza sullo stesso tema diventa banale. Brotherhood di Nicolo Donato racconta la storia di due ragazzi, Jimmy e Lars, che si uniscono ad un gruppo di neo-nazi, salvo poi scoprire tra loro una passione ardente e autentica che collide violentemente con l’ideologia che i due dovrebbero abbracciare. La scelta sarà presto inevitabile: seguire i propri sentimenti o scegliere il gruppo?

Brotherhood, con una gestazione di quattro anni, arriva al Festival di Roma sorprendendo ed emozionando, ma soprattutto facendo riflettere sul tema dell’ identità sessuale, ma anche su quello più profondo della scelta, del cambiamento della vendetta e della punizione. Brotherhood è un film fatto bene, costruito con attenzione e diligenza, con una fotografia notevole e degli interpreti eccezionali. Vince il Gran Premio della Giuria e Marc’Aurelio d’oro.

La trama di Brotherhood segue linee guida apparentemente convenzionali ponendo nella parte finale l’accento sulle conseguenze delle proprie scelte e delle proprie azioni presenti e passate. Con un misto di delicatezza narrativa e durezza delle immagini e dei temi trattati il film di Donato arriva al cuore e al cervello spingendo oltre la naturale organizzazione narrativa riguardo ai film sull’omosessualità che si vedono in giro. E’ prima di tutto una storia di crescita, una storia d’amore, una storia dura che svolta nel finale in maniera tanto interessante quanto inaspettata anche se annunciata.

Le conseguenze delle proprie azioni si pagano nel bene e nel male, si esce cambiati dai traumi della vita, ma tante volte la sofferenza non riesce a scalfire quelle che sono convinzioni assurde e tante volte simulate, il rimorso non attecchisce lì dove non c’è terreno fertile e tante volte l’amore si trova nei momenti, nei posti e con le persone mai immaginate.

Tutto questo è Brotherhood, un ritratto bellissimo di una storia d’amore.

Julie & Julia: recensione del film con Meryl Streep

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Julie & Julia: recensione del film con Meryl Streep

Con l’età si cambia, e nel mondo del cinema spesso si ci adatta a quello che viene offerto, soprattutto se sei un attore e in particolar modo se si tratta di una donna. Questa regola non vale per Meryl Streep che ha saputo fare degli ultimi anni a degli ultimi film veri e propri successi di pubblico e critica, pur non trattandosi di film ‘impegnati’. La Streep si è infatti data con risultati eccellenti alla commedia, ed ecco, dopo Il Diavolo Veste Prada e Mamma Mia!, nei panni della cuoca più famosa d’America, Julia Child, nell’ultimo film scritto e diretta da Nora Ephron, presentato in anteprima al Festival di Roma per celebrare il Marco Aurelio d’Oro alla carriera che Meryl ha ricevuto per l’edizione 2009. Julie & Julia racconta le storie parallele di Julia (la Child) quando comincia ad appassionarsi alla cucina e scrive il suo libro di cucina francese per la casalinghe americane, e di Julie segretaria che 50 anni dopo gli inizi della Child, decide seguendo la sua ispirazione di realizzare in un anno tutte le ricette del libro di Julia.

Bravissimi attori (con la Streep si ricordano un elegante Stanley Tucci ed una sempre più brava Amy Adams) e storia interessante basata sulle scelte che possono cambiare la vita, sulle dinamiche matrimoniali e sull’amore che si prova per ciò che si fa, non riescono a fare dell’idea un grande film soprattutto per la durata eccessiva, due ore, che a tratti sembra non sussistere affatto lo svolgimento degli eventi, qualche volta addirittura stentati. La regia della Ephron è discreta, anche troppo e non valorizza la materia prima che ha avuto a disposizione.

I due episodi si differenziano per ritmi e esiti espressivi: tanto è spumeggiante e godibile quello della Streep, tanto è abbastanza prevedibile e scontato quello che vede protagonista la pur brava Adams.  Tuttavia Meryl non sbaglia un colpo, ancora una volta offre una prestazione eccellente, confermandosi l’attrice migliore del momento (uomini compresi), sopra le righe e vagamente eccentrica la sua Julia è vivace e vagamente isterica, appoggiata con classe e discrezione da quell’ottimo attore che si conferma essere Stanley Tucci, nel ruolo di Paul Child, marito di Julia.

Tratto da una storia vera e da due libri: Julie & Julia di Julie Powell (il personaggio di Amy Adams e da My life in France della stessa Julia Chirl, Julie & Julia è un film godibile, per due ore di buon cinema e sorrisi, senza esagerare però…
Curiosità: un bel cammeo di Dan Aykroyd.

Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo: recensione del film con Heath Ledger

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Prima la notizia dell’inizio di un nuovo film, poi qualche foto, poi la notizia shock (l’attore protagonista muore durante una pausa dalle riprese), poi ancora le voci: “il film si finirà!”, le prime immagini, il trailer, l’anteprima mondiale a Cannes e poi il grande annuncio per gli aficionados del Festival di Roma: Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo proiettato in anteprima italiana nell’ambito dell’omaggio a Heath Ledger.

Il grande giorno infine è arrivato e il pubblico è accorso numeroso ad osannare non solo la memoria di Heath, ma ad accogliere calorosamente la delegazione, Terry Gilliam e (l’altissima) Lily Cole. Saluti di benvenuto, applausi e luci spente: la lunga attesa è finita.

Il dottor Parnassus (Christopher Plummer) è un uomo vecchissimo, capo di una bizzarra compagnia di ambulanti che gira per le strade di Londra con il suo Carrozzone: l’Inmaginarium. Ma ci accorgiamo subito che qualcosa non va, qualcosa di strano si nasconde dietro un specchio magico al centro del palco di Parnassus, una porta verso altri mondi, dove le sembianze umane cambiano a seconda dell’animo della persona che viene trasportata all’interno.

Alla compagnia si aggiunge presto un nuovo elemento, Tony, un giovane che è stato ripescato dal London Bridge, dove penzolava da una forca. Che sia buono o cattivo, Tony si unisce a Parnassus e qui comincia il suo viaggio. La grande curiosità del pubblico è stata infine soddisfatta. Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo di Terry Gilliam, pur non godendo della luce di un prodotto eccelso, riesce a catturare ed affascinare, le scene di una Londra umida e triste, nella povertà del carrozzone di Parnassus assumono un fascino particolare e la storia misteriosa riesce a far scorrere via le due ore del film con facilità.

Pur risultando confuso nella trama soprattutto nella parte finale, Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo è un bel film, tripudio di effetti speciali che hanno colmato delle difficoltà di produzione che sono insorte durante la lavorazione a causa dell’accidentale morte di Ledger. Ma a dimostrazione che l’industria cinematografica ha ancora un anima, sono accorsi tre amici di Heath, Depp, Law e Farrell, a sostituire l’amico e a dargli il volto nei diversi mondi che il suo personaggio attraversa.

Gilliam è stato chiaro durante la conferenza stampa: le modifiche alla sceneggiatura sono state minime dopo la traumatica interruzione, ma il dubbio resta, qualcosa di poco organico permane alla fine del film che lascia un po’ l’amaro in bocca, forse determinato dalle altissime aspettative. Il tripudio di colori e le grandi interpretazioni tuttavia restano, facendo di Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo un film che si ricorderà, per la sorte assurda toccata al protagonista, per la storia, in profondità crudele e involontariamente profetica, per la dimostrazione che nonostante il cinema sia sempre più un’industria e non una fabbrica di sogni, esiste ancora un’anima in un lavoro ritmato dai numeri del guadagno.

La scritta finale, quasi come un epitaffio recita: un film di Heath Ledger e dei suoi amici, omaggio che Gilliam ha sottolineato definendosi soltanto il realizzatore di un prodotto che era stato pensato esattamente in quel modo dall’attore australiano.

American Prince/American Boy: A Profile of Steven Prince, recensione del documentario

American Prince/American Boy: a Profile Of Steven Prince; è questo il titolo completo del documentario evento della IV edizione del Festival internazionale del film di Roma per la sezione L’altro cinema – Extra diretta da Mario Sesti.

L’hanno ribattezzato il film ‘perduto’ di Martin Scorsese, un omaggio all’amico Steven Prince che ebbe una piccola parte in “Taxi Driver”. Tutto parte nel lontano 1978 quando Scorsese gira un lungo documentario, “American Boy: A profile of Steven Prince”, un’interminabile nottata hippy in cui Steven racconta la sua vita di eccessi, sospesa tra anfetamine, alcool, donne e loschi figuri.

Di lì il silenzio, durato oltre trent’anni ed oggi l’opera nascosta del regista italo-americano, che fece di Prince un’icona pop a cui anche Tarantino si sarebbe ispirato in “Pulp Fiction” (nella scena in cui una Uma Thurman in overdose si risveglia grazie ad un’improvvisata iniezione di adrenalina),  viene riportata alla luce da Tommy Pallotta, che ne riprende il viso in primo piano dopo tanti anni, ma che tutto sommato non sembra poi così cambiato, esclusi i capelli bianchi e un po’ di rughe; al tempo nemmeno uno stravagante come lui può sfuggire. Il nuovo documentario alterna alle testimonianze di oggi alcune immagini di ieri dirette da un Martin Scorsese ben vestito, dalla barba lunga e i capelli gellati.

American Prince/American Boy: a Profile Of Steven Prince è un viaggio nella vita di Prince che a tratti sembra la copia spudorata di una sceneggiatura, che ha nell’incredibile il suo forte e nella “fottuta fortuna”  del protagonista il surreale. Se non fosse che non è una sceneggiatura e quella non è una vita inventata. Seduto alla poltrona, bevendo un bicchiere di vino dopo l’altro il protagonista affronta i meandri della mente rievocando il suo passato sostenendo che la vita va presa al volo e che l’oggi è più importante del domani. Il tutto con la stessa follia e la stessa spensieratezza del Prince di Scorsese, come se in qualche modo il trascorrere del tempo non lo abbia nemmeno sfiorato.

The Warrior and The Wolf: recensione del film di Tian Zhuangzhuang

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In The Warrior and The Wolf una guerra antica nelle regioni sperdute e inaccessibili della Cina imperiale spinge un esercito a sostare, durante un rigido inverno, in un paesino fantasma, abitato solo da mistici e forse da un popolo maledetto.

Le premesse per un film epico e misterioso ci sono tutte, e per certi versi The Warrior and The Wolf di Tian Zhuangzhuang offre una visione magnificente e disperata dell’uomo continuamente in lotta con se stesso, con il suo dovere e con la natura ostile, sia in forma per così dire metereologico, sia in forma mistico-magica, una caratteristica difficile da considerare realistica per l’occidente ma che nella mentalità e tradizione orientale appartiene agli interstizi della quotidianità.

La storia di The Warrior and The Wolf  si basa su pochi elementi: la fedeltà del lupo verso il compagno che si sceglie per la vita, la storia della Cina imperiale e delle sue guerre per sedare le rivolte, la tradizione e l’onore del guerriero che sono fondamentali per quelle culture.

Lang Zai Ji, questo in titolo originale della pellicola, è una storia affascinante che forse non viene raccontata con la giusta chiarezza, una trama non perfettamente lineare e non completamente strutturata lascia lo spettatore in uno stato di confusione. Ma quel che davvero inficia la buona riuscita del film è la cattiva delineazione delle dinamiche interne tra i personaggi, ad esempio non sono chiari i rapporti tra il protagonista e il generale Zang, prima di riluttanza poi di dedizione, e allo stesso modo la relazione di amore/odio con la bella Maggie Q. non viene chiarita, non si spiegano le dinamiche del cambiamento né se ne danno motivazioni sostanziali.

The Warrior and The Wolf di Tian Zhuangzhuang offre una visione magnificente e disperata dell’uomo

Tuttavia The Warrior and The Wolf resta una bella esperienza visiva: le scene di battaglia, magnificamente costruite; i paesaggi sterminati dal fascino antico; anche le riproduzioni digitali dei lupi sono notevoli e il fascino che quest’animale esercita sulla cultura di ogni tempo è innegabile, eterno cattivo nelle favole al cinema è sempre dipinto come bestia nobile e schiva. Forse proprio per questa caratteristica di monogamia, l’uomo ne ha particolare considerazione sentendolo in qualche modo simile a sé.

The Warrior and The Wolf – in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, Lang Zai Ji, è un unicum nella storia del concorso, una storia dal sapore antico e maledetto che però non viene espressa secondo tutte le sue potenzialità.

Oggi Sposi: recensione del film di Luca Lucini

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Oggi Sposi: recensione del film di Luca Lucini

C’era un volta la commedia all’italiana, oggi non c’è più. Luca Lucini con Oggi Sposi tenta la titanica impresa di riportare alla luce quello che di più caratteristico c’era nel nostro cinema passato: l’amarezza del sorriso, la caricatura e la critica alla società ipocrita. Il risultano non è pienamente riuscito anche se qualche spunto interessante c’è e viene colto parzialmente soprattutto se coinvolti sono Michele Placido e Luca Argentero, il cui episodio dei quattro, è senza dubbio il più divertente.

La trama di Oggi Sposi

Un poliziotto pugliese sta per sposare una ragazza indù con grande disappunto dei genitori di entrambi, irremovibili circa il rispetto delle tradizioni. Il padre di lui, contadino dai metodi diretti e senza fronzoli, vorrebbe un matrimonio cattolico da celebrare nella piazza del paesino pugliese in cui vive, mentre il padre di lei, ambasciatore indiano in Italia, non vuole cedere alle richieste della controparte e immagina una festa nuziale di rito indù, elegante e piena di personalità. Alla fine i due si scopriranno molto più simili di quanto le appartenenze culturali possano far intendere.

Un uomo anziano e molto ricco sta per sposare Giada, una giovane e procace ragazza, ostacolato dalla sua famiglia e soprattutto dal timido e complessato figlio, di professione pubblico ministero, il quale mette in moto tutte le sue conoscenze per smascherare le reali intenzioni della giovane. Finirà per innamorarsi di lei e scrollarsi di dosso le sue fobie.

Una coppia squattrinata sta per sposarsi e, per assecondare le manie di grandezza della mamma di lui, organizza il banchetto nuziale all’interno di un altro molto più grande di una coppia famosa, finendo però per trovarsi nel bel mezzo di una faida mafiosa.

Un giovane e famoso uomo dell’alta finanza è in procinto di sposarsi con una procace aspirante attrice. Pochi minuti prima delle nozze, i due scoprono di non amarsi affatto, ma l’occasione di notorietà e ricchezza che il matrimonio porterebbe è troppo ghiotta per entrambi per rinunciarvi.

Tuttavia Oggi Sposi non brilla per acutezza, pur rappresentando una valida alternativa al cine-panettone che più ridanciano è senza dubbio più volgare e meno costruito. Oggi Sposi si avvale anche di buoni attori che si calano bene nei personaggi stereotipati e che danno verve a storie un po’ deboli, basti come esempio l’esasperata soubrette svampita di Gabriella Pession che lavorando per accumulo, condensa nel personaggio tutto il peggio del divismo spicciolo italiano. In definitiva film mediocre che punta sulla risata facile ma non riesce a tenere un ritmo che a tratti sembra sfuggire di mano alla stesso regista creando caos.

Il concerto: recensione del film di Radu Mihaileanu

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Il concerto: recensione del film di Radu Mihaileanu

Mihaileanu con Il concerto si conferma un capace narratore per immagini, sia dal punto di vista del linguaggio, sobrio e contenuto, sia per la storia, l’umanità e la freschezza con cui racconta questa storia di sofferenza e riscatto.

Ne Il concerto un direttore d’orchestra allontanato dal suo lavoro per aver difeso i suoi musicisti ebrei durante la seconda guerra mondiale, è ridotto a fare le pulizie nello stesso teatro che un tempo lo osannava ad artista indiscusso. Si presenterà a lui una sola occasione di realizzare il suo sogno, tornare a dirigere la sua orchestra e ritornare allo splendore della musica. Radu Mihaileanu acclamato regista di Train de vie, ritorna con una storia forte e commovente, che diverte ed emoziona, eccezionale.

I personaggi (tra cui spicca Mélanie Laurent), tratteggiati con poche linee guida che ne caratterizzano la provenienza e gli stereotipi, si mescolano in questo colorato spaccato di umanità: gli ebrei praticanti sono gentili, ma attenti al profitto e al commercio; i russi veraci allegri e dediti alla bottiglia; gli zingari confusionari ma con una grande dote innata per il ritmo e la musica; i comunisti più radicali ancora sognatori ed idealisti.  Una parodia sociale costruita magistralmente, un’armonia di realtà e creature diverse che nella musica, nel concerto di Tchaikovsky per violino ed orchestra, trovano il loro riscatto, la speranza di una ritrovata dignità e realizzazione personale.

Il concerto – Mihaileanu si conferma un capace narratore per immagini

Il regista si fa in mezzo ai personaggi, magistralmente interpretati, e ne scova paure e difetti, doti e ambizioni, aggiungendo addirittura una punta di mistero che alla fine si rivela un saldo legame umano, una ritrovata felicità, un’ottimismo senza retorica che pervade come un dolce velo la storia così come la musica dona espressività ed emozione ad un epilogo forse improbabile ma ben costruito e potente.

Come pochi film Il concerto riesce a far piangere e ridere allo stesso tempo regalando due ore di cinema così come dovrebbe essere: divertente, emozionante, impegnato ma soprattutto poetico nella sua semplicità, un difficile equilibrio che Mihaileanu riesce a raggiungere nella sua pienezza.

Presentato nella Selezione Ufficiale fuori concorso a Roma, Il concerto è senza dubbio una delle migliori pellicole viste all’Auditorium nell’anno 2009.

Tra le nuvole recensione del film con George Clooney

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Tra le nuvole recensione del film con George Clooney

Il vincitore della seconda edizione del Festival di Roma, Jason Reitman, si presenta allo stesso pubblico capitolino con Tra le nuvole, una commedia dal gusto vagamente cinico e decisamente disincantato insieme alla super star George Clooney  e a Vera Farmiga, altra vecchia conoscenza del Festival per The Departed.

George Clooney è un uomo che si occupa di licenziare impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da diverse imprese e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua casa più dello squallido monolocale che ha come quartier generale a Oahama. La sua vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo una valigia piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude tutto il suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un progetto di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e l’incontro con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue fondamenta di scapolo impenitente.

Tra le nuvole – Reitman regala un altro film frizzante e divertente

Tra le nuvole cast

Scrivendo magistralmente e dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con leggerezza.

Come già ci ha abituati in passato con Juno e Thank You for Smoking, Reitman costruisce la storia su solide premesse (in genere la presentazione del personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.

Skellig: recensione del film con Tim Roth

Skellig: recensione del film con Tim Roth

È Skellig di David Almond ad aprire invece la sezione sempre molto propositiva di spunti narrativi che vanno oltre il mero intrattenimento per soli piccoli. Anche quest’anno non si smentisce, presentando come prima opera un curioso film, che fa del suo lato fantastico la sfumatura più interessante. Skellig ruota attorno al piccolo Michael, da poco approdato insieme alla propria famiglia in una decadente e pericolante casa.

La trama di Skellig

Motivo del trasloco, la gravidanza della madre, incinta e pronta a regalare a Michael una sorellina. Peccato che la bimba nasca con una rara e pericolosa malformazione al cuore. Michael, combattuto dagli eventi, finisce per scoprire in giardino, all’interno di un vecchio magazzino, uno ’strano uomo’. Sembra un barbone, non riesce ad alzarsi, è sporco, mangia insetti ed ha una ’strana’ schiena. Accudito con amore e passione da Michael, Skelling, questo il suo nome (come al solito un ottimo Tim Roth che col passare degli anni sembra diventare sempre più bravo ad offrire interpretazione degne di nota), finirà per ritrovare le forze, finendo per svelargli il suo incredibile segreto…

Un opera, come anticipato che ha nella sua chiave fantastica la sua migliore peculiarità e come pezzo forte senza dubbio l’interpretazione dei suoi protagonisti, che oltre al Tim Roth mangiatore di insetti, che grazie ad un buono make-up, diventa una presenza scenica a tratti inquietante, e il giovane protagonista Bill Milner che certamente non sfigura, riuscendo talvolta anche ad insidiare lo scettro di re della pellicola ma, per brevi istanti al “mostruoso” Roth.

Il regista dal canto suo forse non riesce  a mantenere in equilibrio stabile fra i due nodi centragli del film Skellig, e pecca anche un pò di inesperienza sul fantastico e il mistero, tirando troppo per le lunghe gli enigmi dietro alla figura di Roth, diventando quasi un estenuante attesa, che a tratti ridimensiona l’opera, forse anche per l’eccessiva durata. Tuttavia, il risultato totale è di un film godibile ad un largo pubblico, che sia disposto a credere al fantastico e che assieme ai protagonisti si faccia trascinare per le vie di una Londra in secondo piano, quasi anonima. Ottimi alcuni riferimenti significanti sulla figura di Tim Roth, degni di approfondimento, che dietro ad esse vi sia celato qualche messaggio subliminale.

Barbarossa: recensione del film con Rutger Hauer

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Barbarossa: recensione del film con Rutger Hauer

Film pretenzioso e costoso, Barbarossa si presenta come una storia forte, epica, soprattutto reale, che promettendo tanto, delude profondamente lo spettatore. Una storia lunga scritta male e raccontata peggio.

La trama di Barbarossa

Quando con un occhio si guarda alla Storia e con l’altro all’intrattenimento cinematografico si fa spesso grande cinema, lo dimostrano i tanti capolavori storici che sono arrivati nelle sale negli ultimi anni. Questa equazione tuttavia non si verifica sempre e purtroppo Martinelli è caduto in pieno nella trappola che si è preparato da solo.

Il film di Renzo Martinelli

L’intreccio è confuso, portato avanti seguendo i singhiozzi di un montaggio apparentemente casuale che non aiuta ad appassionarsi alla storia con tempi morti e momenti risolutivi trattati troppo in fretta, annoiando per i 139 minuti della sua durata. Martinelli si porta dietro l’eredità di regista di videoclip, proponendo un prodotto i cui blocchi narrativi non hanno consequenzialità né producono la giusta armonia che un racconto dovrebbe avere tra le sue parti.

Pur supportato da tecnologie all’avanguardia come la crowd replication (per la prima volta in una produzione italiana), il regista mostra la sua inesperienza a sfruttarne il potenziale espressivo, inficiando la credibilità dell’immagine, come esempio per tutti valga l’utilizzo del digitale per riprodurre il sangue nella battaglia di Legnano: asettici schizzi rossi che partono dalle ferite dei guerrieri per proiettarsi verso lo spettatore, a ricordare gli altrettanto finti schizzi di sangue dei titoli di coda dello snyderiano 300; sarebbe bastato il sangue finto che nella tradizione italiana dell’horror ha espresso sempre bene, seppure in maniera talvolta grottesca, il disgusto e lo scempio dei corpi.

Gli ingenti mezzi messi a disposizione di Martinelli impallidiscono di fronte ad una sceneggiatura cattiva e senz’anima. Il regista cerca di dare un ritmo, ma senza seguire uno spartito mette male l’accento con l’abuso di ralenti che non sono giustificati dalla narrazione.

Eppure buone sono le interpretazioni di Rutger Hauer e F. Murray Abraham a dispetto dei ‘nostri’ attori. La bella Kasia Smutniak, alle prese con un personaggio controverso e complesso, non fa che ripetere gli stessi gesti scarmigliati e confusi per tutto il film e Raz Degan, nella sua stentata interpretazione, sembra l’unico elemento che possediamo per orientarci nel tempo, in quanto pare che il trascorrere degli anni nella storia venga misurato tramite in progressivo grado di disordine dei capelli dell’attore protagonista.

Le musiche di accompagnamento sono anonime, approssimative e senza il respiro epico e poetico che la storia dei ribelli avrebbe meritato. E’ vero, il coraggio andrebbe premiato, poiché Martinelli si dimostra coraggioso scegliendo sempre temi che vanno oltre il contemporaneo panorama delle storie italiane da cinema, né drammi familiari né cine-panettoni quindi, ma purtroppo non mette a frutto l’originalità dell’idea con la realizzazione di un buon prodotto. Barbarossa si potrebbe definire un passo falso, un altro dopo il non entusiasmante Carnera, e se è vero che ‘errarehumanum est, perseverare autem diabolicum’.

Baarìa: recensione del film di Giuseppe Tornatore

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Baarìa: recensione del film di Giuseppe Tornatore

“Noi Torrenuova vogliamo abbracciare il mondo intero, ma abbiamo le braccia troppo corte”. Questa la sintesi finale, che con voce stanca e fiacca proclama Peppino Torrenuova. E per qualcuno questa frase si adatterebbe anche alle ambizioni cinematografiche del regista del film Baarìa. Una cosa è certa, solo un felice matrimonio tra un maestro del cinema come Giuseppe Tornatore e la Musa della Settima Arte poteva dar vita ad un film così. Mezzo secolo di storia sapientemente raccontati da una regia che si trasforma in occhi e da occhi che si fanno cuore pulsante di un fiume di vite, raccontate magnificamente.

Tornatore rivendica una libertà registica che in Italia è difficile trovare, regalandoci una speranza (per il futuro) e un’importante conferma. Sapiente nelle scelte registiche, formidabile nella direzione degli attori, soprattutto i più piccoli.

Convince la modella siciliana Margareth Madè, che in Baarìa vede il suo esordio, più di quanto faccia il bello e dannato Raoul Bova interpretando un giornalista romano. Efficaci e divertenti le interpretazioni di Lo Cascio, Ficarra (un gradino sopra gli altri), Picone, Aldo Baglio, Michele Placido e della strepitosa Lina Sastri in particolare. Qualche legittimo dubbio sulla frequente ed eccessiva presenza del personaggio/macchietta interpretato da Beppe Fiorello (Accatto i dollari! Scangiu Dollari!) eccessivamente cabarettistico.

Il regista dice in molte interviste che Baarìa si tratta del suo film più personale, quello che avrebbe voluto fare dopo i sessant’anni. Ed effettivamente il film ha un po’ il sapore di un “testamento”, come se Tornatore avesse scritto le sue memorie, riassuntive tra l’altro del suo modo di fare cinema, del suo amore per l’immagine, curata e compiacente sino all’esagerazione. Le storie si intrecciano, si annodano e si snodano mentre gli anni passano in questo ottimo film corale, di ampio respiro.

Alcune note di demerito. Innanzitutto il montaggio e la regia di alcune sequenze del film. Disattenzioni e stacchi bruschi disorientano lo spettatore che fatica a trovare il suo posto nella sovrabbondanza di travelling (dolly e carrellate) che filmano la Bagheria ricostruita splendidamente da Mauro Sabatini (in Tunisia). La regia di Tornatore in Baarìa sottolinea l’importanza della scenografia ma a volte calca un po’ troppo la mano. Anche le musiche del maestro Ennio Morricone danno da pensare. Una ridondanza inaspettata, commentano le scene in modo eccessivo, protagoniste anche quando dovrebbero lasciar il posto alle immagini.

Grande attenzione ai particolari, Tornatore sembra dirigere ogni scena, anche la più piccola, con cura e amore paterno, rasentando in più occasioni la perfezione. Una pellicola in stile barocco che trasuda a volte poco sentimento, vero e originale. Come a dire che Baarìa è senza dubbio bellissimo, ma Nuovo Cinema Paradiso è più vero, più sincero. Certamente un ottimo film, da vedere e rivedere, con spunti e invenzioni formidabili, che entra di diritto nella cinquina dei film che rappresenteranno l’Italia nella notte degli Oscar. Troppo lungo per i gusti d’oltreoceano?! Speriamo di no.

Qualcuno ha avuto da ridire sul fatto che un film così apertamente schierato (Peppino il Comunista vede rosso, c’è poco da fare) sia stato prodotto dalla Medusa dell’amatissimo Silvio Berlusconi. A questa gente bisognerebbe far capire che il cinema è anche (o soprattutto?) industria e che vive di bravi imprenditori. In Italia spesso mancano, e i film nostrani troppe volte si portano dietro quell’odore di vecchio e putrido che tanto impedisce loro di varcare i nostri confini.

In definitiva Baarìa è un bellissimo film, assolutamente da vedere. Bagheria filtra i sapori e i dissapori di un’Italia intera, con trovate divertenti e personaggi che fanno la smorfia a certi stereotipi sui siciliani. Senza contare i numerosi omaggi al cinema del passato. Per la sequenza che vede protagonisti Lattuada e Sordi sul set a Villa Palagonia (Bagheria), Tornatore scova il fotografo di scena che lavorò realmente su quel set, così da presentare alla perfezione questo fantastico tuffo nel passato. La regia è amorevole e quasi perfetta, la nostalgia si fa sentire. “Per quello che saremmo potuti essere e non siamo riusciti a diventare”. Il finale è commovente, di quelli del miglior cinema italiano.

Un’altra nota positiva è che la mafia in Baarìa di Tornatore viene accennata ma non le si dà mai troppo spazio, troppa importanza. Come a dire, c’è ma non si vede. Un po’ come in tutta Italia al giorno d’oggi. Rimane un solo dubbio, come sarebbe stato Baarìa se Tornatore lo avesse realizzato fra qualche anno, magari dopo i sessant’anni, come effettivamente desiderava fare?  (Forse ancor più bello….)

Di Ottavio Mussari

District 9: recensione del film con Sharlto Copley

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District 9: recensione del film con Sharlto Copley

Prendi un po’ de “La cosa” di John Carpenter, lo spunto visivi di “Cloverfield” e un po’ della visione Spielberghiana del mondo alieno ed ecco che per magia appare District 9. Ma veniamo a noi e appunto al film. Ambientato nel natio Sudafrica, a Johannesburg, lasciata da Blomkamp all’età di 18 anni per il Canada, District 9 parte come un reportage su un evento ormai cristallizzato: la presenza di una gigantesca nave aliena sospesa sul cielo della capitale sudafricana.

La trama di District 9

Trovate in fin di vita, disidratati e affamati a bordo, centinaia di migliaia di “clandestini” vengono curate e rinchiuse in un ghetto alla periferia della città. Un ghetto vero, sporco e malsano, in cui queste creature insettiformi sopravvivono mangiando cibo per gatti, vittime dei traffici dei boss nigeriani della zona (anche questo basato su una situazione reale a Johannesburg, senza connotazioni razziste). Quando la situazione diventa esplosiva, il governo affida a una corporazione privata, la MNU, il compito di evacuare e bonificare la zona, per spostare gli alieni altrove. Da lì prende le mosse, tra un’intervista e un reportage televisivo, che danno alla storia uno straordinario carattere di film verità nella prima parte (forse l’unico spunto interessante dell’opera), la trama che vede protagonista un ambizioso ma ingenuo dipendente della MNU e un alieno col figlio, determinato a far funzionare la tecnologia che li riporterà alla nave madre e quindi in patria.

Se qualcuno si aspettava più originalità e rivoluzione nel genere Sci-fi, rimarrà un po’ deluso. District 9 per l’appunto pecca di originalità, soprattutto riguardo all’evolversi della storia, troppo convenzionale e più delle volte prevedibile. Chi si aspettava un re-start per il genere Sci-fi che tanta soddisfazione ha dato con film come Alien e Predator deve fare ammenda di fronte ad un film lontano da quelle dimensioni.

Tuttavia, il film contiene degli ottimi spunti registici, che per buona parte del film mantengono alta l’attenzione. L’inizio in stile documentario incuriosisce e al tempo stesso da un tocco sottile ed intrigante alla vicenda, e sotto questo punto di vista il regista si dimostra bravo ad amalgamare i vari pezzi tra il doc e la fiction, riuscendo nell’impresa di tirare fuori un buon prodotto fruibile dal grande pubblico in quella che ha detta di molti, anzi a dette di tutti è la natura del cinema: l’intrattenimento.

In aggiunta c’è anche spazio alla riflessione degli avvenimenti sociali che caratterizzano gran parte della contemporaneità e la sua situazione a dir poco spiacevole su ciò che riguarda la clandestinità, razzismo a cui si vanno ad aggiungere problemi di natura di diversità religiose etc. In definitiva District 9 rappresenta un tentativo sufficiente a riproporre un genere che ha affascinato le menti di molti giovani e che proietta il debuttante Blomkamp verso un futuro assai migliore, sempre che James Cameron con il suo Avatar non si piazzi in mezzo e dica: “ehi sono io il maestro del genere.” Di fronte a ciò nemmeno lo stesso Blomkamp riuscirebbe a contraddirlo, visto che Alien è il suo film preferito.

Ricatto d’amore: recensione del film con Sandra Bullock

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Ricatto d’amore: recensione del film con Sandra Bullock

Un pretesto banale, la scadenza della Green Card, per una commedia romantica fresca e divertente, in pieno stile Made in Usa. Questo è Ricatto d’amore, in originale The Proposal, letteralmente La Proposta.

La trama del film Ricatto d’amore

Sandra Bullock è una donna in carriera severa e feroce, una strega per i suoi sottoposti nella casa editrice. Ryan Reynolds è un giovane assistente, sottomesso e servizievole, che asseconda ogni pretesa della strega Bullock, per realizzare il suo sogno di diventare capo-redattore.

Ricatto d'amore cast

Due persone che sono a stretto contatto i cui rigidi rapporti di lavoro impediscono di conoscersi meglio, fino a che la minaccia per lei di essere espulsa dagli Stati Uniti per la scadenza della sua Green Card, scatena l’imprevisto. Reynolds sarà il prescelto, colui che , con un matrimonio di convenienza, permetterà alla strega cattiva di rimanere in terra USA.

Ovviamente il finale è previsto dall’inizio, e i personaggi sono stereotipati, ma la storia corre via senza pretese e con tanti sorrisi, con una Sandra Bullock in perfetta sintonia con i suoi costumi austeri e in perfetta forma fisica. Elegante e raffinata porta sulle sue spalle gran parte della storia, a dispetto di un Reynolds mono espressivo nonostante le innumerevoli opportunità cinematografiche che gli si stanno offrendo negli ultimi mesi.

Ricatto d’amore è una commedia spiritosa che lascia lo spettatore di buon umore, senza chiedere troppo e restituendo il giusto.

G.I. Joe – La nascita dei Cobra: recensione del film con Channing Tatum

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Stephen Sommers con G.I. Joe – La nascita dei Cobra ci presenta ancora una volta una pellicola d’azione che rispetta le aspettative del pubblico in cerca di intrattenimento senza troppe pretese. Ancora la Hasbro cerca di guadagnare sfruttando il cinema per i suoi leggendari giocattoli, dopo il travolgente successo di Transformers, che , almeno per il primo episodio, ha decisamente più consistenza e valore di questo film.

La storia di G.I. Joe – La nascita dei Cobra è quella dei Joe, una squadra speciale che deve salvare il mondo da un gruppo di cattivi. Niente di nuovo nella forma e nella sostanza, anche se qualche scena ben congegnata riesce ad interessare lo spettatore, vedi la scena dell’attacco a Parigi. I personaggi, quasi tutti volti emergenti del nuovo panorama cinematografico, riesco a convincere, chi più chi meno, nei ruoli loro assegnati, su tutti la bella Rachel Nichols, la rossa Joe. Bello il personaggio di Snake Eyes, interpretato da Ray Park, che ricorda un po’ della malinconia degli X-Men.

G.I. Joe – La nascita dei Cobra, tra la Mummia e Transformers

Sommers si tira dietro un po’ di cast della Mummia, Brendan Fraser e Arnold Vosloo, e combina diversi elementi action e comedy, per creare un film che senza pretese intrattiene, ma non convince e si dimentica presto. Anche visivamente, numerose sono le immagini e le suggestioni che ricordano Transformers, segno che forse le ambizioni di Sommers erano superiori a quelle poi avveratesi.

G.I. Joe – La nascita dei Cobra è un film d’azione che sfrutta la tecnologia spettacolare per realizzare scene ben ritmate ma non destinate a passare in fretta nella storia del cinema e nell’immaginario degli spettatori.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue: recensione del film di

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Harry Potter e il Principe Mezzosangue: recensione del film di

I Mangiamorte attaccano Londra, piombano dal cielo in forma di scie di fumo nero mortifero, attaccando maghi e babbani indiscriminatamente. In disparte, in un piccolo bar della metropolitana londinese, Harry Potter legge la Gazzetta del Profeta e flirta con una bella cameriera, poi alla finestra appare Albus Silente…e Harry viene catapultato verso il suo sesto anno a Hogwarts, e noi con lui. Carico di attese, il sesto episodio di Harry Potter, Harry Potter e il Principe Mezzosangue, mantiene le promesse: più cupo e più divertente degli altri. Evidente il ritorno al timore della sceneggiatura di Steve Kloves che nonostante la complessità del sesto libro, fa un ottimo lavoro di riduzione, mantenendo il senso del film e aggiungendo qua e là qualche efficace modifica al corso degli eventi.

La trama del film

In Harry ha 16 anni, deve affrontare un nuovo anno durante il quale sarà capitano della squadra di Quidditch, dovrà tener testa alla sua nuova popolarità con le ragazze, farà i conti con un nuovo, profondo sentimento che sta crescendo nei confronti della bella Ginny, sorella di Ron, avrà una vera e propria ossessione per il suo nemico Draco Malfoy, si imbatterà in un libro di pozioni, che è appartenuto al ‘Principe Mezzosangue’, ma soprattutto seguirà lezioni private con Silente, che con lui si addentrerà nei ricordi del Signore Oscuro Voldemort, quando era ancora un ragazzino.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue, il film

Ma trasformati sono anche gli inseparabili amici di Harry, il rosso Ron, alle prese con la sua prima ragazza, un’ossessiva biondina tutta bacini e sorrisini frivoli, e Hermione, che si barcamena tra un insistente corteggiatore poco raffinato e la sua inaspettata, incontrollata, gelosia per Ron. Tanto mistero intorno a questa storia: chi è il Principe Mezzosangue? Cosa nasconde il nuovo professore di Pozioni sotto l’apparente cordialità? Cosa è successo alla mano destra di Silente, annerita e morta? Che cosa affligge Draco Malfoy? Interrogativi che troveranno una risposta nel corso del lunghissimo film, ben 150 minuti.

Alan Rickman, Maggie Smith, Rupert Grint, Daniel Radcliffe e Emma Watson in Harry Potter e il principe mezzosangue
Alan Rickman, Maggie Smith, Rupert Grint, Daniel Radcliffe e Emma Watson in Harry Potter e il principe mezzosangue. © 2009 – Warner Bros. All rights reserved.

I toni del racconto in Harry Potter e il Principe Mezzosangue  si dipanano in buon equilibrio tra il serio e il faceto, lasciando molto spazio ai menage tra i ragazzi con gli ormoni in tumulto. Un fotografia affascinante ed efficace, mutevole come i toni del film, accompagna i protagonisti per le aule e i corridoi del castello rendendo l’atmosfera lieve e greve, festosa e macabra. Alla regia, di nuovo David Yates che se aveva fatto storcere il naso per L’Ordine della Fenice, adesso ha preso confidenza con i ritmi potteriani e si dimostra più capace di portare avanti la storia, ma il merito va soprattutto a Kloves, che come detto, ha ottimizzato i contenuti aggiungendo qualcosa. Ottimo lavoro sui personaggi, più articolati, finalmente cresciuti anche a livello professionale. Peccato per il finale che si sgonfia su se stesso e lascia passare sotto silenzio una grandiosa scena finale di battaglia ad Hogwarts.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue è un film più adulto, che mette da parte gli incantesimi e si pone come pre-finale per l’ultimo atto atteso per il 2012. Menzione speciale a tutto il cast, ancora una volta la fucina inglese si mostra la migliore, per quanto riguarda si attori: oltre agli ovviamente bravi Michael Gambon e Alan Rickman, bene anche la new entry Jim Broadbent nei panni del Prof. Horace Lumacorno, ma soprattutto Helena Bonham Carter, mai così adatta e apparentemente a suo agio in un ruolo, la sua Bellatrix è superlativa.

 

Transformers – La vendetta del caduto: recensione del film con Megan Fox

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I presupposti ci sono tutti: i personaggi vincenti, i robot che già conosciamo e quelli nuovi, le relazioni e le situazioni nuove da esplorare, un intreccio che per quanto fantascientifico regge bene in Transformers – La vendetta del caduto. Tuttavia Michael Bay vuole strafare mettendo troppo di tutto e finendo con un risultato appunto affollato e un po’ confusionario, soprattutto alla fine.

La trama di Transformers – La vendetta del caduto

In Transformers – La vendetta del caduto sono passati due anni dall’epocale scontro tra Decepticon e Autobot, il governo degli Stati Uniti ha smantellato il settore 7 e ha istituito una unità speciale, il NEST, per combattere i focolai di Decepticon che faticano ad ammettere la sconfitta del loro leader Megatron, intanto Sam parte per il college, lasciandosi alle spalle dei genitori devastati dall’inevitabile crescita del loro unico figlio, e una fidanzata splendida e innamoratissima, ma inverosimilmente gelosa … Tutto sembra procedere bene a parte un nuovo ed invadente compagno di stanza, ma i guai cominciano quando Sam comincia a vedere strani simboli in cybertroniano e gli attacchi dei Decepticon si moltiplicano

Gli sceneggiatori, i pur bravi Roberto Orci e Alex Kurtzman insieme a Ehren Kruger, non hanno approfittato del fatto che il grosso lavoro di introdurre luoghi e personaggi era già stato fatto nel primo film e che quindi sarebbe stato più semplice per loro portare avanti un plot definito insieme ai tanti piccoli corollari che avrebbero seguito i diversi temi: la guerra vera e propria, i genitori di Sam, il rapporto tra Sam (Shia LaBeouf) e Michaela (Megan Fox) e così via. Il risultato dunque non è dei più esaltanti, soprattutto nella parte iniziale, dove una forzata ricerca della risata spinge i personaggi e soprattutto la madre di Sam, un’eccessiva July White, a scendere nell’imbarazzo generalizzato. Pesanti alcuni dialoghi, a volte prolissi altre volte superflui, a tratti anche un po’ volga rotti, anche per bocca dei robot, così compassati e dignitosi nel primo film.

In scena John Turturro

John Turturro Shia LaBeouf Transformers - La vendetta del caduto
© TM and2009 Dreamworks LLC. and Paramount Pictures. All Rights Reserved.

La seconda parte Transformers – La vendetta del caduto si risolleva con l’entrata in scena di John Turturro, eccezionale nei panni dell’agente Simmons, relegato dal governo a vendere carne dopo lo smantellamento del Settore 7, la sua verve resta intatta nonostante cambi il registro tra una pellicola e l’altra. I moltissimi robot mantengono invece le promesse, sicuramente più umanizzati che antropomorfi, tengono la scena e perfezionano le trasformazioni, la mdp entra nelle loro viscere metalliche e rende lo spettatore partecipe del mutamento, merito soprattutto degli effettoni di cui il film fa uso e abuso e che sono sicuramente perfezionati e migliorati che in Transformers.

Si perdoni il continuo riferimento al primo film, ma è inevitabile, soprattutto quando si va a valutare l’evoluzione dei personaggi: un Sam più maturo e sicuro di sé si affaccia alla vita di college e cerca di mantenere invariati i rapporti con la splendida fidanzata, che dal canto suo non fa propriamente una bella figura, o meglio, è sicuramente un bel vedere, ma decisamente parla troppo e se le avessero fatto dir meno sarebbe stato sicuramente meglio per tutti.

Megan Fox in Transformers - La vendetta del caduto (2009)
© TM and2009 Dreamworks LLC. and Paramount Pictures. All Rights Reserved.

Ancora, i genitori più presenti hanno il loro, seppur breve (meno dei 15 minuti di Warhol), momento di gloria in una piccola ma intensa scena che coinvolge e quasi emoziona alla maniera di Bay. Ma i personaggi più interessanti sono sicuramente i robot: si delinea meglio il rapporto di Sam con il guardiano Bumblebee, amico fedele e a suo modo affettuoso, i Gemelli, decisamente troppo umani; capiamo meglio la natura di Megatron, che lungi dall’essere un villain a tutto tondo sfiora la codardia, forse offuscato dal ben più cattivo Fallen e dagli altri numerosi e terribili, Decepticon, soprattutto il mostruoso Devastator. Ma ancora una volta, su tutti si erge Optimus Prime: oltre a scoprire qualcosa in più delle sue origini, lo vediamo in azione potente e crudele contro il male nella sua incommensurabile umanità, accompagnato ancora dalla poderosa e bellissima colonna sonora di Steve Jablonsky che costella tutto il film di tracce favolose.

In definitiva Transformers – La vendetta del caduto è un bel film fracassone, che a tratti stordisce lo spettatore e che sicuramente perde il confronto con il primo Transformers, e che, come differenza principale, lascia presagire un sicuro sequel per completare la trilogia.

Moonacre – I segreti dell’ultima luna: recensione del film

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Moonacre – I segreti dell’ultima luna: recensione del film

In Moonacre – I segreti dell’ultima luna, la 13enne Maria, cresciuta senza la madre, resta orfana anche del padre, che a dispetto delle apparenze, lascia dietro di sé una lunga serie di debiti che costringeranno la ragazzina a trasferirsi in campagna nella villa dello zio burbero a apparentemente misantropo. L’unica eredità che Maria riceve dal padre, è un grosso libro che racconta la storia dell’incantata valle di Moonacre.

Nel cercare di sciogliere la maledizione che grave sulla valle, Maria farà molti incontri, belli e brutti, e scoprirà il suo importante ruolo nella leggenda. Il film, non privo di spunti interessanti, è un pallido esempio di fantasy che dispiega ogni genere di banalità di genere per dar vita ad una storia un po’ scialba e telefonata. Molteplici i riferimenti a storie ben più famose: il giardino segreto, la bella e la bestia e tanti altri in cui la protagonista attraverso una sorta di viaggio iniziatico compie il suo destino.

Tuttavia Moonacre – I segreti dell’ultima luna resta un abbozzo di storia con personaggi poco approfonditi e intreccio che sta in piedi per mezzo di una storia nella storia. La performance di Dakota Blue Richards, nonostante la sue doti indiscusse, viene messa a dura prova nella versione italiana da un pessimo doppiaggio che ne appiattisce ogni inclinazione vocale, e il fascino di Natascha McElhone, per quanto notevole, non basta a creare un personaggio credibile.

Tristissimo anche il cattivissimo (nell’intenzione del regista) Tim Curry, che sebbene invecchiato e appesantito resta sempre una presenza inquietante, anche se talvolta fine a se stessa. Nota di merito invece ai costumi di Beatrix Aruna Pasztor, un mix di antico e moderno, che, soprattutto negli abiti femminili, trova la sua massima eccellenza.

L’ungherese Gabor Csupo, già regista di Un Ponte per Terabithia, non riesce questa volta a dare un ritmo avvincente alla storia, optando per un racconto classico poco scandito e tutto sommato banale. Belli gli effetti che ci mostrano leoni neri, unicorni e mandrie di cavalli tra le onde, ma dai quali lo spettatore ormai smaliziato non riesce a trarre meraviglia.

Una Notte da Leoni: recensione del film con Bradley Cooper

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Una Notte da Leoni: recensione del film con Bradley Cooper

Bradley Cooper, astro nascente della commedia made in USA, l’ha definito “Memento che incontra Salvate il soldato Ryan!”. E paradossalmente, The Hangover (Il doposbornia), in Italia, Una Notte da Leoni, riesce nell’intento di dare un’idea generale del film, pellicola scatenante ed irriverente che cadenza la comicità più demenziale con una struttura alla Memento appunto che ne consolida la base di racconto ben costruito e raccontato.

Ne Una Notte da Leoni Quattro amici partono per un week end al Las Vegas, per celebrare come si deve l’addio al celibato di uno di loro. Dopo un brindisi per iniziare la serata, ci troviamo direttamente in una suite d’albergo devastata, dove i nostri sono riversati sul pavimento in condizioni di doposbornia pietose, in compagnia di una gallina una tigre, che si scoprirà essere di proprietà di Mike Tyson, e di un neonato battezzato sul momento come Carlos. L’unico problema è che il futuro sposo non si trova e nessuno ricorda nula della notte appena trascorsa. Una Notte da Leoni seguirà i tre improbabili ed esilaranti amici alla ricerca dell’amico perduto con la speranza di ricostruire quello che è successo. Piccoli indizi li porteranno e scoprire luoghi e incontri notturni.

Leggero e irriverente

Una notte da leoni filmUna Notte da Leoni, raccontato con irriverente leggerezza da Todd Phillips, già regista di Starsky e Hutch, è un perfetto esempio di come la commedia riesca ad offrire un divertimento sano e addirittura intelligente quando la storia conduce per mano lo spettatore e presenta personaggi nei quali identificarsi ma dei quali ridere e scandalizzarsi nella più totale assenza di pretenziosità.

Una commedia all’American Way che detta regole di comicità che alcuni dei ‘nostri’ in Penisola dovrebbero imparare. Infatti per quanto alcune trovate possano risultare poco originali e già sentiti, sono inserite con una freschezza e una precisione cadenzata nella storia che aiutano a definirla senza mai abbassare l’attenzione divertita dello spettatore.

Una notte da leoni (2009)
© 2009 Warner Bros. Ent.

Anche l’eterogeneo assortimento dei personaggi contribuisce ad ottenere quel riverbero comico in ogni battuta, in ogni occhiata d’intesa dei tre eroi alla ricerca dello sposo sparito. Oltre al già citato Bradley Cooper ricordiamo Ed Helms e Zach Galifianakis, assolutamente splendidi.

Una volta tornati alle loro vite, i quattro rimarranno amici ma purtroppo per lo spettatore nessuno saprà mai cosa è successo durante quella notte da leoni…meno male che sotto il sedile posteriore della mercedes è rimasta la fotocamera con ricca documentazione!

I love Radio Rock: recensione del film di Richard Curtis

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I love Radio Rock: recensione del film di Richard Curtis

I love Radio Rock non si tratta di un film celebrativo del network romano più conosciuto negli ambienti underground della capitale, ma della radio più trasgressiva nell’Inghilterra degli anni 60, in cui il rock’n’roll spopolava per le strade, ma non sulle radio ufficiali, che potevano trasmetterlo solo per due ore alla settimana. E così nascevano radio pirata che trasmettevano da grosse barche ormeggiate nel Mare del Nord e i deejay erano più popolari delle stesse rockstar.

Sceneggiato e diretto da Richard Curtis, I love Radio Rock è una commedia brillante, ritmato da battute fulminanti e situazioni di puro divertimento, capace di ritrarre in modo essenziale ogni personaggio che anima la vita a bordo della radio pirata. La musica aziona ogni ingranaggio, dalle fulminee storie d’amore consumatesi sulla nave, alle amicizie nate tra un disco e l’altro, alle sfide lanciate tra le star della radio, fino agli sleali meccanismi dei quali il potere si serve per ostacolare la concorrenza dilagante e amorale del rock.

I love Radio Rock è una commedia brillante

Il potere è impersonato in modo incredibile da un Kenneth Branagh che rende il suo personaggio una macchietta di se stesso, uno stereotipo bigotto e puritano rianimato in questo film da scene memorabili (su tutte, l’emozionante cena di Natale in famiglia).

Dall’altra parte c’è la variegata comitiva di deejay che vivono per la musica e con la musica, 24 ore al giorno sulla nave – radio rock, allietati saltuariamente dalla visita di giovani fanciulle disinibite e affascinate dalla vita trasgressiva in mezzo al mare: dal proprietario della radio, un dandy votato alla causa della liberalizzazione dei costumi (Bill Nighy), al Conte, autentico esempio di vita spesa per la musica (un possente Philip Seymour Hoffman), a Gavin, la voce più sensuale del rock inglese (un esaltato Rhys Ifans) fino al giovane Carl (Tom Sturridge), che trova nella nave rockettara il percorso di formazione che ogni adolescente vorrebbe avere.

In I love Radio Rock un plauso al costumista: un tripudio di colori, fantasie optical e accessori assolutamente inutili vestono i corpi dei personaggi rendendoli completamente immersi in un’epoca ormai svanita, ma che ogni volta che torna lascia dietro di sé un senso di nostalgia.

Terminator Salvation: recensione del film con Christian Bale

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Terminator Salvation: recensione del film con Christian Bale

L’attesissimo sequel Terminator Salvation è arrivato nelle sale, promettendo adrenalina spettacolo, soprattutto un approccio più moderno rispetto all’originale, che resta l’indimenticabile primo film.

A volte le promesse non si mantengono, altre volte si, altre volte ancora si esagera e si finisce col portare nelle sale film che risultano fastidiosi. E’, purtroppo, il caso di Terminator Salvation, che lungi dall’essere un film totalmente negativo è troppo immerso nell’universo macchinista che fa di Christian Bale un soldato urlatore e spara-tutto, insulso ed egoista nel suo personaggio di John Connor, che avrebbe meritato un trattamento ben migliore. Ma non diamo la colpa al Christian che invece si impegna diligentemente, com’è suo solito, a portare a termine la missione pur con qualche capriccio di troppo sul set.

Terminator Salvation, il film con Christian Bale

Sam Worthington e Anton Yelchin in Terminator Salvation
Sam Worthington e Anton Yelchin in Terminator Salvation © 2009 Warner Home Video. All rights reserved.

Chi mai incolperemo per aver fatto di uno dei film più attesi della stagione un clamoroso fiasco (non al botteghino…)? Gran parte della colpa è senza dubbio di McG, il regista che dopo un inizio esaltante, vedi il piano sequenza dell’elicottero che precipita con Bale all’interno, si concentra tutto sullo spara spara contro le cattivissime ed attrezzatissimo macchine. Un abbozzo di storia decisamente interessante che crolla su se stesso, senza risparmiare nemmeno il ben costruito personaggio di Sam Worthington, umano meccanico che ruba la scena al povero Bale che già ne Il Cavaliere Oscuro si era fatto offuscare dal talento di Heath Ledger.

Si capisce bene, considerando la travagliata vicenda della sceneggiatura, la richiesta di soccorso inviata a Jonathan Nolan, per risollevare le sorti del film. Il buon Jonathan arriva sul set, consola l’amico Chris e mette mano alla sceneggiatura modificandone l’ultima parte. Il finale infatti si salva parzialmente anche se, come per tutto il film, resta quel qualcosa di inespresso che una storia comunque bella poteva dare. Bello il cameo di Shwarzy, ovviamente ricostruito in digitale, come è ‘espressivo’ lui nel ruolo di macchina mortifera nessuno! Risultato complessivo appena sufficiente, si salva infatti l’aspetto visivo del film…ma dopotutto non si tratta di un quadro, e una fotografia azzeccata non solleva un film mediocre.

Martyrs: recensione del film Horror

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Martyrs: recensione del film Horror

In Martyrs una bambina spaventata e ferita, corre urlando lungo una strada di periferia. Quella bambina, accolta in un centro per l’infanzia, continua ad essere sempre spaventata e ad avere spaventose visioni. Dopo qualche anno, una famiglia apparentemente tranquilla viene trucidata da due giovani donne.

È questo l’inizio di Martyrs, che si aggiunge al nutrito filone horror-splatter che imperversa nelle sale cinematografiche contemporanee. Un film che basato su una trama ai limiti del possibile, mette a nudo un maldestro tentativo da dare un fondo di misticismo ad un film che rimane tuttavia ancorato al genere senza offrire nulla più che intrattenimento, il quale in verità è molto relativo, considerando che a metà film, se non prima, la maggior parte delle persone in sala ha lasciato vuota la propria poltrona.

La trama di Martyrs

Francia, 16 ottobre 1971. Lucie Jurin, bambina scomparsa da un anno, viene ritrovata lungo una strada ferita e sconvolta a causa di pesanti torture fisiche e psicologiche. Così, per far luce su cosa le sia successo, viene interrogata Anna Assaoui, un’altra piccola ospite dell’istituto in cui è stata ricoverata Lucie, che però sostiene che l’amica, che intanto è tormentata dalle visioni di una donna morta che la ferisce, non racconti mai nulla.

Francia, 15 anni dopo. Lucie, convinta che i coniugi Belfond siano i suoi aguzzini, irrompe in casa loro e uccide a colpi di fucile l’intera famiglia (padre, madre e due figli) per poi chiamare l’amica di sempre, Anna, e, infine, venir aggredita dalla “morta” che la tormenta. Quella notte, mentre in un sogno di Lucie si vede lei bambina sfuggire alla sua aguzzina senza però liberare un’altra prigioniera molto simile alla “morta” che la perseguita, Anna, scoperto che Gabrielle Belfond non è morta così e credendo che Lucie si sbagli sui Belfond, cerca di salvarla; ciò però scatena l’ira di Lucie che, svegliatasi, uccide Gabrielle per poi venir nuovamente aggredita dalla morta e infine, capito che non potrà mai liberarsi di lei, che altri non è che la manifestazione del suo senso di colpa, procede con l’uccidersi tagliandosi la gola con un rasoio davanti ad Anna.

La mattina dopo però si scopre che Lucie non si sbagliava sui Belfond: infatti Anna trova in casa un passaggio segreto che conduce a un laboratorio sotterraneo con una botola che conduce a una prigione in cui è rinchiusa una giovane con segni di una feroce tortura. Anna libera la giovane e la porta al piano di sopra dove però, ridotta alla follia dalle sevizie e dalla prigionia, inizia a ferirsi con un coltello finché un gruppo di soldati irrompe in casa, uccide la giovane e, dopo aver ripulito la scena del crimine, trascina Anna nel seminterrato. Qui, Anna, riceve la visita di un’anziana signora, Mademoiselle, che, dopo averle mostrato foto di donne agonizzanti per le tortura ma ancora vive, le spiega che la sua organizzazione tortura persone al fine di creare martiri – persone trascese, cioè vive ma con la mente nell’aldilà – cosicché, presi dall’estasi, rivelino cosa c’è dopo la morte ma che, finora, è riuscita solo a creare delle vittime che si rifuggono nella follia e nelle allucinazioni (es.: la morta di Lucie). È così che Mademoiselle, convinta che i soggetti migliori per il martirio siano le giovani donne, fa incatenare e torturare Anna.

In effetti, col tempo Anna smette di avere paura e infine, dopo che è stata spellata viva (tranne il viso), si vede nei suoi occhi l’espressione tanto agognata da Mademoiselle: l’estasi del martirio. Avvisata dell’accaduto Mademoiselle si precipita da Anna che le rivela cosa vede così la donna, dopo aver convocato i membri dell’associazione per dir loro cosa ha visto Anna, che è ancora viva ma non parla più, si suicida sparandosi in bocca e portandosi il segreto con sé.

martire: nome, aggettivo; dal greco “marturos”: testimone

L’orrore in Martyrs

Presentato al Festival Internazionale del film di Roma nella sezione Extra curata da Mario Sesti, Martyrs presenta in questo la sua unica nota positiva: un film di genere horror splatter presentato ad un festival. Tuttavia si tratta del contesto e non del film, il quale invece a detta degli esperti del genere, non è assolutamente all’altezza dei primi due Saw o di The Ring. Deludente.

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