Trai titoli più
interessanti della Festa del
Cinema di Roma, fa capolino Sanctuary,
opera seconda di Zachary Wigon. Sono
scrigni silenziosi le pareti degli hotel. Con il loro intonaco più
o meno colorato, si ergono attorno a noi assorbendo ogni respiro,
percependo ogni emozione, facendosi custodi di segreti
inconfessabili, o momenti passeggeri. Tra le mura degli hotel dei
corpi si incontrano, altri si lasciano; le bocche si baciano, o i
cuori si spezzano.
Le mura della stanza di
hotel che accoglie
Rebecca e Hal in Sanctuary sono molto più
che sguardi discreti che osservano il gioco al massacro compiuto
dai due: sono sipari teatrali di un kammerspiel soffocante,
quinte imprigionanti di un palcoscenico dove nulla è come sembra, e
tutto appare per quel che non è. Entro i loro confini diventa quasi
impossibile stabilire il ruolo affidato e svolto dai due
protagonisti, entrambi schiavi di un continuo gioco all’inganno in
cui nessuno ne esce vincitore, ma solo prigioniero. Prigioniero
delle proprie maschere; prigioniero della propria
performance perpetuamente mutabile e in evoluzione.
Prigioniero dell’altro e di se stesso.
Sanctuary, la
trama
Interno: suite di un
albergo di lusso. Qui si incontrano un uomo sulla trentina e una
giovane avvocatessa chiamata per delle verifiche burocratiche. Lui
si chiama Hal Porterfield, erede di una catena di alberghi e
prossimo amministratore delegato di un impero milionario a seguito
della orte del padre. Lei è Rebecca, giovane aggressiva e
misteriosa, che nella vita non svolge il ruolo di avvocatessa,
bensì di dominatrice assunta dallo stesso Hal per testare la
propria tenuta psicologica sul lavoro. In un continuo gioco di
realtà e finzione, sarà difficile per entrambi – soprattutto per
Rebecca – scindere se stessi dal proprio personaggio, cambiando
continuamente i rapporti di forza fra cliente e padrone, dominatore
e dominato. Chi la spunterà?
Non c’è nulla di lineare
in Sanctuary. Nel film di Zachary
Wigon, il rapporto di dominio si stacca della propria
tangibilità fisica per elevarsi a una lotta psicologica dove ogni
pensiero viene ribaltato, ogni parola messa in discussione, per
creare nuovi pensieri, nuove realtà mentali in cui muoversi e
recitare nuove parti. Ne consegue un labirinto senza fine, dai
percorsi intrecciati e complicati, lungo i quali lo spettatore si
ritrova a vagare senza meta. Sottratto di ogni direzioni con cui
orientarsi, le uniche ancore a cui può affidarsi sono corpi di due
giovani che si attraggono e respingono, abbracciano e attaccano. Un
movimento continuo che destabilizza la visione, scaturendo un senso
di nausea per un’incapacità di comprensione di un rapporto
difficile da cogliere nel contesto logico e sentimentale. Rebecca e
Hal sono colti nei loto tentativi reciproci di dominio fisico e
psicologico, mentre tutto attorno crolla, perde le proprie base
razionali, lasciando in bocca un retrogusto di visione
perturbante.
Micce esplosive
È un santuario che di
sacro ha ben poco quello eretto da Wigon: a muoversi silente tra
gli inframezzi dei propri raccordi è adesso un effetto straniante
pronto a riflettersi e influenzare ogni singolo elemento in campo.
E se a dominare questo inafferrabile costrutto visivo è
un’irrequietezza sia del corpo, che della mente, a orchestrare
questa montagna russa perpetuamente in azione, non poteva essere
che una regia ancora più disorientante e mutabile. Da primi piani
affidati a grandangoli che distorcono i volti, tramutandoli in
maschere dell’angoscia, a carrellate improvvise, passando per
panoramiche a 360°, la macchina da presa di Wigon enfatizza ogni
senso di perdita razionale, traducendo visivamente due anime
fragili, incapaci di comprendere il proprio volere affidando alle
fragilità dell’altro un senso di rivalsa e fisico predominio.
Sarà nel momento dei
dialoghi, in quella creazione di nuovi contesti in cui inserirsi
con maschere nuove e sempre uguali, che la macchina da presa si
cristallizza mettendosi in pausa: immobile, lascia che il processo
di creazione e reciproco influenzamento mentale faccia il proprio
corso, ferma nell’attesa spasmodica di una miccia pronta di nuovo a
esplodere, dando vita a un ulteriore gioco al massacro psicologico,
tra recriminazioni, ricatti e bugie.
Un gioco al
massacro
“Dimmi che per te è
importante. Che non puoi viverne senza”. È un ritornello
ridondante, una cantilena ripetuta da entrambi i protagonisti di
Sanctuary, questa, una nenia recitata più per
autoconvincersi che qualcosa per cui vale la pena vivere esista per
davvero, che per pura asserzione. Nel microcosmo alberghiero di Hal
e Rebecca nulla pare valere davvero. Che siano 6 milioni di
dollari, un orologio prezioso, o una videocamera da scovare, la
posta in gioco per questi due personaggi cambia perpetuamente al
mutare del ricatto, sintomo che la vera mancanza per loro è da
ritrovarsi più profondamente nei meandri di anime incomprese e
incapaci di amare, che nella materialità di oggetti da distruggere.
E così, nell’arco di un solo spazio, quelli che si attaccano,
stuzzicano e uniscono, sono i corpi di mille maschere e diverse
personalità.
Una galleria psicotica
racchiusa nella cornice di due fisicità opposte, tra chi vuole
dominare e chi si lascia manipolare. Rebecca e Hal sono lo Yin e lo
Yang di una lotta continua, due pianeti che collidono senza
congiungersi mai. Ciò che rimane da questo conflitto di maschere
che cadono e altre che ritornano, è la perdita dell’umanità a
favore di un istinto animalesco misto a tossica interdipendenza.
Così come non possono fare a meno l’uno del potere fisico (ma anche
economico) dell’altra, Rebecca e Hal ricercano le fragilità altrui,
le sfruttano, per intelaiare una rete succuba di interdipendenza in
cui, tra stanze distrutte, e giochi mentali, tutto viene sconvolto
in una vertigine visiva lasciata scorrere lungo associazioni
mentali, e fotografie rosso fuoco, o blu glaciale.
Una, nessuna, centomila
maschere
In un mondo che tutto
cambia all’esternazione di parole che creano con fare divino, non
poteva esserci interprete migliore di
Margaret Qualley per dar vita all’ipnotica, e
imprevedibile, Rebecca. Il volto dell’attrice è pura argilla da
modellare sulla forza di mille espressioni. È una mimica
volutamente caricata, la sua, che risponde in maniera coerente a un
universo cangiante e mai afferrabile come quello di
Sanctuary. Che sia l’imitazione del padre di Hal,
o la declamazione del giuramento alla bandiera americano, la sua
Rebecca è uno, nessuno e centomila sfumature di donna. La
modulazione della voce è, infatti, un ponte privilegiato attraverso
cui lasciar trasparire mille e altre personalità, facendo della
Qualley un’intensa presta-corpo di identità sfuggevoli e pensieri
complessi. Quello messo in campo dalla donna è un rifiuto netto di
mostrarsi statica e fissa nei confini di un determinato carattere;
una volontà che si ripercuote anche nel proprio corpo flessibile e
dinamico, perennemente in movimento come la sua mente in
elucubrazione.
Rebecca è, insomma, uno
tsunami inatteso pronto a ingoiare la terra ferma di un Hal
imprigionato in un’insicurezza che lo rende perfetta vittima del
gioco al dominio della donna, e preda manipolabile bloccata
sull’agire. È solo nel momento di vero terrore, preso dall’angoscia
di mostrarsi nelle forme delle proprie fobie e trasgressioni, che
Hal si tramuta in un fuoco che tutto arde e distrugge: ma le sue
fiamme sono facilmente domate dalle onde di
Rebecca, e così quell’incendio personale si
spegnerà ben presto all’ombra dell’ennesimo ricatto. Quella che
vive tra Hal e Rebecca è pertanto una costruzione psicologica dai
tratti dicotomici non solo ben delineata dallo sceneggiatore Micah
Bloomberg, ma soprattutto restituita in maniera impeccabile dai due
attori che si fanno riflesso speculare di un’altra,
indimenticabile, coppia del genere thriller come Laurence Olivier e
Joan Fontaine nel capolavoro di Alfred Hitchcock,
Rebecca.
Tanto nell’opera
hitchcockiana, che in quella delineata da Bloomberg in
Sanctuary, il potere va a braccetto con
l’ingenuità e la manipolazione, in una danza eterna che tutto
prende e decostruisce, fino all’esasperazione, fino alla nausea,
fino al dominio della mente e il soggiogamento del
corpo.