Cresce l’attesa per l’arrivo della
nuova miniserie Neflix Marco Polo che
vedrà protagonisti i due attori italiani Pierfrancesco Favino e
Lorenzo Richelmy. Ebbene oggi il network ha diffuso una featurette
dello show:
Il contenuto arriva
da Playstation, altro mezzo con la quale sarà possibile vedere la
serie che avrà una prima stagione di dieci episodi.
Richelmy sarà Marco Polo, il
celebre viaggiatore e mercante italiano vissuto tra il XIII ed il
XIV secolo, autore de “Il Milione” e noto per il
suo viaggio in Asia attraverso la via della seta. Nel cast dello
show creato da John Fusco e diretto nei
primi due episodi da Joachim
Rønning e Espen
Sandberg anche Benedict Wong, Zhu
Zhu, Joan Chen.
Arriva da un articolo dell’Hollywood
Reporter la notizia che tutti paventavano o che aspettavano
(a seconda dei casi) Marco Muller prima donna’ del Festival di
Venezia sarà nominato Direttore Artistico del Festival, almeno
secondo la famosa rivista americana.
Sembra cheMarco Muller, dopo aver condotto
per tantissimi anni il Festival di Venezia, sia pronto per passare
alla Capitale, a dispetto di quello che aveva annunciato come un
ritiro al nord per il nascente
Marco Giallini –
Anche se calca i palcoscenici e compare sul grande e piccolo
schermo da più di un ventennio, solo ultimamente ha ricevuto i
riconoscimenti che merita, per via di una critica forse distratta e
dei progetti un po’ defilati cui ha spesso partecipato.
Molti lo conoscono come ottimo
“caratterista”, avendolo visto al fianco di colleghi come
Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino,
Sergio Castellitto e Carlo Verdone –
gli ultimi due lo hanno anche diretto – ma il termine gli sta
davvero stretto, perché in queste collaborazioni non si limita a
supportare, anzi riesce con tale efficacia a ritagliarsi uno spazio
autonomo, che i suoi personaggi restano impressi nella mente dello
spettatore quanto quelli interpretati dai colleghi. Qualche
esempio? L’agente immobiliare e gigolò Domenico Segato in
Posti in Piedi in Paradiso, il fratello
cocainomane di Verdone in Io, loro e
Lara, o, per tornare agli inizi sul grande schermo,
il delinquente Maurizio, degno compare di Valerio
Mastandrea ne L’odore della notte, o
ancora, il padre infantile, pazzo per le donne ne La bellezza del
somaro. Il primo vero successo, però, è arrivato in
tv, grazie alla partecipazione alla serie Romanzo
Criminale, in cui ha vestito i panni del Terribile,
riscuotendo un grande sèguito. Il 2012 è stato per lui l’anno della
consacrazione – Ciack d’oro come personaggio cinematografico
dell’anno – dovuta non solo alla già citata e spassosa
interpretazione di Segato, ma anche al complesso ruolo del
poliziotto Mazinga in ACAB – All cops are
bastards, per i quali è stato premiato col Nastro
d’Argento ed ha ottenuto la nomination al David di Donatello.
Perciò, se ancora non lo conoscete, o non sapete il suo nome, oggi
non avete più scusanti.
Stiamo parlando di
Marco Giallini: attore ormai di lungo corso e
d’indubbio talento, lo si apprezza, oltre che per i connotati
estremamente cinematografici – il viso di chi ha intensamente
vissuto, lo sguardo all’occorrenza cinico, con occhi a fessura,
l’andatura dinoccolata, stile vecchio western – per la versatilità
che gli permette di dare corpo a oscuri criminali o delinquentelli
di bassa lega, così come a poliziotti o commissari, uomini beffati
dal destino o da scelte sbagliate; ma anche di stupire, come ha
fatto negli ultimi anni, con una straordinaria capacità di
rappresentare comicamente, svelandola, quell’Italia un po’ cinica,
un po’ cialtrona, che insegue il miraggio della vita facile, che
cerca scorciatoie, per ritrovarsi poi sistematicamente disillusa ad
arrabattarsi in una difficile realtà quotidiana, a rischio di
perdere perfino la propria dignità.
È il 4 aprile del ’63 quando
Marco Giallini nasce in un quartiere popolare di
Roma lungo la via Nomentana, dove vive tutt’ora e dove gli amici,
fin da ragazzo, lo chiamano Giallo. Nasce in una famiglia operaia,
il padre lavora alla fornace e ha la passione per il cinema e il
teatro, che influenzerà fortemente il figlio Marco. L’attore in
alcune recenti interviste ha parlato molto di quest’influenza,
raccontando aneddoti come quello che lo vuole bambino assieme al
padre ad assistere al set di un film di Blasetti, o quello in cui
il genitore rischiò l’incidente in moto – altra passione che
Giallini ha ereditato – pur di andare a stringere la mano ad Amedeo
Nazzari, che aveva visto passare. A 17 anni va a teatro con la
famiglia a vedere Enrico IV e decide che
farà l’attore. Ma da lì a realizzare il suo sogno passerà tempo e
occorrerà impegno e costanza per mettere a frutto le doti naturali
di Giallini. Fin da ragazzo, coltiva anche la sua altra grande
passione: la musica, il rock in particolare, che per lui conta
come, e forse più del cinema. Nell’ ’81 forma un gruppo assieme ad
alcuni amici: i Monitors. Ma il suo destino è quello di stare sul
palco in un altro modo. Tutt’ora, però, suona il basso, ha una
sterminata collezione di vinili e cd – se siete curiosi potete
affacciarvi sul suo sito e troverete alcuni tra i suoi brani e
dischi preferiti – ha partecipato a diversi video musicali (di
Frankie HI NRG, Daniele Silvestri, Marina Rei, Max
Pezzali e da ultimo Duke Montana).
Si è anche prodotto in un dj set assieme a Valerio
Mastandrea.
Tornando agli inizi in fatto di
recitazione, invece, la sua formazione parte dal teatro. È il 1985
quando frequenta la Scuola di teatro “La Scaletta” a Roma, che
inaugura la sua formazione accademica. Nel frattempo però, realista
e instancabile lavoratore, resta coi piedi ben piantati a terra e
lavora come imbianchino e scaricatore di bibite. Ancora oggi
rivendica quest’esperienza decennale da operaio, così come il suo
legame con il quartiere, gli amici e la vita “di strada”. Negli
stessi anni conosce quella che sarebbe diventata la compagna di una
vita, Loredana, con cui avrà due figli, Diego e Rocco.
Esordisce sul palcoscenico
nell’‘88, diretto da Ennio Coltorti, poi sarà la volta
dell’Adelchi di Arnoldo Foà (‘93), con cui
lavorerà ancora l’anno successivo. Nel ‘95 inizia la sua
collaborazione con Angelo Orlando, che lo vuole sia per il suo
spettacolo Messico e nuvole, che per il suo primo
film da regista, L’anno prossimo vado a letto alle
dieci. Così Giallini approda al grande schermo. È di nuovo
in teatro con Orlando nel ’96. Mentre nel ’98 ha un’occasione
insperata: Marco Risi lo nota a teatro e lo
inserisce in un cast con Monica
Bellucci, Alessandro Haber, Giorgio Tirabassi,
Ricky Memphis per comporre un affresco corale grottesco
sulle miserie italiane, L’ultimo Capodanno. Il
film non è un grande successo di pubblico, ma per Giallini è
comunque un’importante chance che dà buoni risultati personali. A
proposito, l’attore ha ricordato: “Marco Risi mi ha salvato la
vita. (…) Non credevo che avrei più fatto cinema, mi sarei dato
solo al teatro” (e invece “incassa” l’apprezzamento di
Vittorio Gassman). Così insiste, e lo stesso anno, offre un’ottima
interpretazione ne L’odore della notte di
Claudio Caligari, tra le tante accanto al collega
e amico Mastadrea. Il film, ispirato alle reali vicende di una
banda di rapinatori che prese di mira la ricca borghesia romana sul
finire degli anni ’70, sbarca pure a Venezia fuori concorso, e per
questo è, tra i lavori giovanili, quello rimasto più nella memoria
del pubblico. Sempre con Valerio Mastandrea,
Giallini è il coprotagonista di Barbara, di nuovo
sotto la guida di Angelo Orlando. Comicissima e surreale pellicola
d’impostazione teatrale, imperniata sul gioco di contrapposizione
tra i caratteri di due amici, Aldo e Pino, interpretati dai due
attori romani, messi a dura prova dall’attesa infinita di una
fantomatica Barbara, ammanettati a un letto, mentre intorno a loro
si avvicendano strampalati personaggi. Anche questo non sarà un
successo, ma piuttosto una di quelle chicche che, se viste, non si
dimenticano.
Marco Giallini: da esperto
caratterista a personaggio dell’anno
Il nuovo millennio si apre con la
partecipazione al pluripremiato esordio cinematografico di
Alex Infascelli, Almost Blue,
tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Lucarelli.
Qui l’attore è un commissario, al fianco di Lorenza
Indovina, Claudio Santamaria e Rolando
Ravello. L’anno successivo, un altro esordiente,
Nicola Rondolino, lo chiama come protagonista
assieme a Valerio Binasco del suo noir Tre punto
sei, in cui Giallini veste ancora i panni del delinquente.
Nel 2002 partecipa al primo lungometraggio di Francesco
Falaschi, che lo vuole impegnato in una commedia a quattro
con Cecilia Dazzi, Elda Alvigini e Pierfrancesco Favino,
che avrà l’occasione di rincontrare su diversi set. Fin qui,
dunque, pellicole anche riuscite, ma piuttosto di nicchia, che non
contribuiscono al riconoscimento esteso del talento di questo
attore valido e instancabile. Ha cominciato, infatti, a impegnarsi
già da alcuni anni anche in tv, dove prende parte al film diretto
da Antonello Grimaldi, Gli insoliti
ignoti. Come s’intuisce dal titolo, che omaggia il
capolavoro di Monicelli, il film tratta di un furto: quello di un
quadro, organizzato da Cosimo e Ruggero (la coppia
Mastandrea-Giallini) con l’aiuto della moglie di Cosimo, Marisa
(Carlotta Natoli), che lavora proprio al museo in cui il quadro è
custodito. Giallini e Mastandrea ben caratterizzano le figure di
questi due ladri dal volto umano, delinquenti improvvisati, forse
per necessità, o forse piuttosto, per provare il brivido di
riuscire in un’impresa che a prima vista sembra impossibile. È
proprio questa umanità che colpisce, avvicina e fa identificare lo
spettatore, quella che li convincerà, alla fine, a fare “la cosa
giusta”.
Al cinema, Giallini
ritrova Alex Infascelli, che lo dirige nella sua
opera seconda Il siero della vanità (2004). Ma
questo è anche l’anno di Non ti muovere, che porta
Giallini nei territori di un cinema d’autore più universalmente
riconosciuto. Sergio
Castellitto gli offre infatti la parte del suo
migliore amico, Manlio, nel film tratto dal romanzo di
Margaret Mazzantini, che vede protagonisti lo
stesso Sergio Castellitto e Penélope Cruz. Nel 2005
è in Amatemi di Renato De Maria,
con Isabella Ferrari. Il 2006 porta l’occasione di
lavorare con Paolo
Sorrentino, che allora è al suo terzo lavoro, ma già
si è fatto apprezzare come esponente della rinascita
cinematografica italiana. Giallini entra così a far parte del cast
de L’amico di famiglia nel ruolo di Attanasio.
Il nostro attore non disdegna però
altre incursioni in tv. In coppia con Mastandrea
dà vita alla divertente miniserie, Buttafuori di
Giacomo Ciarrapico, in onda sulla Rai. I due lavorano alla
discoteca UFO e ogni sera sono di fronte a situazioni nuove, che
trasformano in gag esilaranti innescando riflessioni, mostrando
debolezze, e filosofeggiando (soprattutto il personaggio di
Giallini, Sergej) con un lessico tutto loro e un misto di realismo
e nonsense. L’esperimento dura poco ma è interessante e diventa col
tempo un vero cult. L’anno dopo, Giallini è sotto gli occhi del
grande pubblico con una fiction più mainstream. In
Medicina generale, infatti, all’attore romano è
affidato il ruolo di un medico senza tanti scrupoli, che sbaglia –
esercita senza averne il titolo – che non è tutto d’un pezzo, ma
capisce i suoi errori e li paga, riscattandosi anche con una
profonda umanità, un forte senso dell’amicizia e della lealtà.
L’attore lo caratterizza al meglio.
Ed è sempre dalla televisione che
viene, come ha ricordato lo stesso attore, la svolta della sua
carriera. Con la serie tv Romanzo criminale, in
cui è di nuovo un duro criminale, un truce Terribile (dal 2008 al
2010), che impersona in modo spontaneo e verace, coadiuvato da un
invidiabile physique du role, Giallini diviene noto al grande
pubblico. Complice anche la rete, dove la scena della sua dipartita
è tra le più cliccate. Nella serie diretta da Stefano
Sollima, il Terribbile è senz’altro tra i personaggi più
riusciti, più credibili, che riesce a rendere vivo e vibrante
quell’affresco di genere per altri versi un po’ troppo facile e
televisivo. Ciò si deve largamente allo spessore, alla capacità
espressiva a tutto tondo che un attore di lunga esperienza e
indiscussa bravura come Giallini ha saputo dare al ruolo. La
popolarità arriva meritata e forse, ormai, inaspettata.
Partecipa anche a due
stagioni de La nuova squadra, ma soprattutto,
torna al cinema, dove si fa apprezzare dal pubblico e finalmente
anche dalla critica per alcuni ruoli comici, in cui mostra una
straordinaria abilità nel dare coloriture vivide, accenti
estrosamente geniali a personaggi che rappresentano, ciascuno con
le proprie peculiarità e sfaccettature, italiani mediocri,
ipocriti, bugiardi, fedifraghi, approfittatori, vigliacchi, ma
anche, all’occorrenza, di una sarcastica e disarmante franchezza.
Col suo estro d’attore, Giallini riesce a far ridere e sorridere lo
spettatore, rendendo i suoi personaggi perfino simpatici.
È il 2009 infatti, quando un altro
romano doc, un pilastro del cinema nostrano come Carlo
Verdone, decide di sfruttare il suo talento comico in
Io, loro e Lara, ed è per molti una rivelazione.
“E’stato un film che ha cambiato la mia vita
professionale”, ha dichiarato Giallini in un’intervista.
“Carlo mi vedeva nei film in cui facevo il duro, il criminale,
ma secondo lui avevo anche delle potenzialità comiche”.
Verdone, qui attore e regista, affida a Giallini il ruolo di un
personaggio sopra le righe: suo fratello, il cocainomane Luigi
Mascolo, che lavora in banca, traffica in borsa, ipocrita e assai
attaccato al patrimonio dell’anziano padre. Non meno ipocrita si
rivela la sorella Beatrice/Anna Bonaiuto, mentre Verdone stesso
interpreta il fratello sacerdote, quello più assennato, dai sani
princìpi che, tornato dall’Africa, sperava di trovare in famiglia
accoglienza, aiuto, sostegno, mentre sarà lui a doverli dare per
riportare un po’ di stabilità in una situazione fuori controllo.
Per il ruolo di Luigi, Giallini riceve la sua prima candidatura ai
David di Donatello e ai Nastri
d’Argento e accresce la sua popolarità presso il grande
pubblico.
L’anno successivo è nuovamente
diretto da
Sergio Castellitto ne La bellezza del
somaro, commedia corale che pone al centro un’acuta
riflessione sui genitori di oggi. I protagonisti sono tutti, o
quasi, alle prese con figli adolescenti coi quali non sanno come
porsi, inadeguati al proprio ruolo, assorbiti dai propri problemi.
Amici, più che genitori, forse perché rifiutano lo scorrere del
tempo, l’idea di invecchiare. Il personaggio interpretato da
Giallini non può che essere anch’egli un padre manifestamente
inadeguato: infantile fino all’estremo, impazzisce dietro a ogni
donna, a volte imbarazzante perfino per gli amici, nel migliore dei
casi ininfluente per il figlio. È però anche l’amico simpaticone,
sguaiato, ridanciano, che non si perde mai d’animo, pur sapendo di
non essere il massimo, né come padre, né come uomo. Altra
interpretazione portata a casa con successo (memorabile la sua
entrata in scena col quadro di Courbet, o la rassegnazione con cui
pronuncia la domanda, quasi retorica, rivolta al figlio: “So’
stato un padre de merda?”). Un altro passo verso il ruolo
cinematografico che gli darà maggior successo.
Proprio nel momento forse più duro
e difficile della sua vita, quello in cui perde la moglie Loredana,
c’è il lavoro, ci sono i due figli di tredici e sei anni, oltre a
una dura scorza, ad aiutarlo a ripartire, ad andare avanti. Carlo
Verdone lo ha chiamato di nuovo. Stavolta il regista lo vuole
assieme a Pierfrancesco Favino, Micaela Ramazzotti, e a sé stesso,
come protagonista di quella che a oggi è l’ultima fatica
dell’attore e regista romano: Posti in piedi in
Paradiso. È così che nasce una delle interpretazioni più
brillanti della carriera di Giallini. Verdone, Favino e Giallini
sono tre padri in difficoltà: alle prese con una vita precaria,
economicamente e socialmente, separati, ma ciascuno con una
famiglia da mantenere, che decidono di unire le loro poche forze
per cercare di cavarsela. Il film rispecchia molto bene, anche
mettendola in burla, la realtà italiana degli ultimi anni, dove
l’arte di arrangiarsi sembra essere tornata d’estrema attualità.
Favino è un critico cinematografico, cacciato dal giornale in cui
lavorava per via di una relazione con la moglie del suo capo.
Verdone è un ex produttore
discografico, ha un negozio di dischi e memorabilia che rischia di
chiudere e che gli fa anche da casa. Ma il personaggio di
Domenico Segato è quello che più spicca, il più estremo, eppure
realistico, il più sfrontato e irresistibilmente comico nella sua
tragicità: un agente immobiliare col vizio del gioco, che per
arrotondare fa il gigolò di facoltose signore in età, è separato
dalla moglie (o meglio, dalle mogli) e ha diversi figli, della più
piccola neppure ricorda il nome. Per lui ipocrisia e falsità sono
all’ordine del giorno (spassosissima in proposito, tra le tante
scene, la telefonata iniziale sulla barca). Per guadagnare farebbe
di tutto, anche rischiare la salute col viagra, perché “vacce
te co’ mi nonna, altro che il viagra, er plutonio te ce
vorebbe!”, o perfino rubare. Conduce una vita assurda e
strapalata, che per lui è la normalità. Giallini lo impersona
egregiamente, con una disinvoltura e una naturalezza estreme. Il
film riscuote uno straordinario successo di critica e pubblico, con
particolari lodi proprio all’interpretazione del nostro attore. Per
questo lavoro e per un altro dello stesso anno ma di tutt’altro
tenore, ovvero ACAB – All cops are bastards,
riceve la sua seconda nomination al David ed ottiene un meritato
riconoscimento col Nastro d’Argento. Nel riceverlo, ha l’occasione
di ricordare come gli siano sempre piaciuti sia da spettatore che
da attore, i ruoli da duro ma anche quelli comici, e di ringraziare
Verdone e Sollima per aver portato finalmente a conoscenza dei più
il suo eclettico talento.
Di tutt’altro tenore rispetto a
Posti in piedi è infatti ACAB di
Stefano Sollima – al suo esordio nel cinema, ma
reduce dal successo televisivo della serie Romanzo
criminale. È un film duro, di denuncia e riflessione
su un tema caldo dei nostri tempi: il ruolo delle forze dell’ordine
nella gestione dell’ordine pubblico e la deriva violenta che la
nostra società sta subendo da più parti. Qui, infatti, chi
dovrebbe arginarla la alimenta, diventando a sua volta parte di
essa. Ma il film, tratto dal libro di Carlo Bonini, al contrario di
ciò che si può pensare, non è affatto semplicistico o manicheo. Non
si schiera con gli uni o con gli altri, ma mostra, pone
interrogativi, domande, fa emergere le contraddizioni insite nei
singoli come nella società. Protagonisti sono un gruppo di
“celerini”: Cobra/Pierfrancesco Favino, Mazinga/Marco Giallini,
Negro/Filippo Nigro, uniti dall’affrontare situazioni difficili
ogni giorno (servizio di sicurezza allo stadio, sgombero di campi
rom, sfratti, manifestazioni, sono stati al G8 di Genova e hanno
preso parte alla vergognosa notte alla Diaz), ma anche dalla rabbia
e dall’odio che covano, quello che ha contagiato le loro vite
personali naufragate, perché è l’unico modo in cui, in fondo, sanno
relazionarsi all’altro, o perché non resistono all’istinto di
rispondere con la stessa moneta a chi di odio li rende bersagli
quotidiani.
Uomini che sentono la loro violenza
legittimata, perché al servizio “dell’ordine” e di cause “giuste”,
quando questa è invece, evidentemente, tanto cieca quanto quella
dei loro nemici. Uomini che si fanno giustizia da soli, oltre la
legge, che decidono punizioni, ergendosi essi stessi ad autorità.
Ma anche uomini lasciati soli a fronteggiare emergenze che
rimangono tali, uomini che riempiono come possono, come sanno,
spesso facendo danni, un vuoto istituzionale profondo. Fra
loro Mazinga è la figura più disgraziata, più sconfitta: il più
anziano del gruppo, un padre freddo, distante, che ha alimentato
nel figlio solo odio. Dopo anni di quella vita non sa più
immaginarne un’altra. Allo stesso tempo arriva a capirne
drammaticamente a sue spese l’insensatezza, ma non è capace a
cambiare rotta, perché, come i colleghi, è prigioniero di schemi
agiti ormai automaticamente. Un Giallini dolente e intenso presta
sé stesso al personaggio. Per questa interpretazione, lo dicevamo,
guadagna il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista.
È suo anche il Ciack d’oro come Personaggio Cinematografico del
2012. Lui si dice contento e divertito dal successo arrivato
ora (“non è che io abbia cambiato il mio modo di
recitare”, ha affermato), e si considera fortunato, come ha
dichiarato in un’intervista, perché molti suoi colleghi, pur bravi,
non hanno mai potuto godere delle luci della ribalta. Intanto, la
fase lavorativa proficua sembra destinata a proseguire. Dal 29
novembre lo vedremo infatti nelle sale in Una famiglia
perfetta di Paolo Genovese, dove
ritroverà Sergio Castellitto, mentre nel 2013 sarà
nell’esordio alla regia di Rolando Ravello,
Tutti contro
tutti e nell’opera seconda da regista di
Edoardo Leo, Buongiorno
papà.
Tra i più apprezzati e richiesti
attori degli ultimi anni, vi è Marco Giallini.
Divenuto celebre grazie ad alcune popolari commedie italiane,
Giallini si è distinto anche per ruoli drammatici, dando prova di
essere un attore completo e pronto a ruoli anche fuori dalla norma.
La critica ha più volte riconosciuto il suo talento, tributandogli
numerosi premi nel corso degli ultimi anni.
Ecco 10 cose che non sai di
Marco Giallini.
Marco Giallini: i suoi film
1. Ha recitato in film
italiani molto popolari. L’attore debutta al cinema nel
1986 con il film Grandi magazzini, per poi recitare in
film come L’odore della notte (1998), Non ti
muovere (2004), L’amico di famiglia (2006) e Io,
loro e Lara (2009), con cui ottiene una buona popolarità.
L’attore inizia a questo punto ad intensificare la sua presenza sul
grande schermo, recitando in film come ACAB – All Cops Are
Bastards (2012), Posti in piedi in
paradiso (2012), Una famiglia perfetta (2012) e
Tutta colpa di
Freud (2014), con cui consacra la sua carriera e dove
recita insieme ad AlessandroGassmann. Negli ultimi anni l’attore ha poi
recitato in film come Se Dio Vuole
(2015), Loro chi?
(2015), dove recita accanto all’attore Edoardo
Leo, Perfetti
sconosciuti (2016), Beata
ignoranza (2017), The Place
(2017), Io sono Tempesta (2018), Rimetti a noi i
nostri debiti (2018), Non ci resta che il
crimine (2019) e Domani è un altro giorno
(2019).
2. Ha recitato anche in
televisione. Nel corso della sua carriera l’attore è
comparso anche in diversi film televisivi come Infiltrato
(1996), Operazione Odissea (1999), Gli insoliti
ignoti (2002), Grandi domani (2005), e nelle serie
Buttafuori (2006), Medicina generale (2007) e
Romanzo criminale – La serie (2008-2010), con cui ottiene
maggior popolarità. Recita poi anche nella terza stagione di
Boris (2010).
3. È il protagonista di una
celebre serie TV. Dal 2016 l’attore ricopre il ruolo del
burbero poliziotto protagonista nella serie Rocco
Schiavone (2016-in corso), basato sulle opere letterarie di
Antonio Manzini. La serie viene trasmessa sul canale televisivo Rai
2.
Marco Giallini è su Instagram
4. Ha un account
personale. L’attore è presente sul social network
Instagram con un proprio profilo, seguito da 267 mila persone.
All’interno di questo Giallini è solito condividere fotografie
scattate in momenti di svago, in compagnia di amici o colleghi. Non
mancano inoltre i dietro le quinte dai set a cui prende parte, come
anche immagini promozionali dei suoi progetti da interprete.
Marco Giallini e la moglie
5. È stato sposato.
L’attore sposa nel 1993 Loredana, con la quale intraprenderà una
lunga storia d’amore e dalla quale ha avuto due figli,
rispettivamente nel 1998 e nel 2004. Purtroppo la donna è in
seguito venuta a mancare nel 2011.
Marco Giallini in Rocco
Schiavone
6. È il volto del celebre
poliziotto. Dal 2016 l’attore interpreta il ruolo del
poliziotto Rocco Schiavone nell’omonima serie. Questi ha un
carattere borderline, particolarmente burbero e irascibile, a cui
l’attore ha saputo perfettamente dar vita, facendone il punto
d’attrattiva della serie.
7. Si riconosce molto nel
personaggio. L’attore ha dichiarato di essersi
particolarmente affezionato al personaggio, al quale pensa di
assomigliare non poco. Giallini, come Schiavone, si è infatti
dichiarato refrattario alle imposizioni, seguendo sempre la sua
volontà.
Marco Giallini: dove abita
l’attore
8. Non ama vivere in
città. In alcune interviste l’attore ha dichiarato di non
apprezzare particolarmente il caos della città, preferendo per
tanto vivere fuori da Roma, dove è nato. Giallini avrebbe infatti
residenza nelle campagne circostanti la capitale.
Marco Giallini: i suoi premi
9. Ha ricevuto importanti
riconoscimenti. Nel corso della sua carriera l’attore è
stato più volte premiato o nominato per le sue interpretazioni.
Giallini è infatti stato nominato per ben sei volte al premio David
di Donatello, sia come attore non protagonista per i film Io,
Loro e Lara, ACAB – All Cops Are Bastards e Buongiorno
papà, sia come miglior attore protagonista per Posti
in piedi in paradiso, Se Dio vuole e Perfetti
sconosciuti.
Marco Giallini età e altezza
10. Marco Giallini è nato a
Roma, il 4 aprile 1963. L’attore è alto complessivamente
185 centimetri.
Dopo il successo
degli incontri con Ken Loach e Gabriele
Salvatores proseguono gli appuntamenti di Fondazione Cinema per Roma realizzati d’intesa con
l’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di
Roma Capitale nell’ambito del progetto “Roma. Grande Formato”.
Mercoledì 10 dicembre ore 18 il pubblico del Teatro
Biblioteca Quarticciolo – Via Castellaneta 10- incontrerà Marco
Giallini. L’interprete romano – premiato con il Nastro d’argento al
migliore attore non protagonista per i suoi ruoli in ACAB – All
Cops Are Bastards di Stefano Sollima e Posti in piedi in paradiso
di Carlo Verdone, protagonista della serie tv Romanzo criminale –
converserà con gli spettatori e mostrerà una selezione di clip
tratte da film da lui interpretati: un lungo viaggio attraverso una
carriera di successo, che lo ha visto assumere ruoli profondamente
diversi, da brillante caratterista a comprimario fino a
protagonista, costantemente circondato dall’affetto e dal sostegno
della gente comune.
L’incontro, moderato da Mario
Sesti, sarà ad ingresso gratuito fino a esaurimento dei posti
disponibili. I tagliandi per l’accesso in sala verranno distribuiti
presso la Biblioteca a partire dalle ore 17.“Roma. Grande
Formato”
Sono in corso a Roma le riprese
di DOMANI
È UN ALTRO GIORNO, opera seconda di Simone
Spada che torna sul set per dirigere una coppia
d’eccezione: Marco Giallini e Valerio
Mastandrea.
Tratto dal film spagnolo
Truman, un vero amico è per sempre di Cesc
Gay,DOMANI
È UN ALTRO GIORNO èscritto
da Giacomo Ciarrapico e Luca
Vendruscolo ed è la storia della profonda amicizia
tra Giuliano (Marco Giallini), attore piuttosto noto che vive e
lavora a Roma, e Tommaso (Valerio Mastandrea), insegnante e
ricercatore nel campo della robotica trasferito in Canada. Tra
momenti divertenti e altri drammatici, humor, complicità e
commozione, i due si ritroveranno a trascorrere quattro
indimenticabili giorni insieme. Seduttore e innamorato della vita,
Giuliano è condannato da una diagnosi terminale e il suo compito
più doloroso è trovare una sistemazione a Pato, il suo meraviglioso
e tenerissimo amico a quattro zampe.
Spiega il regista: “Fare un remake
di un film che ti ha commosso, colpito al cuore, fatto ridere e
piangere è una sfida molto interessante per tutti noi. Insieme agli
sceneggiatori Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo abbiamo deciso
di reinterpretarla a nostro modo e, pur mantenendo la struttura e
gran parte dei dialoghi, il nostro DOMANI È UN ALTRO
GIORNO vuole essere, fin dal titolo, un invito alla
speranza e al futuro, un commovente inno alla vita”.
Prodotto da
Maurizio e Manuel Tedesco per
Baires Produzioni in collaborazione con
Medusa, DOMANI È UN ALTRO GIORNO
arriverà in sala nel 2019 distribuito da Medusa
Film. Le riprese, della durata di sette settimane,
proseguiranno nella capitale e si concluderanno a Barcellona a fine
ottobre.
Fanno parte del cast tecnico del
film: il direttore della fotografia Maurizio
Calvesi, lo scenografo Alessandro Bigini,
la costumista Elena Minesso. Le musiche sono
firmate da Maurizio Filardo.
Marco D’Amore è ad
oggi uno degli attori italiani più ricercati e talentuosi del
panorama cinematografico e televisivo italiano. Grazie al suo ruolo
nella serie Gomorra ha raggiunto la popolarità nazionale,
ed è ora pronto a compiere il grande salto intraprendendo nuovi
percorsi, che lo vedranno cimentarsi tanto nella regia quanto nella
sceneggiatura.
Ecco 10 cose che non sai di
Marco D’Amore.
Marco D’Amore carriera
1. I film. La
carriera cinematografica dell’attore ha inizio nel 2009, quando
partecipa al film Tris di donne e abiti nuziali.
Successivamente prende parte a Una vita
tranquilla (2010), Love Is All You Need (2011), e
Perez. (2014), con il quale ottiene una buona fama. Nel
2015 partecipa invece al film Alaska, e in
seguito appare in Un posto sicuro (2015) e Brutti e
cattivi (2017). Nel 2019 vestirà invece i panni di attore
e regista per il film L’immortale, spin-off della
serie Gomorra, dove riprenderà il ruolo di Ciro Di
Marzio.
2. Le serie TV. Nel
2012 l’attore debutta in televisione partecipando ad alcuni episodi
della serie Benvenuti a tavola – Nord vs Sud.
Successivamente dal 2014 al 2017 è tra i protagonisti della serie
Gomorra, grazie alla quale ottiene un grande successo di
critica e pubblico.
Marco D’Amore Toni Servillo
3. Toni Servillo è il suo
mentore. Attraverso alcuni provini, a diciotto anni
l’attore viene scelto per partecipare ad uno spettacolo diretto da
Toni
Servillo. Dopo due anni di tournée, D’Amore frequenta
la Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Terminati i tre anni di
accademia, l’attore viene nuovamente chiamato da Servillo per
partecipare allo spettacolo La trilogia della
villeggiatura. D’Amore descrive Servillo come uno dei suoi
mentori e uno dei motivi per cui oggi ama l’arte della
recitazione.
Marco D’Amore Instagram
4. Ha un account
personale. L’attore è presente sul social network
Instagram con un proprio profilo verificato, seguito da 660 mila
persone. All’interno di questo l’attore è solito condividere scatti
tratti da momenti di svago, ma anche foto promozionali dei suoi
progetti futuri. Non mancano poi anche foto scattate sui set
frequentati dall’attore.
Marco D’Amore vita privata
5. E’ fidanzato.
L’attore è fidanzato con Daniela, sua ex compagna di liceo
rincontrata anni dopo. Con lei, che svolge un lavoro ben diverso da
quello di lui, l’attore conduce una vita particolarmente privata,
rilasciando raramente fotografie o notizie a riguardo.
Marco D’Amore Gomorra
6. Ha fatto fatica ad
adeguarsi al personaggio. L’attore ha dichiarato di non
essere stato da subito affascinato dalla serie né dal suo
personaggio. Stando a quanto da lui dichiarato, D’Amore si sentiva
lontano dai temi trattati e ha fatto fatica a misurarsi con il
dialetto del personaggio. Il suo è infatti il napoletano di centro
città, mentre la lingua parlata nella serie è quella delle zone
nord, nei pressi di Scampia. Solo con un lungo lavoro sulla lingua,
grazie a dei coach specifici, l’attore ha potuto acquisire
padronanza del personaggio.
7. Ha diretto alcuni episodi
della serie. A partire dalla quarta stagione, D’Amore
abbandona i panni dell’interprete per assumere quelli del regista.
Sue sono infatti le regie di due episodi della stagione. L’attore
ha accettato con ottimi propositi la sfida, e ha dichiarato che i
due mesi di preparazione e il mese e mezzo di set sono stati i
periodi più entusiasmanti della sua vita professionale.
Marco D’Amore L’Immortale
8. Vestirà di nuovo i panni
di Ciro Di Marzio. E’ previsto per l’autunno del 2019 il
film L’Immortale, spin-off cinematografico della
serie Gomorra dedicato al personaggio di Ciro Di
Marzio. Marco D’Amore sarà sceneggiatore, regista e interprete del
film. Il film racconterà le origini del personaggio, ma avrà anche
la funzione di ponte tra la quarta e la quinta stagione della
serie, che arriverà sugli schermi televisivi nel 2020.
Marco D’Amore Dolcissime
9. Ha scritto il film
diretto da Francesco Ghiaccio. Oltre al suo impegno con la
serie Gomorra, l’attore ha anche scritto il film
Dolcissime, diretto da Francesco Ghiaccio, la cui storia
ruota attorno a tre adolescenti prese di mira dalle altre
studentesse del loro liceo per via di alcuni chili di troppo.
D’Amore ha descritto il film come una dramedy contro il bullismo, e
una novità nel panorama italiano.
Marco D’Amore età e altezza
10. Marco D’Amore è nato
aCaserta, in Campania, Italia, il 12
giugno 1981. L’altezza complessiva dell’attore è di 180
centimetri.
In occasione del BCT – FESTIVAL
NAZIONALE DEL CINEMA E DELLA TELEVISIONE di Benevento, che si
svolge nel capoluogo campano dal 27 luglio al 2 agosto,
Marco D’Amore ha presentato
L’Immortale, il suo film che lo ha portato ad esordire
dietro alla macchina da presa e che lo ha visto tornare nei panni
di Ciro Di Marzio, personaggio della fortunata serie Gomorra.
Il cinema italiano, così come la
televisione, è pieno zeppo di attori di talento, amati dal pubblico
e dalla critica come Marco Bocci, conosciuto per
aver interpretato alcuni ruoli di spicco di fiction crime
di successo.
Scopriamo quindi adesso insieme
tutto quello che c’è da sapere su Marco Bocci,
sulla sua carriera in tv e al cinema e sulla sua vita privata.
Marco Bocci: i suoi film
10. Nato il 4
agosto del 1978 a Marsciano, in provincia di Perugia, Marco
Bocciolini, in arte Marco Bocci, si avvicina molto presto al mondo
dello spettacolo. Dopo il diploma, si trasferisce a Roma e comincia
a studiare recitazione presso il Conservatorio Teatrale
d’Arte Drammatica “La Scaletta”, diretto
da Giovanni Battista Diotajuti.
9. Finiti gli
studi al conservatorio teatrale, Marco Bocci comincia a muovere i
primi passi nel cinema. Il suo esordio sul grande schermo risale
infatti al 1998 quando partecipa al film
Interferenza diretto da Cesar
Meneghetti.
A quella prima prova
cinematografica ne seguono molte altre tra cui ricordiamo I
Cavalieri che Fecero l’Impresa (2001) – diretto da
Pupi
Avati -, Los Borgia (2006),
La Bella Società (2009), C’è Chi Dice
No (2011), Scusate se
Esisto (2014), Italo (2014),
L’esigenza di Unirmi Ogni Volta a Te (2015) e
La Banda dei Tre (2020).
8. Quest’ultimo
film, La Banda dei Tre diretto da
Francesco Dominedò, è una commedia poliziesca che
segue le peripezie dell’agente sotto copertura Claudio Bambola
(Marco Bocci). Proprio quando Bambola è sul punto
di sequestrare un’enorme quantità di droga, alcuni malviventi russi
gli mettono i bastoni tra le ruote, provocando una sparatoria. Per
salvare l’operazione e recuperare la droga, Bambola è costretto a
chiedere aiuto a Tony (Aldo Marinucci) e Silvano
(Francesco
Pannofino), due dei criminali che doveva
incastrare.
Marco Bocci: le serie tv
7. Nonostante le
sue tante esperienze sul grande schermo, la carriera di Marco Bocci
si sviluppa principalmente in televisione. Dal 2002, quando debutta
nella serie Cuori Rubati, Bocci interpreta tantissimi ruoli in
serie tv, fiction e soap opera italiane di successo. Tra queste
ricordiamo Il Bello delle Donne 3 (2003),
Incantesimo 8 (2005), RIS 2 – Delitti
Imperfetti (2006), Lo Zio D’America 2
(2006) – al fianco di Christian De
Sica -, Caterina e le sue Figlie 2
(2007) e Ho Sposato Uno Sbirro (2008).
6. Tuttavia, il
vero successo televisivo per Marco Bocci arriva nel 2008 quando
l’attore viene scelto per entrare a far parte del cast di
Romanzo
Criminale – La Serie.
La serie, ideata e diretta da
Stefano Sollima, è tratta dall’omonimo romanzo
scritto dal giudice Giancarlo De Cataldo, romanzo
da cui è stato tratto anche il celebre film diretto da Michele
Placido.
Marco Bocci in Romanzo Criminale – La Serie
La storia si sviluppa nell’arco di
tempo di quindici anni, dal 1977 al 1992, e segue le vicissitudini
di un gruppo di criminali alla conquista di Roma. Si tratta della
famosa Banda della Magliana, organizzazione di stampo mafioso che
operava nella capitale proprio negli anni della Prima
Repubblica. Grazie alla serie ripercorriamo tutte le tappe
della Banda della Magliana, dalla sua formazione al suo
declino.
In Romanzo Criminale – La
Serie, Marco Bocci interpreta il commissario
Nicola Scialoja, un onesto funzionario di polizia
che, nonostante la sua problematica situazione familiare, cerca di
smantellare la pericolosa organizzazione malavitosa. La serie,
inoltre, ha dato moltissima visibilità ad alcuni dei migliori
attori italiani degli anni duemila come Alessandro
Roja, Edoardo
Leo, Francesco
Montanari e Vinicio
Marchioni.
Marco Bocci in Squadra Antimafia –
Palermo Oggi
5. Dopo la grande
prova di Bocci con Romanzo Criminale, arriva per l’attore
un altro importante ruolo televisivo nella fiction targata
Taodue, Squadra Antimafia – Palermo Oggi.
Ideata da Pietro
Valsecchi e prodotta dalla Taodue, la
serie è ambientata a Palermo e racconta le vicende della Polizia e
dello Stato nella lotta contro la mafia. La fiction ha come
protagoniste due donne, Claudia Mares (Simona
Cavallari), capo della squadra antimafia di Palermo, e
Rosy Abate (Giulia Michelini), legata invece a un
club mafioso. Claudia e Rosy si sono incontrare in passata a causa
di una terribile tragedia che ha intrecciato le loro storie. A
recidere il loro legame è la stessa Rosy che uccide Ivan Di Meo
(Claudio
Gioè), poliziotto legato sentimentalmente alla
Mares.
Marco Bocci e Giulia Michelini in Squadra Antimafia 5
Alla fine della quarta stagione,
Claudia Mares viene uccisa e tutta l’azione si sposta da Palero a
Catania. Dalla quinta stagione in poi Roby Abate passa dalla parte
dei buoni e diventa collaboratrice di giustizia, lavorando a
stretto contatto con il vice questore Lara Colombo (Ana Caterina
Morariu) e il vice questore aggiunto Domenico
Calcaterra (Marco Bocci). Come sempre Stato e
Mafia si scontrano con duelli all’ultimo sangue, scoprendo antichi
e oscuri segreti e facendo sempre più vittime innocenti.
La serie è andata in onda su
Canale 5 dal 2009 al 2016, per 8
stagioni e ben 74 episodi da circa un’ora
e mezza ciascuno.
Marco Bocci in Solo
4. Durante le
riprese di Squadra Antimafia, dal 2012 al 2013, Marco
Bocci si è dedicato a due progetti minori, recitando nelle minierie
tv Le mille e una notte – Aladino e Sherazade
diretta da Marco Pontecorvo e K2 – La
montagna degli italiani, diretta da Robert
Dornhelm.
Una volta terminato il suo lavoro
sul set di Squadra Antimafia, nel 2016 Bocci partecipa alla
realizzazione di Solo, una serie tv
diretta da Michele Alhaique, andata in onda su
Canale
5. La serie
racconta la storia di Marco Pagani (Marco Bocci),
un agente sotto copertura infiltratosi nel pericoloso clan dei
Corona, una potete famiglia della ‘Ndrangheta operante nella piana
di Gioia Tauro. Dopo aver salvato la vita a Bruno Corona (Peppino
Mazzotta), figlio del criminale Antonio Corona
(Renato
Carpentieri), durante una sparatoria in
un covo di trafficanti di armi ucraini, Pagani si guadagna la
fiducia del boss. Grazie al suo atto eroico, Marco diventa non solo
uomo di fiducia del capofamiglia Corona ma addirittura il suo
braccio destro.
Ma le cose si complicano quando
Marco conosce la bellissima figlia del boss, Agata Corona
(Carlotta Antonelli), per la quale sviluppa un
sentimento che va al di là della semplice ammirazione.
La serie tv Solo,
ideata da Pietro Valsecchi – autore anche di
Squadra Antimafia – è andata in onda su Canale 5
nel 2016 per 2 stagioni e 8 episodi complessivi, della durata di
circa un’ora e mezza ciascuno.
3. Negli anni successivi a Solo,
Marco Bocci ha partecipato anche ad altre serie tv come La
compagnia del Cigno (2019) – diretta da Ivan
Cotroneo – e Made in Italy (2019) e al
film per la televisione Liberi Sognatori
– Delitto di Mafia (2018), diretto da Michele
Alhaique.
Marco Bocci e Laura Chiatti
2. Forse pochi
sanno che la moglie di Marco Bocci altri non è che la bellissima
attrice italiana Laura
Chiatti. I due si sono conosciuti un po’ per caso e la
loro relazione pare sia cominciata grazie a una telefonata partita
per sbaglio.
Nel 2019, in un’intervista
rilasciata a Mara Venier nella trasmissione Domenica In,
Marco Bocci ha raccontato qualche aneddoto divertente della sua
storia con Laura
Chiatti. Sembra che l’attore, anni prima, abbia fatto
partire per sbaglio una telefonata verso il numero della Chiatti e
che la loro relazione sia cominciata proprio così. I due hanno
continuano a sentirsi e nel 2014 hanno ufficializzato la loro
relazione.
Quello che Bocci ha confessato alle
telecamere di Domenica In è che in realtà quella famosa telefonata
non fu per nulla accidentale. [fonte: Contro
Copertina]
1. Il 5 luglio del
2014 Bocci sposa la sua bella Laura e negli anni successivi la
coppia mette al mondo due splendidi bambini, Enea
e Pablo.
Il loro rapporto non potrebbe
andare meglio ma nel 2019, un tragico evento sconvolge l’equilibrio
di questa coppia. A maggio dello scorso anno Bocci viene ricoverato
d’urgenza per una grave meningoencefalite.
L’attore ha raccontato che un semplice herpes,
spuntato sulle labbra, a causa di una vita troppo stressante e di
un sistema immunitario debole, è arrivato ad attaccare il
cervello.
Nonostante il ricovero d’urgenza e
la grande paura, Bocci è stato dichiarato fuori pericolo. [fonte: Vanity
Fair]
Per essere sempre aggiornati sulle
vicissitudini professionali e anche sulla vita privata dell’attore,
seguite l’account ufficiale Instagram di Marco
Bocci.
Guarda il Trailer ufficiale del
film Italo con protagonista Marco
Bocci distribuito da Notorius Pictures
dall’ 11 Gennaio 2015. Italo è diretto da
Alessia Scarso e con
Marco Bocci, Barbara Tabita, Elena Radonicich, Leo
Gullotta.
Nel 2009,
nelle campagne di Scicli, provincia di Ragusa, arriva un randagio
che conquista l’affetto dell’intera cittadina fino a diventarne
simbolo. Tratto da un’ incredibile storia vera il film racconta la
vita di Italo, cane straordinario al punto da meritare la
cittadinanza onoraria. Una commedia romantica e divertente che
tocca temi importanti quali l’amicizia, il pregiudizio e l’amore
incondizionato a cui fa da cornice una Sicilia piena di colori e
tradizioni. L’eroe di Squadra Antimafia, Marco Bocci, nel suo primo
ruolo da protagonista sul grande schermo.
E’ stata affidata al compositore
Marco Beltrami la colonna sonora di
World War
Zdi Marc Forster (Il
cacciatore di aquiloni), adattamento dell’omonimo romanzo di
Max Brooks, che racconta una sorta di apocalisse
in salsa zombie.
Nel cast del film, che dovrebbe
uscire il 21 dicembre 2012, ci saranno Brad
Pitt, Mireille Enos, James Badge Dale e Brian Cranston.
Beltrami, che ha composto per molti film usciti nel 2011 come La
cosa, Non avere paura del buio e Soul Surfer, è stato contattato
per lavorare alla colonna sonora di Paradise Lost di Alex Proyas e
di A Good Day to Die Hard di John Moore, quinto episodio della
serie con Bruce Willis.
È sempre in cerca di novità, di
approcci originali, il suo cinema non dà mai nulla per scontato, e
questa è certo una delle sue migliori doti, affatto scontata a sua
volta, visto che a settant’anni suonati (classe 1939), dopo una
lunga e fruttuosa carriera, avrebbe potuto tranquillamente riposare
sugli allori o darsi a un cinema auto celebrativo. Ma chiunque
conosca almeno in parte il lavoro di Marco
Bellocchio sa che un simile atteggiamento non è nelle sue
corde.
Marco Bellocchio, la filmografia
Col suo film d’esordio I
pugni in tasca (1965), a soli 26 anni suscitò scalpore,
mettendo a nudo senza sconti l’universo di una tranquilla famiglia
borghese, dietro le cui apparenze si celano legami malati,
costrizioni, rancori, desiderio di ribellione e quella vena di
follia che, più o meno marcata, ritroviamo in quasi tutti i suoi
film.
E sulla famiglia si sofferma spesso
il suo lavoro (Nel nome del padre, Salto nel vuoto, La
balia, L’ora di religione, Sorelle, Sorelle Mai).
Istituzione fondante – e si direbbe “sacra” – della nostra società,
essa però costringe, ingabbia l’individuo e può, talvolta,
impedirne il sano sviluppo psicofisico, a meno che da quei legami
non si abbia il coraggio di emanciparsi, intraprendendo un cammino
indipendente. Oggetto di critica da parte del regista di Bobbio
sono poi tutte le altre istituzioni costrittive o tese a
creare un effetto di “intorpidimento” dell’individuo: le
forme di religiosità cieca e bigotta, i mass media se usati per
manipolare fatti e opinioni, la cattiva politica (a prescindere
dagli schieramenti). Un cinema d’impegno e di denuncia, mai
superficiale,che non teme di scavare nell’individuo e nella
società, e di dire tutto ciò che c’è da dire, con coraggio, ma
senza pretendere adesione da parte dello spettatore, che si vuole
vigile e attento alle tematiche proposte, ma non asservito al punto
di vista del regista.
Marco Bellocchio, gli inizi
Il percorso artistico di
Marco Bellocchio inizia al Centro
Sperimentale di Cinematografia di Roma, nel 1959. Qui tre
anni dopo ottiene il diploma di regia, per poi partire alla volta
di Londra, dove continuerà a studiare cinema. Al suo ritorno, nel
’65, come s’è detto, il suo folgorante esordio I pugni in
tasca, che gli vale subito riconoscimenti: la stampa non
fatica a rintracciare in lui un indubbio talento, coraggioso e
dissacrante e il film si aggiudica il Nastro d’Argento per il
Miglior Soggetto e la Vela d’Argento al Festival di Locarno per la
Miglior Regia. Lou Castel nei panni di Alessandro
e Paola Pitagora in quelli di Giulia, sono perfetti protagonisti di
questo dramma familiare: due dei cinque componenti di questo nucleo
malato che è la famiglia al centro della pellicola, in cui la
rabbia e il rancore sempre covati nascostamente da Alessandro, alla
fine esplodono nel gesto più estremo. Il tutto è accompagnato dalle
musiche di Ennio Morricone, mentre al
montaggio c’è Silvano Agosti, che
collaborerà ancora con Bellocchio.
Dopo la
famiglia, Marco Bellocchio sceglie la
politica ipocrita e trasformista come bersaglio della sua ficcante
analisi in La Cina è vicina (1967), protagonista
il professore e aspirante assessore Vittorio Gordini
Malvezzi/Glauco Mauri, assieme al ragioniere Carlo/Paolo Graziosi,
che lo aiuta nel suo tentativo di ascesa sociale e politica
all’interno del PSU (Partito Socialista Unificato). Accanto a
questo, però, ancora una volta non manca il sarcasmo verso
l’ipocrisia in ambiente familiare (Carlo diverrà amante e poi
marito, suo malgrado, della sorella di Vittorio, il quale sposerà
l’ex fidanzata di Carlo, unitasi a lui per vendetta verso il suo
precedente compagno). Ancora musiche di Ennio
Morricone, mentre il montaggio è stavolta affidato a
Roberto Perpignani. E ancora premi: Nastro
d’Argento per il Soggetto (dello stesso Bellocchio) e la Fotografia
di Tonino Delli Colli, Premio Speciale della giuria a Venezia. Nel
’69 il regista partecipa, assieme a nomi del calibro di
Bertolucci, Lizzani, Pasolini e Godard, al film
Amore e Rabbia, di cui dirige l’episodio
Discutiamo, discutiamo. Nel ’72 dirige Nel
nome del padre, film ispirato in parte a vicende
autobiografiche, relative agli anni dell’educazione religiosa del
regista, avvenuta presso i Salesiani.
Il film è ancora una volta un
feroce attacco, stavolta rivolto alle istituzioni religiose e alla
loro volontà di controllo e repressione. La vicenda è ambientata
alla fine degli anni ’50 e il protagonista, Angelo Transeunti/Yves
Beneyton, è un giovane indisciplinato e recalcitrante alle regole
costrittive, che entra in un collegio religioso. Qui fa valere la
sua forte personalità, scontrandosi continuamente con l’autorità
(il vicerettore Corazza/Renato Scarpa) e le ferree regole della
“repressione cattolica”, che denigra. La volontà di ribellione
culminerà in due rivolte, entrambe fallite, e forse presaghe di
altri fallimenti reali. Non manca poi, intrecciato al tema
principale, quello della costrizione dei legami familiari. Al film
partecipa anche Gisella Burinato, già attrice teatrale, qui per la
prima volta sul grande schermo. Dall’unione tra attrice e regista
nascerà, due anni dopo, il figlio Pier Giorgio.
Dello stesso anno invece, è
Sbatti il mostro in prima pagina.
Qui Marco Bellocchiosi concentra sulla
“repressione mediatica”, ovvero sul potere dei mezzi di
comunicazione di influenzare le menti degli spettatori, di
“intorpidirle”, di distrarle. È quello che avviene nel film
dove un cinico e straordinario Gian Maria Volonté
(memorabile la sua “lezione di giornalismo” all’ingenuo neoassunto
Roveda), direttore di un noto quotidiano, orchestra una campagna
stampa ad hoc su un sanguinoso fatto di cronaca, per poi
strumentalizzarlo politicamente.
Marco Bellocchio, il 70′
Nel ’75 Marco
Bellocchio, che nei suoi film si occupa spesso di psiche e
di instabilità mentale, dirige con la consueta passione, assieme a
Silvano Agosti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia,
il documentario Nessuno o tutti – Matti da
slegare, che punta il dito contro l’istituzione
manicomiale italiana, denunciandone abusi e storture, aggiungendovi
una personale analisi che rintraccia nella società l’origine del
disagio psichico. Occorre dire che la passione documentaristica lo
accompagna fin dal 1969, quando firmò Il popolo calabrese
ha rialzato la testa (Paola) e vi tornerà spesso.
Nel 1976 dirige Marcia
Trionfale, in cui bersaglio della sua critica è il mondo
militare machista e repressivo, protagonisti il giovane soldato
Paolo Passeri/Michele Placido e il suo severo superiore
Asciutto/Franco Nero. L’impeccabile regia di Bellocchio gli vale il
David di Donatello. Il ’77 lo vede invece impegnato
nell’adattamento de Il gabbiano di Anton Čechov. Il 1978 è l’anno
dell’incontro con lo psichiatra Massimo Fagioli, da cui nascerà
un’intensa collaborazione, che darà i suoi frutti negli anni a
venire. Intanto, il regista di Bobbio torna ad occuparsi di
universi familiari malati e instabilità mentale. Lo fa con la
solita lucidità e pregnanza in Salto nel vuoto (1980). Al centro
della pellicola, la storia di due fratelli, Mauro Ponticelli/Michel
Piccoli e Marta/Anouk Aimeé.
Mauro, convinto che la sorella sia
sull’orlo della follia, architetta un piano per spingerla al
suicidio, con la complicità di un piccolo delinquente, Giovanni
Sciabola/Michele Placido. Il piano però fallisce e anzi, Marta
riesce finalmente ad emanciparsi dal perverso legame che la teneva
avvinta al fratello, anche grazie alla sua relazione con Sciabola.
Alla fine, a compiere il “salto” sarà Mauro.
Nello stesso
anno, Marco Bellocchio torna, dopo I pugni in
tasca, ai luoghi natii, col documentario Vacanze in Val Trebbia,
che vede protagonista lui stesso, accanto a Gisella Burinato e al
figlio Pier Giorgio, all’esordio davanti alla macchina da presa.
Nel 1982, Bellocchio torna a dirigere Lou Castel, già protagonista
de i pugni in tasca e poi ritrovato in altre pellicole firmate dal
regista.
Qui è di nuovo protagonista, nei
panni di Giovanni Pallidissimi, attore, alle prese
con la risoluzione di nodi nei suoi rapporti familiari, in
particolare con la madre e con Wilma, fidanzata del fratello morto
suicida. Stavolta, però, a differenza di quanto accadeva ne I pugni
in tasca, tutto si risolve positivamente, in un’ideale percorso di
maturazione e crescita. Sceneggiato con Vincenzo
Cerami, si avvale delle musiche di Nicola Piovani (come
già numerosi altri lavori del regista, a partire da Nel nome del
padre). Segue l’adattamento per il grande schermo del dramma
pirandelliano Enrico IV, protagonista Marcello Mastroianni. Ancora
una volta, i temi cari a Bellocchio: potere, religione, ipocrisia,
follia. Accanto a Mastroianni, Claudia Cardinale, Leopoldo Trieste
e Paolo Bonacelli, musiche di Astor Piazzolla.
A metà anni ’80 vede la luce il
primo lavoro ispirato dal sodalizio con Fagioli, i cui frutti
saranno visibili in tre pellicole: Diavolo in
corpo (1986), La condanna (1991),
Il sogno della farfalla (1994). Tra questi, la
pellicola che avrà maggior fortuna è senz’altro La
condanna, che otterrà il Gran Premio della Giuria al
Festival di Berlino, protagonisti Vittorio Mezzogiorno e
Claire Nebout.
Terminata la collaborazione con lo
psichiatra Fagioli, Marco Bellocchio si rifà
a un testo teatrale, che decide di portare sullo schermo. Si tratta
de Il principe di Homburg (1997), fedele
trasposizione dell’omonimo dramma di Kleist. Nel ’99 il regista di
Bobbio attinge ad un’altra fonte letteraria: la novella
pirandelliana La balia. Protagonisti Valeria Bruni Tedeschi e Fabrizio Bentivoglio, coppia alto borghese
d’inizio Novecento, la cui tranquilla esistenza subisce un brusco
mutamento con la nascita di un figlio, con il quale la madre non
riesce a stabilire un legame affettivo. Il neonato viene così
affidato alle cure di una balia (Maya
Sansa al suo esordio cinematografico), che invece
entra subito in sintonia con il bambino, ma ciò provoca ulteriori
tensioni. Dunque, è ancora una volta l’universo familiare ad essere
scandagliato dall’analisi di Bellocchio, sulla scorta della fonte
letteraria. L’affresco storico sociale resta sullo sfondo, in
favore dell’aspetto esistenziale ed intimo. Nel cast anche Michele Placido e Pier Giorgio
Bellocchio.
Il nuovo millennio di Marco
Bellocchio
Nel nuovo millennio, il regista
torna ad occuparsi di religione e famiglia in L’ora di
religione (2002), non rinunciando a svelarne ipocrisia e
opportunismo. Protagonista della vicenda, genialmente surreale, è
Ernesto Picciafuoco/Sergio
Castellitto (ultimo di una lunga serie di indovinati
nomi parlanti, cari a Bellocchio), pittore, che conduce da anni la
sua vita, rigorosamente laica, lontano dal resto della blasonata
famiglia.
Tutto cambia, quando viene
informato dell’imminente canonizzazione della madre, ordita da una
zia (una Piera degli Esposti splendidamente
cinica) nella speranza di un ritorno economico che rinverdisca le
finanze familiari. Perché il processo vada in porto c’è bisogno
della collaborazione di tutti, in special modo dei figli della
donna: Ernesto, Ettore/Gigio Alberti,
Erminio/Gianfelice Imparato ed Egidio/Donato
Placido. La canonizzazione è dunque l’occasione per Ernesto di
rincontrare la sua famiglia d’origine – oltre a una serie di
stravaganti personaggi che si profileranno sul suo cammino – e per
il regista di farci scoprire, tassello dopo tassello, un universo
familiare lacerato e devastato dalla pochezza di spirito,
dall’inadeguatezza, e dall’ottuso bigottismo della donna che si
vorrebbe santificare, che di esso è stata per anni il fulcro, e il
tarlo.
Scopriamo così che uno dei
fratelli, Egidio (nell’intensa interpretazione di Donato Placido),
è stato internato in una struttura psichiatrica, proprio in seguito
all’omicidio della madre, e ritroviamo quindi anche il tema della
follia. Non manca il sarcasmo nei confronti di una Chiesa che bada
alle apparenze e non alla sostanza, come verso l’alta borghesia
perbenista e ipocrita, da cui il protagonista s’è voluto staccare,
ma che torna anche nella sua nuova famiglia (anche la moglie vuole
approfittare dei vantaggi della canonizzazione e vuole far
battezzare il loro figlio, così come insiste per fargli seguire a
scuola l’ora di religione). Il Bellocchio di sempre, dunque, ma
certamente il miglior Bellocchio, che sa dare nuova linfa e
originalità alla trattazione cinematografica di temi noti, in un
film drammatico, e insieme ironico e brioso.
I premi arrivano copiosi: Menzione
Speciale a Cannes, 4 Nastri d’Argento (tra cui Miglior Regia),
David di Donatello a Piera degli Esposti e European Film Award
(EFA) a Sergio Castellitto per le rispettive interpretazioni. Il
regista e l’attore si ritroveranno insieme nel 2006, quando l’uno
dirigerà l’altro nel più leggero Il regista di matrimoni.
Nel 2003, il regista emiliano torna
invece ad occuparsi di politica, scegliendo una delle pagine più
buie e controverse della nostra storia. Rielabora infatti le
vicende relative al sequestro Moro in Buongiorno
notte, liberamente ispirato al libro Il
prigioniero, scritto da Anna Laura
Braghetti, brigatista. La pellicola si incentra sulla
prigionia di Moro e dunque sul dramma da lui vissuto, ottimamente
reso da Roberto Herlitzka, oltre che sulle dinamiche
all’interno del gruppo di rapitori, tra cui Chiara/Maya
Sansa, dapprima convinta, poi dubbiosa sugli sviluppi
del sequestro. Nel cast anche
Luigi Lo Cascio, Paolo Briguglia, Pier Giorgio
Bellocchio. Il film è un successo al botteghino,
rivelandosi uno dei più soddisfacenti del regista in questo senso.
Ottiene anche svariati premi, ma non il Leone d’Oro a Venezia, per
il quale pure era favorito. Riconoscimenti arrivano comunque:
Premio FIPRESCI agli EFA a Bellocchio, David di Donatello e Nastro
d’Argento a Herlitzka; Globo d’Oro e Ciack d’Oro a Maya Sansa , Premio Ioma per Miglior Film.
Tre anni dopo, torna ad occuparsi
di una vicenda privata, ma al tempo stesso dagli evidenti risvolti
politici. Con Vincere infatti il regista porta
sullo schermo la storia di Ida Dalser, amante di
Benito Mussolini, e madre di suo figlio Benito
Albino. L’idea del film è nata, dic e Marco
Bellocchio, dalla scoperta di questa forte figura
femminile, attraverso la lettura della sua corrispondenza. A
colpirlo, infatti, sono proprio la sua incrollabile fiducia e
l’abbandono col quale si getta nella storia d’amore col Duce, così
come l’ostinazione con la quale poi non accetterà di essere da lui
abbandonata, assieme al figlio. Ad interpretarla un’efficacissima
Giovanna Mezzogiorno, adatta a renderne la
caparbietà, a dispetto della realtà e dell’evidenza. E di nuovo il
confine tra sanità e follia è labile. Lo stesso può dirsi per gli
altri due personaggi principali della storia, Benito Mussolini e
Benito Albino, teso verso orizzonti di gloria il primo, e quasi
assente dalle sue vicende personali; allevato nell’ossessione
dell’ingombrante padre traditore il secondo, che finirà i suoi
giorni in manicomio. Filippo Timi interpreta magistralmente
entrambi. Il film, unico italiano in concorso nel 2009 al
Festival di Cannes, non otterrà
in questa sede i premi sperati. In compenso però farà incetta di
riconoscimenti ai David di Donatello, conquistandone ben sette, tra
cui quello per la Miglior Regia. Nastro d’Argento a Giovanna
Mezzogiorno.
La passione di Marco
Bellocchio per il suo lavoro si esprime però anche nella
conduzione del laboratorio Fare Cinema, scuola di regia e
recitazione che si tiene ogni anno, in estate, nella natia Bobbio,
cui si accompagna il Bobbio Film Festival. E da questa esperienza
nasce nel 2006 un primo lungometraggio dal titolo Sorelle, il cui
soggetto sarà poi ripreso nel film Sorelle Mai
(2010), che ne è ulteriore elaborazione.
La pellicola raccoglie materiale
girato durante il laboratorio nel corso di dieci anni, a detta del
regista senza l’intento iniziale di farne un film, ma che ne ha poi
preso la forma. Al centro, inevitabilmente, un nucleo familiare,
che in parte coincide con quello del regista stesso: le sorelle
Letizia e Maria Luisa, il figlio Pier Giorgio, la figlia Elena,
inseriti però in una vicenda di fantasia, tra allontanamenti
e ritorni nella terra natia, vittorie e sconfitte. Ed è proprio
alle sue sorelle, con la loro vita “di confortevoli rinunce”, come
la definisce lui stesso, che Marco
Bellocchio dedica il film. Con quest’opera il regista
ci spiazza ancora una volta, accettando e vincendo quella che per
lui resta “la sfida” del cinema oggi: parlare di ciò che ci
riguarda, farlo in maniera profonda e originale, nella specificità
estetica del cinema, senza scimmiottare modelli televisivi, e non
cercare mai di compiacere nessuno, ché altrimenti viene meno la
libertà espressiva.
Il noto regista italiano
Marco Bellocchiotorna al Festival
di Cannes con “Rapito”, un dramma che
ricostruisce la vera storia di Edgardo Mortara, un
giovane ebreo rapito dalla Chiesa e cresciuto con la forza come
cristiano nell’Italia del XIX secolo. Questa è una storia su
cui Steven Spielberg aveva messo gli
occhi da molto tempo, avendo annunciato nel 2016 che avrebbe
realizzato un dramma su Mortara per il quale aveva già
iniziato a cercare location nel nostro paese.
L’anno scorso, Marco Bellocchio era a Cannes
con un altro dramma sui rapimenti, la miniserie TV Esterno Notte, sul rapimento e l’assassinio dell’ex
premier italiano Aldo Moro da parte dei terroristi
delle Brigate Rosse. La prima incursione televisiva del regista ha
ottenuto un discreto successo e una versione cinematografica è
andata bene nei cinema italiani – in due puntate – prima di andare
in onda sulla RAI e vendere in tutto il mondo. In un’intervista
esclusiva sul sito
Variety il regista ha parlato del nuovo filmdi
come ha fatto a portare questo atto di violenza e le sue complesse
conseguenze sul grande schermo e perché il Vaticano dovrebbe
chiedere perdono.
Cosa l’ha spinta a voler ricostruire
la storia di questo sequestro perpetrato in nome di Dio?Mi ha colpito questa storia dopo aver letto un libro su Edgardo
Mortara scritto da un cattolico piuttosto conservatore. Il
libro ripercorre il cammino della conversione al cattolicesimo di
questo bambino che viene rapito dopo aver iniziato il suo cammino
religioso da ebreo ortodosso. È una conversione, inizialmente
forzata. Ma Edgardo non cambia idea dopo che Roma è stata
liberata dal dominio papale, a quel punto è libero di fare ciò che
vuole. Diventa invece sacerdote e poi missionario fino alla
fine dei suoi giorni.
Era da tanto che desideravi
fare questo film?SÌ. Ma subito dopo
aver letto il libro ho scoperto che Steven Spielberg stava preparando questo
film. Una casa di produzione era venuta in Italia per cercare
location e fare dei provini, quindi ho smesso di
pensarci. Poi, diversi anni dopo, mentre ero negli Stati Uniti
a promuovere “Il
traditore” [che è stato presentato al Festival di Cannes nel
2019] ho chiesto in giro e ho sentito che Spielberg non aveva portato avanti il
progetto. Quindi lo abbiamo verificato e siamo tornati a
lavoraresul film. La storia è ricca di elementi che hanno stimolato
la mia immaginazione. È come un grande romanzo del XIX
secolo. Nel film i personaggi della madre e del padre sono
molto importanti e altrettanto importante è la figura del Papa
violento e intollerante ma allo stesso tempo coerente [con le
credenze cattoliche di allora].
Pensi che
Steven Spielberg avrebbe adottato un approccio
diverso? Lavorando con [la
sceneggiatrice/regista] Susanna Nicchiarelli [che ha diretto i film
storici “Nico, 1988”, “Miss Marx” e “Chiara”] abbiamo utilizzato
diversi libri come fonti, ma anche molti documenti. Siccome si
tratta di un’Italia che non esiste più, abbiamo fatto un sacco di
effetti digitali per ricostruire quel mondo. Ma volevamo anche
dare al pubblico un senso reale di ciò che è accaduto. Molto
lavoro è stato dedicato alla scenografia e ai costumi. Abbiamo
cercato di ricostruire il mondo delle province italiane. Siamo
stati molto attenti nell’assicurarci che i tipi di italiano volgare
che i personaggi parlano fossero molto accurati. L’accuratezza
dell’aspetto linguistico è stato fondamentale per me per renderlo
reale. È probabile che il progetto di Spielberg sarebbe stato
completamente diverso. Per noi, volevamo davvero difendere il fatto
che questa famiglia ebrea vivesse sul suolo italiano.
È un documentario personale
profondamente commovente e doloroso quello che Marco
Bellocchio presenterà in Selezione Ufficiale a Cannes
2021. Attraverso questo film dal titolo enigmatico (Marx
può aspettare), il cineasta italiano cerca di capire,
umilmente e retrospettivamente, il suicidio del fratello gemello
all’età di 29 anni. Una tragedia familiare da cui non si è mai
veramente ripreso, fonte sia di colpa e che di ispirazione.
Mescolando estratti dei suoi film e conversazioni con persone a lui
vicine, Bellocchio indaga su questa figura fraterna che non smette
mai di ossessionare la sua filmografia.
Dopo aver diretto un film cult con
il suo primo lungometraggio, I pugni in tasca
(1965), che ha inaugurato una nuova era del cinema italiano
allontanandosi dai codici del neorealismo, Marco
Bellocchio, voce ancora eterna di dissenso all’età di 81
anni, ha girato Salto nel vuoto, che ha vinto i
premi come miglior attore per Michel Piccoli e
Anouk Aimée a Cannes nel 1980. Successivamente è
stato regolarmente selezionato in Concorso a Cannes, con
Enrico IV nel 1984, Il principe di
Hombourg nel 1997, La Balia nel 1999,
L’ora di religione – Il sorriso di mia madre nel
2002, Vincere nel 2009 e Il Traditore nel 2019.
Pierre Lescure,
Presidente del Festival di Cannes, dichiara: “Marco
ha sempre messo in discussione le istituzioni, le tradizioni, la
storia personale e collettiva. In ciascuna delle sue opere, quasi
involontariamente, o almeno nel modo più naturale possibile,
rivoluziona l’ordine costituito”.Thierry
Frémaux, Delegato Generale, aggiunge: “Siamo
orgogliosi di premiare Marco Bellocchio, uno dei grandi maestri del
cinema italiano dopo 56 anni di affascinante lavoro, in successione
ai suoi amici registi Bernardo Bertolucci, Manoel de Oliveira e
Agnès Varda. È un regista, un autore e un poeta. Onorarlo con la
Palma d’oro alla carriera è ovvio per tutti coloro che ammirano il
suo lavoro”.
Sabato 22
ottobre parte la 27ma edizione di Linea d’Ombra
Festival che si apre alle 18:30 con la proiezione di
Klondike (Maryna Er Gorbach / Ucraina /
2022 / 100’), in perfetta contemporanea con la Festa del
Cinema di Roma. A Salerno saranno presenti i
profughi ucraini e russi, grazie alla Fondazione Progetto Arca e al Forum Terzo Settore.
Il film sarà disponibile on line il 23 ottobre, dalle 18:30 e per 4
ore, su mymovies.it/ondemand/lineadombrafestival.
Dopo l’apertura con Klondike, la sala Pasolini di Salerno
accoglierà il primo grande ospite di
quest’anno.
Sarà
Marco Bellocchio, alle 21.30, a salire sul “Ring” per
incontrare il pubblico di Linea d’Ombra in conversazione con il
co-direttore artistico Boris Sollazzo.
Marco Bellocchio è un maestro. Non solo di
cinema. Il suo percorso artistico ha attraversato e raccontato i
conflitti del nostro paese, politici, religiosi, umani, con una
lucidità intellettuale e una potenza emotiva rare, anzi uniche nel
panorama mondiale. Da I pugni in tasca a Esterno Notte, ci ha
donato capolavori che hanno guardato senza paura negli abissi,
nelle ombre più scure di un paese, con la forza della sua rabbia
sempre giovane, senza mai rinunciare a sfide per altri impossibili.
Ci ha insegnato che Marx può aspettare, che Dio e l’io sono
interlocutori necessari alla nostra crescita. E che in noi, come
privati e comunità, la linea d’ombra è la strada maestra per essere
uomini e artisti. L’evento sarà trasmesso anche in diretta
streaming. Ma la prima giornata del festival offre molte altre
suggestioni.
Alle 18.30 nella
Chiesa dell’Addolorata “Borzaya”, “Before After”, “Agosto in
Pelliccia” e “Work it class!” daranno il via alla sezione
“CortoEuropa”. Alle 19 al Piccolo Teatro Porta Catena
LineaDoc avrà il suo start con “Quarries”, “Aribada” e “The BLACK
ChristS. Far From Justice. Alle ore 20 la Chiesa dell’Addolorata
ospiterà i primi sei lavori in concorso per “VedoAnimato”
(Tête-bêche, Stone Heart, Mosaicos, Bananas for Ice Cream, Night e
If You Meet a Coyote). Alle ore 21, sempre nella Chiesa
dell’Addolorata, per VedoVerticale ci sarà la proiezione
di I Woke Up On A Little Planet,
Vertical, Plastic Words, The
Windowe Reborn in Fire.
Alle 21.30 al
Piccolo Teatro Porta Catena andranno i replica i film della sezione
“CortoEuropa”; mentre alle 22 nella Chiesa dell’Addolorata per il
“Quinto elemento” si parlerà di cinema e videogame: con Eline
Soumeru e Luuk Van Huet l’incontro dal titolo “Quando il videogioco
si fa festival”. A moderare Franco Cappuccio L’incontro è
realizzato con il sostegno dell’Ambasciata del Regno dei Paesi
Bassi.
Infine da non
dimenticare il primo appuntamento con le CINECENE ® format ideato
dalla chef Kaba Corapi e Boris Sollazzo, che si svolgeranno al
Ristorante Didattico “Al Virtuoso”, un convivio che unisce il
piacere della cucina gourmet con la storia del cinema. Evento
promosso e realizzato in esclusiva con Fondazione Cassa Rurale
Battipaglia – Banca Campania Centro in collaborazione con IPSEOA –
R. VIRTUOSO Salerno
IL
FESTIVAL. 150 film in concorso provenienti da 47
paesi, 6 location (Sala Pasolini, Piccolo Teatro Porta Catena,
Chiesa dell’Addolorata, Palazzo Fruscione e Campus UNISA), 11
eventi al giorno da sabato 22 ottobre 2022 a sabato 29 ottobre
2022.
2500 sono stati i
film visionati in selezione tra gli iscritti alla piattaforma
Filmfreeway e i diversi festival internazionali, per poi stilare la
lista delle opere in concorso a Salerno nelle sei
sezioni: Passaggi d’Europa, LineaDoc, CortoEuropa, VedoAnimato,
VedoVerticale e Unifest. Interessante anche quest’anno il singolare
connubio del cinema con le altre arti: il videogioco, la musica, la
danza, la realtà virtuale, la gastronomia, gli audiovisivi e le
tecnologie digitali.
Conflitti è il tema di questa
edizione. “Mai ci saremmo aspettati – scrivono
Peppe D’Antonio e Boris Sollazzo, nel testo di presentazione del
festival – che poche settimane dopo l’annuncio della
parola d’ordine di questa edizione saremmo stati squassati dal
terrore e poi dall’evidenza di una guerra, quella tra Russia e
Ucraina, che ha spazzato via definitivamente le certezze un po’
grottesche e le presunte conquiste del secolo breve e ci ha gettato
nel terrore e nell’incapacità di discernere, per molti, posizioni,
diritti, ragioni. A questa ferita del mondo tributiamo l’esordio
del festival e del concorso dei lungometraggi”.
Marco Bellocchio,
maestro del cinema italiano, sarà tra gli ospiti d’onore di Lucca
Film Festival e Europa Cinema 2016, la manifestazione
cinematografica che si terrà tra Lucca e Viareggio dal 3 al 10
aprile. All’autore di film culto, quale “I pugni in tasca”, sarà
dedicato un omaggio che comprenderà la proiezione delle sue
pellicole più note, la consegna del premio alla carriera e una
giornata di studi su cinema e opera proprio al “Gran Teatro Giacomo
Puccini” di Torre del Lago (Viareggio).
Al red carpet del festival, che nei
giorni scorsi ha annunciato anche la presenza di George Romero e
William Friedkin, si aggiunge di uno dei registi più
anticonformisti della storia del cinema italiano nella sezione
curata da Giacomo Martini, Nicola Borrelli e Anton Giulio Mancino.
Bellocchio sarà presente alle attività a lui dedicate in occasione
della manifestazione, che si apriranno al cinema Centrale il 9
mattina con un incontro con il pubblico dopo la proiezione di
“Vincere”.
Tra gli eventi speciali la sezione
“Bellocchio e Opera” con una giornata di studi, quella di sabato 9,
al cinema Centrale e Gran Teatro Puccini tra proiezioni e incontri.
Si parte il pomeriggio con la proiezione di Rigoletto a Mantova al
cinema Centrale e con il dibattito, a seguire, sul tema “Cinema,
teatro e opera lirica” a cui parteciperà il regista stesso, Giacomo
Martini, Anton Giulio Mancino, il sindaco di Viareggio Giorgio Del
Ghingaro e Alberto Veronesi, Presidente della Fondazione Festival Pucciniano. La sera, sempre al
Gran Teatro Giacomo Puccini, gli sarà consegnato il premio alla
carriera e presenterà al pubblico il suo “Addio al passato”
(ingresso libero). Bellocchio saluterà il pubblico di Viareggio,
domenica 10 aprile, dopo la proiezione di “Sangue del mio sangue”
(ingresso libero). Oltre a quelli già citati i film di Bellocchio
che saranno proiettati durante il festival sono “Il sogno della
farfalla”; ”La condanna” e ”Il diavolo in corpo”.
A Villa Argentina, inoltre, si terrà
una mostra, in anteprima italiana, di una serie inedita di dipinti
e disegni realizzati dal maestro (dal 2 aprile al 1 maggio), a cura
di Alessandro Romanini dal titolo Marco Bellocchio. La Pittura
Dietro l’Obiettivo. Il primo nucleo è composto da 12 dipinti
realizzati in età giovanile, fra i 20 e i 23 anni, quando il suo
sguardo iniziava e concepire il mondo in termini cinematografici,
ma la mano si esprimeva ancora con il pennello. Sono dipinti
realizzati mentre si diffondeva a livello internazionale la Pop
Art, che sarebbe stata consacrata definitivamente nel 1964 alla
Biennale di Venezia. La figura umana rappresenta il fulcro e
l’impalcatura filosofica e formale di questi dipinti, la pittura
diventa strumento d’indagine sociale e introspezione psicologica,
come molto del suo cinema. A questo nucleo si aggiungono
circa 100 opere su carta, nate durante la realizzazione dei suoi
film, a partire dal primo “I pugni in tasca”, nel 1966, sino al
pluripremiato “Sangue del mio sangue”, del 2015: disegni e
bozzetti, ma anche vere e proprie opere, complete dal punto di
vista espressivo, una sorta di “pre-visualizzazione” filmica dei
personaggi e dei loro tic comportamentali, del loro profilo
psicologico, ma anche dei costumi e degli ambienti, delle
scenografie e delle condizioni illuminotecniche, atmosferiche e
cromatiche. La maggior parte di queste opere sono corredate da
appunti e frasi stese con tratto rapido, note tecniche di ripresa o
destinate ai collaboratori (scenografi, direttori della fotografia,
costumisti).
Il Lucca Film Festival e Europa
Cinema, presieduto da Nicola Borrelli, è tra gli eventi di punta
delle manifestazioni organizzate e sostenute dalla Fondazione Cassa
di Risparmio di Lucca, le sue mostre sono prodotte e organizzate
dal Comitato Nuovi Eventi per Lucca, con il sostegno di Banca
Société Générale. Il festival si avvale inoltre del supporto di
Gesam Gas & Luce SpA, Banca Pictet, Banca Generali Private Banking,
Banca Carismi, Fondazione Banca del Monte di Lucca, Stonecycle, Il
Ciocco S.p.A., Il Ciocco International Travel Service S.r.l.,
Idrotherm 2000, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del
Turismo, Regione Toscana, Comune di Lucca, Comune di Viareggio
Provincia di Lucca e della collaborazione di Fondazione Sistema
Toscana, Fondazione Giacomo Puccini e Puccini Museum – Casa Natale,
Fondazione Centro Arti Visive, CG Entertainment, Photolux Festival.
Si ringraziano anche Lucca Comics & Games, la Fondazione
Festival Pucciniano, la Fondazione Carlo Ludovico Ragghianti, la
Direzione Regionale di Trenitalia, Unicoop Firenze e il Corso di
Laurea in Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione del
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa
per la collaborazione.
Il Lucca Film Festival e Europa
Cinema è un evento a cadenza annuale di celebrazione e diffusione
della cultura cinematografica. Attraverso proiezioni, mostre,
convegni e concerti – spaziando dal cinema mainstream allo
sperimentale – il festival riesce a coinvolgere ogni anno un
pubblico sempre più ampio. Nel corso delle edizioni il Festival è
riuscito a distinguersi tra i tanti, mediante programmazioni
audaci, ma al contempo attentamente studiate; è stato capace di
omaggiare personalità affermate del mondo del cinema, di
riscoprirne altre e “scommettere” su di nuove. A coronare il tutto
contribuiscono le belle cornici di Lucca e Viareggio, città in cui
il festival si è ormai imposto, diventando un appuntamento atteso
ed imperdibile in Italia e in Europa.
La premiata attrice Marcia
Gay Harden ha forgiato una notevole mole di lavoro,
rimanendo sempre fedele al suo stile camaleontico di calarsi nel
personaggio. I ritratti dei personaggi della Harden sono stati
descritti dai critici come feroci, strazianti, originali, allo
stesso tempo puri e profani, sorprendenti, autentici e sensuali.
Insomma, si parla di un’attrice tra le migliori della sua
generazione, capace di reinventarsi ogni volta.
Ecco 10 cose che non sai di Marcia Gay
Harden.
Marcia Gay Harden: i suoi film e gli show TV
1. Ha recitato in in celebri
film. L’attrice ha debuttato al cinema nel 1990 con il
film Crocevia della morte. Successivamente ha ottenuto
ruoli di rilievo in La vedova americana (1992), Il
club delle prime mogli (1996), Flubber – Un professore tra
le nuvole (1997), con Robin Williams,
Vi presento Joe Black (1998), con Brad Pitt,
Pollock (2000), Space Cowboys (2000),
di Clint Eastwood,
Mystic River (2003),
Mona Lisa Smile (2003), Bad New Bears – Che botte se
incontri gli orsi (2005), Into the Wild – Nelle terre
selvagge (2007), The Mist (2007), Whip It
(2009), Un giorno questo dolore ti sarà utile (2011),
Detachment (2011), Magic in the Moonlight
(2014) e Qualcosa di buono (2014) e
Grandma (2015). Nello stesso 2015 interpreta la madre di
Christian Grey in Cinquanta sfumature di
grigio, per poi riprendere il ruolo anche in Cinquanta sfumature di
nero (2017) e in Cinquanta sfumature di
rosso (2018). Ha poi recitato in Point Blank – Conto
alla rovescia e Girl Power – La rivoluzione
comincia a scuola (2021).
2. Ha recitato anche per la
televisione. Parallelamente alla carriera cinematografica,
l’attrice ha negli anni recitato anche per alcune produzioni
televisive, come i film Vendetta alla luce del giorno
(1991), Improbabili amori (1998), Il coraggio di Irena
Sendler (2009) e Amanda Knox (2011). Ha però avuto
modo anche di recitare in importanti serie come Sinatra
(1992), The Education of Max Bickford (2001-2002),
Damages (2009), Royals Pains (2010), Law &
Order – Unità vittime speciali (2005-2013), Tre mogli per
papà (2013-2014), The Newsroom (2013-2014) e Le
regole del delitto perfetto (2015), con Viola Davis.
Dal 2015 al 2018 ha interpretato la dottoressa Leanne Rorish nel
dramma Code Black. Più di recente ha invece recitato in
The Morning Show (2019) e Pronti a tutto
(2020).
3. Ha diversi progetti in
lavorazione. Apparentemente instancabile, l’attrice
continua a lavorare ad un ritmo particolarmente impressionante e
anche per i prossimi anni ha diversi progetti in programma. Da poco
ha infatti termianto le riprese del film Gigi & Nate,
incentrato sul rapporto tra un uomo sopravvissuto ad un pericoloso
incidente e un insolito amico animale. Un altro progetto che vedrà
l’attrice tra i protagonisti è invece Confess, Fletch,
rocambolesca pellicola con il Fletch del titolo chiamato a dover
provare la propria innocenza rispetto ad una serie di
omicidi. A breve, invece, la Harden inizierà le riprese di una
nuova serie dal titolo Uncoupled.
Marcia Gay Harden in Whip It
4. Ha recitato nel debutto
alla regia di Drew Barrymore. Nel 2009
l’attrice Drew Barrymore
decide di debuttare alla regia con il film Whip
It, incentrato su una giovane che trova nelle competizioni di
roller blade un modo per sfuggire dalla monotonia della sua piccola
città. La protagonista, Bliss Cavendar, è interpretata da Elliot Page e
la Harden ricopre proprio il ruolo di sua madre Brooke. In questo
film, inoltre, l’attrice si è trovata a recitare anche con
Eulala Scheel, ovvero la sua vera figlia, che
interpreta Shania, sorella di Bliss e figlia di Brooke.
Marcia Gay Harden in Space Cowboys
5. Ha avuto un ruolo di
rilievo nel film di Eastwood. Nel 2000, all’apice del suo
successo, la Harden ha ottenuto il ruolo di Sara Holland nel film
Space Cowboys, diretto da Clint Eastwood.
La storia vede quattro anziani ex astronauti chiamati ad andare
nello spazio per riparare un satellite potenzialmente pericoloso.
Grazie a questo film la Harden confermò il suo periodo di successo,
dimostrando una volta di più le varie sfumature del suo talento.
Ancora oggi l’attrice ricorda questo come uno dei film più belli in
cui ha recitato.
Marcia Gay Harden in Crocevia
della morte (Miller’s Crossing)
6. Ha avuto problemi con il
collega protagonista. Nel film del 1990 Crocevia della
morte, la vicenda vede protagonista Tom Regan, consigliere di
un boss durante l’era del Proibizionismo, il quale è impegnato a
mantenere la pace tra alcune fazioni rivali di criminali. Ad
interpretare tale personaggio vi è Gabriel Byrne,
il quale decise di rimanere costantemente nel personaggio,
sfoggiando dunque un atteggiamento distaccato, in particolare nei
confronti della Harden. L’attrice, in seguito, affermerà di non
aver inizialmente compreso il comportamento del collega, temendo di
aver fatto qualcosa di sbagliato nei suoi confronti.
7. È stata una dei pochi
attori considerati e poi confermati per il film. Come al
loro solito prima di iniziare le riprese di un film, i fratelli
Coen hanno stilato un lungo elenco di attori da tenere in
considerazione per i personaggi principali. Tra i nomi più noti vi
erano quelli di Willem Dafoe,
Andy Garcia,
Ian Holm, Richard Jenkins,
Michael Gambon, Kevin Spacey e
Dylan McDermott. Nessuno di questi ottenne però il
ruolo per cui era stato pensato. Del lungo elenco composto dai
Coen, solo la Harden venne poi effettivamente scelta per il ruolo
di Verna, mentre John Turturro
per quello di Bernie Bernbaum.
Marcia Gay Harden è su Instagram
8. Ha un account sul social
network. L’attrice è presente sul social network Instagram
con un profilo verificato il cui nickname è @mgh_8. Questo è
seguito ad oggi da 102 mila follower e con oltre mille post,
l’attrice è solita condividere momenti della propria vita al di
fuori delle scene, come foto con amici, foto di luoghi visitati o
di eventi a cui ha preso parte. Non mancano però anche post
relativi al suo lavoro, con dietro le quinte dei set a cui
partecipa o immagini promozionali dei suoi lavori attuali o
futuri.
Marcia Gay Harden e gli Oscar
9. Ha vinto l’ambita
statuetta. Nel corso della sua carriera l’attrice si è
distinta in numerosi ruoli particolarmente memorabili e intensi,
ottenendo alcuni tra i principali premi oggi presenti. In
particolare, la Harden è stata candidata al premio Oscar per la
prima volta nel 2001 come miglior attrice non protagonista nel
film Pollock. Durante la serata di premiazione,
l’attrice ha poi effettivamente vinto la statuetta, battendo
attrici del calibro di Judi Dench, Kate
Hudsone Frances
McDormand. Nel 2004, poi, l’attrice è nuovamente stata
candidata nella medesima categoria del premio per il
film Mystic River, senza però riportare la
vittoria.
Marcia Gay Harden: età e altezza dell’attrice
10. Marcia Gay Harden è nata
il 14 agosto del 1959 a La Jolla, in California, Stati
Uniti. L’attrice è alta 1.64 metri.
Marcia Gay Harden (Premio Oscar
2001 come Miglior attrice non protagonista per Pollock) avrà il
ruolo principale in The Librarian, film diretto da Juan
Feldman: sarà una bibliotecaria dai modi gentili che cerca di
rifarsi una vita, a partire da un viaggio in Costa Rica.
Scritto da Joel Silverman e
prodotto dalla Classic Films assieme Mano a Mano Films, il film
ruoterà attorno alla classica cri di mezza età: ad aiutare la
protagonista a risolvere i suoi dubbi esistenziali sarà una guida
che accompagnandola nel corso del viaggio, le darà i classici
consigli di ‘filosofia spicciola’. L’inizio delle riprese è
prevista per luglio. The Librarian sarà la prima opera sulla lunga
distanza per Feldman, che ha fino ad oggi all’attivo un paio di
corti e varie esperienze come aiuto-regista.
Lucky Red ha diffuso il trailer del
film Marcello
mio di Christophe Honoré. Il film
sarà presentato in concorso al 77° Festival di
Cannes e uscirà nelle sale italiane in
versione originale il prossimo 23
maggio.
Nell’anno del centenario della
nascita del grande Marcello Mastroianni, un
omaggio per esplorare i momenti più importanti della sua carriera
attraverso la figura di sua figlia Chiara,
protagonista del film insieme alla madre Catherine
Deneuve. Con loro Fabrice Luchini,
Melvil Poupaud, Benjamin Biolay, Nicole Garcia e Stefania
Sandrelli, che interpretano versioni in parte reali e in
parte romanzate di sé stessi.
Girato tra Parigi, Roma e la
località balneare di Formia, Marcello
mioo vede di nuovo insieme Christophe Honoré
e Chiara Mastroianni dopo
L’otel degli amori
smarriti (Chambre 212), presentato in
anteprima a Un Certain Regard, dove Chiara
Mastroianni aveva ottenuto il premio come miglior attrice.
La trama di Marcello
mio
Chiara è un’attrice, figlia di
Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve. Durante un’estate
particolarmente tormentata, decide di far rivivere suo padre
attraverso sé stessa: si veste come lui, parla come lui, respira
come lui, con una tale forza che chi le sta intorno comincia a
crederci e a chiamarla “Marcello”.
Marcello
Mastroianni è stato uno dei pilastri portanti del cinema
italiano. Divo indiscusso di quei tempi, in particolare i Sessanta,
che ancora oggi si ricordano con nostalgia; figura di cui si
scrivono tutt’ora fitte pagine per i manuali di cinema; attore
feticcio e alter ego di Federico Fellini, il cui
sodalizio artistico ha donato alla Settima Arte alcuni dei migliori
capolavori, consacrandone il mito. Charme, eleganza, ironia,
versatilità racchiusi in un uomo che la Storia (cinematografica),
in fondo, non ha smesso mai di omaggiare. E un omaggio è anche il
seme da cui germoglia la nuova fatica di Christophe Honoré, Marcello
mio, in Concorso a Cannes77, in arrivo per il centenario della sua
nascita.
Si sarebbe potuto optare per un
canonico documentario, o il più classico dei biopic, eppure il
regista ha voluto compiere un lavoro diverso: far diventare la
figlia, Chiara Mastroianni, suo padre. Solo così
il ritorno di Marcello al cinema sarebbe stato magico e palpabile.
Non poteva esserci un modo più toccante, diremmo anche originale,
per celebrarlo adeguatamente, se non farlo rivivere attraverso chi
custodisce una parte di lui. Chi lo ha vissuto da vicino,
intimamente, e ne ha carpito ogni singola sfumatura, gesto,
sguardo, persino respiro. Un compito che, forse, se lo avesse
affidato a qualcun’altro, a un attore che avrebbe dovuto affrontare
ore di studio per rappresentarlo nel migliore dei modi, non avrebbe
sortito lo stesso effetto.
Non che questa scelta non
costituisse comunque un rischio o un azzardo, e l’operazione se
vogliamo è ancor più delicata e complessa, ma il sentimento alla
base è chiaro aver avuto radici molto profonde per discostarsene e
virare verso acque più sicure. Marcello mio è
un’opera di natura molteplice: celebrativa senza
dubbio, singolare negli intenti, a tratti fantasiosa nella messa in
scena. E funziona bene nei primi due atti, perdendo l’orizzonte
solo verso la fine. Scritta dallo stesso Honoré, arriva nelle sale
italiane dal 23 maggio, subito dopo il passaggio
al Festival, distribuito da Lucky Red.
La trama di Marcello
mio
Parigi. Chiara
Mastroianni è alle prese con alcuni provini, in
particolare uno con la regista Nicole Garcia. Poco
prima di incontrarla, l’attrice ha visto la madre,
Catherine Deneuve, alla quale ha confidato di aver
sognato il padre, Marcello, e di essersi sentita lui per un
momento. Ripresasi da quell’esperienza che tanto le sembrava reale,
si reca dalla regista per dare inizio alla sua prova che la vede
recitare alcune battute con Fabrice Luchini, suo
partnern nel film, quando all’improvviso la donna, pur inizialmente
esitando, le fa una richiesta specifica per farla entrare di più
nel ruolo: deve essere più Mastroianni che Deneuve. In sintesi: più
il padre che la madre. Più italiana che francese.
Per lei quello è un segno del
destino, che però si traduce in una crisi: chi è? Cosa sta
succedendo alla sua vita? Perché gli altri non la vedono
semplicemente come Chiara? Poi l’idea, il “colpo di genio”:
trasformarsi nel padre, facendosi chiamare come lui da tutti. Un
qualcosa che, più avanti, dirà “renderla felice” perché a Chiara
Mastroianni quel padre manca molto. La transizione le permetterà di
portare in scena non solo alcune scene simbolo dei film del divo
italiano, ma proprio alcuni dei più bei suoi personaggi. Cercando
sé stessa, l’attrice creerà un nuovo contatto con il padre,
suscitando da una parte la perplessità di alcuni membri della sua
famiglia, dall’altra la gioia di chi invece non aspettava altro che
poter lavorare e incontrare per la prima volta il grande
attore.
Marcello… come here!
Christophe Honoré e
Chiara Mastroianni, con Marcello
mio, tornano a lavorare insieme per la settima volta,
cinque anni dopo l’acclamato
L’hotel degli amori smarriti, presentato proprio a Cannes
nella sezione Un Certain Regard, dove lei vinse come miglior
attrice. Un rapporto dunque consolidato, che mai come in questo
progetto era fondamentale avere per poter condurre l’attrice dentro
alcune delle memorie artistiche e umane del padre,
in un percorso fatto anche di suggestioni e immagini vibranti,
avvolte da un’atmosfera dolcemente malinconica. Chiara, che ha
raccolto la considerevole eredità artistica di Marcello, qui lo
riporta in vita, dimostrando plasticamente come quest’arte riesca a
rendere immortale chi la attraversa. Mastroianni è ricordo, ma
anche presenza concreta, veicolata tramite la figlia. Prova
tangibile che nel cinema non si smette mai di esistere, si cambia
semplicemente forma.
È impressionante constatare
l’estrema somiglianza fra i due, già evidente senza il lavoro di
trucco e parrucco svolto sull’attrice, tanto che quando assume
ufficialmente la sua identità, sembra di avere realmente di fronte
Marcello. Indossando il completo nero con la camicia bianca, il
cappello e gli occhiali massicci, Chiara riesce a evocare non solo
l’attore ma anche i personaggi iconici di cui ha vestito i panni.
Da Guido Anselmi in Otto e mezzo, a Marcello Rubini in La dolce
vita, passando per Ferdinando Cefalù in Divorzio all’italiana, arrivando a Giovanni Pontano in
La notte. E potremmo continuare.
Un omaggio tanto a
Mastroianni quanto ai film che lo hanno reso eterno, in
particolare rievocati in alcune memorabili scene. Chiara vaga per
le strade di Parigi e richiama la camminata dei
protagonisti-simbolo delle opere più famose di Fellini, fa il bagno
nella Fontana di Trevi e imita le spallucce del padre nella scena
finale de La dolce vita. L’attrice si muove con
disinvoltura, portando in scena la gestualità e le espressioni del
padre, innate e tramandate, con così tanta naturalezza da risultare
convincente. Ed è proprio in quell’istante che, come Chiara fa con
la sua famiglia, altrettanto fa Honoré con il suo pubblico: chiede
– almeno in parte – di credere in quel surreale viaggio e in ciò
che viene mostrato, senza esitare. Dove i confini tra realtà e
finzione si dissolvono, e non rimane che lasciarsi condurre nella
danza.
Di padri, di figlie…
Fra sogno e realtà, in cui si
amalgamano parentesi comiche e altre di commozione,
Marcello mio passa dalla dimensione
prettamente celebrativa della carriera dell’attore a quella più
intima e familiare, più lontana dai riflettori, mettendo
in luce la connessione che c’è fra un padre e una figlia e la
ritrovata identità di quest’ultima attraverso la figura paterna.
La crisi di Chiara, che innesca la ricerca del suo
posto nel mondo, non può non passare dal confronto con i
genitori, in tal caso con Marcello. Non
sono in fondo loro, il nostro riflesso, a indicarci sempre la
strada? A guidarci per ritrovare noi stessi, sentendoci in
contemporanea ancor più vicini? Chiara cerca il padre perché non
riesce a capire più chi è: una condizione che le fa sentire da una
parte il peso d’essere figlia d’arte, dall’altra la mancanza di una
figura andata via precocemente, creando un cortocircuito che la
condurrà alla rinascita.
Nel momento cruciale in cui Chiara
si immerge nel ruolo del padre, riesce a percepirlo profondamente,
come se Marcello fosse davvero presente accanto a lei. Lo sente, lo
commemora, ne rievoca il legame e lo ritrova. Vestendo i panni di
Marcello e giocando con l’idea di uno scambio d’identità, Chiara
dialoga con lui, riunendosi infine con quella parte di sé che aveva
perduto, ma anche con il padre stesso. Questa ritrovata
consapevolezza suscita emozione nelle battute finali, anche se non
si può fare a meno di notare che l’epilogo, per quanto visivamente
bello, arrivi in modo un po’ improvviso, generando un leggero
disorientamento. E questa, nell’economia del racconto, non è
l’unica incrinatura.
…e di scelte non sempre
all’altezza
Nonostante Marcello
mio risulti piacevole nel suo complesso, non è infatti
esente da difetti. In primo luogo il fim soffre di
un’eccessiva lunghezza, specialmente a causa di scene
troppo dilatate, che avrebbero potuto essere eliminate per
alleggerirlo. Come dicevamo in apertura, i primi due atti
funzionano bene, al netto di quelle (per fortuna) poche scene in
cui i personaggi cantano, come mostrato anche dal trailer, che
spezzano la fluidità della narrazione, non essendo ben integrate
con il resto. Tuttavia è il terzo atto a raccogliere i
maggiori problemi del film, con dei passaggi – verso il
finale – che stridono parecchio. In particolare, a far storcere il
naso, è la scena in cui Chiara/Marcello è ospite di un programma
televisivo pomeridiano su Rai 1, che risulta essere fuori contesto,
oltre a contenere delle recitazioni altamente posticce, persino da
Stefania Sandrelli.
Si tratta di un’idea sbagliata alla
base, poco coerente con l’atmosfera quasi onirica dell’opera, che
smorza la magia fino a quel momento costruita con cura. Se ci si
fosse invece limitati a questo aspetto, evitando di tirare troppo
la corda con altre incursioni narrative ingiustificate e compiendo
magari dei tagli nel montaggio, il film avrebbe guadagnato in
coerenza e solidità. Nonostante queste criticità, Marcello
mio rimane comunque un lavoro da apprezzare. Pur
inciampando in qualche scelta narrativa poco lucida e fuori tono,
con non sempre una sceneggiatura equilibrata, ha un cuore grande,
che porta il nome di Chiara e
MarcelloMastroianni.
In concomitanza con il centenario
della nascita dell’iconico Marcello Mastroianni
nel 1924, il lungometraggio esplora momenti iconici della sua vita
e della sua filmografia attraverso la figura di Chiara
Mastroianni. Secondo la sinossi ufficiale: il film è
la storia di una donna di nome Chiara. È un’attrice, figlia di
Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve, che un’estate in cui la
sua vita è in subbuglio, dice a se stessa che preferirebbe vivere
la vita di suo padre.Si veste come lui, parla come lui,
respira come lui, con tale forza che chi le sta intorno inizia a
crederci e comincia a chiamarla “Marcello”.
Chiara Mastroianni
offre una performance spavalda mentre adotta la personalità e
l’aspetto di suo padre con stupore di coloro che la circondano, tra
cui madre Deneuve, Fabrice Luchini, Melvil Poupaud,
Benjamin Biolay, Nicole Garica e Hugh
Skinner, che interpretano anche versioni in parte reali e
in parte romanzate di se stessi.
«È come se mi perseguitasse,
anzi, sono diventata il fantasma di mio padre», dichiara a un
certo punto Mastroianni. Questo viaggio porta Mastroianni a Roma,
città natale di suo padre, dove rivisita vecchi luoghi di ritrovo e
scenari chiave della sua filmografia, saltando anche nella Fontana
di Trevi per replicare l’iconica scena de La Dolce
Vita.
Il film è stato girato a Parigi,
Roma e nella località balneare di Formia, la scorsa estate. Honoré
e Mastroianni avevano già collaborato in On A Magical
Night (Chambre 212), presentato in
anteprima a Un certain Regard e vincitore del
premio come migliore attrice per Mastroianni.
A due anni dal suo
esordio dietro la macchina da presa con il cortometraggio
Being My Mom, presentato a Venezia 77 in
Orizzonti, Jasmine Trinca si cimenta con il
lungometraggio, Marcel!, espandendo e arricchendo la storia
del corto, che mostrava una madre e sua figlia, rincorrersi,
perdersi e ritrovarsi tra le rovine di una Roma assolata e deserta,
mentre si trascinavano dietro una grossa valigia e si scambiavano i
ruoli.
Marcel! è un’espansione di Being My Mom
Con le stesse interpreti,
Alba Rohrwacher e Maayane Conti, Trinca
racconta la storia di una donna, artista di strada intensa e
completamente dedita all’arte, e sua figlia, una ragazzina sveglia
e pensosa, che vuole a tutti i costi farsi vedere e amare da sua
madre. La donna, tuttavia, non ha occhi che per il suo cagnolino,
Marcel, che con lei è protagonista di un numero quasi da circo, che
la donna esegue con maestria per le strade della periferia di Roma.
Esasperata dal fatto di essere ignorata rispetto al cagnolino, la
bambina prende una decisione importante che avrà delle conseguenze
molto importanti sulla sua vita e su quella della
madre.
La storia è quindi
un’estensione, più articolata ma comunque sospesa e rarefatta, di
quel cortometraggio d’esordio. Nel film Jasmine Trinca attinge a ricordi e memorie
personali, mentre racconta il turbolento rapporto tra una madre
narcisista e immersa nella sua arte, e una figlia che tutto sommato
è normale, e vuole essere normalmente amata da sua madre che, a
seguito di un evento tragico, finirà per comportarsi non solo da
madre assorbita da se stessa ma addirittura da figlia, con la
ragazzina che si occuperà di nutrirla e fare la spesa. Un
sovvertimento di ruoli che regala alla piccola protagonista la
possibilità tanto agognata di essere vista, dal momento che diventa
indispensabile per la madre.
Alba Rohrwacher come Buster Keaton
Alba Rohrwacher e Maayane Conti sono
una coppia eccellente, con Conti che fa dello stupore che trasmette
il suo sguardo una vera e propria arma comunicativa, mentre
Rohrwacher si concede un ruolo per lei insolito, molto poco
strutturato, eccentrico ed etereo, che ricorda Buster
Keaton e le permette di giocare tanto con i movimenti
liberi del corpo. Il ruolo della madre offre all’attrice la
possibilità di sperimentare con movimenti, gesti e silenzi
un’interpretazione inedita e comunque intensa.
Una narratrice molto sensibile
Marcel! attesta la grande sensibilità di
Jasmine Trinca non solo come interprete amata
in tutta Europa, ma anche come narratrice. I bordi del suo racconto
sono labili eppure ben visibili, le sue indicazioni le immaginiamo
chiare tuttavia ben disposte a lasciare spazio agli interpreti. Il
risultato è un film intimo, personale e poetico, che si abbevera
alla fonte della creatività, unica e sola “madre” di chi vuole fare
dell’espressione di sé la propria arte e la propria
vita.
Marcel! è stato presentato tra le Proiezioni
Speciali di Cannes 75, durante il quale Jasmine Trinca ha anche fatto parte della
Giuria Internazionale. Nel
film, anche Giovanna Ralli che torna al cinema
dopo una lunghissima pausa dalla recitazione.
Ecco il trailer di Marcel!, il film esordio alla regia di
Jasmine Trinca, che sarà presentato al Festival di Cannes 75 nella sezione
Séances spéciales, e in uscita nelle sale italiane il 1° giugno,
distribuito da Vision Distribution.
Marcel! è una produzione Cinemaundici e Totem
Atelier con Rai Cinema, in collaborazione con Phon Films, in
collaborazione con Vision Distribution.
Una bambina ama sua madre, ma sua
madre ama Marcel, il suo cane. Un evento imprevedibile le porterà
in viaggio, avvicinandole e svelando loro, oltre ogni dolore, le
vie grandi e segrete dell’amore.
“Tutto questo – racconta
Trinca – parte da una fotografia. Ritraeva mia madre che mi
teneva per mano sul ciglio di un bosco. Dietro di noi un paesaggio
assolato, ma davanti? Il colore di quella foto lo avrei definito il
colore della memoria. Non della nostalgia, come una foto a colori
virata seppia, ma proprio un colore indefinibile e sfumato,
bruciato dal sole, appena attraversato e ispirato dalla “selva
oscura” pronta ad accogliere e proteggere quel passo a due. Tra
sogno e realtà. È qui che si situa questo film. Una rielaborazione
fiabesca o meglio favolistica del vissuto, cercando di
comprenderlo, esorcizzarlo, renderlo universale. Panni sporchi che
non si lavano in casa ma che diventano bandiere da sventolare, inni
programmatici: «All’arte si deve la vita». In fondo, tutto quel
vissuto, quel bagaglio pesante impossibile da lasciare, sarà pure
servito a qualcosa. A fare un film. E invece no. Nulla è più
importante ed effimero che vivere. Neanche un film che resta (o
forse no). Alla vita si deve dunque la vita”.
Tra le interpreti più amate dal
Festival di Cannes, che l’ha vista
debuttare con La stanza del figlio di
Nanni Moretti, Palma d’oro nel 2001, per poi
premiarla come migliore interprete di Un Certain Regard
per Fortunata di Sergio
Castellitto, Jasmine Trinca torna sulla
Croisette con un doppio impegno: membro della giuria internazionale
della 75. edizione e per la prima volta regista di un
lungometraggio, Marcel!, presentato in Selezione Ufficiale
nella sezione Séances spéciales, e in uscita nelle sale italiane il
1° giugno, distribuito da Vision Distribution.
Marcel! è una
produzione Cinemaundici e Totem Atelier con Rai Cinema, in
collaborazione con Phon Films, in collaborazione con Vision
Distribution.
Una bambina ama sua madre, ma sua
madre ama Marcel, il suo cane. Un evento imprevedibile le porterà
in viaggio, avvicinandole e svelando loro, oltre ogni dolore, le
vie grandi e segrete dell’amore.
“Tutto questo – racconta
Trinca – parte da una fotografia. Ritraeva mia madre che mi
teneva per mano sul ciglio di un bosco. Dietro di noi un paesaggio
assolato, ma davanti? Il colore di quella foto lo avrei definito il
colore della memoria. Non della nostalgia, come una foto a colori
virata seppia, ma proprio un colore indefinibile e sfumato,
bruciato dal sole, appena attraversato e ispirato dalla “selva
oscura” pronta ad accogliere e proteggere quel passo a due. Tra
sogno e realtà. È qui che si situa questo film. Una rielaborazione
fiabesca o meglio favolistica del vissuto, cercando di
comprenderlo, esorcizzarlo, renderlo universale. Panni sporchi che
non si lavano in casa ma che diventano bandiere da sventolare, inni
programmatici: «All’arte si deve la vita». In fondo, tutto quel
vissuto, quel bagaglio pesante impossibile da lasciare, sarà pure
servito a qualcosa. A fare un film. E invece no. Nulla è più
importante ed effimero che vivere. Neanche un film che resta (o
forse no). Alla vita si deve dunque la vita”.
Quanta strada che ha fatto la
piccola conchiglia Marcel, dai primi cortometraggio che nel 2010 lo
hanno visto diventare una star di YouTube, con oltre 48 milioni di
visualizzazioni, sino ad un lungometraggio a lui dedicato e ora
candidato anche agli Oscar2023 come miglior film
d’animazione. Marcel the Shell,
questo il titolo del film diretto da Dean Fleischer-Camp, l’ideatore
(insieme all’attrice Jenny Slate, voce originale
di Marcel) del tenero personaggio, è divenuto infatti un vero e
proprio caso cinematografico, complice l’irresistibile fascino del
piccolo mollusco e i tanti sentimenti messi in gioco nel corso
della pellicola.
Costruito come un mockumentary che
unisce riprese in live-action con animazione stop motion, il film
ha dunque per protagonista Marcel, un’adorabile
conchiglia alta poco più di due centimetri, con un grande occhio e
scarpe da ginnastica. Un tempo circondato da parenti e amici, egli
vive ora un’esistenza allegra ma solitario con la nonna
Connie (la cui voce è quella di Isabella
Rossellini). Quando viene scoperto da un regista di
documentari di nome Dean, Marcel si ritrova
inaspettatamente a diventare protagonista di una serie di brevi
video, che lo rendono una vera e propria star del web. Con la
popolarità raggiunta, si riaccende in lui la speranza di ritrovare
la famiglia perduta.
Il piccolo grande cuore di
Marcel
Protagonista di tre cortometraggi
girati tra il 2010 e il 2014, Marcel è diventato negli Stati Uniti
un vero e proprio fenomeno mediatico capace di divertire ed
emozionare semplicemente offrendo nuovi punti di vista sulla realtà
che ci circonda. In quei brevi filmati come in questo
lungometraggio a lui dedicato, il simpatico personaggio ci invita
infatti all’interno della sua quotidianità, scandita da avventure
in giro per la villa in cui abita, la realizzazione di ingegnose
invenzioni per procurarsi da mangiare o dalle riflessioni sulla
propria natura e sui legami che ha con quanti intorno a lui.
Come spesso accade, per rendersi
conto delle bellezze intorno a sé ci vuole qualcuno che sappia
guardarle in modo inedito e da prospettive diverse. Marcel è quel
qualcuno e seguendolo con fare documentaristico il regista gli
offre un vero e proprio palcoscenico dal quale raccontare la sua
storia, nella quale ognuno può ritrovare un po’ di sé. Questo
perché dietro la buffa natura del protagonista e il particolare
stile del film si nascondono temi e sentimenti propri di ogni
essere umano, dal valore dei legami affettivi all’importanza di
cercare la felicità nelle piccole cose.
Nello sguardo di Marcel c’è tutto lo
stupore e l’innocenza di un bambino, ma anche tutta l’ampia gamma
di paure ed emozioni umane, tra cui spicca quel timore del
cambiamento sempre più diffuso. Più ci si addentra nel film,
dunque, più questo si rivela essere una toccante favola, adatta a
piccoli e adulti, capace di far ricordare o insegnare il valore di
tante cose troppo spesso date per scontate. Il cuore di Marcel
the Shell sta dunque tutto qui, nella semplice, sincera e
tenera esaltazione di un mondo emotivo da proteggere e arricchire
continuamente.
Marcel the Shell diverte,
commuove e fa sognare
Alla luce di ciò, non bisogna dunque
aspettarsi un film strutturalmente “forte”, quanto più un continuo
susseguirsi di episodi, più o meno legati tra loro, che hanno
l’obiettivo di evocare stati d’animo e sensazioni. Con questo
suo film, Fleischer-Camp sembra mirare dunque ad offrire un’opera
che aiuti a fuggire dai ritmi frenetici della vita, invitando
piuttosto a concedersi una pausa, un respiro più profondo, per
ritrovare quell’equilibrio esistenziale e quel valore delle cose
che con troppa facilità si smarrisce. Liberandosi dunque da certe
rigidità narrative, Marcel the Shell trova la forza di
rappresentare tutto ciò e facendolo, soprattutto, senza scadere mai
(ed era un rischio enorme considerando quanto va a narrare) nello
strazio emotivo.
Occorre dunque concedere al film il
tempo necessario per svelarsi e far superare allo spettatore
quell’incertezza che subentra dopo poco dall’inizio, durante la
quale ci si può sentire spaesati circa la direzione che prenderà il
racconto. Nel momento in cui ogni tassello andrà al proprio posto
Marcel, con il suo umorismo e la sua genuinità, non mancherà di
divertire e commuovere in modo sincero lo spettatore, i cui occhi
saranno poi allietati dalle animazioni utilizzate per dar vita al
protagonista e i suoi amici. La singolarità di quest’opera lo rende
certamente una sorta di unicum nella categoria per cui è
candidato agli Oscar, ma è una gradita sorpresa a cui è difficile
restare indifferenti.
Marcel the
Shell, candidato ai
Golden Globe 2023 come Miglior Film
d’Animazione, arriverà in
Italia, solo al cinema, dal 9
febbraio distribuito da Lucky Red e Universal
Pictures International Italy.Un
mockumentary in stop motion scritto e diretto da Dean
Fleischer-Camp, all’esordio nel
lungometraggio, che trae spunto dalla serie di
fortunati cortometraggi realizzati da Fleischer-Camp con Jenny
Slate tra il 2010 e il 2014, che a oggi hanno totalizzato
oltre 48 milioni di visualizzazioni su
YouTube. Prima ancora di essere protagonista di un film
animato, il piccolo mollusco Marcel the Shell è
diventato una star del web, grazie alla tenerezza e la
semplicità con cui si mette e ci mette davanti allo stupore della
vita e alla voglia di non arrendersi mai. Il film è stato
presentato con grande successo in apertura ad Alice
nella città.
Marcel osserva la vita con lo
sguardo innocente di un bambino e come un bambino pone domande,
curioso di scoprire e dare un senso alle tante stranezze e
invenzioni del mondo umano che gli appaiono gigantesche, ma in
fondo, rispetto a cosa? Un racconto straordinario sul valore
dei sentimenti, dei legami affettivi e sull’importanza
di cercare la felicità nelle piccole cose.
Attraverso la storia di una conchiglia, il film parla di noi tutti,
del nostro modo di essere e comunicare, dei nostri desideri e delle
nostre ansie, dei nostri ricordi e delle nostre aspettative. Un
viaggio che spazia tra reale e immaginario che racchiude un enorme
senso di meraviglia.
Marcel the Shell – la
trama
Marcel è un’adorabile conchiglia
alta poco più di due centimetri, con un grande occhio e scarpe da
ginnastica. Vive un’esistenza allegra con la nonna Connie e il loro
animale domestico, Alan. Un tempo, facevano parte di un’affollata
comunità di molluschi; ora, sono gli unici sopravvissuti a una
misteriosa tragedia. Quando Marcel e Connie vengono scoperti da un
regista di documentari, diventano i protagonisti di un
cortometraggio. Marcel diventa in breve tempo una vera e propria
star e si riaccende in lui la speranza di ritrovare la famiglia
perduta grazie al mondo della rete digitale.
In una lunga intervista
concessa a Collider, il regista di The Amazing Spider-Man (uscito
in Italia il 4 luglio) Marc Webb ha parlato dell’origine del
progetto, della sua idea di Uomo Ragno
Le burrascose vicende produttive
alla Sony hanno impedito a Marc Webb di terminare
la sua trilogia di The Amazing
Spider-Man. La cosa potrebbe rappresentare senza
dubbio un motivo di cruccio da parte del regista che, parlando
con Slash Film in occasione della presentazione della
serie tv Limitless, ha però rivelato un
punto di vista che potremo definire sportivo.
Ecco cosa ha dichiarato Webb in
merito al futuro cinematografico di
Spider-Man: “Sono davvero eccitato
per tutte le persone alla Marvel e per quello che faranno con
il personaggio. Penso che appartenga a quell’universo e c’è un
sacco di aspettativa nello scoprire cosa verrà fuori. Probabilmente
un giorno parteciperemo a una convention, io, Sam e chiunque sia il
regista del nuovo film (la dichiarazione è stata rilasciata prima
dell’annuncio di Jon Watts alla regia del film Marvel,
ndr)”.
Durante un’intervista al Daily
Beast, il regista dei primi due capitoli di The Amazing
Spider-Man (e già confermato per il terzo film)
Marc Webb, ha rivelato che vorrebbe abbandonare la
saga dell’uomo ragno per dedicarsi ad altri progetti: “Mi
piacerebbe essere coinvolto come consulente, ma dopo il terzo film
voglio fare altro.Ho già parlato con i ragazzi della
produzione di questa mia scelta.”
Nascono quindi alcuni dubbi su dove
arriverà la storia se il regista e la produzione hanno deciso di
impostare la saga come una trilogia, ma il regista preferisce
parlare di quello che stanno sviluppando, escludendo la possibilità
di vedere Spider-Man coinvolto con gli Avengers: “Stiamo
esplorando e costruendo un universo di Spider-Man più complicato
che comprende personaggi che il pubblico finora non ha mai visto o
ha potuto ammirare poco approfonditi”
Webb chiude dicendo che sarebbe
stato sbagliato inserire Mary Jane Watson (Shailene
Woodley) in The Amazing Spider-Man
2 e ha voluto rimarcare piuttosto il ruolo di
Dane DeHaan: “Volevo che fosse intelligente
come Peter Parker; James Franco è un uomo molto
intelligente ma il suo Osborn era un po’ stupido, mentre il mio è
molto più brillante. Harry e Peter sono vincolati dalla perdita dei loro padri e in
altri problemi legati alla loro infanzia.Nei film di
Raimi Harry cercava di proteggere Peter dai teppisti e dal bullismo
mentre in questa storia Harry e Peter sono sullo stesso piano, come
veri fratelli”