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Scarlett Johansson commenta le indiscrezioni sul casting del remake live-action di Rapunzel

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Qualche giorno dopo la diffusione della notizia secondo cui Scarlett Johansson era in trattative per entrare nel cast del remake live-action di Rapunzel, la star del cinema ha finalmente rotto il silenzio sulle speculazioni. Il remake ha incontrato notevoli ostacoli nel suo percorso verso il grande schermo.

Secondo quanto riferito, la Disney avrebbe messo in pausa Rapunzel dopo lo scarso successo al botteghino del live-action Biancaneve.

Tuttavia, il progetto è stato ripreso dopo che un altro remake, Lilo & Stitch, ha riscosso un grande successo tra il pubblico.

Durante un’intervista con ET, alla Johansson è stato chiesto se ci fossero buone possibilità che interpretasse Madre Gothel nel film live-action Rapunzel. Lei ha ammesso che “tutto è possibile”, aggiungendo che l’opportunità di lavorare con il regista Michael Gracey è ciò che la entusiasma di più.

La Johansson ha poi descritto Gracey come uno “straordinario visionario” e ha affermato che qualsiasi attore “adorerebbe” collaborare con lui a Rapunzel o a qualsiasi altro progetto.

C’è una possibilità concreta? Penso che tutto sia possibile. Ciò che mi entusiasma è l’opportunità di lavorare con Michael Gracey, che è stato scelto per dirigere il film, perché è assolutamente un visionario straordinario e qualsiasi attore vorrebbe collaborare con lui.

Gracey ha iniziato la sua carriera nell’industria dell’intrattenimento lavorando a video musicali ed effetti visivi. È noto soprattutto per aver diretto il film musicale di grande successo The Greatest Showman.

Gracey ha anche sfruttato la sua esperienza nei video musicali per dirigere il documentario di Pink All I Know So Far e il film biografico su Robbie Williams Better Man, oltre ad aver ricoperto il ruolo di produttore esecutivo nel film biografico su Elton John Rocket Man.

Se Johansson finisse per firmare il contratto per interpretare Madre Gothel, sarebbe la prima star ad unirsi al remake live-action di Rapunzel. Diverse voci online hanno indicato celebrità come Sabrina Carpenter, Florence Pugh e Gigi Hadid, tra le altre, per il progetto, ma finora non ci sono altri attori a bordo di Rapunzel.

La Johansson è nota soprattutto per aver interpretato Black Widow nei film del Marvel Cinematic Universe come The Avengers, Captain America: The Winter Soldier e Black Widow. Al di fuori dell’MCU, ha recitato in film come Lost in Translation, Vicky Cristina Barcelona e Her. Ha ottenuto nomination agli Oscar per i suoi ruoli in Marriage Story e Jojo Rabbit.

Scarlett Johansson
Scarlett Johansson al Festival di Cannes – Foto di Luigi De Pompeis © Cinefilos.it

Secondo quanto riferito, l’ingresso di Johannson nel cast di Tangled segna un importante passo avanti per il remake, basato sull’omonimo film d’animazione del 2010 con Mandy Moore nel ruolo di Rapunzel, Zachary Levi in quello di Flynn Rider e Donna Murphy in quello di Madre Gothel. Tra gli altri doppiatori figuravano Brad Garrett, Ron Perlman, Jeffrey Tambor, Richard Kiel, M. C. Gainey e Paul F. Tompkins.

Tangled è basato sulla classica fiaba Rapunzel, che era matura per un remake live-action dopo che la Disney aveva fatto lo stesso per diversi altri film, tra cui Cenerentola, Maleficent (basato su La bella addormentata nel bosco), Il libro della giungla, La bella e la bestia, Aladdin e La sirenetta. Tuttavia, alcuni dei più recenti film live-action Disney non sono stati accolti altrettanto bene, con Biancaneve che ha ottenuto risultati inferiori alle aspettative.

Il successo del live-action Lilo & Stitch ha invertito questa tendenza al ribasso, spingendo i dirigenti a riconsiderare Rapunzel, uno dei film d’animazione preferiti dai fan della Disney.

Eric Dane torna in tv con un nuovo ruolo che rispecchia la diagnosi nella vita reale

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L’ex attore di Grey’s Anatomy, Eric Dane, ottiene un ruolo da guest star in un’altra serie televisiva di argomento medico, Brilliant Minds della NBC. Il suo personaggio nella serie riceve la stessa diagnosi che ha ricevuto nella vita reale.

Dane ha rivelato nell’aprile 2025 di essere affetto da SLA (sclerosi laterale amiotrofica). Nella serie, interpreterà Matthew, un pompiere che non sa come dire alla sua famiglia della sua malattia e chiede aiuto al dottor Oliver Wolf (Zachary Quinto). L’attore apparirà nella seconda stagione di Brilliant Minds, nell’episodio 9, in onda il 24 novembre 2025.

Dane è stato molto aperto riguardo alla sua battaglia contro la SLA. Continua a esprimere la sua gratitudine per le risorse a cui ha accesso e che molti altri pazienti non hanno. In una precedente dichiarazione ha anche spiegato di sentirsi molto fortunato di poter ancora lavorare e di essere entusiasta di tornare per la prossima stagione di Euphoria.

Mi sento fortunato di poter continuare a lavorare e non vedo l’ora di tornare sul set di Euphoria la prossima settimana. Chiedo gentilmente di rispettare la privacy mia e della mia famiglia in questo momento.

L’attore è anche portavoce di un’organizzazione no profit chiamata I Am ALS, fondata da Brian Wallach, a cui è stata diagnosticata la malattia nel 2017, e da sua moglie, Sandra Abrevaya. Oltre al suo lavoro filantropico, ha anche parlato del suo desiderio di utilizzare la sua grande piattaforma per aiutare le persone.

In un’intervista al Washington Post, Dane ha spiegato quante persone lo hanno avvicinato e gli hanno parlato della perdita di familiari e amici a causa della SLA. Tuttavia, nonostante le tragiche circostanze che lui e innumerevoli altre persone stanno vivendo a causa della SLA, è ancora in grado di vedere le piccole gioie che la vita ha da offrire e come può trascorrere il resto della sua vita aiutando le persone ad affrontare la malattia. “Non per essere eccessivamente morboso, ma sapete, se devo andarmene, lo farò aiutando qualcuno“.

Brilliant Minds è una serie televisiva di genere medico basata su due libri dello scrittore Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello e Un antropologo su Marte, che segue le vicende del neurologo Dr. Wolf e del suo team. La serie si concentra sia sulla loro vita personale che su quella professionale.

Spider-Man: Brand New Day, Charlie Cox smentisce la sua presenza nel film

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Mentre vari eroi del Marvel Cinematic Universe stanno comparendo in Spider-Man: Brand New Day, ci sono state molte domande sul fatto che Daredevil, interpretato da Charlie Cox, apparirà o meno. Dopo aver fatto parte del cast di Spider-Man: No Way Home, c’è stato ancora più interesse nel vedere Matt Murdock collaborare pienamente con l’iconico uomo ragno.

In una nuova intervista al podcast Phase Hero, Cox ha ora affrontato le teorie secondo cui sarebbe pronto ad apparire in Spider-Man: Brand New Day, a causa del suo programma di riprese a Londra. Tuttavia, il veterano dell’MCU ha sottolineato: “So che tutti pensano che io sia in Spider-Man perché sto girando qualcosa a Londra, ma non è così, non sono in Spider-Man”.

In Spider-Man: No Way Home, Cox è apparso nei panni dell’iconico avvocato Marvel per aiutare Peter Parker, interpretato da Tom Holland, più di tre anni dopo che la terza stagione di Daredevil aveva portato alla fine della serie Netflix. Nello stesso anno, prima dell’uscita del film, il co-protagonista di Cox, Vincent D’Onofrio, è tornato nella timeline dell’MCU nei panni di Kingpin nella serie TV Hawkeye.

Quello che sappiamo su Spider-Man: Brand New Day

Ad oggi, una sinossi generica di Spider-Man: Brand New Day è emersa all’inizio di quest’anno, anche se non è chiaro quanto sia accurata.

Dopo gli eventi di Doomsday, Peter Parker è determinato a condurre una vita normale e a concentrarsi sul college, allontanandosi dalle sue responsabilità di Spider-Man. Tuttavia, la pace è di breve durata quando emerge una nuova minaccia mortale, che mette in pericolo i suoi amici e costringe Peter a riconsiderare la sua promessa. Con la posta in gioco più alta che mai, Peter torna a malincuore alla sua identità di Spider-Man e si ritrova a dover collaborare con un improbabile alleato per proteggere coloro che ama.

L’improbabile alleato potrebbe dunque essere il The Punisher di Jon Bernthal recentemente annunciato come parte del film – in una situazione già vista in precedenti film Marvel dove gli eroi si vedono inizialmente come antagonisti l’uno dell’altro salvo poi allearsi contro la vera minaccia di turno.

Di certo c’è che il film condivide il titolo con un’epoca narrativa controversa, che ha visto la Marvel Comics dare all’arrampicamuri un nuovo inizio, ponendo però fine al suo matrimonio con Mary Jane Watson e rendendo di nuovo segreta la sua identità. In quel periodo ha dovuto affrontare molti nuovi sinistri nemici ed era circondato da un cast di supporto rinnovato, tra cui un resuscitato Harry Osborn.

Il film è stato recentemente posticipato di una settimana dal 24 luglio 2026 al 31 luglio 2026. Destin Daniel Cretton, regista di Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, dirigerà il film da una sceneggiatura di Chris McKenna ed Erik Sommers. Tom Holland guida un cast che include anche Zendaya, Jacob Batalon, Mark Ruffalo, Sadie Sink e Liza Colón-Zayas e Jon Bernthal. Michael Mando è stato confermato mentre per ora è solo un rumors il coinvolgimento di Charlie Cox.

Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

Colman Domingo sarà il Leone Codardo in Wicked – Parte 2

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Colman Domingo è stato scelto per dare la voce al Leone Codardo in Wicked – Parte 2. L’annuncio è stato dato lunedì sull’account Instagram di “Wicked”, con Domingo che si è nascosto dietro un peluche a forma di leone prima di rivelarsi e dire: “Ci vediamo a Oz!“.

Il regista Jon M. Chu ha recentemente anticipato che i fan sarebbero stati entusiasti di scoprire di chi si trattasse. “Aspettate il red carpet, quando l’attore che ci ha dato la voce del Leone Codardo ci metterà piede. Sarà pazzesco”, ha detto.

Il Leone Codardo era uno dei personaggi principali del classico del 1939 “Il Mago di Oz”. In “Wicked”, è il giovane cucciolo che Elphaba (Cynthia Erivo) e Fiyero (Jonathan Bailey) salvano dopo che il Dottor Dillamond è stato portato via e un nuovo professore porta un leone in gabbia in classe. L’insegnante spiega che, essendo imprigionato, il cucciolo non imparerà mai a parlare. Mentre Elphaba si arrabbia, i suoi poteri creano un momento in cui lei e Fiyero possono afferrare il cucciolo e correre nella foresta per liberarlo.

In Wicked – Parte 2 il cucciolo è ormai adulto e si trasforma nel Leone Codardo, che incolpa Elphaba della sua situazione. Con il sequel che si sovrappone alle linee temporali de “Il Mago di Oz”, il leone viene visto con Dorothy, l’Uomo di Latta e lo Spaventapasseri mentre percorrono la Strada di Mattoni Gialli per incontrare il Mago (Jeff Goldblum). Lo si vede anche durante il numero musicale “La Marcia dei Cacciatori di Streghe”. Tuttavia, come nel musical di Broadway, il personaggio non ha una parte importante.

Wicked – Parte 2 The Soundtrack, annunciata la colonna sonora in uscita il 21 novembre

Il cast di Wicked – Parte Due comprende anche i candidati all’Emmy Bowen Yang e Bronwyn James nei panni degli assistenti di Glinda, Pfannee e ShenShen, e la candidata ai BAFTA e ai Grammy Sharon D. Clarke (Caroline, or Change) come voce della tata di Elphaba, Dulcibear.

Il film è prodotto da Marc Platt, già vincitore di Tony ed Emmy, e da David Stone, più volte vincitore di Tony. I produttori esecutivi sono Stephen Schwartz, David Nicksay, Jared LeBoff, Winnie Holzman e Dana Fox. Il primo film, Wicked, uscito nel novembre 2024, ha ottenuto 10 nomination agli Oscar®, tra cui quella per il miglior film, vincendo gli Oscar® per Migliori Costumi e per la Migliore Scenografia. Ad oggi, il film ha incassato 750 milioni di dollari in tutto il mondo.

Wicked – Parte Due è basato sul musical che ha segnato una generazione, con le musiche e i testi del leggendario compositore e paroliere Stephen Schwartz, vincitore di Grammy e Oscar®, e sul libro di Winnie Holzman, tratto dal romanzo bestseller di Gregory Maguire. La sceneggiatura è di Winnie Holzman e Winnie Holzman & Dana Fox. La colonna sonora del film è di John Powell & Stephen Schwartz, con musiche e testi di Stephen Schwartz.

Star Wars: Adam Driver rivela di un sequel mai realizzato su Kylo Ren

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Secondo Adam Driver, che ha interpretato Kylo Ren, alias Ben Solo, una volta ha proposto un sequel di Star Wars. Il potenziale film avrebbe seguito Solo, ma sfortunatamente la Disney ha rifiutato l’opportunità. In un’intervista con Jake Coyle dell’Associated Press, Driver ha spiegato di essere sempre stato interessato a lavorare ad altri film della saga. L’idea ha cominciato a prendere forma nel 2021 dopo che Kathleen Kennedy, presidente della Lucasfilm, lo ha contattato. L’attore ha rivelato che, purché ci sia un buon team creativo dietro al progetto, lui sarebbe stato pronto in un batter d’occhio.

“Era dal 2021 che parlavo di farne un altro. Kathleen (Kennedy) mi aveva contattato. Ho sempre detto: con un grande regista e una grande storia, sarei pronto in un secondo. Amavo quel personaggio e amavo interpretarlo”.

Driver ha spiegato che il film riprenderebbe dopo gli eventi di L’ascesa di Skywalker, l’ultimo film della trilogia sequel. Voleva che il film esplorasse ulteriormente l’arco di redenzione di Kylo. L’attore riteneva che la storia del suo personaggio fosse incompleta e voleva dare a Ren la conclusione che meritava. Driver ha ricordato di aver portato il suo film (che si sarebbe intitolato The Hunt for Ben Solo) al regista Steven Soderbergh e poi di averlo presentato a Kennedy, al vicepresidente della Lucasfilm Cary Beck e al direttore creativo Dave Filoni. A quanto pare, tutti e tre hanno apprezzato l’idea. Erano così entusiasti che hanno persino coinvolto Scott Z. Burns per scrivere la sceneggiatura.

Tuttavia, una volta presentata a Bob Iger (amministratore delegato della Walt Disney Company) e Alan Bergman (co-presidente della Disney Entertainment), l’idea è stata immediatamente bocciata. I due non riuscivano a superare la morte di Ren e hanno semplicemente affermato che il film non avrebbe avuto alcun senso.

Abbiamo presentato la sceneggiatura alla Lucasfilm. L’idea è piaciuta molto. Hanno capito perfettamente il nostro punto di vista e il motivo per cui lo stavamo facendo. L’abbiamo portata a Bob Iger e Alan Bergman e loro hanno detto di no. Non riuscivano a capire come Ben Solo potesse essere vivo. E così è finita lì.”, ha affermato Driver.

Anche Soderbergh ha rilasciato una dichiarazione. Il regista ha rivelato di essersi divertito molto a immaginare il film nella sua testa ed era deluso dal fatto che i fan di Star Wars non avrebbero mai potuto vederlo. Sebbene The Hunt for Ben Solo di Driver e Soderbergh non sia mai stato realizzato, ci sono molti altri progetti di Star Wars in uscita che i fan possono attendere con ansia. Tra questi ci sono The Mandalorian and Grogu (2026), Star Wars: Starfighter (2027) e un progetto senza titolo di Dave Filoni.

California Schemin’, recensione del film di James McAvoy – #RoFF20

Gavin Bain (Séamus McLean Ross) e Billy Boyd (Samuel Bottomley, visto anche in Anemone) sono due giovani rapper di Dundee con un talento indiscutibile, ma schiacciati da un pregiudizio culturale. Nel Regno Unito dei primi anni Duemila, il loro accento scozzese è motivo di derisione: nessuna etichetta vuole credere che possano avere successo. Così, per sopravvivere e farsi ascoltare, inventano un’altra vita – diventano Silibil N’ Brains, due musicisti californiani dal passato immaginario e dall’accento “perfettamente” costruito.

Da quel momento, la loro esistenza diventa una performance continua: tour, interviste, contratti discografici e puntate su MTV. Il film si apre con la scritta “A true story based on a lie” (Una storia vera basate sulle bugie), sintesi perfetta di una trama in cui la menzogna diventa atto di ribellione e desiderio di riconoscimento. James McAvoy, per la prima volta regista, invita lo spettatore a seguire i due protagonisti lungo il confine fragile tra sogno e inganno, successo e perdita di sé.

California Schemin’: l’industria musicale come specchio distorto

Sotto la superficie brillante della commedia musicale, California Schemin’ nasconde un’analisi affilata del sistema discografico. McAvoy racconta un mondo in cui l’immagine vale più del contenuto, e dove la provenienza geografica – più ancora del talento – decide chi merita di essere ascoltato.

Il cambio di accento diventa un gesto politico e psicologico insieme: fingendo di essere americani, Gavin e Billy riescono a realizzare i loro sogni, ma a costo di smarrire la propria identità. Il regista (anche lui attore, nel ruolo del discografico) ritrae l’industria come un teatro dell’assurdo, popolato da agenti, produttori e giornalisti che si muovono come caricature di un sistema malato di apparenza. L’ironia corrosiva ricorda i toni di The Social Network e Tonya, ma con una leggerezza tutta britannica, che trasforma la critica sociale in uno specchio amaro del mondo contemporaneo.

Tra commedia e malinconia

McAvoy dirige con equilibrio raro, alternando il ritmo elettrico delle sequenze musicali alla quiete fragile dei momenti più intimi. I concerti, le interviste, i party mondani esplodono di energia, ma dietro la frenesia si avverte la solitudine dei due protagonisti, costretti a vivere dentro una maschera. Il risultato è un film che vibra di sincerità, anche quando racconta la finzione.

La commedia non cancella la malinconia, ma la amplifica. Più i due ragazzi conquistano il successo, più la loro verità si sgretola e la bugia assume i tratti di un ricatto emotivo. 

Due volti della stessa illusione in California Schemin’

Le interpretazioni di Séamus McLean Ross e Samuel Bottomley sono il cuore emotivo del film. Ross restituisce la vulnerabilità di Gavin, il suo oscillare tra entusiasmo e colpa; Bottomley incarna l’energia impulsiva e autodistruttiva di Billy, la parte più selvaggia e incosciente del duo. Insieme creano un’alchimia autentica, fatta di amicizia, complicità e disillusione.

McAvoy, al suo esordio dietro la macchina da presa, dimostra una sensibilità notevole nel dirigere gli attori. Il suo sguardo è intimo e partecipe, osserva i personaggi cogliendone la complessità, il loro bisogno di essere “qualcuno” nel mondo musicale. La regia privilegia il dettaglio – un gesto, una pausa, un cambio di sguardo – più che la spettacolarità, e proprio in questa misura trova la sua forza.

Identità e metamorfosi

Uno dei temi più riusciti è la trasformazione linguistica come metafora esistenziale: cambiare accento significa cambiare pelle. Il film suggerisce che l’identità non è una condizione stabile, ma un processo continuo di adattamento – e che la menzogna, a volte, è solo una forma di sopravvivenza.

In questo senso, California Schemin’ è anche un film profondamente politico: racconta il razzismo culturale (o, come afferma il personaggio di Gavin, “scozzismo”) con leggerezza, denunciando la logica di un’industria che premia l’imitazione e punisce l’autenticità. Il talento viene sottoposto alla provenienza, facendo luce a un processo che, si immagina, prosegue tuttora.

California Schemin’: un esordio che convince

Basato sul memoir di Gavin Bain, California Schemin’ racchiude un tocco di verità: i filmati originali girati dai veri Silibil N’ Brains. È un gesto di restituzione, che dissolve la distanza tra finzione e realtà e lascia emergere tutta la malinconia della storia.

James McAvoy firma un debutto sorprendentemente solido: ironico ma mai superficiale, energico ma attraversato da una malinconia autentica. La sua regia è al servizio dei personaggi, non del virtuosismo; e nel racconto di due giovani che fingono per essere ascoltati, emerge un discorso più ampio sull’arte, l’identità e la società dell’immagine.

California Schemin’ è, in fondo, la storia di due bugiardi sinceri — e di un regista che, nel raccontarli, trova la sua verità.

Miss Carbon, recensione del film con Lux Pascal – #RoFF20

Ambientato nella Patagonia argentina, Miss Carbon porta sullo schermo la storia vera di Carla Antonella Rodriguez (interpretata da Lux Pascal, sorella di Pedro), una ragazza transgender cresciuta in un contesto tanto ostile quanto realistico. Nata Carlos, Carla affronta fin da giovanissima l’esclusione familiare e sociale: la famiglia non la accetta più in casa, la comunità la emargina, e il gelo della Patagonia diventa metafora del suo isolamento interiore.

Prima ancora di desiderare di essere donna, racconta alle amiche transgender, sognava di fare la “minera”, di lavorare in miniera come gli uomini della sua città. Ma una superstizione locale vieta alle donne di entrare in miniera, con l’eccezione del giorno in cui si festeggia la “Regina del Carbone”. È un divieto simbolico che disegna i confini di un mondo dove il genere stabilisce il posto che ti è concesso nella società.

L’identità come lavoro quotidiano

Miss Carbon segue Carla nel suo percorso di affermazione personale e di ricerca di un posto nel mondo. La regista Agustina Macri racconta la transizione non come un evento isolato, ma come un cammino complesso, fatto di ostacoli e piccoli gesti di resistenza quotidiana.

Il film attraversa gli anni che precedono il 2012, quando in Argentina viene approvata la legge che riconosce il diritto all’identità di genere. Per Carla questo momento rappresenta una svolta: può finalmente vedersi riconosciuta dallo Stato e, formalmente, essere ciò che è sempre stata.

Eppure, quella che sembra una conquista si trasforma in una nuova esclusione. Nel mondo del lavoro, dove aveva trovato un raro equilibrio, la sua trasformazione la relega dietro una scrivania, tra colleghe diffidenti. Prima, quando non era ancora legalmente donna, le era permesso lavorare in miniera perché formalmente ancora uomo. Dopo, quando finalmente la burocrazia la riconosce in qualità di entità femminile, viene allontanata.

Il paradosso è evidente e doloroso: prima non riconosciuta, ma accettata nel lavoro maschile; poi riconosciuta, ma esclusa da ciò che amava fare. È qui che si concentra il cuore politico e umano del film: il riconoscimento formale non basta, se la cultura e il pensiero collettivo restano fermi.

La forza del lavoro e il peso del genere

Macri costruisce un racconto sobrio e intenso, privo di retorica. La messa in scena si muove tra primi piani e silenzi sospesi, restituendo un realismo quasi documentaristico che valorizza il corpo e lo sguardo della protagonista. Le mani annerite dal carbone, i rumori della miniera, il contrasto tra luce e polvere creano una dimensione fisica e sensoriale che accompagna la metamorfosi di Carla.

Attraverso di lei, Miss Carbon racconta la doppia discriminazione di una donna transgender in un mondo che non sa accettare né la diversità né la femminilità come forza. L’amore con un ingegnere, breve e fragile, e la morte violenta di un’amica trans riportano la narrazione alla realtà più cruda, dove la normalità resta un privilegio negato.

Lux Pascal, con una prova misurata e profonda, dà vita a una protagonista complessa senza mai scivolare nel melodramma. La sua Carla è vulnerabile ma determinata, lucida e sognatrice. In lei convivono la dignità del lavoro e la dolcezza di chi ha imparato a vivere controvento. Non cerca privilegi, ma giustizia. Vuole solo poter amare, lavorare, esistere.

Miss Carbon e il diritto di essere accettati

Carla ottiene finalmente il riconoscimento legale del proprio nome, ma scopre che la vera battaglia è un’altra: essere accolta per ciò che è, non per ciò che rappresenta. La sua vittoria non apre le porte, le chiude: viene allontanata proprio da quel mestiere che le aveva dato forza e senso di sé.

È questa la contraddizione più potente del film, che si trasforma in una riflessione universale sul prezzo dell’autenticità. Quanto costa essere se stessi in un mondo che definisce i ruoli prima ancora delle persone? Miss Carbon non offre risposte, ma lascia emergere domande profonde sull’inclusione, sull’uguaglianza e sulla libertà di esistere senza dover giustificare la propria presenza.

Miss Carbon è un film che scava, come la sua protagonista, nella miniera più profonda: quella dell’animo umano. Un’opera necessaria, che parla di coraggio, dignità e del bisogno di essere parte di un mondo che, troppo spesso, non sa ancora accogliere.

Il Falsario: recensione del film di Stefano Lodovichi – #RoFF20

La storia italiana, specie quella degli anni ’70 e ’80, è un bacino colmo di misteri, criminalità e ideali. Un territorio segnato da lotte sociali, poteri occulti e grandi bugie. Sono gli anni di piombo e spesso, ciò che più scuote il Paese, arriva e confluisce in un’unica città: Roma. Dal caso Moro alla nascita della Banda della Magliana, quella stagione ha dato forma a un cinema gangster all’italiana che oggi, alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, torna in scena con Il Falsario, visto in anteprima al Giulio Cesare.

Diretto da Stefano Lodovichi, il film si ispira alla figura di Antonio Chichiarelli, uno dei più geniali falsari italiani, ma come ci viene detto fin da subito, questa è solo una delle possibili versioni della sua storia. Con una sceneggiatura firmata da Sandro Petraglia (in collaborazione con Lorenzo Bagnatori) e un protagonista come Pietro Castellitto, Il Falsario arriva su Netflix dal 23 gennaio, pronto ad arricchire il nostro immaginario criminale.

La trama de Il Falsario

Negli anni Sessanta, un ragazzo di provincia di nome Toni ha un’unica ossessione: diventare l’artista più famoso di Roma. Così lascia Lago della Duchessa e parte per la Capitale insieme ai suoi due inseparabili amici, Fabione e Vittorio. Ognuno con un sogno diverso in tasca: chi vuole scegliere da che parte stare finendo poi arruolato nelle Brigate Rosse, chi sogna una carriera nel mondo ecclesiastico. A Roma, però, la vita di Toni prende una piega inaspettata. L’incontro con Donata, una gallerista, gli stravolge il destino. Lei capisce subito ciò che gli altri non vedono: Toni non è un semplice artista, ma ha un dono particolare: sa copiare qualsiasi cosa alla perfezione, un quadro, una firma, persino un intero stile pittorico. Ed è lì che si apre la sua vera strada, perché i suoi dipinti, nel mercato, non li comprerebbe nessuno. Da quel momento, la scalata comincia. Toni entra nei giri della Roma criminale, dove il suo talento diventa qualcosa che tutti vogliono. Ma ogni nuovo incarico sembra sempre più pericoloso, fino a quando non si ritrova coinvolto persino nel caso Moro.

Il Falsario film

Una Roma pungente, pericolosa e piena di fascino

Il cinema italiano contemporaneo ama rileggere il passato, restituendolo sempre con un’estetica vintage che piace a coloro che amano il genere. Anche Lodovichi segue questa scia, scegliendo di ricostruire con cura ambientazioni e costumi di una Roma turbolenta ma piena di sogni, arte, idee e contraddizioni. A fare da teatro alle vicende di Toni e delle sue rocambolesche imprese è una Capitale agitata ma viva, in bilico tra il caos e la luce: non solo terrorismo e paura, ma anche conquiste sociali e nuovi orizzonti culturali.

Il Toni interpretato da Pietro Castellitto si muove proprio dentro questo equilibrio precario, tra brama di potere, conquista, e la voglia di trovare un posto nel mondo che lo faccia sentire bene con se stesso. Il regista e gli sceneggiatori restituiscono bene il contesto e il respiro politico e criminale in cui è immersa la narrazione, senza però spingersi a fondo nella complessità dei meccanismi che raccontano. Una fotografia calda e aranciata, cifra visiva ormai tipica di questo tipo di produzioni, ci accompagna in una Roma dove servizi segreti, mafia e Brigate Rosse si muovono come in uno spettacolo inquieto, su cui Marco Bellocchio ha costruito alcuni dei suoi capolavori migliori.

Il Toni di Pietro Castellitto

Ed è proprio la parte storica quella più riuscita e curata. Si apprezzano le location ricostruite con attenzione, così come l’energia dei personaggi, che restituiscono il fermento di una Capitale agitata ma determinata. Se questo è l’aspetto più riuscito, è anche vero che Il Falsario comincia a inclinarsi nel momento in cui deve ricamare attorno al suo protagonista, Toni. Pietro Castellitto – qui nella sua versione più vanesia e ironica – interpreta bene il suo falsario, donandogli quell’aria da “finto innocente” e, al tempo stesso, da “faccia da schiaffi.” Eppure questo non basta a farcelo amare fino in fondo.

Si capisce che Toni è uno di quelli furbi e intelligenti, che sanno sempre come girare la situazione a proprio favore, e lo fanno con quello sfacciato sarcasmo romanesco e quella veracità piacente che sa farsi seguire. Ma nell’atto pratico delle sue imprese, il film resta in superficie. Non entra mai davvero in profondità narrativa, non scava nelle sue crepe. Tutto resta un po’ generico, come se Il Falsario avesse paura di osare. Forse per restare dentro certi limiti commerciali, per offrire il “giusto” al pubblico, il materiale che può piacere senza sporcare troppo, senza mettere mai davvero in crisi lo spettatore. Per non appesantirlo.

Il Falsario

Un ottimo cast

Nonostante qualche debolezza in scrittura, è innegabile che la forza di Il Falsario sia il suo cast. Ogni attore sembra calato perfettamente nel proprio ruolo, capace di restituire tensioni e sfumature di un’epoca che ancora oggi ci ammalia. Oltre a Castellitto, spicca Claudio Santamaria, algido e impenetrabile, incarnazione perfetta dei cosiddetti “servizi deviati”. Edoardo Pesce è invece un Balbo credibile e magnetico. Funzionano anche i comprimari: Andrea Arcangeli nel ruolo del prete Vittorio e Pierluigi Gigante in quello del brigatista Fabione. I loro personaggi portano con sé crisi, segreti e ambizioni irrisolte, alimentando la ricchezza del racconto. Il Falsario si regge su di loro, su un cast affiatato, che restituisce tutte le ferite e il fascino del periodo, rendendolo un film nella sua totalità riuscito per il pubblico di riferimento.

Vie privée: recensione del nuovo film con Jodie Foster-#RoFF20

Jodie Foster ritorna sul grande schermo con una nuova intrigante commedia interamente in francese! Vie privée, diretto da Rebecca Zlotowski (I figli degli altri), segue le vicende di una psichiatra, interpretata proprio dalla Foster, che si lancia in una curiosa caccia all’uomo. Il film è stato presentato in anteprima fuori concorso al Festival di Cannes lo scorso maggio, per poi essere nuovamente proiettato al Norwegian International Film Festival, al Toronto Film Festival e alla Festa del cinema di Roma. Nel cast si ritrovano diverse figure già molto note nel panorama cinematografico internazionale: Daniel Auteuil (Sostiene Pereira, Le confessioni) qui interpreta l’ex marito della psichiatra Lilian, mentre Matthieu Amalric (The french dispatch, Sound of metal) è nel ruolo di Simon Cohen-Solal. Altri personaggi ricorrenti sono interpretati da Vincent Lacoste (Amanda) e da Luàna Bajrami (Ritratto della giovane in fiamme).

Vie privée: un delitto (quasi) perfetto

Lilian è una psichiatra, segue diversi pazienti, alcuni da diversi anni; una delle sue pazienti storiche, Paula, non si presenta alle ultime sedute. Così dopo poco Lilian viene a sapere che la donna è morta: sembra trattarsi di un suicidio.

La psichiatra non riesce ad accettare la sua dipartita per vari motivi. Prima Lilian non pensa di essere effettivamente influenzata emotivamente dalla morte della donna: dopo tutto, si trattava di una paziente, non di un’amica o di una parente. Ciononostante, dopo tanti anni di terapia, si era creato un rapporto speciale tra le due. Inoltre, non sembra credibile che Paula si sia suicidata: proprio perché la donna ha seguito un percorso di psicanalisi per tanti anni, sarebbe stato facile riscontrare ad un certo punto degli istinti suicidi, e Lilian non ha mai notato nulla di simile nella paziente.

Foto Credits George Lechaptois

L’unica soluzione che trova la psichiatra è quindi che non si tratti di un suicidio, bensì di un omicidio mascherato. Inizia così un’insaziabile caccia all’assassino: i primi indiziati sembrano essere proprio i familiari di Paula, per motivi psicologici o economici. Gabriel, ex marito di Lilian, la affiancherà nelle indagini, in un mix di prove, eventi confusi e visioni dall’ipnosi; il risultato sarà certamente imprevedibile.

La psicanalisi del dolore

Tema di partenza di Vie privée è proprio la psicoterapia e la sua efficacia: questo elemento in sé viene affrontato a tratti in chiave ironica, come si denota ad esempio all’inizio quando uno dei pazienti di Lilian le comunica bruscamente di non voler più proseguire con la terapia, asserendo che si sia trattato di una perdita di tempo e soldi.

Con il volgere verso il finale però, è chiaro come l’analisi della mente umana assuma una rilevanza sempre maggiore. Talvolta anche per chi è tenuto ad ascoltare per lavoro può essere difficile catturare al meglio tutte le informazioni ed emozioni che l’altro comunica e questo può avere delle conseguenze, anche gravi.

L’analisi psicanalitica in Vie privée non riguarda però solamente i pazienti, ma anche Lilian stessa. Nello scoprire della morte di Paula, si vede come lei accolga il proprio dolore e lutto con sorpresa, tanto da collegare il suo pianto continuo a un problema fisico più che emotivo. Ciò può essere collegato a un forte sentimento di negazione, che porta la psichiatra a voler trovare una vera spiegazione, giustificazione al gesto della sua paziente: Lilian non riesce ad accettare l’idea di non aver visto veramente ciò che aveva sotto gli occhi.

Foto Credits George Lechaptois

Il sogno nell’ipnosi

L’ipnosi diviene un altro fattore focale in Vie privée già nella prima parte del film: Lilian, non riuscendo a smettere di piangere, si rivolge a una donna che aveva già messo in atto tali pratiche per far smettere di fumare l’ex paziente della psichiatra. Quest’ultima, molto scettica inizialmente, inizia presto ad avere delle visioni molto particolari, a cui attribuisce un’importanza determinante per la risoluzione dell’assassinio di Paula.

Si tratta certamente di visioni, proiezioni arzigogolate che la mente di Lilian produce per trovare una giustificazione alla morte della sua amata paziente; ciononostante, la psichiatra gli attribuisce un’importanza tale da affidarsi completamente ad esse, trovandoci anche il motivo del difficile rapporto che Lilian ha con suo figlio. Il ragazzo, nel sogno ipnotico, è un soldato nazista, mentre lei è una musicista ebrea; quindi, i due si ritrovano in due fronti opposti.

Vie privée racchiude in se importanti riflessioni sulla difficoltà di affrontare le proprie emozioni, così anche l’importanza dell’ascolto; tutto questo lo fa però mantenendo una certa chiave ironica e un ritmo incalzante.

Nino, recensione del film con Théodore Pellerin – #RoFF20

Nino Clevel (Théodore Pellerin) festeggia il suo 29° compleanno quando riceve una diagnosi inaspettata: tumore alla gola causato dal papilloma virus. Il film, che prende il nome dal suo protagonista, Nino, si concentra su ciò che accade nei giorni successivi alla diagnosi – quelli di cui raramente si parla, in cui la vita continua come se nulla fosse ma tutto è già cambiato.

Inizialmente convinto di avere solo un’infiammazione, Nino va in ospedale per chiedere qualche giorno in più di malattia. Ne esce, invece, con la consapevolezza di una malattia seria e della necessità di prelevare e conservare il proprio sperma prima delle cure. Quando scopre che in ospedale non c’è una stanza disponibile per la procedura, decide di tentare nel bagno di un bar – un gesto tragicomico che sintetizza la surreale normalità del film. È lì che incontra per caso una vecchia compagna di scuola, e quell’incontro segna l’inizio di un’apertura emotiva, prima volutamente repressa.

Cortesia Roma Cinema Fest

Intanto, l’amico Sofian (William Lebghil) gli organizza una festa a sorpresa per il compleanno: tra musica, bicchieri e risate, Nino cerca di nascondere la sua paura. Non riesce a dirlo alla madre (Jeanne Balibar), che fraintende le sue esitazioni pensando stia per annunciarle una transizione di genere. La scena, comica e tenera allo stesso tempo, restituisce la confusione di chi non sa ancora dare un nome al proprio dolore.

Nino: diagnosi, azione e il coraggio di fingere

Loquès, al suo esordio, costruisce un film che non indulge nella tragedia, ma si sofferma sull’attesa, sul silenzio, su ciò che resta taciuto. C’è una battuta chiave, affidata a Sofian: “Il segreto dell’azione è cominciare”. Nino la fa sua, continuando però a “fingere che tutto vada bene” – accusa alla quale ribatte con disarmante semplicità: “Non è quello che fanno tutti?”.  In quei momenti, Nino sembra suggerire che vivere non significhi soltanto reagire, ma anche – e forse soprattutto – avere il coraggio di iniziare. Di riconoscere, accettare, parlare.

Il lavoro di Loquès mostra quanto quel weekend prima dell’inizio della cura sia pieno di quotidianità: pranzi con amici, telefonate, risate che nascondono un dolore, tutto prima di iniziare la terapia. È un film sui giorni invisibili, di quelli che rimangono a metà tra la quotidianità e l’orizzonte che cambia all’improvviso.

Cortesia Roma Cinema Fest

Tra fragilità e leggerezza – lo sguardo di Pauline Loquès

La regista evita qualsiasi pietismo. La sua macchina da presa osserva più che giudicare, alternando primi piani e campi lunghi che restituiscono il peso del tempo e la leggerezza dei gesti quotidiani. Nino vive di dettagli: la voce che cambia, le risate forzate, le telefonate non fatte, il tentativo di essere normale dentro un corpo che non lo è più.

Il tono resta costantemente in bilico tra dramma e commedia, tra accettazione e rifiuto. L’umorismo non alleggerisce il dolore, lo rende umano, tangibile. Théodore Pellerin regala un’interpretazione sfumata e sincera, capace di catturare la vulnerabilità di chi si scopre improvvisamente fragile e finito.

Nino e il coraggio di cominciare

Nino non parla di malattia, ma di vita – dei giorni in cui si impara a restare dentro la paura, a confidarsi, a smettere di fingere. È un film che invita a guardare il momento che precede la cura, quello in cui tutto è ancora possibile e tutto fa paura.

Dedicato a Romain, persona cara alla regista, la pellicola è un atto d’amore verso la fragilità umana e la forza del “cominciare”. Un invito a spostare lo sguardo dalla malattia alla vita che le ruota intorno; a chiedersi quanto tempo impieghiamo per dire ciò che conta; a scoprire che la libertà non è solo assenza di dolore, ma possibilità di mostrarsi per ciò che si è.

È un racconto di coraggio sommesso, di voci che tremano, di amicizia autentica. Una storia sull’inizio come atto vitale – e sulle farfalle che vogliono volare libere e senza costrizioni, come ricorda lo stesso protagonista.

Rental Family: recensione del film con Brendan Fraser – #RoFF20

Le agenzie che in Giappone offrono un servizio di interpreti chiamati ad impersonare parenti, amici o via dicendo per chi ne è privo sono oltre 300, come dichiarato dalla regista Hikari, che su questa realtà ha basato il suo film Rental Family – Nelle vite degli altri, presentato alla Festa del Cinema di Roma – dove lo abbiamo visto in anteprima – e che segna il ritorno di Brendan Fraser ad un ruolo da protagonista dopo quello che gli è valso l’Oscar, The Whale. Come si diceva, il film si basa dunque su una realtà ampiamente diffusa ormai da decenni e che dice molto su certe derive dell’umanità sviluppatesi in questo tempo.

Prende così forma, dopo lunghe ricerche condotte dalla regista – qui al suo secondo lungometraggio dopo 37 seconds – un racconto profondamente radicato nel nostro contemporaneo, che esplora una precisa realtà facendone lo spunto di partenza per una riflessione universale sui rapporti umani, sul loro valore e la loro fragilità. Il risultato è un film delicato e dal gran cuore, che permette inoltre a Fraser di aggiungere alla sua carriera un altro personaggio a cui è facile affezionarsi.

La trama di Rental Family

Phillip (Brendan Fraser), un attore americano a Tokyo, fatica a trovare la sua vocazione fino a quando, un bel giorno, si trova ad accettare un ruolo particolare, oltreché moralmente complicato: per un’agenzia di “parenti a noleggio”, interpretare questa o quell’altra controfigura familiare per degli sconosciuti. Man mano, addentrandosi nel piccolo mondo di ciascun cliente, sente in sé crescere sentimenti fin troppo genuini, che progressivamente confondono la finzione con la realtà.

Brendan Fraser in Rental Family
Brendan Fraser in Rental Family

Soli, ma insieme

Il Giappone, uno dei paesi nel quale le percentuali di persone che si dichiarano sole e/o alienate sono tra le più alte. Una realtà come quella dell’affitto di persone-surrogati non poteva dunque che svilupparsi qui (ma con i tempi che corrono non è difficile credere che in futuro possa essere esportata). Una solitudine percepita non solo da chi vi è nato e cresciuto ma anche da chi arriva dall’esterno. È il caso di Phillip, un personaggio che la regista descrive con grande precisione sin da subito come un uomo in un contesto in cui non riesce del tutto ad inserirsi.

È più alto della media, ingombrante, tagliato fuori e posto ai margini (della società e dell’inquadratura). Nel osservarlo muoversi con difficoltà tra le strade di Tokyo viene immediato accostarlo al Bob di Bill Murray protagonista di Lost in Translation. Le somiglianze tra i due personaggi sono molteplici: entrambi attori in declino, si trovano a Tokyo per girare uno spot di dubbio gusto (anche se Phillip ha scelto poi di rimanervi) e si ritrovano incastrati tra bilanci sulla loro vita e i sentimenti soffocati.

Attraverso gli occhi grandi e curiosi di Fraser, andiamo dunque alla scoperta di questa realtà tanto assurda quanto ormai radicata nel reale. Una realtà germogliata sul fertile terreno della crescente solitudine e fattasi largo tra un sempre crescente numero di persone che non riesce ad interesse veri legami umani o ad accettare il proprio posto nel mondo. Per fare un altro accostamento cinematografico, Phillip è ciò che l’OS1 Samantha è in Lei di Spike Jonze. Fortunatamente, qui il surrogato è ancora umano, cosa che permette la formazione di legami che si potrebbe ancora definire più autentici.

Brendan Fraser nel film Rental Family
Brendan Fraser in Rental Family

All’interno di Rental Family ritroviamo così un’umanità variegata, che porta in più occasioni a pensare come ogni personaggio meriterebbe un proprio film a parte (in particolare la collega di Phillip, interpretata dalla brava Mari Yakamoto), che ci racconti la sua storia e i legami con quelle degli altri. Uno spunto suggerito a più riprese dall’osservazione che il protagonista fa di ciò che accade negli appartamenti di fronte al suo. Un essere “soli ma insieme” che da sempre ci lega, anche se inconsapevolmente.

Rental Family è un delicato elogio ai rapporti umani

Didascalico? Forse. Ricattatorio? Il rischio c’era, ma non si verifica. Hikari riesce a portare avanti quella sobrietà e delicatezza di cui un film di questo genere hanno bisogno, trovando nella semplicità e nella sobrietà le chiavi vincenti. Ci riesce anche affidandosi pienamente a Brendan Fraser, che interpreta un ruolo per il quale – data la sua storia lavorativa – si rivela ideale. Come accennato, i suoi grandi occhi trasmettono tutta l’emotività di Phillip, uomo buono ma ferito, e l’attore offre un’altra dimostrazione della sua bravura.

Così facendo, tra il fingersi marito, amico e soprattutto padre della piccola Mia (uno dei due ruoli più importanti per lui), il protagonista e la regista dietro di lui ci conducono attraverso una storia che alterna momenti di grande umorismo (alcune scene suscitano autentiche risate) ad altri profondamente toccanti (impreziositi da alcune battute che restano impresse nel cuore), invitando e contribuendo alla riflessione sempre più urgente – in questo mondo iperconnesso ma solitario – sull’importanza di rapporti reali, anche quando costruiti su bugie bianche.

Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo – Stagione 2: dal 10 dicembre su Disney+

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La seconda stagione della serie originale Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo debutterà il 10 dicembre su Disney+. La nuova stagione di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo è basata su “Il mare dei mostri”, il secondo capitolo della serie di libri best-seller di Rick Riordan, pubblicata da Disney Hyperion ed edita in Italia da Mondadori.

Dopo che la barriera del Campo Mezzosangue viene infranta, Percy Jackson si imbarca in un’epica odissea nel Mare dei Mostri in cerca del suo migliore amico Grover e dell’unica cosa che potrebbe salvare il campo: il Vello d’Oro. Con l’aiuto di Annabeth, Clarisse e del suo nuovo fratellastro, il ciclope Tyson, la sopravvivenza di Percy è di vitale importanza nella lotta per fermare Luke, il Titano Crono e il loro piano imminente di abbattere il Campo Mezzosangue e, a seguire, anche l’Olimpo.

Creata da Rick Riordan e Jonathan E. Steinberg, la seconda stagione di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo vede nel ruolo di executive producer Steinberg e Dan Shotz insieme a Rick Riordan, Rebecca Riordan, Craig Silverstein, Ellen Goldsmith-Vein di Gotham Group, Bert Salke, Jeremy Bell di Gotham Group, D.J. Goldberg, James Bobin, Jim Rowe, Albert Kim, Jason Ensler e Sarah Watson.

La seconda stagione di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo è interpretata da Walker Scobell, Leah Sava Jeffries, Aryan Simhadri, Charlie Bushnell, Dior Goodjohn e Daniel Diemer. La prima stagione di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo è disponibile su Disney+.

Good Boy, recensione del film di Jan Komasa – #RoFF20

Tommy (Anson Boon) è un giovane bullo perso tra droghe, alcool e autodistruzione. Dopo una notte di eccessi, si risveglia in una cantina, incatenato al collo. È stato rapito da una famiglia che sostiene di volerlo “rieducare”, correggere le sue devianze e offrirgli una nuova possibilità di vita. Sul televisore accanto a lui scorrono le immagini del suo passato: video di bravate, violenze e risse, alternati a filmati educativi su come comportarsi al meglio. È la prima fase del suo percorso di correzione, un rito di deumanizzazione e ricostruzione.

La casa in cui è prigioniero è abitata da Chris (Stephen Graham, visto recentemente nella serie Netflix Adolescence), il padre carismatico e autoritario; Kathryn (Andrea Riseborough), la madre dal sorriso calmo e lo sguardo glaciale; e il figlio Jonathan (Kit Rakusen). A completare la famiglia c’è Rina (Monika Frajczyk), domestica dell’Europa dell’Est, costretta a firmare un accordo di riservatezza.

Le origini di Good Boy: dalla Polonia allo Yorkshire

Il progetto nasce da un’idea del produttore Jerzy Skolimowski, che propose la sceneggiatura a Jan Komasa mentre il regista stava promuovendo Corpus Christi (2019). Il copione, inizialmente scritto in polacco e ambientato a Varsavia, è stato adattato in lingua inglese e trasferito nello Yorkshire per ampliare la portata internazionale del racconto.

Good Boy segna così il primo film in inglese di Komasa, che conserva però il suo stile riconoscibile: realismo morale, tensione psicologica e riflessione sulla responsabilità individuale.

La fiducia come prigionia

La famiglia rappresentata in Good Boy vive secondo un rigido codice “zero sprechi”: niente sperperi, niente eccessi, un ecosistema perfetto e inquietante dove anche l’educazione diventa un atto di controllo. “Trust isn’t black or white; trust is a process and it has to be built” (“La fiducia non è assoluta; la fiducia è un processo, che deve essere costruito pian piano”), afferma Kathryn, sintetizzando in questo modo il cuore del film.

La violenza non è mai gratuita, ma si insinua nella quotidianità, nella falsa dolcezza dei riti familiari. Il compleanno di Tommy, celebrato con affetto in un contesto assurdo, segna l’inizio del “processo di fiducia”: per la prima volta gli viene concesso di uscire all’aria aperta, pur restando incatenato.

Con il passare del tempo, la catena diventa più lunga, gli spazi più ampi. Il padre adottivo/guardia carceraria costruisce un sistema di anelli e lucchetti che permette a Tommy di muoversi per tutta la casa, “libero” ma sempre sorvegliato. Si tratta di un paradosso perfetto: la libertà concessa come strumento di controllo.

Qual è la vera prigione?

Good Boy interroga lo spettatore su un dilemma morale: è peggiore la prigionia imposta o quella che ci costruiamo da soli? Essere liberi può significare smarrirsi, diventare schiavi dei propri vizi e impulsi; essere limitati può voler dire, in un certo senso, essere salvati.

Komasa mette in scena questo dualismo con un equilibrio raro, muovendosi tra il dramma psicologico e la commedia nera. Il contrasto tra il mondo esterno – rumoroso, caotico – e la casa immobile, quasi sospesa nel tempo, diventa la metafora di una società che cerca la redenzione nel controllo.

Il cast di Good Boy e la catena dell’animo umano

Con Good Boy, Jan Komasa firma il suo film più spiazzante e maturo, un’opera che mette in crisi lo spettatore prima ancora del protagonista. L’interpretazione di Anson Boon dà corpo a un personaggio sospeso tra colpa e desiderio di redenzione, mentre Stephen Graham e Andrea Riseborough incarnano con inquietante naturalezza la banalità del male travestita da amore.

Komasa costruisce un racconto che oscilla tra ironia e orrore, ma trova la sua forza nella quiete disturbante dei dettagli: un gesto gentile, un sorriso, una catena che si allunga ma non si spezza mai.

Good Boy non è solo una storia di prigionia, ma una parabola sulla libertà come illusione collettiva — e sulla paura di vivere senza regole, né padroni. Un film interessante, lucido e disturbante, che lascia addosso il rumore del metallo: quello delle nostre stesse catene.

Gli occhi degli altri: recensione del film di Andrea De Sica – #RoFF20

Quando si parla di violenza, si cade spesso nell’errore di credere che l’amore del carnefice verso la vittima fosse solo un amore “malato”. Ma non è così. È la società stessa ad essere costruita su un regime patriarcale e maschilista mai davvero smantellato. E nel panorama cinematografico contemporaneo, molti registi provano ad affrontare questi temi, alcuni con più coraggio di altri.

Andrea De Sica lo fa con Gli occhi degli altri, costruendo un film che parte dal desiderio e dall’erotismo per trasformarli, gradualmente, in ossessione e dominio. Il riferimento è diretto e dichiarato: uno dei casi di cronaca nera più noti in Italia, quello del marchese Casati Stampa. Abbiamo visto il film in anteprima al Cinema Giulio Cesare, in occasione della 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma.

La trama di Gli occhi degli altri

Lelio è un marchese tutto d’un pezzo che vive in una villa a picco sul mare, su un’isola, insieme alla moglie, ed è solito organizzare feste e cene nel weekend con ospiti dell’alta borghesia. Durante una di queste incontra Elena, sposata con un suo amico, con cui inizia una relazione adultera. La stessa sera consumano un rapporto, osservati di nascosto da un domestico di Lelio, ma Elena non è turbata: quello scambio di sguardi sembra coinvolgerla. Su questa dinamica si costruisce la loro storia. Quando si separano dai rispettivi coniugi e si sposano, i due iniziano a filmare Elena mentre ha rapporti con altri uomini, sotto lo sguardo compiaciuto di Lelio. Un rituale voyeuristico che si rompe quando la donna attraversa un momento difficile che le cambia le priorità. Ma Lelio non ci sta: la vuole ancora “in forma”, esattamente com’era. E quando Elena si innamora davvero di un altro uomo, oltrepassando il confine del loro patto silenzioso, lui ne decreta la fine.

Gli occhi degli altri film

Tra potere, sguardo e possesso

Una fotografia dalla patina vintage ci proietta negli ultimi anni Sessanta, in un’atmosfera fredda e disturbante. Il sole che si riflette sulla villa a picco sul mare – spesso in tempesta – non basta a riscaldare ambienti segnati da un’inquietudine profonda, che cresce scena dopo scena. Lelio, interpretato da un impeccabile Filippo Timi, ha lo sguardo rigido, tagliente. Sin dai primi piani, il personaggio trasmette ambiguità e instabilità, che si amplificano nel momento in cui incontra Elena: da quel momento in poi, lei diventa il suo unico destino.

De Sica riesce a costruire tensione e apprensione attorno alla figura della nuova marchesa, e lo fa con una regia che lavora per progressione, puntando in primis sul concetto di voyeurismo fino ad arrivare alla violenza annunciata, dando una forma concreta a ciò che poteva essere il rapporto tra i due coniugi prima del celebre omicidio. Il punto di partenza è una dimensione erotica, dove desiderio e feticismo si intrecciano, dando vita a una relazione apparentemente libera, ma carica di presagi sinistri. Elena è inizialmente una donna avvenente, sicura del proprio corpo e del proprio desiderio, ma quella libertà si rivelerà presto una condanna letale.

Elena, da donna libera a oggetto

Elena rappresenta la libertà – mentale, sessuale, personale – di una donna che vuole essere se stessa senza dover pagare un prezzo. Ma, paradossalmente, proprio quella libertà diventa la miccia del suo annientamento. Nel momento in cui lei sceglie di cambiare, di non voler più essere protagonista dei video pornografici girati dal marito, di cercare un’altra via dopo aver affrontato un aborto, viene punita. Non ha più diritto di esistere come soggetto, ma solo come proiezione del desiderio altrui.

È qui che il film entra pienamente nella dimensione del thriller psicologico. Lelio diventa il suo carceriere emotivo. Un uomo solo, che si riempie di feste e registrazioni, che compra tutto: corpi, oggetti, attenzioni. Un despota sedotto dal proprio potere, che si arricchisce solo nel controllo, ma si impoverisce nella sua umanità. Elena, invece, prova a sottrarsi. Quando incontra un altro uomo, quando capisce cosa vuole davvero dalla vita, sceglie di chiudere con quella relazione. Ma non le è permesso. Perché è Lelio a tenere ancora in mano il copione.

Gli occhi degli altri

Un thriller d’autore

Gli occhi degli altri è un film che funziona proprio per la sua scelta di non affrettare nulla. Restituisce ogni dettaglio, ogni incrinatura, con una pazienza quasi angosciante, fino a un finale che – pur noto – arriva come l’unica conclusione possibile. De Sica lavora per sottrazione, senza retorica, e affida tutto alla forza dei due interpreti. Jasmine Trinca è, come sempre, superba.

Un’attrice solida, mai prevedibile, che non ha paura di esporsi e concedersi. La sua Elena è piena di chiaroscuri, imperfetta ma viva, disperatamente attaccata a un’idea di autodeterminazione che la società (e il marito) non le permettono. Ed è supportata da un partner di tutto rispetto, Filippo Timi, che sa trovare il perfetto equilibrio tra l’essere un uomo di potere con tutto il suo appeal e carsima, e un personaggio disturbato, che scivola nell’abisso del delirio. Tutto con una naturalezza sconvolgente. Ed è proprio per questo che riesce nel suo intento: scuotere chi guarda.

Ronan Day-Lewis: intervista al regista di Anemone

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Ronan Day-Lewis esordisce al cinema con Anemone, un dramma familiare con protagonisti Daniel Day-Lewis e Sean Bean. Lo abbiamo incontrato a Roma, in occasione della presentazione del film ad Alice nella Città 2025, ecco cosa ci ha raccontato del film. Anemone arriva nei cinema italiani dal 6 novembre, distribuito da Universal Pictures.

Leggi la nostra recensione di Anemone

Ambientato nel nord dell’Inghilterra, il film racconta di un uomo che si avventura nei boschi per confrontarsi con il fratello che da anni vive come un eremita, intrappolato in un passato di violenza politica e personale.

Diretto da Ronan Day-Lewis, al suo debutto come regista, da una sceneggiatura scritta insieme al padre Daniel Day-Lewis, che interpreta anche il ruolo principale. Coproduzione tra Regno Unito e Stati Uniti, il film segna il ritorno di Day-Lewis alla recitazione per la prima volta dopo Phantom Thread nel 2017, affiancato da Sean Bean e Samantha Morton nei ruoli secondari. Il film racconta la storia di un solitario tormentato, il cui fratello, da cui si era allontanato, arriva per convincerlo a tornare a casa e ricongiungersi con la sua famiglia.

Left-Handed Girl: recensione del film di Shih-Ching Tsou – #RoFF20

Produttrice di lungo corso per Sean Baker (Anora, Un sogno chiamato Florida) e co-regista di Take Out, Shih-Ching Tsou firma con Left-Handed Girl il suo primo lungometraggio da sola, pur restando in dialogo strettissimo con il sodale: Baker co-scrive e soprattutto monta, imprimendo quel ritmo spinto che conosciamo. Il risultato è un film che porta addosso i tratti “familiari” (sguardo sugli invisibili, precarietà luminosa, bambini come bussola morale) ma che prova a prendersi uno spazio personale, più legato a memorie, cultura e dinamiche di genere del contesto taiwanese. L’accoglienza festivaliera lo conferma: esordio alla Semaine de la Critique di Cannes e percorso internazionale, con l’ulteriore peso specifico della candidatura taiwanese agli Oscar.

Taipei come parco giochi (e campo minato)

Tsou immerge lo spettatore nel ventre dei mercati notturni di Taipei: scooter che sfrecciano, insegne acide, vapore delle cucine, contrattazioni, odori. È un dispositivo sensoriale che fa da habitat alla piccola I-Jing, alla sorella maggiore I-Ann e alla madre Sho-Fen, tornata in città per riaprire una minuscola cantina di street food e rimettere insieme la vita. La regia abbraccia la frenesia urbana e la traduce in messa in scena: macchina spesso in movimento, raccordi rapidi, ellissi che tengono il racconto in corsa. Ne nasce uno slalom tra commedia di sventura, osservazione sociale e melò familiare che, pur con qualche curva brusca, raramente perde aderenza.

La mano sinistra: stigma, gioco, gesto politico

Il titolo non è un vezzo: il nonno impone alla nipote di non usare la mano sinistra – “la mano del diavolo” – e quel rimprovero superstizioso diventa miccia narrativa e simbolica. La “mano che fa da sé” ruba cianfrusaglie, combina guai, a volte salva la situazione; soprattutto, materializza un doppio movimento: il controllo patriarcale che disciplina i corpi femminili fin dall’infanzia e, in risposta, la ribellione capricciosa ma vitalissima di chi rifiuta di farsi correggere. È un’idea semplice e potente, che Tsou declina con umorismo fisico e tenera crudeltà quotidiana, senza tesi martellanti.

Una scena di Left-Handed Girl

Tre generazioni, tre traiettorie

La regista intreccia le linee narrative di tre figure femminile: la nonna con zone d’ombra legate all’immigrazione e ai debiti, la madre Sho-Fen schiacciata dai conti del banco al mercato, la figlia maggiore I-Ann che cerca autonomia in equilibrio precario, e la piccola I-Jing, magnete del racconto. Per 108 minuti l’idea di “romanzo familiare al presente” funziona: i segreti filtrano per indizi, il quartiere diventa rete di sostegno e di conflitto, la città è personaggio. Qualche snodo corre via in fretta, ma l’insieme resta coeso grazie a un disegno chiaro degli archi emotivi e alla costanza di tono tra leggerezza e ferita.

Vitalismo vs. scorciatoie

Quando Left-Handed Girl si affida al gesto e allo spazio – gli inseguimenti in scooter, i corridoi del mercato come labirinto, l’intimità compressa dell’appartamento – trova un respiro suo: il movimento racconta la lotta, la topografia urbana rispecchia gli ostacoli. In pochi passaggi affiora il rischio “facile”: il cute factor della bambina è spinto al massimo e certe catarsi arrivano un attimo prima di quanto sarebbe necessario per farle maturare. Sono scivolate episodiche più che un’impostazione ruffiana: si percepisce il desiderio di Tsou di tenere il pubblico vicino senza tradire i personaggi.

Interpretazioni, sguardo e consistenza visiva

Il trio femminile regge e trascina il racconto: Janel Tsai dà a Sho-Fen una concretezza stanca e combattiva; Shih-Yuan Ma costruisce un’adolescenza non apologetica; la piccola Nina Ye calamita lo sguardo ma, quando la regia le concede tempo, resta personaggio e non mascotte trascinante. Intorno, comprimari affettuosamente tratteggiati (il venditore “angelo custode”, i nonni contraddittori) rendono credibile la micro-comunità del mercato. Sul piano visivo, la fotografia abbraccia un colorismo saturo che potrebbe stancare altrove, qui coerente con l’idea di un mondo “troppo pieno” in cui farsi strada. Il soundscape – clacson, sfrigolii, chiacchiericcio – non è semplice cornice: è drammaturgia.

Il film mette a fuoco il patriarcato per accumulo di gesti: il giudizio sull’essere mancini, i debiti “ereditati”, la sessualizzazione precoce dell’adolescente, i piccoli ricatti economici e affettivi. Tsou preferisce la frizione del quotidiano alla lezione espositiva e, proprio lì, si sente la sua voce distinta dal “marchio Baker”. Quando serve, sa anche colpire con nettezza – una carezza negata, un pasto saltato, uno sguardo del nonno – senza bisogno di sottolineature.

Left-Handed Girl, una scena dal film

Left-Handed Girl è un’opera prima vibrante e generosa: il vitalismo è autentico, la cornice urbana è viva, la metafora della mano sinistra è spina dorsale e bussola. L’editing a caleidoscopio e qualche scorciatoia sentimentale ogni tanto erodono profondità, ma non intaccano la sensazione di un mondo pieno, osservato con empatia e senso del dettaglio. Si esce da questa visione con immagini appiccicate addosso – mercati, scooter, piccole disobbedienze – e con la certezza che Tsou abbia già un tono (o meglio, una mano) chiaramente riconoscibile.

Il Falsario: teaser trailer del nuovo film con Pietro Castellitto in anteprima alla Festa del Cinema di Roma

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Il Falsario, il nuovo film diretto da Stefano Lodovichi con protagonista Pietro Castellitto, verrà presentato questa sera in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, fuori concorso nella sezione Grand Public. Contestualmente all’anteprima, Netflix ha diffuso il teaser trailer del film, che sarà disponibile in streaming dal 23 gennaio 2026.

Prodotto da Cattleya, parte di ITV Studios, Il Falsario è scritto da Sandro Petraglia con la collaborazione di Lorenzo Bagnatori, e tratto dal libro Il Falsario di Stato di Nicola Biondo e Massimo Veneziani. Nel cast, accanto a Pietro Castellitto, troviamo Giulia Michelini, Andrea Arcangeli, Pierluigi Gigante, Aurora Giovinazzo, con Edoardo Pesce e Claudio Santamaria.

Una storia di talento, inganno e destino

Ambientato nella Roma degli anni ’70, Il Falsario racconta la storia di Toni, un giovane pittore che arriva nella Capitale con il sogno di diventare un grande artista. Dotato di un talento naturale e di una fame di vita che lo spinge oltre i limiti, Toni finisce però risucchiato in un mondo di trame oscure, menzogne e segreti di Stato. Il suo dono per la pittura lo porterà a diventare il più grande falsario italiano, figura chiave in alcuni dei misteri più oscuri della storia del Paese.

I crediti del film

Un film Netflix prodotto da Cattleya – parte di ITV Studios. Soggetto di Sandro Petraglia e Lorenzo Bagnatori, sceneggiatura di Sandro Petraglia con la collaborazione di Lorenzo Bagnatori, diretto da Stefano Lodovichi (La stanza, Christian).

Spider-Man: Brand New Day foto dal set rivelano il primo sguardo a Sadie Sink nell’MCU

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Spider-Man: Brand New Day riporterà finalmente Tom Holland nell’universo cinematografico Marvel. Sebbene ci siano solo pochi film MCU in uscita nel 2026, uno dei più attesi del prossimo anno è il quarto film da solista dell’attore, dopo essere stato assente dal franchise dal 2021.

Con le riprese principali ancora in corso, @UnBoxPHD ha dato una prima occhiata a Sadie Sink, mentre è sul set insieme al regista di Spider-Man: Brand New Day, Destin Daniel Cretton. L’immagine mostra la star di Stranger Things avvolta in una felpa beige con cappuccio mentre chiacchiera con il regista.


Holland, che ha ripreso le riprese dopo aver subito una lieve commozione cerebrale il 21 settembre 2025, è stato avvistato mentre girava una scena in costume mentre era sospeso su dei cavi. Sink è entrata a far parte del progetto il 12 marzo 2025.

Sebbene le foto dal set abbiano rivelato la sua prima apparizione sul set, non è chiaro quale ruolo interpreterà l’attrice 23enne nel film, dato che la Marvel Studios e la Sony Pictures hanno mantenuto il riserbo sui dettagli. Ci sono state varie voci su chi potrebbe interpretare, tra cui Jean Grey degli X-Men, dato che è in programma un reboot dei mutanti per la timeline dell’MCU.

In un’intervista con Deadline il 23 maggio 2025, Sink ha mantenuto il riserbo quando le è stato chiesto dei rumors sul personaggio per la Fase 6. Ha dichiarato: “Anch’io vedo molti rumors. È stato davvero bello leggerli. Adoro l’universo Marvel. Insomma, sono rumors fantastici”.

Il cast di Spider-Man: Brand New Day ha aggiunto anche Liza Colón-Zayas e Tramell Tillman in ruoli misteriosi. Marvin Jones III darà vita a Tombstone della Marvel nel film del 2026, dopo aver doppiato il cattivo dei fumetti in Spider-Man: Into the Spider-Verse.

Jon Bernthal farà finalmente il suo debutto cinematografico nell’MCU, riprendendo il ruolo di Frank Castle, alias Punisher, dopo averlo interpretato per anni in Daredevil, Daredevil: Born Again e nella sua serie per Netflix. L’attore avrà anche una presentazione speciale nell’MCU in arrivo nel 2026, anche se Disney+ non ha ancora fissato una data di uscita.

Il film di Holland sarà l’ultimo della Fase 6 prima di Avengers: Doomsday e Avengers: Secret Wars, con il film del 2027 che concluderà The Multiverse Saga, anche se non è chiaro se la star britannica sarà presente in entrambi i progetti. Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

Blood Diamond – Diamanti di sangue, la spiegazione del finale del film con Leonardo DiCaprio

Uscito nel 2006 e diretto da Edward Zwick, Blood Diamond – Diamanti di sangue è un film che unisce l’azione al dramma politico, raccontando le atrocità della guerra civile in Sierra Leone negli anni ’90 e il traffico dei cosiddetti “diamanti insanguinati”, pietre preziose vendute per finanziare i conflitti armati in Africa. Interpretato da Leonardo DiCaprio, Djimon Hounsou e Jennifer Connelly, il film non è solo un thriller avvincente, ma anche una riflessione sulla colpa, sulla redenzione e sul prezzo dell’avidità.

Il finale di Blood Diamond – Diamanti di sangue rappresenta la conclusione emotiva e morale di questo percorso: un momento in cui i personaggi principali si confrontano con la verità delle proprie scelte e con la possibilità – o impossibilità – di salvarsi.

La corsa verso la libertà e la morte di Danny Archer

Nell’atto finale, Danny Archer (Leonardo DiCaprio) e Solomon Vandy (Djimon Hounsou) riescono a recuperare il diamante rosa nascosto dal minatore africano durante la prigionia nei campi dei ribelli. La fuga attraverso le montagne è una delle sequenze più tese del film: i due uomini, un tempo separati da interessi opposti, sono ora uniti da un obiettivo comune – la libertà del figlio di Solomon e la possibilità di un futuro migliore.

Quando Archer viene colpito dai ribelli, comprende che non potrà sopravvivere. In uno dei momenti più iconici del film, consegna il diamante a Solomon e lo aiuta a fuggire in elicottero, accettando di rimanere indietro. Sanguinante, si arrampica su una collina, accende una sigaretta e osserva il paesaggio africano al tramonto. È un addio silenzioso, ma anche una confessione visiva: per la prima volta nella sua vita, Danny Archer agisce per qualcun altro, non per profitto.

Il suo sacrificio rappresenta il compimento di un arco morale complesso. Ex mercenario e trafficante di diamanti, Archer aveva visto l’Africa solo come una fonte di guadagno. Nel finale, invece, trova una forma di redenzione attraverso la solidarietà e la consapevolezza.
La morte, per lui, diventa una liberazione: smette di essere un predatore e si riconcilia con la terra che aveva sfruttato.

Il significato del diamante e il tema della redenzione

Djimon Hounsou in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Il diamante rosa non è soltanto un oggetto di valore, ma un simbolo di corruzione e potere. Tutto il film ruota attorno a esso: è la causa della guerra, del dolore di Solomon e della vita cinica di Archer. Ma nel momento in cui Archer lo consegna all’amico, la pietra cambia significato: non è più un mezzo di sfruttamento, ma di libertà. Quel gesto trasforma il “diamante di sangue” in un diamante di speranza, segno che anche nel cuore della violenza può nascere un atto di giustizia.

L’elemento visivo – il sangue di Archer che macchia la terra – rafforza il messaggio del film: il prezzo della ricchezza è sempre umano. Zwick costruisce questo momento con un linguaggio epico e intimo insieme, alternando il respiro ampio del paesaggio africano e il dettaglio degli occhi di DiCaprio, che per la prima volta esprimono pace.

Il finale e la denuncia del sistema

Jennifer Connelly e Leonardo DiCaprio in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Dopo la morte di Archer, il film mostra Solomon Vandy arrivare a Londra per testimoniare davanti a una commissione internazionale. Porta con sé il diamante, ora prova tangibile dei traffici illegali che finanziano le guerre africane. L’aula è piena di giornalisti, politici e rappresentanti del settore minerario: il suo discorso, semplice ma incisivo, denuncia l’indifferenza dell’Occidente verso le tragedie africane.

Questa sequenza chiude il film su un doppio livello: individuale e collettivo. Sul piano personale, Solomon ottiene giustizia e riabbraccia il figlio, riscattando la propria umanità. Sul piano politico, Blood Diamond – Diamanti di sangue invita lo spettatore a riflettere sul costo etico del lusso. Il diamante, oggetto di desiderio universale, diventa simbolo di complicità globale: chi lo compra senza sapere da dove proviene partecipa, indirettamente, al ciclo di violenza che lo ha generato.

Un epilogo di speranza e consapevolezza

Jennifer Connelly e Djimon Hounsou in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Il film si chiude con un applauso della sala dopo la testimonianza di Solomon. È un momento di catarsi collettiva, ma anche una domanda aperta: cosa cambierà davvero? Zwick non offre risposte consolatorie. L’applauso non cancella il sistema di sfruttamento, ma segna un punto di svolta simbolico. Il sacrificio di Archer e il coraggio di Solomon rappresentano due forme di resistenza: una personale, l’altra civile.

Il titolo stesso, Blood Diamond – Diamanti di sangue, rimane un monito: dietro ogni oggetto di bellezza può nascondersi una storia di sangue. Il finale, dunque, non è un lieto fine ma un invito alla consapevolezza – quella che trasforma la denuncia in memoria e la memoria in responsabilità.

Nel suo ultimo sguardo sull’Africa, Danny Archer ritrova ciò che aveva dimenticato: un legame umano. E in quell’istante di quiete, mentre la terra assorbe il suo sangue, Blood Diamond trova la sua verità più semplice e universale: la redenzione non cancella il passato, ma gli dà finalmente un senso.

Hood Witch – Roqya, la spiegazione del finale del film di Saïd Belktibia

Nel finale di Hood Witch – Roqya di Saïd Belktibia, la tensione spirituale e sociale che attraversa tutto il film raggiunge il suo culmine. Dopo aver tentato di riscattarsi grazie alla sua app Baraka, creata per connettere i guaritori spirituali con chi cerca aiuto, Nour si ritrova intrappolata in un meccanismo che non controlla più. La promessa di redenzione e di equilibrio che aveva motivato la sua impresa si trasforma in un incubo morale.

La pellicola, interpretata magistralmente da Golshifteh Farahani, non si conclude con una vittoria o una sconfitta, ma con una presa di coscienza: la protagonista scopre che il potere della roqya — la pratica di esorcismo e guarigione coranica — non è solo un atto spirituale, ma un riflesso delle paure, delle fragilità e delle contraddizioni di chi vi si affida.

Come abbiamo raccontato nell’approfondimento dedicato alla storia vera di Hood Witch – Roqya, il film non si basa su fatti realmente accaduti, ma affonda le sue radici nella realtà sociale delle periferie francesi e nell’uso contemporaneo della spiritualità come via di sopravvivenza. È proprio questo legame con la realtà a rendere il finale così potente: anche se fittizia, la storia di Nour parla di vite autentiche e di dilemmi universali.

La discesa di Nour: dal desiderio di salvezza all’illusione del potere

Nel corso del film, Nour passa dall’essere una piccola contrabbandiera a una sorta di “intermediaria spirituale” digitale. L’app Baraka, nata con buone intenzioni, diventa presto un mercato ambiguo dove fede e profitto si confondono. Il suo successo attira attenzione, denaro, ma anche oscurità. Nour inizia a perdere il controllo del progetto e di sé stessa, mentre intorno a lei cresce un clima di sospetto e paura.

Il finale mostra questa trasformazione come una discesa interiore. Nour non è più soltanto un’imprenditrice o una truffatrice: è una donna che, cercando la guarigione per sé e per gli altri, finisce per diventare vittima del sistema che ha creato. La roqya, che nel film rappresenta la speranza di purificazione, si ribalta nel suo contrario: un rituale di potere e dominio che consuma chi lo pratica.

Belktibia costruisce la scena conclusiva come un rito speculare al titolo: Hood Witch — la “strega della periferia” – non è una figura demoniaca, ma un simbolo della distorsione contemporanea della spiritualità. Nour, che voleva solo riscattarsi, finisce prigioniera della stessa logica che aveva voluto combattere: quella che trasforma la fede in merce e la sofferenza in occasione di guadagno.

Il significato simbolico della “guarigione”

Nell’ultima parte del film, la roqya diventa un concetto ambivalente. Da un lato, è il rito di liberazione dal male, dall’altro rappresenta la tentazione di controllare la fede per trarne vantaggio. Nour comprende troppo tardi che nessuna formula o applicazione può davvero curare l’anima se alla base non c’è empatia.

Quando la vediamo affrontare il fallimento e la perdita, il film suggerisce che la vera roqya non è quella recitata con parole sacre, ma quella che nasce dal riconoscere i propri errori e accettare la vulnerabilità. La protagonista, svuotata e lucida allo stesso tempo, guarda il proprio riflesso: non c’è più magia, solo umanità. È una guarigione simbolica, ottenuta attraverso il dolore e la presa di coscienza.

Un finale aperto, sospeso tra fede e disillusione

Il film si chiude con un’immagine ambigua e potente: Nour si allontana, lasciandosi alle spalle l’app, i guaritori e il mondo che aveva costruito. Non c’è redenzione completa, ma neppure condanna. Belktibia sceglie un finale aperto, dove la protagonista resta sospesa tra due mondi – quello della spiritualità che promette salvezza e quello della realtà che chiede responsabilità.

La luce fioca, i colori freddi e il ritmo lento dell’ultima sequenza rimandano a una sensazione di sospensione, come se la roqya non fosse finita ma avesse cambiato forma. Nour ha perso tutto, ma ha anche ritrovato se stessa: non più mediatrice di miracoli, ma donna consapevole del proprio limite.

Il messaggio del film: fede, potere e sopravvivenza

Il finale di Hood Witch – Roqya riassume la visione del regista: la spiritualità non è mai neutra, ma riflette le tensioni del mondo moderno. In una società dove la religione si mescola con la tecnologia, la fede rischia di diventare uno strumento di potere anziché una via di liberazione.

Belktibia non giudica, ma invita lo spettatore a porsi una domanda: dove finisce la fede autentica e dove inizia l’illusione del controllo? Attraverso il destino di Nour, il film mostra che la vera magia non è quella della roqya, ma quella — più fragile e reale — di chi riesce a perdonare sé stesso e a ricominciare.

Hood Witch – Roqya: il film è tratto da una storia vera?

Uscito in Francia nel 2023, Hood Witch – Roqya è un film d’azione e dramma diretto da Saïd Belktibia con protagonista Golshifteh Farahani, affiancata da Amine Zariouhi e Jérémy Ferrari. La pellicola, della durata di 95 minuti, racconta una vicenda ambientata nella periferia parigina contemporanea, dove il desiderio di riscatto e le credenze spirituali si intrecciano in modo inedito. Ma la storia di Hood Witch è realmente accaduta o è frutto della fantasia del suo autore?

Un racconto di finzione radicato nella realtà sociale

Hood Witch – Roqya non è basato su una storia vera, ma trae ispirazione da un contesto autentico e riconoscibile: quello delle comunità immigrate francesi e del crescente interesse per la roqya, una pratica di guarigione spirituale di origine islamica. Il film racconta la storia di Nour, una giovane contrabbandiera che cerca di dare una svolta alla propria vita creando un’app, Baraka, pensata per mettere in contatto chi cerca aiuto spirituale con guaritori tradizionali. L’idea di fondo — la mercificazione della fede e il business della spiritualità — nasce da fenomeni reali osservati in Europa e nel Maghreb, dove le pratiche di esorcismo e guarigione religiosa convivono con la modernità digitale.

Saïd Belktibia, regista e sceneggiatore, costruisce una storia di finzione ma profondamente ancorata al presente, in cui il linguaggio tecnologico incontra la superstizione, e la ricerca di salvezza diventa metafora del disagio urbano e identitario.

Cosa significa “Roqya” e perché è centrale nel film

Il termine roqya (in arabo “recitazione” o “incantesimo”) si riferisce a un rito di purificazione spirituale praticato in molte comunità musulmane, in cui si recitano versetti del Corano per allontanare influssi negativi, tra cui il malocchio o la possessione.
Nel film, questa pratica assume una dimensione narrativa e simbolica: Roqya diventa il punto di contatto tra fede e business, tra desiderio di autenticità e sfruttamento economico del sacro.

Attraverso la figura di Nour, interpretata da Golshifteh Farahani con grande intensità, Belktibia esplora il confine sottile tra guarigione e manipolazione, spiritualità e potere. L’app “Baraka”, che all’inizio sembra un mezzo per aiutare le persone, finisce per trasformarsi in una rete di interessi e rischi che mette in crisi l’etica della protagonista, spingendola a interrogarsi su cosa significhi davvero “aiutare gli altri”.

Il contesto culturale e la critica sociale

Anche se non racconta un fatto realmente accaduto, Hood Witch – Roqya rispecchia dinamiche molto attuali della società francese contemporanea. Belktibia ambienta il film in una banlieue multiculturale, dove la precarietà economica e la perdita di punti di riferimento generano nuove forme di spiritualità “ibrida”. Il regista osserva senza giudicare, mostrando come la fede, la tecnologia e la disperazione possano intrecciarsi fino a creare nuove forme di dipendenza o di salvezza collettiva.

L’uso dell’azione e del ritmo da thriller non serve solo a intrattenere, ma a esprimere la tensione costante tra modernità e tradizione, tra laicità e credenze religiose.
In questo senso, Hood Witch – Roqya è una storia di finzione, ma anche un ritratto sociologico realistico, capace di far emergere le contraddizioni della Francia post-coloniale e delle sue periferie invisibili.

Finzione e verità emotiva

Pur non essendo tratto da una vicenda vera, il film di Saïd Belktibia si fonda su una verità emotiva e collettiva: quella di chi cerca redenzione, riscatto o semplicemente un senso di appartenenza. Come ha dichiarato il regista in più interviste, il personaggio di Nour nasce dall’osservazione di persone reali che vivono ai margini del sistema, costrette a reinventarsi tra spiritualità, truffa e sopravvivenza.

Hood Witch – Roqya non documenta un fatto di cronaca, ma fotografa una condizione umana contemporanea: quella di chi, in un mondo frammentato, tenta di ricomporre la propria identità tra fede, tecnologia e desiderio di salvezza. Ed è proprio in questa tensione tra realtà e invenzione che il film trova la sua forza più autentica.

Il caso Spotlight, la spiegazione del finale del film di Tom McCarthy

Quando Il caso Spotlight si chiude, lo spettatore è lasciato con un silenzio denso e inquietante. Il telefono della redazione del Boston Globe inizia a squillare, e gli squilli si moltiplicano, fino a diventare un suono continuo, quasi assordante. Non è un espediente drammatico, ma una scelta precisa di regia: quel rumore rappresenta le voci di centinaia di persone che finalmente trovano il coraggio di parlare. È il punto più alto e più doloroso del film, il momento in cui la verità, dopo anni di silenzio, trova finalmente spazio per emergere.

Diretto da Tom McCarthy, Il caso Spotlight racconta con rigore quasi documentaristico la vera inchiesta del Boston Globe che nel 2002 portò alla luce decenni di abusi sessuali su minori da parte di sacerdoti cattolici, sistematicamente coperti dall’Arcidiocesi di Boston. Come abbiamo ricostruito nell’articolo dedicato alla storia vera dietro Il caso Spotlight, il film si basa su fatti autentici e segue fedelmente l’indagine del team investigativo del giornale. Il finale, dunque, non è una chiusura convenzionale, ma una constatazione amara: rivelare la verità non porta sollievo, ma apre una ferita collettiva che non si rimarginerà facilmente.

Un finale senza catarsi: la vittoria della verità, non dell’eroismo

A differenza di molti film di denuncia, Il caso Spotlight rifiuta qualsiasi forma di trionfalismo. Non c’è un momento liberatorio, nessuna scena in cui i protagonisti vengono celebrati come eroi. La verità arriva, ma il prezzo è altissimo.

Quando il Boston Globe pubblica la prima inchiesta, nel gennaio 2002, i giornalisti sanno che non stanno scrivendo solo un articolo, ma rovesciando un intero sistema di potere.
La camera di McCarthy si sofferma sui volti esausti dei reporter: Walter “Robby” Robinson (Michael Keaton), Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Matt Carroll (Brian d’Arcy James). Sono persone comuni, non eroi invincibili, ma professionisti che hanno dedicato mesi a raccogliere prove, testimonianze e documenti legali, sfidando la Chiesa cattolica in una città in cui la fede era un’istituzione intoccabile.

Il finale mostra la pubblicazione del pezzo, ma anche la consapevolezza che il lavoro non finisce lì. Il film termina con una lista di oltre 200 città nel mondo dove sono stati denunciati casi simili. È un epilogo asciutto, quasi giornalistico, che amplifica il senso di responsabilità: Boston non è un’eccezione, ma il primo tassello di una verità globale.

Il significato simbolico delle ultime scene

Michael Keaton e Rachel McAdams in Il caso Spotlight (2015)
Foto di Kerry Hayes – © 2015 – Open Road Films

L’ultima sequenza, quella del telefono che squilla senza sosta, è il vero centro emotivo del film. Non vediamo le vittime, ma le sentiamo – o meglio, sentiamo la loro voce collettiva. Il suono ripetuto del telefono non rappresenta il clamore mediatico, bensì la rottura del silenzio: dopo decenni di vergogna e isolamento, gli ex bambini diventati adulti trovano finalmente qualcuno disposto ad ascoltarli.

In quel momento, la redazione non è più solo il luogo del giornalismo, ma uno spazio di giustizia. I giornalisti, che per mesi hanno cercato prove e documenti, capiscono che la loro vera missione non era solo pubblicare un’inchiesta, ma dare voce a chi era stato dimenticato.

McCarthy costruisce questo momento con grande sobrietà visiva: nessuna musica, nessuna esaltazione, solo il rumore del telefono e i volti dei protagonisti. È una lezione di cinema e di etica: la verità non ha bisogno di effetti speciali, ha bisogno di coraggio e di ascolto.

La portata storica e morale del finale

Michael Keaton, Brian d'Arcy James, Mark Ruffalo, John Slattery e Rachel McAdams in Il caso Spotlight (2015)
Foto di Kerry Hayes – © 2015 – Open Road Films

Il finale di Il caso Spotlight si estende ben oltre la cronaca. Il film si chiude con un testo che riporta il numero dei 249 sacerdoti identificati a Boston come responsabili di abusi, e la notizia che l’Arcidiocesi aveva coperto i loro crimini spostandoli di parrocchia in parrocchia. Subito dopo, un elenco scorre sullo schermo: decine di città, paesi, diocesi nel mondo dove casi analoghi sono stati documentati.

È una conclusione di straordinaria potenza perché ribalta la prospettiva: il male non è circoscritto a un luogo o a un tempo, ma è universale e sistemico. Quello che i giornalisti hanno scoperto a Boston non è un’anomalia, ma il riflesso di una cultura globale di silenzio e protezione del potere.

La scelta di non mostrare i colpevoli puniti o i protagonisti esultanti sottolinea la responsabilità condivisa: anche la stampa, come la società civile, aveva taciuto troppo a lungo. In questo senso, il finale non celebra un trionfo, ma una presa di coscienza collettiva.

Un film che parla ancora oggi

Michael Keaton e Mark Ruffalo in Il caso Spotlight (2015)
Foto di Kerry Hayes – © 2015 – Open Road Films

Il valore del finale di Il caso Spotlight sta anche nella sua attualità. A distanza di oltre vent’anni, l’inchiesta del Boston Globe continua a essere un punto di riferimento per il giornalismo d’inchiesta e per il dibattito sulla trasparenza delle istituzioni religiose. Come ha dichiarato il vero Marty Baron, il problema “non è solo l’abuso, ma la copertura sistematica che lo ha reso possibile”.

Il film non offre soluzioni, ma ricorda che il primo passo verso la giustizia è credere alle vittime. Il finale, silenzioso e devastante, diventa così una riflessione sul potere della parola e sulla necessità di non voltarsi dall’altra parte.

In definitiva, Il caso Spotlight si conclude senza applausi né colpi di scena, ma con un gesto di grande umanità: ascoltare. E proprio in quell’ascolto, nell’apertura di quei telefoni che squillano senza tregua, si trova la vera catarsi del film — quella della verità che finalmente trova voce.

Il caso Spotlight: la storia vera dietro il film premio Oscar

Vincitore dell’Oscar come Miglior Film nel 2016, Il caso Spotlight (Spotlight, 2015) di Tom McCarthy è uno dei più potenti film giornalistici del nuovo millennio. Interpretato da Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, Liev Schreiber e Stanley Tucci, racconta la vera inchiesta condotta dal team investigativo del Boston Globe che, nel 2002, portò alla luce decenni di abusi sessuali su minori commessi da sacerdoti cattolici e coperti sistematicamente dall’Arcidiocesi di Boston. Ma quanto c’è di vero nella storia del film?

Una storia vera di giornalismo e coraggio civile

Il caso Spotlight è basato su fatti reali, e segue con estrema fedeltà gli eventi che portarono alla pubblicazione della storica inchiesta del Boston Globe. Tutto iniziò nel luglio del 2001, quando Marty Baron, da poco nominato direttore del giornale, lesse una colonna di Eileen McNamara su alcune cause legali intentate contro un sacerdote accusato di abusi, padre John J. Geoghan. Quando scoprì che i fascicoli giudiziari erano stati sigillati per decisione del tribunale, Baron decise di sfidare la Chiesa di Boston e ottenere la desecretazione dei documenti. Fu la scintilla che accese una delle più importanti inchieste giornalistiche della storia americana.

Sotto la guida di Walter “Robby” Robinson (interpretato da Michael Keaton), la squadra Spotlight iniziò a scavare. I primi risultati furono sconvolgenti: non si trattava di un caso isolato, ma di una rete di coperture sistematiche che per decenni aveva permesso a decine di preti accusati di pedofilia di restare in servizio, spostati di parrocchia in parrocchia per evitare scandali pubblici.

Secondo quanto dichiarato dallo stesso Robinson, il team scoprì circa 250 sacerdoti coinvolti in episodi di abuso, protetti dall’omertà dell’istituzione ecclesiastica e da accordi economici segreti.

Leggi anche la spiegazione del finale di Il caso Spotlight

Le libertà del film e la fedeltà alla realtà

Il regista Tom McCarthy e lo sceneggiatore Josh Singer hanno lavorato a stretto contatto con i veri membri del team Spotlight. Gli eventi, le testimonianze e persino i dialoghi si basano su fonti reali. Le uniche variazioni riguardano piccoli adattamenti funzionali alla narrazione. Ad esempio, nel film è la reporter Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) a intervistare un sacerdote che ammette apertamente gli abusi, mentre nella realtà l’intervista fu condotta dal giornalista Steve Kurkjian. Padre Ronald H. Paquin, realmente esistito, dichiarò:

“Sì, ho fatto delle cose, ma non mi sono mai sentito gratificato, e non ho mai violentato nessuno.”

Una confessione scioccante che, come nel film, mostrò quanto profonda fosse la negazione del crimine da parte di molti religiosi coinvolti. L’inchiesta fu particolarmente difficile anche a causa del potere della Chiesa Cattolica a Boston, allora percepita come un’autorità non solo spirituale ma anche politica. Come ricordò lo stesso Robinson, “bisognava muoversi con estrema cautela, perché la Chiesa aveva un’influenza capillare su tutta la città.”

Le conseguenze reali dell’inchiesta Spotlight

Il 6 gennaio 2002 il Boston Globe pubblicò il primo di una serie di articoli che documentavano l’estensione degli abusi e il ruolo dell’Arcidiocesi nel nasconderli. Nei mesi successivi, centinaia di vittime contattarono la redazione, sentendosi per la prima volta legittimate a raccontare la propria storia. Solo a Boston, oltre 300 nuove testimonianze emersero nel giro di poche settimane.

L’impatto fu enorme: il cardinale Bernard F. Law si dimise nel dicembre 2002, e la Chiesa Cattolica fu costretta a riconoscere pubblicamente l’esistenza di un problema sistemico.
L’anno seguente, nel 2003, il team Spotlight — composto da Walter Robinson, Michael Rezendes, Sacha Pfeiffer e Matt Carroll — ricevette il Premio Pulitzer per il Servizio Pubblico, il massimo riconoscimento giornalistico negli Stati Uniti.

Dopo lo scandalo: la risposta della Chiesa

Quando il film uscì nel 2015, l’Arcidiocesi di Boston, guidata dal cardinale Sean P. O’Malley, accolse il suo arrivo con compostezza. O’Malley definì Spotlight “il racconto di un periodo doloroso”, ma ribadì l’impegno della Chiesa nel perseguire una politica di tolleranza zero verso ogni forma di abuso.

Nonostante ciò, anche lo stesso Marty Baron, oggi tra i giornalisti più rispettati d’America, ha riconosciuto che la Chiesa ha impiegato troppo tempo a istituire un vero sistema di responsabilità per i vescovi che avevano coperto i reati dei propri sacerdoti.

Una lezione di verità e responsabilità

Come sottolineato dal regista Tom McCarthy, l’importanza dell’inchiesta del Boston Globe non fu solo nel rivelare un crimine, ma nel “collegare i puntini”: dimostrare che non si trattava di casi isolati, bensì di un meccanismo di insabbiamento sistematico.

Il caso Spotlight resta, a distanza di anni, un film necessario: un omaggio al potere del giornalismo d’inchiesta e alla forza civile di chi sceglie la verità anche quando è scomoda. La storia vera dietro il film ricorda che la luce della verità, una volta accesa, non può più essere spenta.

The librarians: recensione del docufilm di Kim A. Snyder – #RoFF20

I libri sono ancora oggi uno dei migliori strumenti per la diffusione della conoscenza; quest’ultima non dovrebbe mai essere frenata o circoscritta, ma talvolta la paura dei governi li porta a limitare tale sete di sapere. Questo è proprio ciò che viene raccontato in The Librarians: diretto e prodotto da Kim A. Snyder, con l’ausilio di Sarah Jessica Parker alla produzione esecutiva con la Pretty Matches Production, il documentario riporta le vicende che riguardano la messa al bando di molti libri dalle scuole pubbliche. The Librarians è stato proiettato per la prima volta al Sundance Film festival lo scorso 24 gennaio, per poi essere presentato anche allo Zurich Film Festival e infine alla Festa del Cinema di Roma nella categoria Freestyle.

The librarians: la cultura al rogo

Nel 2021, con il chiudersi gradualmente del capitolo pandemico, in Texas inizia a diffondersi un’altra pericolosa malattia: l’ignoranza. Il comitato Moms for Liberty da il via a una potente campagna per eliminare alcuni generi di libri dalle scuole pubbliche di vario grado, in quanto considerati non adatti a minori: le opere in questione sono spesso collegate a importanti tematiche quali la comunità LGBTQ+, la lotta contro il razzismo e le discriminazioni. Le madri dell’associazione puntano a difendere i propri figli da influenze esterne di tipo pornografico o da “inclinazioni” che potrebbero modificare il loro orientamento sessuale e identità di genere.

Alla fondazione del comitato, segue un provvedimento approvato dal deputato repubblicano Matt Kraus che imponeva alle scuole pubbliche del Texas di rimuovere dalle proprie biblioteche i titoli elencati in una lista di ben 850 opere. Con il diffondersi del fenomeno in altri stati federati, vengono individuati come perfetti capri espiatori tutte le bibliotecarie che si opponevano alla rimozione dei libri, ergendosi quali custodi della conoscenza.

La paura del diverso

Tema focale di The librarians è certamente il timore di ciò che è diverso e poco conosciuto: i libri che divengono target della censura sono proprio opere su persone di colore o di diversi orientamenti sessuali. La paura di molti di coloro che si fanno fautori di questa battaglia contro la conoscenza è per l’appunto il fatto che ci si possa allontanare dai canoni tradizionali, che i bambini o i ragazzi, entrando a contatto con ciò che è diverso, ne vengano influenzati nel diventare adulti.

L’idea di evitare che i giovani crescano di altri orientamenti sessuali o con idee diverse viene smentita proprio dai tanti ragazzi che si oppongono fermamente all’eliminazione dei libri dalle loro biblioteche scolastiche: ragazzi che già al liceo comprendono l’importanza di avere una vasta conoscenza di molteplici punti di vista. A ciò si aggiunge anche la figura di Weston Brown: figlio di Monica Brown, una delle maggiori sostenitrici delle Moms for Liberty e della censura dei libri, è dichiaratamente gay, ha una relazione stabile con un altro ragazzo e, sfortunatamente, è stato allontanato da tutta la sua famiglia.

Da sottolineare inoltre che i libri segnalati nella lista non riguardano solamente “l’ideologia gender”, ma sono talvolta anche libri storici, su temi molto rilevanti in territorio americano, quali la schiavitù e il Ku Klux Klan.

Le bibliotecarie come custodi di conoscenza

A ergersi come primarie oppositrici di queste politiche in The Librarians abbiamo proprio le bibliotecarie: figure che talvolta restano in secondo piano, come dei ponti per l’acquisizione di conoscenza, divengono in questo caso delle figure fulcro. Nel rifiutarsi di eliminare i libri presenti nella lista redatta dal repubblicano Kraus, molte vengono licenziate e messe alla gogna mediatica: ricevono minacce di morte, vengono accusate di avere inclinazioni pedofile e di somministrare materiale pornografico agli studenti. Pian piano che il fenomeno si diffonde nei vari stati federati, dal Texas fino alla Florida, la questione assume un carattere sempre più serio: a diventare dei target non sono più le sole bibliotecarie, ma tutti coloro che si oppongono pubblicamente all’eliminazione di certe opere dalle scuole pubbliche.

The Librarians porta sul grande schermo degli eventi tanto poco conosciuti quanto però importanti: nel vedere a confronto i roghi di libri effettuati dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale e quelli del 2022 in America, sembrerebbe che la storia si stia pericolosamente ripetendo. Alternando scene di film in bianco e nero, quali The Twilight Zone e Farenheit 451, citazioni di libri e testimonianze attuali di bibliotecarie e persone coinvolte nei fatti, il risultato è certamente un documentario molto interessante, anche se a tratti con dei ritmi più lenti.

Intervista a Valerio Jalongo, regista di Wider than the sky

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Che cos’è davvero l’intelligenza artificiale? E’ quello che si chiede Valerio Jalongo in Wider than the sky, il suo nuovo film presentato alla Festa del Cinema di Roma 2025 nella sezione Special Screening. Ecco cosa ci ha raccontato a riguardo.

Girato in oltre dieci città tra Europa, Stati Uniti e Giappone, il film mette in dialogo neuroscienziati, filosofi, artisti e robot umanoidi per interrogarsi sul futuro dell’umanità di fronte a una tecnologia che sta ridefinendo le nostre vite.

Wider Than The Sky – Più grande del cielo è una produzione internazionale, un’indagine senza confini politici e geografici realizzato in collaborazione con la comunità scientifica europea dell’Human Brain Project e la compagnia di danza Sasha Waltz & Guests.  Protagonisti del film sono pensatori e innovatori di fama mondiale, tra cui Antonio Damasio, Andrea Moro, Rob Reich, Refik Anadol, Hany Farid, Rainer Goebel, Sasha Waltz, Sougwen Chung, e i robot Anymal e Ameca che mostrano i punti di contatto tra ricerca neuroscientifica, arti performative e robotica avanzata.

“Non dovremmo chiamarla intelligenza artificiale – afferma Jalongo – ma intelligenza collettiva, perché nulla esisterebbe senza la conoscenza condivisa dell’umanità. La vera sfida è decidere se questa rivoluzione sarà usata per concentrare il potere o per costruire un futuro aperto e democratico” dichiara Jalongo che, dopo Il senso della bellezza e L’acqua l’insegna la sete, torna al cinema quale mezzo di riflessione necessaria sul nostro presente, tra emozione e profonda inquietudine.

Con immagini sorprendenti e momenti di grande intensità visiva – dalle coreografie di Sasha Waltz ai droni da competizione, fino ai laboratori di robotica di Zurigo – Wider Than The Sky – Più grande del cielo svela un’IA non solo come sfida tecnologica, ma come mistero profondamente umano, destinato a cambiare radicalmente il nostro rapporto con la conoscenza, la creatività e la libertà.

Wider Than The Sky – Più grande del cielo è una produzione Aura Film, RSI Radiotelevisione Svizzera, Ameuropa International, con Rai Cinema e sarà disponibile da subito per le programmazioni nei cinema con matineé dedicate e rivolte alle scuole, e nelle sale italiane prossimamente con Wanted.

Angelina Jolie incanta il tappeto rosso della Festa del Cinema di Roma 2025

Insieme a Alice Winocour, Louis Garrel e Anyier Anei, regista e interpreti di Couture, Angelina Jolie è stata la protagonista del sabato sera della Festa del Cinema di Roma. L’attrice ha sfilato nella cavea dell’Auditorium per la gioia dei fan, accorsi numerosi e alcuni in attesa sin dalla mattina del giorno stesso.

La nostra recensione di Couture

Il film – presentato nella sezione Grand Public – vede protagoniste tre donne, di culture, età e professioni diverse, immerse nella Fashion Week di Parigi: una regista americana che deve girare un video di moda, che ha problemi con la figlia adolescente e riceve una dura diagnosi medica; una truccatrice francese che ha aspirazioni letterarie e vorrebbe scrivere un libro sull’ambiente della moda; una studentessa di farmacia diciottenne di Nairobi che è diventata la nuova scoperta “esotica” delle passerelle. Angelina Jolie guida un cast che, oltre alle coprotagoniste Ella Rumpf e Anyier Anei, annovera Louis Garrel e Vincent Lindon, in un dramma che, nonostante il glamour dell’ambientazione, Alice Winocour riesce a rendere quotidiano e umano.

Il Professore e il Pinguino, la spiegazione del finale del film di Peter Cattaneo

Nel finale di Il Professore e il Pinguino (The Penguin Lessons) di Peter Cattaneo, la storia giunge al suo momento più toccante e rivelatore. Dopo aver attraversato un percorso di crescita personale e morale, Tom Michell (interpretato da Steve Coogan) si trova a confrontarsi con la perdita del suo inseparabile compagno di viaggio, Juan Salvador, il pinguino che aveva salvato da una spiaggia devastata dal petrolio. Questa morte improvvisa, apparentemente semplice nella sua dinamica, racchiude invece il senso più profondo del film: l’incontro tra due esseri vulnerabili che, per un tempo limitato, si sono salvati a vicenda.

La scena del funerale di Juan Salvador, celebrata nel cortile della scuola davanti agli studenti e al personale, è girata con una compostezza quasi documentaria. Nessun eccesso di pathos, ma un dolore silenzioso, trattenuto, che riflette la natura del legame tra l’uomo e l’animale. Michell pronuncia poche parole, ma il suo discorso — semplice e diretto — diventa una lezione di vita: il pinguino è stato la prova che la gentilezza e la cura possono restituire senso anche quando tutto sembra perduto.

Dal libro alla realtà: la storia vera che ha ispirato il film

Come abbiamo approfondito nell’articolo dedicato alla storia vera di Il Professore e il Pinguino, il film è tratto dal memoir autobiografico di Tom Michell, pubblicato nel 2015.
Nel libro, Michell raccontava realmente di aver salvato un pinguino in Uruguay negli anni Settanta e di averlo portato con sé in Argentina, dove insegnava in un collegio per ragazzi. Quel pinguino, chiamato Juan Salvador, divenne una sorta di mascotte, capace di unire studenti e docenti e di restituire un senso di umanità in un periodo storico complesso, segnato dal colpo di Stato e dalle tensioni sociali.

Peter Cattaneo e lo sceneggiatore Jeff Pope hanno mantenuto la base reale del racconto, ampliandola però con elementi di finzione — come la figura di Sofia, la giovane attivista, e il trauma personale di Michell per la perdita della figlia — per esplorare un arco emotivo più ampio. Nel film, la storia del pinguino diventa un catalizzatore di redenzione, un simbolo di empatia in un mondo in cui la violenza politica e la disillusione personale sembrano prevalere.

La morte di Juan Salvador e la rinascita di Tom Michell

Il momento della morte di Juan Salvador segna la conclusione simbolica del percorso del protagonista. Michell, che fino a quel momento aveva represso il dolore per la perdita della figlia, riesce finalmente a elaborare il lutto. La cura per il pinguino — lavarlo, nutrirlo, proteggerlo — è stata una forma di espiazione inconscia, un modo per ridare valore alla vita e al contatto umano dopo anni di distacco e colpa. Quando il pinguino muore, non è soltanto una perdita: è la chiusura di un cerchio. Michell ha imparato ad amare di nuovo, a sentire compassione e a restare presente nel mondo, nonostante il dolore.

La regia di Cattaneo accompagna questo momento con toni sobri e colori desaturati: il cortile della scuola, il vento tra gli alberi, il rugby field in lontananza. È un’immagine di quiete, quasi spirituale. E mentre Michell pronuncia il suo elogio funebre, Sofia ricompare, viva ma segnata dalle torture subite. Il ritorno della ragazza, che rappresenta la gioventù argentina e il coraggio della libertà, fa da contrappunto alla morte del pinguino: uno se ne va, l’altra ritorna. È la vita che, nonostante tutto, continua.

Simbolismo e significato del finale

Il finale di Il Professore e il Pinguino è costruito come una catarsi emotiva e morale. Juan Salvador, nella sua innocenza, incarna la purezza e la lealtà che Michell aveva dimenticato. La sua morte non è una sconfitta, ma una liberazione: l’animale ha compiuto la sua funzione di guida, restituendo al protagonista la capacità di provare empatia.

Quando Sofia torna e si riunisce alla nonna Maria, Michell osserva la scena in silenzio. Non c’è bisogno di parole: quel momento di riconciliazione familiare riflette ciò che lui stesso ha ritrovato interiormente. Il film termina con Michell che guarda il campo di rugby dove ha seppellito Juan Salvador, mentre i ragazzi giocano. L’inquadratura si allarga, lasciando lo spettatore con un senso di pace e continuità: la vita non si ferma davanti al dolore, ma lo integra e lo trasforma.

Una lezione di umanità e resilienza

Il Professore e il Pinguino

Attraverso il suo finale, Il Professore e il Pinguino racconta che la gentilezza non è mai un atto inutile. Anche un piccolo gesto — come salvare un animale sconosciuto — può cambiare radicalmente il corso di una vita. Michell non trova salvezza attraverso la fede o la logica, ma attraverso l’empatia. Il film si chiude dunque non con una tragedia, ma con una rinascita interiore: la consapevolezza che, per quanto breve o fragile, ogni legame autentico lascia un segno.

Peter Cattaneo costruisce così un finale sospeso tra realtà e poesia, fedele allo spirito del libro di Michell: una commedia umana che, dietro il sorriso, custodisce un invito profondo a prendersi cura degli altri — e di sé stessi.

Il Professore e il Pinguino: il film è tratto da una storia vera?

Il Professore e il Pinguino (The Penguin Lessons) è un film del 2024 diretto da Peter Cattaneo e interpretato da Steve Coogan e Jonathan Pryce. Presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival il 6 settembre 2024, il film è una commedia drammatica che alterna ironia e malinconia per raccontare l’incontro tra un insegnante britannico e un pinguino sopravvissuto a un disastro ambientale. Ma quanto c’è di vero in questa storia che ha commosso pubblico e critica?

Una storia vera tratta dal memoir di Tom Michell

Il film è tratto dal libro autobiografico The Penguin Lessons di Tom Michell, pubblicato nel 2015 e divenuto un caso editoriale internazionale. Nel suo memoir, Michell racconta la propria esperienza come giovane insegnante inglese trasferitosi in Argentina negli anni Settanta per insegnare inglese e rugby in un collegio maschile.

Durante un viaggio in Uruguay, sulla spiaggia di Punta del Este, si imbatté in decine di pinguini uccisi da una fuoriuscita di petrolio. Tra i corpi senza vita trovò un unico sopravvissuto: lo ripulì nel bagno dell’hotel, lo nutrì e cercò di restituirlo al mare. Ma l’animale, ribattezzato Juan Salvador, rifiutò di andarsene, seguendolo ovunque. Michell decise così di portarlo con sé in Argentina, dove divenne la mascotte della scuola e un simbolo di speranza per studenti e insegnanti.

Dal libro al film: libertà creative e nuovo contesto storico

La sceneggiatura, firmata da Jeff Pope, mantiene la struttura del racconto originale ma inserisce nuovi elementi di fiction per ampliare il dramma umano e politico. Nel film, Michell insegna in una Buenos Aires attraversata dalle tensioni del colpo di Stato del 1976, e stringe legami con Maria e Sofia, due donne coinvolte nella lotta contro la repressione militare.

Attraverso di loro, il film intreccia il percorso personale del professore — segnato dalla perdita della figlia — con la storia collettiva del Paese, trasformando la vicenda in una riflessione sulla libertà, il coraggio e la redenzione. Il pinguino Juan Salvador diventa così una presenza simbolica, un ponte tra dolore e speranza, tra la fragilità umana e la purezza della natura.

Una lezione di umanità ispirata a fatti reali

Il Professore e il Pinguino

Nonostante le licenze narrative, Il Professore e il Pinguino resta ispirato a una storia vera. L’esperienza reale di Tom Michell e del suo pinguino ha rappresentato un piccolo miracolo quotidiano, capace di restituire fiducia, empatia e leggerezza in un tempo di crisi.

Nel film, la morte di Juan Salvador e il suo funerale nel cortile della scuola diventano una metafora di rinascita: un modo per dire addio, ma anche per celebrare ciò che resta. Come nel libro, l’incontro tra uomo e animale è una parabola sulla cura reciproca e sulla possibilità di riscoprire la gioia nei luoghi più inattesi.

Il Professore e il Pinguino ricorda che a volte la più grande lezione di vita arriva da chi non parla, ma sa ascoltare.

Tre ciotole, la spiegazione del finale del film di Isabel Coixet

Presentato al Toronto International Film Festival e diretto da Isabel Coixet, Tre ciotole si chiude con un finale denso di significato, dove il percorso della protagonista, Marta (Alba Rohrwacher), raggiunge la piena consapevolezza di sé e del proprio corpo. La regista spagnola, adattando il romanzo di Michela Murgia, costruisce un epilogo che non parla di morte, ma di trasformazione e continuità.

L’accettazione della fine e la scelta del distacco

Dopo la diagnosi di tumore metastatico, Marta comprende che non può più aggrapparsi alla vita di prima. La malattia non è solo un evento biologico, ma un passaggio simbolico che la obbliga a rivedere il proprio modo di stare al mondo. Nel film, il gesto di fingere una partenza per un lungo viaggio diventa un atto di libertà: Marta sceglie di “uscire di scena” secondo le proprie regole, evitando di essere definita solo attraverso la malattia. È un modo per liberare sé stessa e chi le sta accanto, ribaltando la dinamica di passività che spesso accompagna la malattia terminale.

Il lascito di Marta e la memoria condivisa

Il salto temporale finale mostra la casa di Marta piena di persone care — familiari, amici, colleghi — che, seguendo le sue ultime volontà, prendono con sé un oggetto, un frammento della sua vita quotidiana. Questo gesto collettivo è il vero cuore del finale: la trasmissione del ricordo come forma di continuità. Nessun addio teatrale, ma un rito di passaggio intimo e comunitario, che rispecchia perfettamente la visione di Michela Murgia sulla famiglia scelta, come luogo affettivo costruito oltre i legami di sangue.

Il significato simbolico delle “tre ciotole”

Il titolo, ripreso dal romanzo, richiama una pratica di consapevolezza suggerita da un maestro zen: tenere tre ciotole sul tavolo, una per ciò che si ha, una per ciò che si dà e una per ciò che si accoglie. Nel finale, questa immagine diventa la chiave interpretativa dell’intera storia. Marta ha imparato a riempire le sue “ciotole” in equilibrio — accettando la perdita, donando affetto e ricevendo amore senza paura. La sua casa, riempita di persone che si scambiano ricordi, è la rappresentazione concreta di questo equilibrio raggiunto.

Un epilogo coerente con la poetica di Michela Murgia

Come nel libro, anche nel film il finale è una riflessione sulla vita dopo la vita, sulla possibilità di restare presenti negli altri attraverso i gesti e gli affetti condivisi. Isabel Coixet non cerca il melodramma, ma un tono di sobria gratitudine. L’ultima inquadratura — la luce che filtra tra gli oggetti di Marta — suggella la continuità tra materia e spirito, tra presenza e assenza. In questo senso, Tre ciotole è meno un racconto di morte e più un manifesto di vita, fedele allo sguardo lucido e compassionevole di Michela Murgia.

Tre ciotole: il film è tratto da una storia vera?

Tre ciotole è un film del 2025 diretto da Isabel Coixet e scritto dalla stessa regista insieme a Enrico Audenino, basato sull’omonimo romanzo di Michela Murgia, pubblicato pochi mesi prima della sua scomparsa. Presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival, il film segna un momento di grande intensità emotiva nel cinema italiano contemporaneo: una riflessione sul corpo, sulla malattia, ma anche sull’amore come forma di resistenza e consapevolezza.

Protagonista della pellicola è Marta, interpretata da Alba Rohrwacher, affiancata da Elio Germano nel ruolo di Antonio. I due vivono a Roma, in una relazione che sembra aver perso equilibrio e curiosità reciproca. L’indolenza di Marta verso gli interessi del compagno porta quest’ultimo a lasciarla, innescando un cambiamento profondo che coinvolge anche il corpo della donna. I disturbi gastrointestinali diventano il segno visibile di un disagio interiore più ampio, destinato a condurla verso una diagnosi inaspettata: un tumore metastatico non operabile.

Tre ciotole non è una storia vera, ma racchiude la verità di Michela Murgia

Pur non raccontando una vicenda realmente accaduta, Tre ciotole è intimamente legato all’esperienza e al pensiero di Michela Murgia. Nel romanzo da cui trae origine, l’autrice sarda affrontava temi che risuonavano con la sua condizione personale negli ultimi anni di vita: la malattia, la famiglia scelta, la libertà di amare e di lasciare andare. Isabel Coixet traduce tutto questo in un linguaggio visivo fatto di silenzi, piccoli gesti e sguardi sospesi, trasformando la storia di Marta in una metafora dell’accettazione.

Il personaggio della specialista gastroenterologa, che accompagna Marta in un percorso di guarigione non solo fisica ma anche emotiva, diventa nel film una figura chiave: simbolo della cura e della solidarietà femminile che Murgia ha spesso celebrato nelle sue opere.

Un finale che parla di vita, non di morte

Nel finale del film, Marta – ormai consapevole della propria condizione – sceglie di affrontare la malattia con dignità e amore, fingendo una partenza per un lungo viaggio. Il collega di filosofia, segretamente innamorato di lei, promette di vigilare sulle questioni lasciate in sospeso. Con un salto temporale, la casa di Marta si riempie di amici e persone care che, seguendo le sue volontà, si portano via un oggetto, un ricordo, un frammento della sua esistenza. È una scena di commiato e gratitudine, che restituisce il senso profondo del titolo: tre ciotole come immagine di equilibrio, di misura e di accoglienza del cambiamento.

La verità emotiva di una storia universale

Tre ciotole non è dunque tratto da una storia vera, ma da un romanzo profondamente autobiografico, in cui Michela Murgia intreccia la propria esperienza alla riflessione universale sulla perdita e sulla rinascita. Isabel Coixet, autrice da sempre attenta ai temi dell’intimità e dell’identità femminile, ne offre un adattamento rispettoso e commosso, che trasforma la finzione in verità emotiva. Nel viaggio di Marta c’è la voce di Murgia, la sua ironia, la sua lucidità e quella forza gentile che continua a parlare al pubblico come un lascito d’amore e libertà.