Nella Milano del 1945, sul finire
della guerra, un losco imprenditore e la sua ragazza formano una
banda di disadattati e furfanti per poter organizzare un elaborato
furto ed impossessarsi di un leggendario tesoro, nascosto da
Mussolini in città.
Noomi Rapace riceverà il Premio Progressive
alla Carriera nel corso della diciassettesima edizione della
Festa del Cinema di Roma. Lo annuncia la
Direttrice Artistica Paola Malanga, in accordo con
Gian Luca Farinelli, Presidente della Fondazione
Cinema per Roma, e Francesca Via, Direttrice
Generale.
La premiazione si terrà oggi,
domenica 16 ottobre alle ore 19.30, presso la Sala Sinopoli
dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, in occasione
dell’anteprima mondiale della
serie Django, prodotta da Sky e
Cattleya con Atlantique Production e Canal+, diretta da
Francesca Comencini, nella quale Noomi Rapace interpreta il ruolo della potente
e spietata Elizabeth Thurman.
Il riconoscimento sarà consegnato
dalla regista e fumettista iraniana Marjane
Satrapi, presidente della giuria del Concorso Progressive
Cinema.
Ecco il trailer italiano di
My Policeman, diretto da Michael
Grandage, scritto da Ron Nyswaner e
basato sul romanzo di Bethan Roberts. Il film,
prodotto da Greg Berlanti, Sarah Schechter, Robbie Rogers,
Cora Palfrey e Philip Herd vede in veste
di Executive Producer Michael Grandage, Michael Riley
McGrath, Caroline Levy, mentre nel cast ci
sono Harry
Styles,
Emma Corrin, Gina McKee, Linus Roache, David Dawson e
Rupert Everett.
My Policeman, la trama
La bellissima storia di un amore
proibito e del cambiamento delle convenzioni sociali, My
Policeman segue tre ragazzi – il poliziotto Tom (Harry
Styles), l’insegnante Marion (Emma Corrin) e il curatore di un
museo Patrick (David Dawson) – durante un viaggio emozionante nella
Gran Bretagna degli anni ’50. Negli anni ’90, Tom (Linus Roache),
Marion (Gina McKee) e Patrick (Rupert Everett) sono ancora in preda
al desiderio e al rimpianto, ma ora hanno un’ultima possibilità di
riparare i danni del passato. Basato sul romanzo di Bethan Roberts,
il regista Michael Grandage realizza un ritratto visivamente
commovente di tre persone coinvolte nelle mutevoli maree della
storia, della libertà e del perdono.
My Policeman arriverà su Prime Video il 4 novembre.
“Gli organizzatori di questo
evento hanno un’idea ben precisa di come dovrebbe svolgersi la
cosa. Dovremmo starcene qui a guardare spezzoni dei miei film per
poi commentarli. Niente di tutto ciò accadrà”. È un
Russell Crowe euforico quello che si presenta
all’annunciata masterclass a lui dedicata e organizzata da
Alice nella Città, sezione parallela e autonoma
della Festa del Cinema di Roma. L’attore, accolto
da una calorosa ovazione, racconta di essere venuto nella capitale
italiana non solo per presentare il suo nuovo film da regista,
Poker Face, ma anche
per incontrare e parlare con gli studenti di cinema, ed è
letteralmente questo che intende fare nel corso dell’evento.
Microfono alla mano, Crowe scende
dunque dal palco e dà vita ad un incontro che infrange ogni
possibile scaletta e prevedibilità, passeggiando amabilmente tra i
tanti spettatori presenti nell’Auditorium della Conciliazione,
raccontando episodi significativi della propria vita con la sua
solita voce calda, profonda e ben modulata e poi passando
personalmente il microfono ai presenti quando qualcuno di questi
(ma solo se effettivamente studenti di cinema, chiede lui) vuole
porgli una domanda. “Voglio parlare di cinema, parlare di
narrazione, dello stare davanti o dietro la macchina da presa.
– chiarisce Crowe – Non voglio ricevere domande del tipo cosa
ho mangiato a colazione”.
Russell Crowe, dai primi ruoli ai
film da protagonista
“Ho cominciato a recitare che
avevo solo sei anni. – inizia dunque a raccontare l’attore –
Era il 1970. Mia mamma si occupava del catering sui set
cinematografici. Un giorno vado a trovarla sul lavoro e stavano
girando una scena per cui non c’erano bambini a sufficienza. Così
mia madre mi fece recitare e da lì è iniziato un percorso di vita
che porto avanti ancora oggi. Non ho mai frequentato una scuola di
recitazione, tutto quello che so l’ho imparato sul lavoro,
recitando per la televisione e il teatro ma mantenendomi lavorando
come DJ, barman e cameriere”.
“Ero ossessionato dalla
performance. – continua l’attore – Passavo dal palco del
teatro alla console da deejay di un pub all’altro. Dunque, questo
sono io. Questa è la realtà. Non sono venuto fuori da nessuna
fottuta Hollywood o roba del genere. Quando avevo 25 anni, infine,
è arrivato il mio primo ingaggio per un lungometraggio. Diventare
un attore protagonista però non mi ha fermato dal seguire anche la
passione per il teatro e la musica. Le persone tendono a dire che
bisogna concentrarsi su una cosa sola… non ascoltate queste
stronzate. Accettate ciò chi siete davvero. Chi sa di avere una
passione, non deve lasciarla andare.”
Da Il gladiatore a
Noah, i ruoli più iconici di Russell Crowe
Crowe inizia poi a rispondere alle
domande del pubblico, le prime delle quali sono dedicate ai segreti
del mestiere dell’attore. “Il lavoro dell’attore non è
semplice. – racconta Crowe – Personalmente vivo delusioni
su base quotidiana. Ogni volta che recito una scena, poi torno a
casa, ci ripenso e se mi viene in mente un modo migliore in cui
avrei potuto interpretare quella scena, ecco che sono deluso da me
stesso. Accade ogni volta e posso solo conviverci. Ma l’importante
è compiacere il regista, la sua visione, e se ti chiede una cosa tu
devi dargli precisamente quella cosa.”
“Io sono stato fortunato nel
saper dare a Ridley Scott
ciò che egli voleva sul set di Il gladiatore.
Allo stesso tempo non si può essere totalmente senza controllo.
L’attore è il burattinaio di sé stesso, deve sapere come
controllarsi per raggiungere un determinato obiettivo. Ad esempio,
proprio sul set di Il gladiatore Scott mi chiese di tirar fuori una
serie di emozioni particolarmente forti nel momento in cui Massimo
Decimo Meridio vede il corpo di sua moglie morta. Per riuscirci ho
dovuto far affidamento a tutto il mio autocontrollo, un’esperienza
estremamente difficile e dolorosa. A ripresa ultimata ero stremato
e Scott estremamente soddisfatto, solo che poi mi ha chiesto di
ripetere il tutto ancora una volta”.
Foto tratta dal profilo Instagram di Alice nella
Città.
“Per quanto riguarda il ruolo
più complesso che abbia mai dovuto affrontare, – continua poi
l’attore – questo è sicuramente quello di John NashinA BeautifulMind. Dovevamo mostrare i numerosi
tic che il personaggio sviluppa al peggiorare della sua malattia e
così sono arrivato al punto in cui mentre recitavo dovevo
ricordarmi di mostrare tutti e 16 i suoi tic. Da un punto di vista
fisico, invece, certamente Noah è stato un
film molto complesso. Abbiamo girato per 70 giorni e la metà di
questi eravamo sotto la pioggia artificiale, con un freddo estremo
e in più dovevi recitare le tue battute”.
“Prima parlavamo di delusioni,
– conclude poi Crowe – Les
Miserablesè ad esempio un film di cui sono
deluso. Chiariamoci, l’esperienza è stata straordinaria, recitare
in quel cast magnifico e potersi mettere alla prova con il canto.
Il film in sé mi piace molto, ciò che non mi piace è il modo in cui
è stato trattato il mio personaggio. Al montaggio hanno tagliato
molte cose ed è venuto fuori qualcosa che non riconoscevo più come
mio. All’anteprima di New York ho lasciato la sala per questo
motivo, ero troppo deluso”.
Russell Crowe: un attore devoto ai dialoghi
In conclusione dell’incontro, a
Crowe viene chiesto cos’è che lo motiva nello scegliere un ruolo
piuttosto che un altro e l’attore non ha dubbi: i dialoghi. “Io
amo i dialoghi. Mi innamoro delle battute che devo recitare. Non
importa se questo comporta doversi alzare alle quattro del mattino
a patto che io poi possa avere la possibilità di dire le battute di
cui mi sono innamorato. Ciò non vuol dire che il mio personaggio
debba essere necessariamente il protagonista. Posso avere anche
solo due battute in tutto il film, ma quelle battute devono essere
oro.Naturalmente mi interessa anche che la storia sia
buona, ma fondamentalmente sono uno che per un buon dialogo si
venderebbe”.
L’apertura delle porte
di Palazzo Ducale con l’inaugurazione
delle prime mostre –sabato 15 ottobre
alle 17.00 – dà il via al primo atto
di HOPE, l’edizione 2022 di Lucca Comics & Games.
Percorsi artistici totalmente inediti
accoglieranno fino al 1° novembre i
visitatori di ogni età, accompagnandoli alla scoperta di mondi che
toccano tutte le corde dell’immaginario, unite dal filo conduttore
del tema ispiratore di questa edizione, la Speranza.
Quella Speranza che uno dei maestri
assoluti dell’imaginative realism, dell’illustrazione
fantastica – l’artista canadese Ted
Nasmith – ha trasformato in Hope, la Dama
dell’Aurora, simbolo di questa edizione del festival. E
proprio nella loggia dell’Ammannati si svilupperà l’esposizione a
lui dedicata, un percorso che celebra il suo dialogo tra luoghi e
storie del grande fantastico, arricchite dalle potenti influenze
dai paesaggi del luminismo americano e della pittura vittoriana del
diciannovesimo secolo. Ma Hope è anche l’ideale antitesi ai
pregiudizi e ai tabù, che Mirka
Andolfo esprime sin dai suoi primi webcomic per
arrivare poi alla sua affermazione come autrice
con Contronatura, Mercy e Sweet Paprika; così come
la capacità di Chris Riddell, il cui occhio
critico sull’attualità si unisce alla capacità di raccontare
storie alle nuove generazioni. E ancora uno spazio dedicato alle
intuizioni grafiche e narrative della prosa a fumetti con
cui Giacomo Nanni porta avanti la sua
personale, e a volte eccentrica, indagine sulla realtà. Non manca
un prezioso contributo dal Giappone con Atsushi
Ohkubo, in un percorso curato da Alessandro Apreda aka
DocManhattan sul sensei di Soul Eater e Fire Force. Quest’anno
la principale sede espositiva del festival presenta anche
un’assoluta novità: uno dei percorsi sarà infatti dedicato non al
fumetto o al mondo dell’illustrazione per bambini e ragazzi ma alle
opere di un autore di giochi. E il game-designer di cui raccontare
il mondo, la vita, le opere non poteva che essere Alex
Randolph, nell’anno del centesimo anniversario della sua
nascita. Infine, nell’ideale commistione tra linguaggi e forme
espressive che caratterizza Lucca Comics & Games, non poteva
mancare una celebrazione dell’opera che quest’anno sarà al centro
dell’inedito spettacolo di Graphic Novel
Theater Celestia, tratto dallo straordinario lavoro
di Manuele Fior.
Il 28
ottobre sarà inoltre inaugurata una serie di
mostre che abbraccia tutte le anime del festival e che porterà i
visitatori ad esplorare nuovi universi visivi: la Chiesa di San
Cristoforo ospiterà POP SALANI – 160 anni di libri,
cultura e fantasia a cura di Giorgio Bacci (ingresso
gratuito fino al 06/11), mentre il Palazzo delle Esposizioni aprirà
le sue porte al mondo di Manga: Love & Other
Stories, a cura di J-POP Manga e Lucca Comics & Games, e
di Castelli & Friends, a cura di Alex
Dante e Lucca Comics & Games (ingresso con
biglietto del festival). La Chiesa dei Servi, aperta al pubblico,
custodirà le tavole di Corrado Roi: Diabolik, chi
sei? a cura di Mauro Bruni e de Lo Scarabeo; mentre
la Chiesa di San Franceschetto sarà l’ideale location
di Atari 50 – Storia dell’azienda che ha inventato i
videogame a cura di Fabio Viola (ingresso gratuito).
Il sotterraneo del Baluardo San Pietro – anch’esso a ingresso
libero – ci farà esplorare il futuro con il Multiverse
of Metaverses, a cura di Daniele Luchi. Il Padiglione
Carducci, accessibile con il biglietto del festival, accoglierà
invece John Blanche – Within the Woods a
cura di Tiziano Antognozzi, e Wild Boys of Eternia: 40
Litghyears Ago, from Eternia to Lucca Comics & Gamesa
cura di Dimitri Galli Rohl. Nella Casa del Boia ci immergeremo
invece nel mondo di Mario + Rabbids: Sparks of
Hope acura di Ubisoft Milan (ingresso con biglietto
del festival). In una delle aree più amate dal pubblico di Lucca Comics & Games, la Self Area
in Biblioteca Agorà (a ingresso libero), omaggeremo l’amico Andrea
Paggiaro e le sue opere con Anni di Tuono – Dalle
autoproduzioni ai “Giorni di Tuono”, a cura della
Fondazione Tuono Pettinato. Il Real Collegio, tornato Family
Palace, “casa” per eccellenza dei visitatori più giovani, darà
spazio alle opere del Premio di Illustrazione
Editoriale Livio Sossi – Mostra Concorso Lucca Junior
2022, a cura di Sarah Genovese,
a Fumetti dal mondo! – Comics & Graphic Novel per
ragazzi premiati al Bolognaragazzi Comics Award,
a cura di Bologna Children’s Book Fair, e
ad Annual AI 2022 – La mostra dei premiati,
a cura di AI – Associazione Autori di
Immagini. Ulteriori info sono disponibili nel sito del
festival.
Le mostre di Palazzo Ducale
(15 ottobre – 1° novembre)
Ted Nasmith – La Natura del Mito(a cura di
Chiara Codecà)
Autore del poster di Lucca Comics & Games 2022, fra i
massimi esponenti dell’arte fantasy, il canadese Ted Nasmith è
protagonista di una grande mostra il cui piatto forte sono le ormai
classiche illustrazioni dedicate all’universo tolkieniano,
affrontato con una peculiare sensibilità paesaggistica. Inoltre,
illustrazioni realizzate per la saga di George R. R.
Martin Cronache del ghiaccio e del fuoco e altre
innumerevoli meraviglie.
Chris Riddell – Schizzi,
scarabocchi e meraviglie(a cura di Roberto
Irace)
Autore per ragazzi, vignettista politico, illustratore e
straordinario creatore di mondi, sarà ospite a Lucca Comics & Games 2022 in
collaborazione con l’Editrice Il Castoro e sarà allestita una
mostra a Palazzo Ducale che ne celebrerà la prolifica carriera.
Mirka Andolfo – Eroine
di carta(a cura di Mauro Bruni)
Mirka Andolfo è la nuova star del fumetto italiano. Disegnatrice e
autrice, si è imposta in modo folgorante a partire
da Sacro/Profano (2013), caratterizzato da un
erotismo gioioso, sorretto da un tratto morbido e sensuale. È il
segno distintivo del suo stile, che dopo svariate collaborazioni
italiane e internazionali, la riporta alla ribalta col grande
successo di Sweet Paprika.
Atsushi Ohkubo – Anima
di fuoco(a cura di Alessandro Apreda)
Realizzata con la collaborazione di Panini, la mostra illustrerà,
attraverso una ricca selezione di tavole originali delle sue opere
più celebri, l’incredibile lavoro di world building che ha reso
celebre questo mangaka. Dalla caccia alle anime della Death City
di Soul Eater e del suo spin-off Soul
Eater Not!, ai pompieri pirocinetici di Fire
Force.
Alex Randolph, regista
di giochi(a cura di Andrea Angiolino e Tiziano
Antognozzi)
Una celebrazione in grande stile per ricordare il centenario della
nascita di Alex Randolph, con pezzi per la prima volta messi in
mostra in Italia ed illustrazioni inedite in anteprima assoluta in
collaborazione con il Deutsches Spielearchiv Nürnberg, Studio
Tapiro e Studio Giochi.
Giacomo Nanni, un altro
sguardo sul mondo(a cura di Giovanni
Russo)
Giacomo Nanni è uno dei fumettisti italiani più raffinati e
profondi. Con Atto di Dio (2018), premiato anche
ad Angoulême, ha prodotto uno dei migliori libri italiani degli
ultimi anni, una riflessione, laica e religiosa insieme,
sull’universo come portatore di un mistero radicale e sul ruolo
dell’uomo al suo interno. Col successivo Tutto è vero
(2021) approfondisce il suo sguardo esterno su un’umanità confusa e
sbandata, alle prese con le moderne paure del terrorismo e dello
scontro fra civiltà.
Graphic Novel Theater:
fumetti in carne e ossa(a cura di Lucca Comics & Games)
La mostra racconta la breve ma già significativa storia del Graphic
Novel Theater, concludendosi con un’anteprima del nuovo spettacolo,
dedicato a Celestia di Manuele Fior.
Trai titoli più
interessanti della Festa del
Cinema di Roma, fa capolino Sanctuary,
opera seconda di Zachary Wigon. Sono
scrigni silenziosi le pareti degli hotel. Con il loro intonaco più
o meno colorato, si ergono attorno a noi assorbendo ogni respiro,
percependo ogni emozione, facendosi custodi di segreti
inconfessabili, o momenti passeggeri. Tra le mura degli hotel dei
corpi si incontrano, altri si lasciano; le bocche si baciano, o i
cuori si spezzano.
Le mura della stanza di
hotel che accoglie
Rebecca e Hal in Sanctuary sono molto più
che sguardi discreti che osservano il gioco al massacro compiuto
dai due: sono sipari teatrali di un kammerspiel soffocante,
quinte imprigionanti di un palcoscenico dove nulla è come sembra, e
tutto appare per quel che non è. Entro i loro confini diventa quasi
impossibile stabilire il ruolo affidato e svolto dai due
protagonisti, entrambi schiavi di un continuo gioco all’inganno in
cui nessuno ne esce vincitore, ma solo prigioniero. Prigioniero
delle proprie maschere; prigioniero della propria
performance perpetuamente mutabile e in evoluzione.
Prigioniero dell’altro e di se stesso.
Sanctuary, la
trama
Interno: suite di un
albergo di lusso. Qui si incontrano un uomo sulla trentina e una
giovane avvocatessa chiamata per delle verifiche burocratiche. Lui
si chiama Hal Porterfield, erede di una catena di alberghi e
prossimo amministratore delegato di un impero milionario a seguito
della orte del padre. Lei è Rebecca, giovane aggressiva e
misteriosa, che nella vita non svolge il ruolo di avvocatessa,
bensì di dominatrice assunta dallo stesso Hal per testare la
propria tenuta psicologica sul lavoro. In un continuo gioco di
realtà e finzione, sarà difficile per entrambi – soprattutto per
Rebecca – scindere se stessi dal proprio personaggio, cambiando
continuamente i rapporti di forza fra cliente e padrone, dominatore
e dominato. Chi la spunterà?
Non c’è nulla di lineare
in Sanctuary. Nel film di Zachary
Wigon, il rapporto di dominio si stacca della propria
tangibilità fisica per elevarsi a una lotta psicologica dove ogni
pensiero viene ribaltato, ogni parola messa in discussione, per
creare nuovi pensieri, nuove realtà mentali in cui muoversi e
recitare nuove parti. Ne consegue un labirinto senza fine, dai
percorsi intrecciati e complicati, lungo i quali lo spettatore si
ritrova a vagare senza meta. Sottratto di ogni direzioni con cui
orientarsi, le uniche ancore a cui può affidarsi sono corpi di due
giovani che si attraggono e respingono, abbracciano e attaccano. Un
movimento continuo che destabilizza la visione, scaturendo un senso
di nausea per un’incapacità di comprensione di un rapporto
difficile da cogliere nel contesto logico e sentimentale. Rebecca e
Hal sono colti nei loto tentativi reciproci di dominio fisico e
psicologico, mentre tutto attorno crolla, perde le proprie base
razionali, lasciando in bocca un retrogusto di visione
perturbante.
Micce esplosive
È un santuario che di
sacro ha ben poco quello eretto da Wigon: a muoversi silente tra
gli inframezzi dei propri raccordi è adesso un effetto straniante
pronto a riflettersi e influenzare ogni singolo elemento in campo.
E se a dominare questo inafferrabile costrutto visivo è
un’irrequietezza sia del corpo, che della mente, a orchestrare
questa montagna russa perpetuamente in azione, non poteva essere
che una regia ancora più disorientante e mutabile. Da primi piani
affidati a grandangoli che distorcono i volti, tramutandoli in
maschere dell’angoscia, a carrellate improvvise, passando per
panoramiche a 360°, la macchina da presa di Wigon enfatizza ogni
senso di perdita razionale, traducendo visivamente due anime
fragili, incapaci di comprendere il proprio volere affidando alle
fragilità dell’altro un senso di rivalsa e fisico predominio.
Sarà nel momento dei
dialoghi, in quella creazione di nuovi contesti in cui inserirsi
con maschere nuove e sempre uguali, che la macchina da presa si
cristallizza mettendosi in pausa: immobile, lascia che il processo
di creazione e reciproco influenzamento mentale faccia il proprio
corso, ferma nell’attesa spasmodica di una miccia pronta di nuovo a
esplodere, dando vita a un ulteriore gioco al massacro psicologico,
tra recriminazioni, ricatti e bugie.
Un gioco al
massacro
“Dimmi che per te è
importante. Che non puoi viverne senza”. È un ritornello
ridondante, una cantilena ripetuta da entrambi i protagonisti di
Sanctuary, questa, una nenia recitata più per
autoconvincersi che qualcosa per cui vale la pena vivere esista per
davvero, che per pura asserzione. Nel microcosmo alberghiero di Hal
e Rebecca nulla pare valere davvero. Che siano 6 milioni di
dollari, un orologio prezioso, o una videocamera da scovare, la
posta in gioco per questi due personaggi cambia perpetuamente al
mutare del ricatto, sintomo che la vera mancanza per loro è da
ritrovarsi più profondamente nei meandri di anime incomprese e
incapaci di amare, che nella materialità di oggetti da distruggere.
E così, nell’arco di un solo spazio, quelli che si attaccano,
stuzzicano e uniscono, sono i corpi di mille maschere e diverse
personalità.
Una galleria psicotica
racchiusa nella cornice di due fisicità opposte, tra chi vuole
dominare e chi si lascia manipolare. Rebecca e Hal sono lo Yin e lo
Yang di una lotta continua, due pianeti che collidono senza
congiungersi mai. Ciò che rimane da questo conflitto di maschere
che cadono e altre che ritornano, è la perdita dell’umanità a
favore di un istinto animalesco misto a tossica interdipendenza.
Così come non possono fare a meno l’uno del potere fisico (ma anche
economico) dell’altra, Rebecca e Hal ricercano le fragilità altrui,
le sfruttano, per intelaiare una rete succuba di interdipendenza in
cui, tra stanze distrutte, e giochi mentali, tutto viene sconvolto
in una vertigine visiva lasciata scorrere lungo associazioni
mentali, e fotografie rosso fuoco, o blu glaciale.
Una, nessuna, centomila
maschere
In un mondo che tutto
cambia all’esternazione di parole che creano con fare divino, non
poteva esserci interprete migliore di Margaret Qualley per dar vita all’ipnotica, e
imprevedibile, Rebecca. Il volto dell’attrice è pura argilla da
modellare sulla forza di mille espressioni. È una mimica
volutamente caricata, la sua, che risponde in maniera coerente a un
universo cangiante e mai afferrabile come quello di
Sanctuary. Che sia l’imitazione del padre di Hal,
o la declamazione del giuramento alla bandiera americano, la sua
Rebecca è uno, nessuno e centomila sfumature di donna. La
modulazione della voce è, infatti, un ponte privilegiato attraverso
cui lasciar trasparire mille e altre personalità, facendo della
Qualley un’intensa presta-corpo di identità sfuggevoli e pensieri
complessi. Quello messo in campo dalla donna è un rifiuto netto di
mostrarsi statica e fissa nei confini di un determinato carattere;
una volontà che si ripercuote anche nel proprio corpo flessibile e
dinamico, perennemente in movimento come la sua mente in
elucubrazione.
Rebecca è, insomma, uno
tsunami inatteso pronto a ingoiare la terra ferma di un Hal
imprigionato in un’insicurezza che lo rende perfetta vittima del
gioco al dominio della donna, e preda manipolabile bloccata
sull’agire. È solo nel momento di vero terrore, preso dall’angoscia
di mostrarsi nelle forme delle proprie fobie e trasgressioni, che
Hal si tramuta in un fuoco che tutto arde e distrugge: ma le sue
fiamme sono facilmente domate dalle onde di
Rebecca, e così quell’incendio personale si
spegnerà ben presto all’ombra dell’ennesimo ricatto. Quella che
vive tra Hal e Rebecca è pertanto una costruzione psicologica dai
tratti dicotomici non solo ben delineata dallo sceneggiatore Micah
Bloomberg, ma soprattutto restituita in maniera impeccabile dai due
attori che si fanno riflesso speculare di un’altra,
indimenticabile, coppia del genere thriller come Laurence Olivier e
Joan Fontaine nel capolavoro di Alfred Hitchcock,
Rebecca.
Tanto nell’opera
hitchcockiana, che in quella delineata da Bloomberg in
Sanctuary, il potere va a braccetto con
l’ingenuità e la manipolazione, in una danza eterna che tutto
prende e decostruisce, fino all’esasperazione, fino alla nausea,
fino al dominio della mente e il soggiogamento del
corpo.
Dopo Victoria e Abdul, il celebre regista
inglese Stephen Frears torna a dirigere con The Lost
King, storia ispirata alla realtà, rocambolesca e appassionata,
tra commedia e dramma, di una comune signora borghese, Philippa
Langley, e di come sia riuscita a ingaggiare un gruppo di
archeologi e a finanziare gli scavi per cercare la tomba di re
Riccardo III. Il film fa parte della sezione Grand Public della
diciassettesima Festa del Cinema di Roma.
The Lost King, la
trama
Philippa Langley,
Sally
Hawkins, è un’impiegata di mezza età, divorziata dal
marito, Steve
Coogan, e con due figli. Dopo aver assistito a teatro
al Riccardo III shakespeariano, comincia a vedere il re
seduto su una panchina sotto casa sua. È spinta quindi da questa
presenza ad indagare meglio la figura del sovrano tra i più
discussi della storia inglese, da sempre dipinto come deforme,
malvagio e sanguinario, usurpatore del trono britannico. Leggendo e
confrontandosi con i membri della Richard III Society, di cui entra
a far parte, Philippa si convince che Riccardo III non fosse
affatto un sanguinario, e forse neppure gobbo, come lo descrivono
le cronache, e parte alla ricerca della sua tomba.
Il suo corpo, infatti,
non è stato ancora ritrovato. Con incrollabile determinazione
contatta gli enti locali e l’Università di Leicester, dove pensa si
trovi il corpo, affinché finanzino lo scavo. Philippa ha infatti
individuato un parcheggio dove, all’epoca del re, sorgeva la chiesa
di Greyfriars, poi demolita, accreditata da alcuni studiosi come
probabile luogo di sepoltura di Riccardo III. Vista la diffidenza
degli ambienti accademici, che la considerano una pazza visionaria
senza alcuna cognizione scientifica, indice una sottoscrizione
pubblica, grazie alla quale partono i lavori. Il loro esito le darà
ragione?
The Lost King, una
storia vera
Philippa Langley,
la cui vicenda ha ispirato il film, è la fondatrice della sede
scozzese della Richard III Society. Scrittrice e produttrice
con una passione per “le storie che mettono alla prova la nostra
concezione delle verità stabilite” – per usare le parole con le
quali ella si descrive – ha raccontato la storia della ricerca di
Riccardo III in diversi libri. Nel 2015 è stata nominata Membro
dell’Impero Britannico – (MBE) Member of the Most Exellent Order of
the British Empire – dalla Regina Elisabetta II.
Per il suo ritorno dietro
la macchina da presa, Stephen Frears, amato ed eclettico
regista britannico, nato in quella Leicester in cui è ambientato
questo suo nuovo lavoro, sceglie lo stesso team che lo aveva
accompagnato per un altro suo film di successo,
Philomena. Per The Lost King si avvale
infatti della scrittura di Steve Coogan e Jeff Pope.
Sceglie anche qui Steve Coogan come interprete, proprio come era
accaduto allora, e soprattutto racconta ancora di una ricerca sul
filo della storia, protagonista una donna tenace, come lo era la
Philomena interpretata da JudiDench. L’eroina di tutti i giorni di
questa nuova avventura è però esile e minuta. È una sognatrice, ma
caparbia e determinata. Le dà corpo efficacemente Sally
Hawkins.
The Lost King fa
riflettere con ironia ed eleganza
Il nuovo film di
Stephen Frears tocca temi importanti, come la malattia e più
in generale, l’essere differenti, difformi rispetto a una supposta
“normalità”. Elementi che portano spesso, oggi come ai tempi di
Riccardo III, allo stigma e al pregiudizio da parte dell’altro e
della società. È in questo essere differente che la protagonista si
sente affine al re tanto vituperato. È per sé stessa, oltre che per
la memoria storica del personaggio, che desidera riabilitarlo.
Sarebbe per lei una doppia vittoria. Anzi tripla, se si considera
che si tratta di una donna e, come viene sottolineato nel film, le
donne devono lottare assai più degli uomini per farsi valere, in
ambienti spesso eminentemente maschili come quello
universitario.
Non mancano infatti,
neppure stoccate sarcastiche alle istituzioni e agli ambienti
accademici. Ambienti elitari, snob, ormai votati al profitto, più
che alla ricerca, alla formazione e alla divulgazione del sapere.
Frears fa riflettere anche sui meccanismi che fanno la
storia, spesso scritta dai vincitori e crudele coi vinti, fino a
distorcerne, almeno in parte, le caratteristiche. Per il regista la
speranza per il futuro è dunque fuori dai circoli d’élite, dalle
istituzioni e dai consessi d’intellettuali, tra la gente comune,
appassionata e combattiva, come la protagonista; tra le brave
persone, come suo marito; tra i bambini e i ragazzi delle
scuole.
Lo stile di The Lost
King è quello cui il regista britannico ci ha abituato: curato
ed elegante, come le musiche di Alexandre Desplat, che accompagnano la vicenda. Allo
stesso tempo è sornione, divertito ed eccentrico. Il regista
accentua la componente ironica e a volte sarcastica, inserendo
perfino quel velo di surreale che si accorda molto bene allo
spirito britannico. Riesce a integrarlo perfettamente nella
narrazione, nella quale non stona affatto. Rende così il film un
godibile ibrido tra giallo, commedia brillante e dramma, in una
sintesi tra generi, che solo i grandi maestri sanno
operare.
Si è chiusa oggi l’ottava edizione
del MIA | Mercato Internazionale Audiovisivo,
diretto da Gaia Tridente, che si è svolto a
Roma dall’11 al 15 Ottobre 2022 a Palazzo
Barberini e al Cinema Barberini. Nei 5
giorni del MIA, Roma è stata il punto di riferimento per
l’industria audiovisiva, grazie all’ampia partecipazione di
executive europei e internazionali. Presenze in crescita del
+20% rispetto all’edizione 2021 con oltre 2400 accreditati
da 60 paesi del mondo.
Sempre piene le sale del Cinema Barberini dove si sono tenuti
gli oltre 70 panel e gli showcase. Tutto esaurito
sugli stand di Palazzo Barberini con la presenza
delle più importanti società di vendite internazionali italiane ed
europee. In crescita anche i numeri del MIA sui
social con oltre un milione di
visualizzazioni dell’account twitter dalla scorsa edizione
ad oggi, mentre i follower della pagina facebook del MIA
sono cresciuti del 27% e quelli di Linkedin del 23%.
Numerosa anche la stampa accreditata, 160
giornalisti – di cui il 20% appartenenti alla
stampa internazionale – che hanno seguito il MIA in
presenza o da remoto tramite la piattaforma MIA Digital – con oltre
600 articoli usciti ad oggi sulle più importanti
testate internazionali e italiane.
Concepito come un mercato
curatoriale, uno spazio fisico e digitale di ragionamento,
conversazione e strategia, il MIA è oggi il più importante evento
di settore in Italia ed è entrato a pieno titolo nell’agenda
internazionale degli appuntamenti dedicati ai professionisti
dell’audiovisivo. Il MIA 2022 si è confermato uno strumento
attraverso cui tutto il comparto può mostrare le sue eccellenze,
intercettare nuovi partner internazionali e
scoprire nuovi modelli di business, ragionare su
strategie finanziarie legate alla produzione di
contenuti, favorire la circolazione delle
opere, facilitare lo sviluppo di diverse forme di
sfruttamento e stringere fondamentali rapporti di business con gli
operatori provenienti da tutto il mondo. Anche in questa sua ottava
edizione il MIA è stato la piattaforma attraverso
cui le istituzioni nazionali e internazionali hanno avuto
l’occasione per mettere a sistema il lavoro su
finanziamenti pubblici e regionali, sul
soft money, sulla scoperta dei territori, in cui
intessere le relazioni per l’ideazione e il potenziamento delle
azioni a sostegno della produzione e della distribuzione.
“L’ottava edizione del MIA si chiude oggi con risultati
eccellenti. Oltre 2400 accreditati provenienti da 60 paesi del
mondo che in queste cinque giornate di lavoro hanno letteralmente
invaso il Cinema Barberini e Palazzo Barberini. L’affluenza è stata
elevatissima con +20% rispetto alla passata edizione, sold out in
tutte le sale e in tutte le conferenze del MIA al Cinema Barberini,
per non parlare di Palazzo Barberini, cuore delle attività dei b2b
del mercato di co-produzione e delle vendite internazionali. Per la
prima volta al MIA abbiamo avuto una demo room di virtual
production che ha attratto tantissimi professionisti del settore
che hanno potuto vivere un’esperienza virtuale all’interno del
meraviglioso museo che ospita il MIA. Questa rappresenta
un’edizione di svolta, con una partecipazione internazionale
davvero significativa, e Roma si è trasformata in questi 5 giorni
in una fucina di discussione, dibattito e confronto tra i più
importanti executive internazionali provenienti da Europa, Nord
America, Medio Oriente e Africa, Sud America, Asia. Abbiamo
costruito un programma editoriale forte, in grado di rappresentare
l’intero ecosistema e i suoi paradigmi. Il MIA è oggi la
destinazione per l’industria globale, che sta attraversando una
fase di rapida evoluzione e di esplosione della produzione di nuovi
contenuti”, ha dichiarato Gaia Tridente,
direttrice del MIA.
“Questa edizione del MIA conferma la vitalità
dell’industria del Cinema e dell’Audiovisivo italiano e delle sue
articolazioni. Una nuova tappa positiva per il MIA che ogni anno
vede aumentare la presenza di operatori nazionali ed internazionali
e che favorisce l’esportazione dei nostri prodotti e le
coproduzioni. Crescono opportunità di incontri e business con la
consapevolezza di quanto sia importante questa filiera per la
crescita industriale e il lavoro, e per il Soft Power
dell’Italia”, ha dichiaratoFrancesco Rutelli,
Presidente Anica.
“Il MIA, edizione dopo edizione, continua ad affermarsi
come un progetto ambizioso e senza dubbio fondamentale perché
garantisce agli operatori di settore mondiali una vetrina ricca di
prodotti d’eccellenza per potenziali grandi coproduzioni e
importanti accordi di business. L’obiettivo resta quello di
accendere i riflettori sulla filiera audiovisiva che in Italia ha
un valore di circa 1,5 miliardi di euro e coinvolge più di 7mila
imprese e circa 200mila occupati tra diretti e indiretti. La nostra
industria diventa sempre più competitiva nel panorama
internazionale, continua a crescere ed evolversi, come dimostrano
anche i dati emersi nel 4° Rapporto APA sulla produzione
audiovisiva nazionale, presentato proprio in occasione del
Mercato”, ha dichiarato il Presidente APA
Giancarlo Leone.
Nato nel 2015 per volontà di ANICA
(Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e
Digitali) presieduta da Francesco Rutelli e
APA (Associazione Produttori Audiovisivi)
presieduta da Giancarlo Leone, il MIA gode del
sostegno di Ministero degli Affari Esteri e della
Cooperazione Internazionale, ICE-Agenzia per la
promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese
italiane, Ministero della Cultura,
Ministero dello Sviluppo Economico,
Regione Lazio ed è sostenuto anche grazie al
supporto di sponsor privati: Unicredit è lo
sponsor ufficiale e Fastweb è il partner
tecnologico. Il MIA 2022 gode, quest’anno per la prima volta, del
patrocinio di Eurimages, il fondo del Consiglio
d’Europa.
Sulla piattaforma MIA DIGITAL gli accreditati
al mercato potranno vedere o rivedere panel, talks e contenuti di
questa edizione.
Nel corso della giornata conclusiva sono stati assegnati i
MIA Awards 2022. Questa la lista dei premi e dei
vincitori.
Co-Production and Pitching Forum
Premio Internazionale ARTEKINO – destinato a
sostenere registi e produttori di Film emergenti di tutto il mondo
– a Forastera di Lucia Alenar
Iglesias, prodotto da Lastor Media (Spagna).
I Premi ILBE – due premi a sostegno dello
sviluppo di progetti presentati al MIA Film co-production Market &
Pitching Forum e nella sezione Wanna Taste IT?, dedicata
ai progetti cinematografici italiani in fase di sviluppo – sono
andati a Through the winter di Anita
Rivaroli, prodotto da Indiana Production, e a
Brianza di Simone Catania, prodotto da
Indyca e Rough Cat.
Il Premio Paramount+ – al miglior progetto
presentato al MIA Drama Pitching Forum – è stato vinto da
The Abbess, prodotta da Peter Carlton di Warp
Films.
Il Premio WIFTMI – assegnato da Women in Film,
Television and Media Italia a un progetto italiano selezionato
nell’ambito del Co-Production Market & Pitching Forum di
Animazione, Drama e Film con il maggior potenziale di realizzazione
in base a criteri legati all’eliminazione della disuguaglianza di
genere, alla rappresentazione positiva ed equilibrata, alla
diversità e all’inclusione – è andato alla serie
Cosplay Girl di Rodeo Drive, creata da
Massimo Bacchini, Eleonora Cimpanelli e Giulio Rizzo. La serie è
basata sull’omonimo romanzo di Valentino Notari.
Content
Showcase
Il Premio Lazio Frames – al titolo che più
valorizza il territorio della Regione, presente nelle vetrine di
What’s Next Italy, GREENlit e Italians Doc It
Better – a The Breath of the
Mountain, film animato di Lorenzo Latrofa, prodotto
da La Sarraz Pictures.
Lo Screen International Buyers’ Choice Award –
assegnato ai film selezionati alla vetrina C EU Soon e
votati da distributori, agenti di vendita e buyer – a
Matria di Álvaro Gago (Spagna), prodotto
da Matriuska Producciones, Elastica Films, Avalon P.C., Ringo
Media. Sales Agent: New Europe Film Sales.
Hosted
I Premi La Bottega della
Sceneggiatura: un’iniziativa di Premio Solinas e Netflix per scoprire e promuovere la nuova
generazione di autori di serie televisive in Italia. Primo
Premio a Il peso del mondo di Jacopo
Cazzaniga. Secondo Premio a Le figlie di
Roma di Federica Baggio e Anna Francesca Leccia.
Menzione speciale a Galena di Marco
Panichella.
E’ stata presentata in anteprima
alla diciassettesima edizione della Festa del Cinema
di Roma
ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA, secondo capitolo
della serie Sky Original firmata da Matteo
Rovere e prodotta da Sky Studios, Cattleya e Groenlandia
in collaborazione con ITV Studios.
Prima del mito, oltre la leggenda,
la nascita di Roma come non è mai stata raccontata in 8 nuovi
episodi. ROMULUS
II – LA GUERRA PER ROMA arriverà dal 21 ottobre in
esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW.
Ai protagonisti della prima
stagione Andrea Arcangeli (Yemos),
Marianna Fontana (Ilia) e Francesco Di
Napoli (Wiros) si aggiungonoValentina
Bellè (Volevo fare la rockstar,L’uomo del
labirinto, Catch-22) nei panni di Ersilia, a capo
delle sacerdotesse Sabine; Emanuele Maria Di
Stefano (La scuola cattolica, Siccità)
che interpreta il re dei Sabini Tito Tazio, figlio del Dio Sancos,
il più potente nemico di Roma;Max Malatesta
(Favolacce, Il primo Re) è Sabos, consigliere e
braccio destro del re dei Sabini; Ludovica Nasti
(L’amica geniale) veste i panni di Vibia, la più giovane
fra le sacerdotesse Sabine; mentre Giancarlo
Commare (Skam Italia, Maschile singolare, La
Belva) è Atys, il giovane re di Satricum. Tornano anche
Sergio Romano (Amulius), Demetra
Avincola (Deftri) e Vanessa Scalera
(Silvia).
Come già la prima, venduta da ITV
Studios – il distributore internazionale – in più di 40 territori,
anche la seconda stagione della serie è stata interamente girata in
protolatino. Il team di regia è formato da Matteo
Rovere, Michele Alhaique ed
Enrico Maria Artale, già registi della prima
stagione, e da Francesca Mazzoleni (Punta
Sacra, Succede). Alla sceneggiatura tornano Filippo
Gravino e Guido Iuculano, cui si uniscono nella writers’ room
Flaminia Gressi e Federico Gnesini.
La trama
Yemos, Wiros, Ilia, il gruppo di
Ruminales e i cittadini di Alba a loro fedeli si sono insediati in
quella che un tempo era Velia, consacrandola regno libero e
indipendente e dandole il nome di ROMA. È per questo che Tito
Tazio, giovanissimo re dei Sabini, figlio del dio Sancos, temuto e
venerato dal suo popolo, temendo l’espansione del regno oltre i
confini, invita i due re per un rito che si rivelerà un’imboscata
volta alla sottomissione. In questa terra inospitale, Yemos e Wiros
strapperanno al re le sacerdotesse Sabine, a lui molto care, in un
gesto sacrilego ma inevitabile. Quando i Sabini invadono il Lazio
per reclamare le donne, Yemos e Wiros restano fermi sulle loro
posizioni ma di fronte a guerra e distruzione il loro sodalizio
inizia a mostrare i segni di una crisi imminente, perché a Roma può
esserci un solo re. Chi prenderà il nome di ROMULUS?
ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA è
inoltre la prima serie Tv italiana certificata totalmente
carbon neutral, anche a livello internazionale. Durante la
fase di produzione è stata avviata una stretta collaborazione con
Zen2030, società benefit italiana che ha come obiettivo la
riduzione dell’impatto ambientale dell’intero settore audiovisivo
italiano, sulla via delle zero emissioni nette. ROMULUS II – LA
GUERRA PER ROMA ha quindi potuto beneficiare dell’applicazione del
Protocollo Zen2030, finalizzato a ridurre l’impronta di carbonio
delle produzioni cinematografiche fino a renderle carbon neutral.
Una scelta in linea con l’impegno del gruppo Sky che, con la
campagna Sky Zero, punta a essere la prima media company in Europa
a diventare Net Zero Carbon entro il 2030.
ROMULUS II – LA GUERRA
PER ROMA | Dal 21 ottobre in esclusiva su Sky e in streaming solo
su NOW
Guada il trailer de
Il
principe di Roma, con
Marco Giallini, Giulia Bevilacqua, Filippo Timi, Sergio
Rubini, Denise Tantucci, Antonio Bannò, Liliana Bottone,
Massimo De Lorenzo con Andrea Sartoretti e con Giuseppe
Battiston. In anteprima nella sezione GRAND PUBLIC alla
XVII edizione della Festa del Cinema di Roma.
Roma, 1829. Bartolomeo è un uomo ricco e avido che
brama il titolo nobiliare più di ogni cosa. Nel tentativo di
recuperare il denaro necessario a stringere un accordo segreto con
il principe Accoramboni per ottenere in moglie sua figlia, si
troverà nel bel mezzo di un sorprendente viaggio a cavallo tra
passato, presente e futuro. Accompagnato da compagni d’eccezione
dovrà fare i conti con sé stesso e conquistare nuove
consapevolezze.
Il film racconta la storia di una troupe cinematografica
impegnata con le riprese di un horror a basso budget all’interno di
una fabbrica abbandonata. Il gruppo, oltre alle difficoltà di
gestione di cast e denaro, si ritroverà a dover fronteggiare una
reale invasione di zombie, che porta confusione e terrore sul set.
A causa dell’improvvisa occupazione degli spazi da parte dei non
morti, la troupe faticherà a distinguere la realtà dalla finzione
cinematografica…
E’ stato presentato ieri alla
Festa del
cinema di Roma il film La cura. Sul red carpet hanno sfilato in
protagonisti, il regista Francesco Patierno e gli interpreti
Francesco Di Leva,
Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli, Cristina Donadio,
Andrea Renzi, Antonino Iuorio, Peppe Lanzetta, Ernesto Mahieux,
Giuseppe D’Ambrosio, Eliana Miglio, Maritè Musella, Giancarlo
Cosentino, Francesco Biscione, Margherita Romeo, Viviana Cangiano,
Francesca Romana Bergamo, Vincenzo Del Prete, Pio Del Prete, Ramon
D’Andrea, Giuseppe. Ecco tutte le foto dal red carpet:
LA CURA un film di Francesco
Patierno | liberamente tratto da La Peste di Albert Camus, Editions
Gallimard 1947 verrà presentato in CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA alla
Festa del Cinema di Roma 2022 |una produzione RUN FILM in
associazione con IN BETWEEN ART FILM prodotto da Alessandro e
Andrea Cannavale con Beatrice Bulgari.
La trama del film
La storia della Peste di Albert
Camus, ambientata originariamente in Algeria nel 1947, si sposta
nella Napoli dei nostri tempi. Una troupe cinematografica, durante
i giorni più duri del lockdown, gira un film tratto dalla Peste di
Camus. La realtà delle vite degli attori si alterna alla finzione
dei personaggi che interpretano: gradualmente i due piani narrativi
si uniscono. Corso Umberto, il rione Sanità, le Terme, la stazione
di Mergellina, l’Hotel Oriente, la prefettura, strade, angoli, per
lo più deserti: Napoli in pieno lockdown. Una città spettrale e
fuori dal tempo per la rilettura contemporanea di Francesco
Patierno di La peste di Albert Camus, dove i sentimenti, le paure,
i conflitti del libro scivolano armoniosamente dentro il
disorientamento generato dalla pandemia, e pezzi di realtà, come un
uomo disperato che urla di notte per strada, riflettono il testo.
Un ospedale e i suoi medici e volontari, i funzionari, i
commercianti, le persone normali, tutti si mescolano con una troupe
che sta girando un film sulla Peste, in una coralità drammatica
asciutta e coinvolgente. Chi vuole scappare. Chi decide di restare.
Ma da soli non si resiste alla paura.
Sarà il pluripremiato regista di
fama internazionale Joe Wright (L’ora
più buia, Espiazione, Cyrano) a dirigere
M. Il figlio del secolo, la nuova serie Sky
Original adattamento dell’omonimo romanzo di Antonio
Scurati vincitore del Premio Strega e bestseller internazionale,
che racconta la nascita del fascismo in Italia e l’ascesa al potere
del Duce Benito Mussolini.
Wright, che dirigerà tutti gli otto
episodi della serie e batterà il primo ciak presso i Cinecittà
Studios nelle prossime settimane, ha dichiarato: «Portare sullo
schermo un romanzo come “M – Il figlio del secolo” è una sfida
incredibile che non vedo l’ora di affrontare. Spero di riuscire a
restituire le luci e le ombre di un periodo storico e di un
personaggio che, nel bene e nel male, hanno definito un’intera
era».
Nell’ambito della diciassettesima
edizione della Festa del Cinema di Roma, il 18 ottobre il regista
inglese sarà inoltre protagonista, insieme agli sceneggiatori
Stefano Bises e Davide Serino, dell’incontro “M. La serie”.
M. Il figlio del secolo è una serie prodotta da Sky
Studios e da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures, società del
gruppo Fremantle, in collaborazione con Pathé.
M. Il figlio del secolo, la
trama
La serie ripercorrerà la storia
dalla fondazione dei Fasci Italiani nel 1919 fino al famigerato
discorso di Mussolini in parlamento dopo l’omicidio del deputato
socialista Giacomo Matteotti nel 1925. Offrirà inoltre uno spaccato
del privato di Mussolini e delle sue relazioni personali, tra cui
quelle con la moglie Rachele, l’amante Margherita Sarfatti e con
altre figure iconiche dell’epoca. Come il romanzo, la serie
racconterà la storia di un paese che si è arreso alla dittatura e
la storia di un uomo che è stato capace di rinascere molte volte
dalle sue ceneri.
Scritta da Stefano Bises
(Gomorra – La Serie, The New Pope, ZeroZeroZero, Speravo de
morì prima) e Davide Serino (1992, 1993, Il Re, Esterno
Notte), la serie racconterà gli accadimenti con accuratezza
storica, con ogni evento, personaggio, dialogo e discorso
storicamente documentato o testimoniato da più fonti.
M. Il figlio del secolo arriverà in esclusiva su Sky e
in streaming solo su NOW in tutti i territori Sky in Europa. La
distribuzione internazionale è di Fremantle.
Pubblicato in Italia da Bompiani
nel 2018, il romanzo di Antonio Scurati M. IL FIGLIO DEL SECOLO è
stato tradotto ad oggi in 46 paesi, ha venduto oltre 600.000 copie.
Negli Stati Uniti è edito da HarperCollins.
È il primo di una trilogia dedicata
da Scurati al fascismo e a Benito Mussolini: il secondo romanzo è
M. L’UOMO DELLA PROVVIDENZA, cui ha fatto seguito da qualche
settimana il terzo romanzo della serie bestseller, M. GLI ULTIMI
GIORNI DELL’EUROPA, che si concentra sul cruciale triennio tra il
1938 e il 1940.
BIOGRAFIA JOE
WRIGHT
Il regista Joe Wright ha studiato
al St. Martin’s College di Londra. Con i suoi nove lungometraggi da
regista usciti ad oggi, Wright ha collezionato, tra candidature e
vittorie, 35 BAFTA, 24 Academy Awards e 12 Golden Globe.
Nel 2005 debutta alla regia di un
lungometraggio con ORGOGLIO & PREGIUDIZIO, con
Keira Knightley, Matthew MacFadyen, Rosamund Pike e Donald
Sutherland. Il film gli ha fatto vincere il Premio BAFTA come
miglior regista.
ESPIAZIONE,
adattamento del libro di Ian McEwan, esce nel 2007. Scritto da
Christopher Hampton e interpretato da Knightley e James McAvoy, il
film vince un Oscar per la migliore colonna sonora originale.
Nel 2009 esce il film IL
SOLISTA, con Robert Downey Jr. e Jamie Foxx, seguito nel
2011 da HANNA, che vede protagoniste Cate
Blanchett and Saoirse Ronan.
Nel settembre 2012 Wright presenta
al pubblico ANNA KARENINA con Keira
Knightley, Jude Law e Aaron Taylor-Johnson, che vince un BAFTA e un
Oscar per i migliori costumi. Poco dopo Wright debutta nel mondo
del teatro con TRELAWNY OF THE WELLS in scena al
Donmar Theatre, seguito da A SEASON IN THE CONGO
con Chiwetel Ejiofor, in scena al Young Vic.
Nel 2015 collabora con la Warner
Bros per il lungometraggio PAN – VIAGGIO SULL’ISOLA CHE NON
C’È. Il film, che vede Hugh Jackman fra i protagonisti, è
una lettera d’amore agli scritti di JM Barrie e segue un giovane
Peter mentre viaggia verso l’Isola che non c’è. Nel 2017 esce
L’ORA PIÙ BUIA con Kristin Scott Thomas, Lily
James e Gary Oldman che vince l’Oscar come miglior attore
protagonista per la sua performance nei panni di Sir Winston
Churchill.
LA DONNA ALLA
FINESTRA è arrivato nel maggio 2021 su Netflix. Il cast comprende Amy Adams, Julianne Moore
e Gary Oldman. L’ultimo film di Wright è CYRANO,
musical tratto dal “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand. Vede
come protagonisti Peter Dinklage, Haley Bennett, Kelvin Harrison
Jr. e Ben Mendelsohn.
Una vita tranquilla,
almeno apparentemente, è quella immaginata da Sandro
Veronesi nel suo romanzo vincitore del Premio Strega 2020.
Una storia difficile da sintetizzare e ricca di temi importanti,
che Francesca Archibugi porta in sala – a partire
dal 14 ottobre (distribuito da 01 Distribution) – nel
film omonimoIl Colibrì. Scelto come titolo
d’apertura della rinnovata Festa del Cinema di Roma, e inserito
nella sezione Grand Public dedicata al cinema per il grande
pubblico, il nuovo film della regista di Vivere colpisce al
cuore, ma non solo, visto il cast All-Star riunito per
l’occasione.
Quelli di Nanni
Moretti e Pierfrancesco Favino spiccano tra i nomi di
Kasia Smutniak,
Berenice Bejo,
Laura Morante,
Benedetta Porcaroli, Massimo
Ceccherini, Fotiní Peluso e
Pietro Ragusa – tra gli altri – ed è
paradossalmente tra loro due che si sviluppa il rapporto più
importante in Il Colibrì. Tra tante relazioni,
amorose o familiari, grandi amori e insopportabili dolori, la
tensione che lega Daniele e Marco cambia con il passare del tempo e
li lega sempre di più, dalle prime preoccupazioni professionali
all’atto più estremo di vicinanza e amicizia.
Chi è il
Colibrì?
Favino (che per una
curiosa coincidenza, da anni convive felicemente con il soprannome
di Picchio) è Marco Carrera, al quale sin da piccolo viene
affibbiato quel nomignolo, per via di uno squilibrio ormonale che
non lo faceva crescere e sviluppare come dovuto, ma che resta per
tutta la vita il Colibrì, sebbene una cura sperimentale gli avesse
permesso di avere infine una statura normale. Ed è la sua storia
che seguiamo, nella sua quasi interezza, di ricordo in ricordo,
saltando da un’epoca a un’altra, in un tempo liquido che va dai
primi anni ‘70 fino a un futuro prossimo – il 2030 – nel quale lo
Stato italiano si è finalmente deciso a dare una prova da tempo
richiesta di umanità e civiltà.
Ma tutto inizia da
bambini, quando al mare Marco conosce Luisa Lattes, una ragazzina
bellissima e inconsueta. Una passione idealizzata e quindi
ineguagliabile, un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà,
per tutta la vita. A differenza di quello per la moglie Marina,
madre della figlia Adele. Tra coincidenze incredibili e prove
durissime, Marco passa da Roma a Firenze, spesso accompagnato dal
vigile e amorevole sguardo di Daniele Carradori, lo psicoanalista
di Marina, che insegnerà a Marco come accogliere i cambi di rotta
più inaspettati.
La forza della
vita
Dicevamo della difficoltà
di adattare in maniera ineccepibile un intreccio tanto articolato,
ricco di personaggi e di connessioni diverse a seconda del momento
storico vissuto attraverso il costante alternarsi di passato e
presente. Un reticolo esistenziale notevole, che tra momenti da
ricordare e parentesi didascaliche non può che dare a tratti la
sensazione di non riuscire a legare ugualmente tutti gli elementi.
Nonostante la presenza di alcune costanti, veri fulcri della
narrazione.
In primis la telefonata
che riceve Marco, con cui si apre Il Colibrì e che
rivediamo – ogni volta inquadrata diversamente, sempre più da
vicino – mano a mano che prende forma il personaggio di Favino e si
forma la sua consapevolezza del proprio vissuto. Che passa anche
dalle rare e complicate riunioni familiare e dall’evoluzione del
suo amore – idealizzato – per la onnipresente Lucia
Lattes di Bérénice Bejo. Altro
personaggio chiave, testimone distante e ambiguo, forse la figura
femminile più interessante tra le varie (dalla Morante, alla sempre
eccessiva Smutniak).
Non è mai facile
assistere a una agonia, l’altrui come la propria, ma in quella che
Il Colibrì descrive come la “strenua lotta che
facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra
insostenibile” resta la speranza. Di trovare la felicità, dopo
tante finzioni e paure, di scoprirsi protagonisti di una vita vera,
di non aver sprecato il proprio tempo – come un colibrì, costretto
a uno sforzo “assurdo” per restare fermo – e anzi di aver trovato
il coraggio di diventarne padroni e disporne nel momento più
delicato di questo lungo addio.
L’account Instagram ha realizzato
una fanart che riunisce, in un incontro possibile nel Multiverso
MCU, le tre incarnazioni di Captain
America del Marvel Universe, almeno quelle che
abbiamo incontrato fino a questo momento.
Nell’immagine vediamo ovviamente lo
Steve Roger di Chris Evans al
centro, mentre ai suoi lati c’è Sam Wilson/Anthony
Mackie, che ha ufficialmente raccolto il suo testimone
alla fine di Avengers: Endgame, e Peggy
Carter/Hayley Atwell, che è stata brevemente Cap in
Doctor Strange nel Multiverso della Follia e
ancora prima in What
If…?
La star de I
Goonies, Ke Huy Quan, ha recentemente
condiviso sui social media il suo emozionante
ritorno sul set dopo 36 anni. Dopo aver iniziato come
co-protagonista di Harrison Ford in Indiana Jones e il Tempio Maledetto nel 1984,
Quan è tornato sul grande schermo nel successo degli anni ’80,
I Goonies. L’attore ha interpretato il ruolo
di Richard “Data” Wang, un membro di un gruppo di
amici nella città di Astoria, nell’Oregon. Conosciuto per la sua
personalità esuberante e i suoi gadget folli, Data ha assistito il
suo amico Mikey (Sean Astin) nella ricerca del
tesoro del pirata Willy l’Orbo.
Dopo il suo ruolo ne I
Goonies, Quan ha lottato per mantenere la sua carriera a
Hollywood. L’attore ha subito trovato difficile trovare ruoli
adatti a lui e ha cominciato a lavorare dietro alla macchina da
presa. Dopo aver completato il programma cinematografico presso
l’Università della California meridionale, Quan ha lavorato in
varie produzioni in tutto il mondo anche come stunt rigger in
Canada per X-Men (2000) e assistente alla regia
per Wong Kar Wai in 2046.
Tuttavia, dopo l’uscita di Crazy Rich Asians, Quan
è stato ispirato a tornare alla recitazione. È stato scelto per un
piccolo ruolo per il film NetflixAlla ricerca di Ohana,
un’avventura familiare chiaramente ispirata a I
Goonies, e in seguito ha ottenuto il ruolo di Waymond Wang
nell’acclamato Everything Everywhere All at Once.
Dopo 36 anni, Quan è finalmente
tornato allo studio di produzione dove aveva originariamente girato
parte di I Goonies e si è rivolto a Instagram per
condividere il momento. Nelle immagini, Quan indica una targa sul
muro della Warner Bros. Stage 16 che presenta un elenco di film
importanti girati in loco e che include proprio I
Goonies. L’attore ammette di essersi emozionato tornando
dopo così tanti anni.
In una recente intervista con Total
Film (tramite The
Direct), Tenoch Huerta, che dà vita a Namor in
Black
Panther: Wakanda Forever, discute del futuro di Namor
nel MCU dopo la sua introduzione nel
film di Ryan Coogler. Anche se l’attore non rivela
nulla di concreto, sembra certamente eccitato dalla prospettiva di
esplorare la ricca storia di Namor nel MCU, se gliene verrà data la
possibilità.
“Lo spero! Lo spero! Perché
voglio un contratto più grande! Voglio più zeri nel mio contratto!
No, sto scherzando. Voglio dire, la mitologia attorno a Namor è
enorme. Puoi impazzire con tutta questa cultura aspetto, e puoi
creare un sacco di cose con Namor, perché sono una fantastica fonte
di storie, mitologia, religione e tutto il resto. Quindi spero che
decidano di continuare con il personaggio, oltre la sua storia o
altro”.
I dettagli ufficiali della trama
sono ancora nascosti, ma ci è stato assicurato che il sequel del
MCU onorerà il defunto Chadwick Boseman mentre continuerà l’eredità
del suo personaggio, T’Challa. Black
Panther: Wakanda Forever arriverà nelle sale l’11
novembre 2022. Il presidente dei Marvel Studios,
Kevin Feige, ha confermato che T’Challa, il personaggio
interpretato al compianto Chadwick
Boseman nel primo film, non verrà interpretato da
un altro attore, né tantomeno ricreato in CGI. Il sequel si
concentrerà sulle parti inesplorate di Wakanda e sugli altri
personaggi precedentemente introdotti nei fumetti Marvel.
Letitia Wright (Shuri), Angela
Bassett (Ramonda), Lupita
Nyong’o (Nakia), Danai
Gurira (Okoye), Winston
Duke (M’Baku) e Martin
Freeman (Everett Ross) torneranno nei panni dei
rispettivi personaggi interpretati già nel primo film.
L’attore Tenoch Huerta è in trattative
con i Marvel Studios per
interpretare il villain principale del sequel.
Sono tanti gli attori del panorama
mondiale che, nelle ore serali di ieri, hanno rilasciato
dichiarazioni e omaggi alla memoria di Robbie Coltrane, attore scozzese scomparso
all’età di 72 anni. Tra questi anche Daniel Radcliffe ha rilasciato una
dichiarazione affidata a Deadline.
Coltrane era stato compagno di set
del giovanissimo Radcliffe in tutta la fase di produzione, oltre
dieci anni, del franchise di Harry Potter, in cui Robbie
interpretava il personaggio chiave di Rubeus Hagrid, il Custode
delle Chiavi e dei Luoghi di Hogwarts e primo amico “magico” del
piccolo Harry (Daniel
Radcliffe). Ecco cosa ha dichiarato Radcliffe:
“Robbie era una delle persone
più divertenti che abbia mai incontrato e ci faceva ridere
costantemente da bambini sul set. Ho ricordi particolarmente
affettuosi di lui che teneva alto il morale durante la lavorazione
de Il Prigioniero di Azkaban, quando ci nascondevamo tutti dalla
pioggia torrenziale per ore nella capanna di Hagrid e lui
raccontava storie e scherzava per tenere alto il morale. Mi sento
incredibilmente fortunato di aver avuto modo di incontrarlo e
lavorare con lui e sono molto triste per la sua morte. Era un
attore incredibile e un uomo adorabile”.
Ryan Reynolds e il co-regista di Strange World stanno sviluppando un film
basato sull’attrazione dei parchi a tema Disney Society of
Explorers and Adventurers. Disneyland e Disney World hanno
avuto grandi influenze sul mondo in generale. Con la capacità di
questi parchi di immergere ed emozionare i visitatori con un layout
sapientemente progettato e le numerose offerte, i parchi a tema non
hanno mostrato segni di rallentamento. L’inclusione di contenuti
Marvel e Star
Wars nei parchi aggiunge divertimento generale e continua a
giustificare la convinzione di Walt Disney che i parchi a tema non
conosceranno mai crisi e continueranno a crescere e cambiare.
E’ già capitato in passato che la
Disney usasse attrazioni dei parchi a tema come base per dei film.
Chiaramente l’esempio più illustre è Pirati dei
Caraibi in quanto ha dimostrato di essere l’attrazione più
redditizia dei parchi a tema per avviare un franchise
cinematografico, segue poi Jungle Cruise di
Dwayne Johnson, che ha debuttato con recensioni
modeste e sottoperformato al botteghino durante la pandemia, ma sta
ottenendo ora un discreto seguito. Oltre ai due, la Disney ha
provato ad adattare altre giostre che però non hanno avuto un
impatto al botteghino tra cui Country Bears,
Mission to Mars, Tomorrowland e
The Haunted Mansion, e con la Disney che sta
attualmente riavviando quest’ultimo, sembra che ora stiano
arricchendo ulteriormente il loro elenco di progetti in base alle
loro attrazioni.
Come annunciato da The Hollywood
Reporter, Ryan Reynolds sta collaborando con
il co-regista di Strange WorldQui Nguyen per
produrre un adattamento cinematografico di Society of
Explorers and Adventurers. Il film non sarà correlato alla
serie televisiva Disney+ sviluppata da Ron
Moore, ma sarà invece un film autonomo che esplora il
mondo di SEA ai giorni nostri e includerà elementi soprannaturali e
nuove idee non presenti nelle giostre originali. Nguyen scriverà il
nuovo lungometraggio mentre Reynolds produrrà il film sotto il suo
marchio Maximum Effort.
Con Deadpool 3 che verrà prodotto sotto l’ombrello
della Walt Disney Company, sembra che per Ryan Reynoldssi stia
inaugurando una collaborazione importante con lo Studio.
In una recente intervista con
SlashFilm, il compositore Michael Giacchino ha
riflettuto sul periodo trascorso a mettere insieme la colonna
sonora di The
Batman. Il compositore della soundtrack del film DC ha
rivelato di non aver mai ascoltato la canzone dei Nirvana, chiave
per la colonna sonora del film, “Something in the Way”, e
che aveva iniziato a scrivere la musica prima ancora che Robert Pattinson venisse scelto per
interpretare il protagonista.
“Questo è davvero imbarazzante,
ma non conoscevo quella canzone. Non conoscevo affatto quella
canzone. Mi sento come un vecchio che dice che non lo sapeva.
Certo, ora lo so. Nel momento in cui stavo scrivendo, non ne avevo
idea. Non lo sapevo. È stata una fortuna eterna che quelle due
tracce (il tema di The
Batman e la canzone dei Nirvana, ndr) siano stati in grado, in
qualche modo con un piccolo ritocco, di coesistere per i trailer
nel modo in cui hanno fatto. Ha funzionato davvero bene. Non era
qualcosa che era stato pianificato in anticipo, era solo una specie
di, ho scritto quel tema dopo aver parlato della sceneggiatura con
[il regista Matt Reeves] per così tanto tempo e aver parlato dei
personaggi e di tutto il resto. Il tema è stato scritto, non so,
due anni prima che il film fosse finito. Matt aveva quel tema prima
che scegliessero ufficialmente Robert Pattinson. Voglio dire, è stato
pazzesco averlo così presto. È raro che succeda. Tutto ha
funzionato. E’ stata solo una fortuna. Il tema principale di Batman
è proprio quel dun dun dun, in un certo senso vivono insieme così
bene.”
The Batman, il film
The
Batman diretto da Matt Reeves è
uscito nelle sale il 4 marzo distribuito da Warner Bros Italia.
Protagonisti del film insieme a Robert Pattinson nei panni di Bruce
Wayne, ci saranno anche Colin
Farrell (Oswald Chesterfield/Pinguino), Zoe
Kravitz (Catwoman), Jeffrey Wright (Jim Gordon), Paul
Dano (Enigmista) e Andy
Serkis (Alfred). Infine, John
Turturro sarà il boss Carmine Falcone. Nel cast
anche Peter
Sarsgaard che sarà Gil Colson, il Procuratore
Distrettuale di Gotham.
Due anni trascorsi a pattugliare le
strade nei panni di Batman (Robert
Pattinson), incutendo timore nel cuore dei criminali,
hanno trascinato Bruce Wayne nel profondo delle tenebre di Gotham
City. Potendo contare su pochi fidati alleati – Alfred Pennyworth
(Andy
Serkis) e il tenente James Gordon (Jeffrey
Wright) – tra la rete corrotta di funzionari e figure
di alto profilo della città, il vigilante solitario si è affermato
come unica incarnazione della vendetta tra i suoi concittadini.
Quando un killer prende di mira l’élite di Gotham con una serie di
malvagi stratagemmi, una scia di indizi criptici spinge il più
grande detective del mondo a indagare nei bassifondi, incontrando
personaggi come Selina Kyle / alias Catwoman (Zoe
Kravitz), Oswald Cobblepot / alias il Pinguino
(Colin
Farrell), Carmine Falcone (John
Turturro) e Edward Nashton / alias l’Enigmista
(Paul
Dano). Mentre le prove iniziano a condurlo più vicino
alla soluzione e la portata dei piani del malfattore diventa
chiara, Batman deve stringere nuove alleanze, smascherare il
colpevole e rendere giustizia all’abuso di potere e alla corruzione
che da tempo affliggono Gotham City.
“Non sono mai stato bravo a
parlare di me, per questo ho iniziato a scrivere canzoni”. Si
apre con questa dichiarazione d’intenti il documentario
Mahmood, diretto da Giorgio Testi e
scritto da Virginia W. Ricci. Dedicato al celebre
cantautore che a neanche trent’anni ha già vinto due volte il
Festival di Sanremo, il film, che fa parte delle proiezioni
speciali del Panorama Italia di Alice nella città,
sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di
Roma, ancor prima di essere un’opera celebrativa nei
confronti del cantante, vuole dar prova della sua umiltà, della sua
umanità e, soprattutto, della sua sensibilità.
Si ripercorrono dunque le principali
tappe della sua vita e del suo percorso artistico, dai primi
concorsi alla delusione di X Factor, dalla vittoria a Sanremo
Giovani con Gioventù bruciata a quelle a Sanremo Big con
Soldi e Brividi, dalle partecipazioni
all’Eurovision Song Contest fino al recente tour europeo andato
sold out. Quello di Mahmood è un percorso ricco di ostacoli,
speranze, incidenti di percorso, cadute e ripartenze che hanno
portato infine al successo tanto sperato, dietro il quale si
nascondono profondi dolori personali da metabolizzare attraverso la
musica e un forte amore, ricambiato, per la propria famiglia.
Mahmood: dallo sgabuzzino di casa
ai palchi d’Europa
Quello dedicato a Mahmood è solo
l’ultima di una serie di opere audiovisive dedicati a popolari star
della scena musicale italiana. Da Ferro, documentario su
Tiziano Ferro a Famoso, con protagonista il trapper Sfera
Ebbasta, fino al più recente Laura Pausini: Piacere di
conoscerti, che ripercorre la vita della celebre cantante
in modo molto particolare. Di Mahmood non si può certo
dire che proponga un approccio originale da un punto di vista
narrativo. Il film è infatti costruito seguendo un ordine
cronologico che se da un lato offre un ovvio e piacevole ordine,
dall’altro rischia di rendere il progetto scontato e
dimenticabile.
Se ciò non avviene del tutto lo si
deve in particolare a due precisi aspetti, il cui “merito” di
entrambi va prima di tutto allo stesso Alessandro
Mahmoud. Il primo è relativo alle riprese dei concerti
sostenuti nel 2022 dal cantante in alcune capitali europee. Come
ormai risaputo, Mahmood ha molta cura per le immagini che lo
riguardo, i look da sfoggiare, le luci e le scenografie con cui
interagisce. La sua attenzione per questi dettagli fa sì che i suoi
concerti risultino dei veri e propri spettacoli visivi e
riproponendo alcuni frammenti di essi anche lo stesso film
acquisisce un po’ per osmosi quel fascino.
Il secondo aspetto è dato dal
vissuto di Mahmood. Non sono infatti tanto i retroscena dietro i
suoi successi musicali a generare interesse, bensì i racconti che
egli offre riguardo il suo ardente desiderio di fare musica
nonostante le tante porte in faccia, riguardo il rapporto con
l’amata madre, con quel padre assente e con quel desiderio di
potersi sentire a casa. Di Mahmood si è detto che il suo sguardo
sembra sempre rivolto altrove, come se ogni volta dovesse partire
per una nuova meta o tornare a casa dopo un lungo viaggio, più
nello specifico magari in quello sgabuzzino di casa dove da piccolo
racconta di essersi sentito al sicuro, costruendo i propri mondi di
fantasia.
Lo sguardo di Mahmood
Il film offre dunque un maggior
approfondimento della vita di Alessandro Mahmoud prima di diventare
il Mahmood cantante capace di emozionare persone proveniente di
contesti diversi, infrangendo barriere linguistiche e culturali.
All’interno di un documentario dalla struttura canonica, dunque, si
cerca di far emergere quel mondo emotivo che Mahmood non ha mai
saputo esprimere se non attraverso le proprie canzoni, svelando
tutto di sé attraverso queste. Addirittura la madre, che fornisce
una delle testimonianze più belle del film, racconta di aver
conosciuto meglio suo figlio attraverso tali testi che non tramite
le loro conversazioni quotidiane.
Si può naturalmente scegliere di
credere o non credere all’umiltà che il cantante mette sul piatto
con questo documentario. Mahmood è notoriamente un artista molto
divisivo, controverso e spesso difficile da definire (cosa,
quest’ultima, non necessariamente negativa). Il film manca di
essere tutto ciò, non raggiungendo dunque quella somiglianza tra
artista e opera a lui dedicata che in altri casi simili si è
dimostrata vincente, ma è certamente emozionante nell’offrire il
racconto di un ragazzo che ha creduto talmente tanto nei propri
sogni da riuscire infine a realizzarli. Un discorso che certamente
toccherà l’animo di quanti, si spera molti, coltivano i propri
sogni con cura e impazienza.
Crescere, che fatica! Se lo deve
essere ripetuta spesso Rakel, la protagonista di
Ninjababy, dal 13 ottobre nelle sale italiane. Il
dramedy norvegese della regista Yngvild Sve
Flikke, presentato al TIFF 2021 e al
Festival di
Berlino e tratto dalla graphic novel
Fallteknikk, illustra tutti gli spettri delle
gravidanze inaspettate da una prospettiva arguta e comica al punto
giusto, collegando all’enfasi fumettistica il conflitto di una
mamma in divenire e di una protagonista a cui deve essere ricordato
che è padrona della propria storia.
Ninjababy: dialogare con la nostra creatura
Un bambino si è depositato
inaspettamente nel ventre di Rakel
(Kristine Kujath Thorpe) e se c’è una cosa che
questa sa della sua vita è che non lo vuole. Sotto ai vestiti
ingombranti e al disordine apparente di un’esistenza che non
padroneggia, Rakel è una sognatrice dalla fervida immaginazione,
aspirante fumettista che disegna sempre la sua quotidianità. Forse
è proprio la matita, il segno, il mezzo perfetto per
cercare di stabilire un contatto con questa figura inafferrabile,
un Ninjababy che vuole continuare a lottare per
stare nella pancia della mamma.
Parlare con chi non conosciamo
ancora è quasi impossibile ed è per questo che l’unico modo che
Rakel ha per instaurare un dialogo con
l’inaspettato è tramite la sua creatività. Proiettando sull’effetto
figurativo un’idea a cui non siamo in grado di dare forma,
riusciamo quantomeno a pensare di poterne avere il controllo. La
verità con cui presto dovrà però confrontarsi Rakel è che la
creatura è sì figlia di una madre che rinnova la propria
coscienziosità, ma è illustratrice a suo modo: vaglia
assieme a lei le scelte che potrebbe effettuare, suggerisce ciò che
sarebbe meglio per lui/lei, avanza proposte di collaborazione,
quasi come se si stesse prefigurando un dialogo tra colleghi.
Chi è la vera ninja?
Con il proprio
Ninjababy, piccolo ma impavido lottatore, linfa
creativa che Rakel ha sempre portato con sè ma si
è probabilmente assopita in una quotidianità che ha lasciato il
passo alla negligenza, la giovane madre (ri)vive in maniera
inusuale un’infanzia di cui non ci viene detto niente: l’unico
tratto della backstory di Rakel che conserviamo è il fatto che
studiasse design ma si sia ritirata dall’università e, al di là di
una sorellastra che conosceremo lungo il corso del film, non
sappiamo nulla sui suoi genitori. Partendo già dall’idea di un
personaggio dal passato frammentato, Ninjababy fa
egregiamente i conti con la destrutturazione ulteriore del nucleo
famigliare, ormai scevro delle categorie genitoriali archetipiche,
e che ha assunto un’idea di fluidità, più legata allo
scegliere chi vogliamo lungo il nostro cammino.
Nel passaggio di testimone tra la
bambina che (non) è stata e che diventa durante il film,
Rakel assume consapevolezza dello scambio,
dialogico ed emotivo, necessario per dare forma a un mondo
disordinato, con la comicità sottile tipica del cinema nordico ma
un ritmo da vero e proprio coming-of-age statunitense.
Kristine Kujath Thorp è la vera ninja del
film: ipnotica e abilissima nel costruire la caratterizzazione di
Rakel partendo dallo sguardo, fulcro vero e proprio dei conflitti
che ne attraversano l’interiorità.
Cosa succede quando ci troviamo
faccia a faccia con la creatura che, fino a pochi secondi prima,
era solo una nostra proiezione? Ninjababy sfrutta
ogni svolta di trama per fare entrare lo spettatore sempre più
nella mente di Rakel, favorendo il processo
empatico anche con le parti più astruse del suo dialogo con il
feto, che si rivelano essere i frangenti in cui in realtà riusciamo
a scorgere molto più a fondo le crepe di una donna che, forse, non
è stata abbastanza bambina.
Ninjababy: ti regalo un libro
Forse Rakel non ha
mai imparato veramente il linguaggio dell’affetto, quasi certamente
fatica a essere anche madre di se stessa. Allora, la scoperta della
maternità passa attraverso la percezione idiomatica del suo,
particolarissimo, linguaggio. Il figlio che aspetta deve diventare
libro, l’idea deve assumere contorni e forma visuale per fare
comprendere a Rakel che madre e figlia si sono fatte a
vicenda, che i confini tra creatore e creatura sono estremamente
labili quando di mezzo c’è un legame indissolubile.
NinaBibbi:
nell’atto del nominare, nello scegliere chi si vuole essere e dove
ci si rincontrerà, assistiamo alla sinergia massima tra
Rakel e il suo bimbo: nel conservare parte del
nome che lo stesso Ninjababy avrebbe voluto –
Angelina, per ragioni spassosissime – Rakel decide di lasciarle
quello che vorrebbe le riservasse il futuro. Contemporaneamente, in
questa parola-macedonia, trattiene l’impronta creativa che questo
bambino porterà sempre con sè; il modo, di certo anomalo e
inconsapevole in cui Rakel, sotto mille strati di vestiti sdruciti,
si è sempre curata del suo piccolo ninja.
Di tutte le
storie narrate dai personaggi di The
Midnight Club, quella di Kevin è la più
ingombrante. Il racconto riguarda un serial killer di nome
Dusty e ha un significato importante per i personaggi
della serie
tvNetflix. La
storia si divide in tre parti e lascia col fiato sospeso per due
intere puntate. Quando finalmente scopriamo il significato del
racconto, appare chiaro perché la narrazione è così prolungata in
The Midnight Club.
Kevin
racconta di Dusty, un ragazzo che drante il giorno è un
perfetto studente ma di notte si trasforma e uccide spietatamente
le persone. Dusty agisce in modo metodico: usa un martello
per fare fuori le vittime e le seppellisce in una grotta segreta.
Inoltre, su ogni scena del crimine Dusty lascia un
biglietto con la clessidra, il simbolo del culto
Paragon.Dusty è perseguitato dai
fantasmi delle sue vittime e da quello di sua madre. DI volta in
volta, la mamma defunta pronuncia al figlio solo poche parole: dice
i nomi delle persone che Dusty deve uccidere. L’attività
notturna di Dusty assume una piega inaspettata quando
l’assassino fa amicizia con Sheila, una cara amica della
sua ultima vittima Nancy. Sarà proprio Sheila ad
incastrare Dusty.
Cosa succede a Dusty nella storia
narrata da Kevin
Sperando di ritrovare l’amica
scomparsa, Sheila si reca insieme a Dusty a casa
di Nancy. Non trovando
nessuno, chiama la polizia. I commissari iniziano a sospettare che
si tratti di un omicidio. Nonostante ciò, i sospetti non cadono su
Dusty. Il detective a cui viene affidato il caso crede che
il serial killer che usa il biglietto di Paragon si muova
a piede libero da almeno quarant’ani. Al
contrario il detective, interpretato da Georgina
Stanton di Brightcliffe Hospice, si serve di
Dustyper saperne di più sulla sua generazione. La
situazione inizia a scaldarsi ancora di più quando lo spirito della
madre di Dusty (interpretata da Veronika
Hadrava di Resident Alien) rivela al figlio che
la sua prossima vittima dev’essere Sheila.
Dusty
accetta a malincuore la sentenza della madre: invita
Sheila a casa sua, le confessa la folle tradizione omicida
della sua famiglia e poi solleva il martello per colpirla.
Tuttavia,Dusty viene
sopraffatto dai suoi sentimenti per Sheila ed esita.
Non appena sua madre percepisce la sua
titubanza, striscia nella stanza. Prontamente Dusty la
colpisce con il suo martello. Così facendo,
non solo lascia fuoriuscire dalla madre la forza oscura che
l’ha posseduta per buona parte di The Midnight
Club, ma libera anche gli spiriti di tutte le sue vittime
dal loro stato di limbo. La forza
malvagia entra nel corpo di Dusty e prova a costringerlo a
finire il lavoro. Dusty resiste e, per evitare di fare
danni, chiede a Sheila di ucciderlo. Lei lo mette soltanto
KO e chiama la polizia. Alla fine,
Dusty viene incarcerato e passa il resto della sua
vita in isolamento, dove continua a lottare per domare le voci
malvagie nella sua testa.
Il senso della storia
di Dusty in The Midnight
Club
La storia di
Dusty è il riflesso della vita reale del suo narratore.
Nel racconto, Dusty non può fare a meno di seguire gli
ordini omicida della madre. In The Midnight Club,
Kevin (interpretato da Igby Rigney di
Midnight Mass) non riesce a sottrarsi dall’ombra
della perfetta immagine che i suoi genitori hanno di lui. Ogni
volta che i genitori di Kevin vanno a trovarlo, parlano
solo di quanto fosse bravo a scuola. Kevin, come
Dusty, vuole liberarsi dalle aspettative dei suoi
genitori, ma fatica a farlo. I terribili omicidi di Dusty
riflettono il peso del ricordo della vita che Kevin
conduceva prima di entrare nell’ospizio. Kevin vorrebbe
chiudere le sue relazioni passate e ricominciare da capo – vuole
rompere con la sua ragazza e lasciare la sua vecchia scuola – ma
non riesce a trovare le parole giuste per farlo. I fantasmi delle
vittime di Dusty in The Midnight Club
alludono a tutte i rapporti che Kevin lascia in sospeso
per paura di ferire i suoi cari.
Alla fine,
Kevin sceglie di lasciare la sua ragazza, non senza sensi
di colpa. Kevin si punisce, proprio come fa Dusty
nel finale della sua storia: invece di darsi una seconda
possibilità con Sheila, l’assassino sceglie una vita di
sacrifici e di isolamento. Fortunatamente, la storia di
Kevin ha una piccola svolta poositiva nel finale di
The Midnight Club. Ilonka aiuta
Kevin a capire che può capitare di ferire le persone che
si amano, ma questo non è un motivo per vivere senza affetti.
The Midnight Club si conclude con un augurio:
anche se Kevin e Dusty si sono fatti sopraffare
dalla colpa e dagli errori del loro passato, tutti meritano un
nuovo inizio.
La
serie NetflixL’imperatriceracconta in 6 episodi la
storia dei primi anni di vita dell’imperatriceElisabetta d’Austria.
Tutticonoscono
Elisabeth per il celebre adattamento
cinematografico: la trilogia di Sissi
degli
anni Cinquanta con protagonista l’affascinante Romy Schneider.
Settant’anni dopo,
L’imperatrice fornisce una nuova interpretazione
della drammatica storia d’amore tra
Elisabeth e Franz. La prima (e per ora
unica) stagione della serie è incentrata sul
fatidico incontro tra la giovane duchessa bavarese
Elisabetta (Devrim Lingnau) e l’imperatore austriaco
Francesco Giuseppe I (Philip Froissant). Come spesso
accade con i drammi storici, L’imperatrice mescola fatti
storici e fiction.
L’obiettivo non è
quello di fornire la massima accuratezza storica, ma
piuttosto quello di narrare una storia
d’amore avvincente che possa affascinareil pubblico. Tuttavia, la curiosità
rimane: chi era davveroElisabetta e quali lotte ha dovuto affrontare per diventare la leggendaria imperatrice
d’Austria?
Realtà e
finzione
La duchessa Elisabetta Amalia Eugenia di
Wittelsbach era la terzogenita e la seconda figlia femmina del
duca Massimiliano Giuseppe di Baviera e di sua moglie
Ludovica. Anche al tempo era nota come Sissi ed era
una ragazza affascinante e la libertina che viveva con la sua
famiglia nel castello di Possenhofen. Come ogni giovane del
tempo, Sissi sognava la felicità e il vero amore. Nel
frattempo, alla corte viennese Sofia, la madre autoritaria
di Francesco Giuseppe (Melika
Foroutan) creava alleanze per trovare in fretta una moglie
per il monarca 22enne. La premura era stata scatenata da un
tentativo di assassinio a spese di Francesco (il 18 febbraio
1853), fatto che avrebbe potuto lasciare l’Austria senza un erede
maschio.
In realtà la duchessa bavarese non era stata la
prima scelta di Sofia. Il giovane imperatore Francesco
Giuseppe era piuttosto schizzinoso: disprezzava sia la
principessa Anna di Prussia che la principessa Sidonia di
Sassonia. Alla fine, la decisione era ricaduta sulla figlia
della duchessa Ludovica di Baviera, Helena (Elisa
Schlott). Francesco, impaziente di vedere la sua
promessa sposa, si era messo in viaggio verso Bad Ischl, la piccola
città austriaca in cui erano attese la duchessa Ludovica e
la figlia. Tuttavia, nel viaggio il giovane imperatore rimane
rapito dalla figlia quindicenne della zia, Elisabetta
appunto.
La serie Netflix è fedele ai fatti
storici?
L’imperatriceè
fedele alla realtà solo in una certa misura. Sicuramene, quello a
Bad Ischl non è stato il primo incontro tra Francesco
e i suoi cugini. In realtà, Elisabetta e Francesco
Giuseppe fanno conoscenza nel giugno 1848, quando la duchessa
Ludovica va a far visita a Innsbruck alla sorella
Sofia. All’epoca, Elisabettaera sicuramente troppo
giovane per suscitare l’interesse del futuro imperatore, troppo
impegnato ad occuparsi di eventi rivoluzionari che minacciavano di
far crollare la monarchia. Inoltre, L’imperatrice mostra una
versione romanzata dell’incontro. L’audace mossa dei “due balli di
fila” di Francesco Giuseppe (segno rivelatore di un
imminente fidanzamento), non è stata un’iniziativa spontanea, ma
nasce dal piano di Sofia. La proposta di fidanzamento
ufficiale viene fatta in modo molto più formale dall’arciduchessa
Sofia, che organizza con la sorella l’accordo tra le
famiglie per far sposare Elisabetta e Francesco
Giuseppe.
Poco dopo il matrimonio, Elisabetta
scopre che la favola d’amore è solo un’illusione. Fin dai primi
giorni, la giovane imperatrice si sente costretta in una trappola
per topi. L’etichetta rigorosa e gli ordini del tribunale soffocano
lo spirito libero di Sissi. Per non parlare delle pressioni
della suocera, che controlla costantemente la sua condotta. Seppur
romanzati nella serie, gli scontri tra Elisabetta,
l’arciduchessa Sofia e il fratello di suo marito
(Johannes Nussbaum) – entrambi desiderosi di prendere il
trono imperiale – hanno un fondamento reale: Sissi ne parla
anche nei suoi diari.
Un altro personaggio di spicco ne
L’imperatrice è infatti il fratello minore di Francesco
Giuseppe, l’arciduca FerdinandoMassimiliano
d’Asburgo. Anche se non ci sono prove dirette delle intenzioni
di Massimiliano di rovesciare Francesco Giuseppe, il
fatto che il minore appoggiasse le idee liberali e più progressiste
costituiva una minaccia dormiente per il maggiore.
La tragedia
de L’imperatrice è appena iniziata
Il drammatico
finale della prima stagione de
L’imperatrice lascia il pubblico
con il fiato sospeso: Elisabetta, dopo una discussione con
il marito e la suocera, è pronta a tornare a casa in
Baviera ma scopre di essere incinta. Nella serie, il rapporto tra Elisabetta e la
suocera Sofia peggiora in modo vorticoso. Sofia
controlla ossessivamente l’imperatrice perché crede che la giovane
donna non abbia ottenuto un’educazione adeguata. Nelle biografie che descrivono la vita di
Elisabetta, Sofia è spesso ritratta come un
tiranno assetato di potere che sottomette spietatamente la nuora
contro la sua volontà. Probabilmente,
la realtà è un po’ meno estrema. Sofia era
sicuramente una donna ambiziosa pronta a porre i doveri reali al di
sopra di ogni altra cosa. Elisabetta, al contrario, tendeva a trascurare i
suoi doveri reali e ufficiosi, conducendo uno stile di vita
appartato e stravagante.
Infatti, dal 1860 in poi,
l’imperatrice trascorre il suo tempo viaggiando e vede raramente il
marito e i suoi figli. Anche se
Francesco Giuseppe non limita le peregrinazioni della
moglie, il comportamento di Sissi viene ampiamente
condannato dalla nobiltà austriaca. Nel 1857,
durante uno dei viaggi in Ungheria, la figlia Sissi
muore per un’infezione. La morte della
bambina scuote così tanto Sissi che la donna delega
completamente l’educazione dei suoi figli più grandi
(Gisella e Rodolfo)
alla suocera. Anche per questo motivo,
il rapporto tra l’erede Rodolfo e la madre non è
particolarmente affettuoso. Tuttavia, quando il trentenne si toglie
la vita nel 1889, Elisabetta rimane così scossa che decide
di vestire a lutto per il resto della sua vita.
La morte de L’imperatrice
L’imperatriceElisabetta subisce una
tragica morte: nel 1898 viene assassinata a Ginevra dall’anarchico
italiano Luigi Lucheni. Nonostante la situazione
politica, Elisabeth non ha mai posto troppa attenzione
alla propria sicurezza personale, rifiutando persino di essere
protetta durante i suoi viaggi. Dopo la morte dell’amata moglie,
l’imperatore Francesco Giuseppe non ha emesso parola per
diversi mesi. Il sovrano ha conservato un ritratto di
Elizabeth nel suo studio fino alla fine della sua vita, in
segno dell’amore che li ha legati fin dal loro ‘’primo incontro’’ a
Bad Ischl. La loro potente storia d’amore ha cambiato la storia
dell’Europa, dando vita alla cascata di eventi che, alla fine, ha
portato all’inizio della Grande Guerra.
L’imperatriceElisabetta era per molti
aspetti una figura controversa. Tuttavia, è stata una donna
eccezionale che, anche dopo 150 anni, intriga e affascina
l’immaginazione delle nuove generazioni.
Halloween Ends
arriva nelle sale cinematografiche 44 anni dopo il
primo film di John Carpenter del 1978 e si presenta come il 13°
film di una delle saghe horror più longeve in assoluto. La nuova
trilogia a cura di David Gordon Green, iniziata
nel 2018, è stata concepita come una diretta continuazione della
prima, ovviando a tutti i remake che ci sono stati proposti nel
corso degli anni e convogliado l’attenzione del pubblico sul
ritorno del personaggio di Laurie Strode
interpretato nuovamente dall’impavida e magnetica Jamie Lee Curtis.
Halloween Ends: la paranoia del
Male
Senza entrare nel territorio degli
spoiler, chi ha seguito la saga sa che Laurie è
stata affidata alla nipote Allyson dopo il
drammatico finale di Halloween Kills. Dopo aver vissuto come una
sorta di predatrice con l’unico scopo di uccidere Michael
Myers e il massacro che ne è seguito, Laurie opta per una
vita più tranquilla, cercando di ricostruire gradualmente la sua
vita. Nonostante siano passati quattro anni in cui non si sa nulla
di lei, la paranoia sembra essersi insediata a Haddonfield, dove la
paura suscitata dal brutale serial killer continua a mietere
vittime.
Halloween Ends
inizia con una sequenza promettente, organizzata addirittura
secondo quella che era la tipica tecnica di ripresa degli oggetti
di scena hitchockciani. A Haddonfield, nella notte di Halloween del
2019, Corey Cunningham (Rohan
Campbell), personaggio centrale di questo terzo film,
viene scelto come babysitter di un ragazzino dispettoso di nome
Jeremy. Quando questi viene accusato di aver
ucciso il piccolo Jeremy, si scatena un’ondata di violenza e
terrore che costringerà Laurie a confrontarsi per l’ultima volta
con il male che ha reso la sua vita un inferno.
È uno strano incidente.
Corey non ha fatto nulla di male. Ma, anche se è
stato assolto dall’accusa di omicidio colposo, rimane emarginato
dalla comunità di Haddonfield, che inizia a designarlo come il
“babysitter sensitivo” che ha ucciso un bambino. Non sarebbe
l’unica persona nella saga ad essere accusata di cose che non ha
fatto. Si potrebbe pensare che Laurie Strode, a
questo punto, sia una sorta di eroina locale, ma no. La gente ora
la ritiene responsabile dell’attentato a un bambino. La gente ora
la ritiene responsabile della catena di eventi nefasti che ha avuto
inizio con Michael Myers.
Personaggi persi in un vicolo
cieco
Dall’interminabile body
count di Halloween Kills, si passa in questo terzo e
ultimo capitolo a una sorta di simulazione dell’intenzione seminale
di John Carpenter di trasformare la sua saga
originale di Halloween in capitoli autoconclusivi con il
fallimentare Halloween III: Day of the Witch
(1982). Volontà che è presente, appunto, in Halloween
Ends, dove ci viene presentato lo scontro finale tra
Laurie e Michael Myers, ma anche
la genesi di un nuovo criminale, diretta conseguenza del
precedente. È qui, soprattutto in questa nascita di una nuova forma
del male che risiede il “concetto alto” che Gordon
Green ha voluto venderci con la sua trilogia: un’indagine
su come il Male, la paura, si muova come un virus nell’America
contemporanea ma abbia anche bisogno di una radice interiore o di
una predisposizione per il suo sviluppo.
Per un po’, il film è all’altezza
della sua promessa. Se non ci troviamo esattamente in un terreno di
malvagità fuori dagli schemi, Halloween Ends è
almeno – in netto contrasto con i suoi predecessori – incentrato
sui personaggi, relativamente privo di sangue e meno ammaccatto
dall’umorismo pervasivo e spesso incongruo che il co-sceneggiatore
Danny McBride ha impresso alla serie.
In Halloween Ends,
Green gioca con un’idea a cui la serie ha
accennato nel corso dei due precedenti film: che Michael non sia un
semplice mortale, ma piuttosto una forza soprannaturale,
l’incarnazione fisica del male puro e incancellabile. Ognuno di noi
è suscettibile al virus di Michael Myers: bastano
umiliazioni, insulti e rifiuti per accendere la miccia della nostra
predisposizione interiore alla violenza. Ma dato che, come abbiamo
detto, l’attrazione principale del film è il duello
Myers/Strode, è sorprendente che gran parte dello
sviluppo del film non sia dedicato a loro, personaggi centrali del
film, ma ad altri comprimari che vengono presentati come eredi
della malvagità del villain, senza mai realmente incrociarsi: in
poche parole, troppe deviazioni per raggiungere un vicolo
cieco.
Un altro dei temi più importanti
degli spin-off di questa nuova trilogia è stato il trattamento e
l’evoluzione di Laurie Strode, che deve fare i
conti con il suo rancore e la sua furia ma non abbassa mai la
guardia. È in questo episodio che la percepiamo più umana, più
bisognosa di voltare pagina e di intraprendere un nuovo cammino,
lasciandosi alle spalle le sue paure più intime, che le hanno fatto
sviluppare un sesto senso per percepire la presenza di Myers o la
sua influenza malevola.
Haddonfield – oggi
più che mai una brutta città industriale – diventa sfondo per la
storia di personaggi secondari in un film che si cristallizza tra
la narrazione seriale televisiva, che segue direttamente il dramma
dei sopravvissuti, e i bruschi sfalsamenti di un sequel horror anni
Ottanta, con nuovi volti che rimangono ben poco impressi.
Halloween Ends è davvero la resa
dei conti?
Questo capitolo finale, che si
chiude non con un botto, ma piuttosto con un piagnisteo, non è solo
superfluo e pieno di cliché, ma rappresenta anche ciò che si prova
quando si raschia il fondo di un barile che è stato arido e sterile
per decenni. A parte la trama francamente assurda,
Halloween Ends non è spaventoso e neanche
satirico: in assenza di una premessa coerente, David Gordon
Green e i suoi co-sceneggiatori ricorrono ai peggiori
tropi slasher e nulla più.
Il film impiega troppo tempo a
svelare una storia che vorrebbe portare a un’escalation, con solo
gli ultimi 20 minuti che entrano davvero nel vivo della questione.
In questo ultimo frangente, tutto è studiato su misura per ottenere
effetti piuttosto drastici ed esageratamente sanguinosi:
semplicemente, non ci sono abbastanza vittime che possano morire in
pochi minuti e la disinvoltura con cui vengono commessi gli omicidi
sembra spesso del tutto disumana. Passo dopo passo, il film si
trasforma in un groviglio di uccisioni gratuite e cinico fan
service, mentre si avvia verso l’inevitabile conclusione: la resa
dei conti corpo a corpo tra Laurie e
Michael, una distruzione corporea tanto
prevedibile quanto insoddisfacente.
Ma si tratta davvero dell’ultimo
scontro? Halloween Ends sembra quasi riconoscere
la natura condizionale della sua stessa fine in una delle sue
battute finali, pronunciata da Laurie: “Il male non muore,
cambia forma“. Finchè ci sarà da guadagnare, sembra che
Micheal Myers rimarrà sempre in agguato
nell’ombra.
Girato in più fasi a
partire dall’inizio del lockdown, La Cura di Francesco Patierno è presentato nella sezione in
concorso della Festa del Cinema di Roma, oggi che i giorni
più diffcili dell’emergenza pandemica possono sembrare un ricordo
lontano e ci si sta avviando verso una sorta di normalità.
D’altra parte, un evento
drammatico e inaspettato come la pandemia, che ci ha messo di
fronte a scenari impensabili, non poteva non finire sotto la lente
del cinema italiano. Nel caso di Patierno, con la rilettura del
romanzo La Peste di Albert Camus, che fin troppo bene si
adatta al recente passato.
La trama deLa
Cura
Napoli. Una troupe cinematografica gira un film tratto da La
Peste di Camus durante i giorni più difficili della pandemia da
Covid -19. Le vicende di attori e tecnici si intrecciano con quelle
dei personaggi del romanzo. Bernard, Francesco Di Leva, è un
medico, la cui moglie gravemente malata, lascia
Napoli per curarsi. Intanto, in città si hanno i primi segni
del diffondersi di un’epidemia. Mentre il medico, assieme al
collega Castel, Giancarlo Cosentino, cerca di convincere le
autorità ad avvertire la popolazione del pericolo, l’epidemia si
aggrava sempre più e si rende necessario chiudere la città,
affinchè il contagio si diffonda il meno possibile. Di fronte
all’emergenza, c’è chi, come Tarrou, Alessandro Preziosi, si
mette a disposizione per ospitare chi ne ha bisogno e organizza un
gruppo di volontari per aiutare ad affrontare la situazione. Tra
lui e Bernard nasce una profonda amicizia. Rambert, Francesco
Mandelli, invece, è un attore che vuole tornare nella sua città
e cerca di farlo con ogni mezzo. C’è chi nega la pericolosità del
virus, chi dice di star bene, mentre soffre i primi sintomi del
male, come l’infermiere Grand, Antonino Iuorio; c’è chi
considera il male un flagello di Dio mandato sulla terra per punire
gli uomini, come Padre Paneloux, Peppe Lanzetta. Ci sono
vittime innocenti di un male sconosciuto in una
Napoli deserta. Su tutte, la piccola figlia del prefetto,
Andrea Renzi. La sfida per Bernard e i suoi colleghi, è
trovare al più presto un farmaco efficace, una cura contro il
virus.
Tra realtà, finzione
e metacinema
La Cura può
risultare nella prima parte un po’ confuso, vista la labilità del
confine tra la vita degli attori durante le riprese e la
messinscena de La Peste, tra realtà, finzione e riflessione
sul cinema, su se e come farlo in quei momenti drammatici. C’è il
rischio che diventi un mix farraginoso e poco chiaro. Invece, man
mano si entra nel meccanismo del film, i piani si fondono, diventa
più immediato seguire la vicenda e immedesimarsi. Non occorre molto
perché lo spettatore torni con la mente alle proprie giornate di
lockdown, mentre vede le immagini scorrere sullo schermo, grazie
anche a un gruppo di appassionati interpreti, su cui spiccano
Alessandro Preziosi e Francesco Di Leva. Ecco,
allora, la rappresentazione delle divisioni all’interno della
società, dei vari punti di vista che si sono scontrati anche in
modo acceso. Qualcuno si crede immune dal contagio, altri si
chiedono se “ne usciremo migliori”. Una costruzione d’impronta
teatrale, non verbosa, ma piuttosto minimalista, per trasporre il
romanzo di Camus e calarlo nel presente.
Napoli protagonista ne
La Cura
La vera protagonista del
film, tuttavia, è la
Napoli deserta del lockdown. È la città partenopea a destare la
maggiore impressione nello spettatore. La scelta dell’ambientazione
non poteva essere più appropriata.
Napoli, sempre così viva, piena di allegria, di schiamazzi e di
un vociare di per sé simbolo di vitalità, è invece qui silenziosa e
vuota. Rappresenta così, all’ennesima potenza, quello che è
accaduto nelle città italiane in quei mesi. Colpiscono le sue
strade vuote, in cui si sente solo il suono delle ambulanze o un
grido disperato. Quelle atmosfere sono le più efficaci per
riportare lo spettatore indietro a momenti che sembrano lontani,
sebbene con la pandemia ancora si conviva.
Umanità empatica e
pudore rispettoso del dolore e della morte
Da apprezzare anche il
pudore, il tatto, con cui Patierno tratta la malattia e la
morte, senza indulgere in esse, senza spettacolarizzarle. Il che,
nell’era della spettacolarizzazione eccessiva è una dote rara.
L’occhio della macchina da presa resta a distanza, rispetta, ci si
muove in punta di piedi.
La Cura è
poi un film con molti abbracci, quelli che sono mancati in quei
giorni, entrando a far parte dei “gesti proibiti” a causa del
virus. È anche un film senza troppi dispositivi di protezione,
neanche in ospedale. Ciò risulta un po’ straniante per lo
spettatore, ma sembra che il regista abbia tenuto a non perdere
l’umanità, il contatto anche fisico nel suo racconto, come invece
lo si è perso nella realtà. In questo modo, egli pone l’accento
sull’empatia, sul senso di comunità e dà spazio alla speranza e
alla fiducia nell’uomo, nonostante tutto. Sebbene al regista non
interessi esprimere un giudizio sui punti di vista e i
comportamenti che mostra, il suo sguardo è particolarmente benevolo
verso chi fa, chi si spende, aiuta e si sporca le mani, proprio
come i due protagonisti.
La Cura è
una lettura lucida e garbata dei giorni bui del lockdown, ma non
per questo meno appassionata. Invita lo spettatore a salvaguardare
i legami umani, l’amicizia, la comprensione, la solidarietà, a
riscoprire il senso di comunità. È questo che ha aiutato, assieme
alla scienza e al lavoro dei medici, a superare i momenti più
difficili.
Un’operazione
encomiabile, che non a caso ha ottenuto il patrocinio del WWF,
quella di Brando Quilici (Il
mio amico Nanuk), che porta alla Festa del Cinema
di Roma il suo nuovo film. Presentato in anteprima ad Alice nella
Città – e distribuito in sala da Medusa Film dal 14 ottobre 2022,
anno della Tigre secondo il calendario cinese – Il ragazzo e
la tigre racconta una storia ricca d’avventura ed emozioni
interpretata anche da Claudia Gerini, presenza familiare in un
Nepal splendido e ammaliante, vero e proprio protagonista al pari
dell’attrice romana e del giovanissimo Sunny Pawar.
Il ragazzo e la
tigre – Due cuccioli in fuga
E’ lui il piccolo Balmani
di dodici anni, scappato dall’orfanotrofio per tornare nella sua
Kathmandu, che sulla strada si imbatte in un gruppo di bracconieri
riuscendo a salvare un cucciolo di tigre del Bengala, Mukti. La
strana coppia intraprende così un viaggio pericoloso e rivelatore
verso il monastero Taktsang, noto come Tana della Tigre, dove i due
dovrebbero finalmente essere al sicuro e sotto la protezione dei
monaci buddhisti himalayani. Sulle loro tracce, oltre a cacciatori
senza scrupoli e personaggi ambigui, anche la preoccupata Hannah
(Claudia Gerini), direttrice della struttura che ospitava il
bambino e in apprensione dopo la sua scomparsa
Amore e fratellanza, ma
anche tradimento e delusioni si alternano in questa piccola grande
Odissea, che il regista ha immaginato a partire dalla leggenda del
Guru Rimpoche, l’uomo santo per i Buddisti, che volò nel IX secolo
a cavallo di una tigre dal Tibet al Bhutan per fondare il monastero
citato nel film. Uno spunto al quale sono seguiti diversi viaggi
nel Nepal distrutto dal terremoto del 2015, nei quali Quilici ha
potuto documentarsi e approfondire molti degli elementi che oggi
irrobustiscono la sua ultima fatica.
Salvate la
tigre
Coerentemente con gli
obiettivi del programma del WWF “Save the tigers now”, il film
racconta dei maestosi felini (dei quali restano solo 3900
esemplari, in libertà) e lo fa nella speranza di sensibilizzare il
pubblico, soprattutto – ed espressamente – dei più giovani. Anche
se forse potrebbero essere i “giovanissimi” gli spettatori ideali
di una vicenda che mette insieme “le emozioni della fanciullezza e
della crescita” e i temi della “conservazione della fauna selvatica
e la scomparsa delle specie”.
Obiettivi senza dubbio
raggiunti, da un prodotto che però oltre al grande lavoro di
preparazione e al messaggio non sembra in grado di offrire una pari
qualità a livello narrativo. Non è sicuramente facile lavorare con
una fiera, e questo giustifica sicuramente le sequenze che le
vedono in scena, ma a essere ancora più forzate sono alcuni snodi e
caratterizzazioni – tanto tra i villain quanto tra i protagonisti –
un po’ troppo ‘per bambini’.
Un limite che il film
avrebbe potuto non porsi (ammesso che questo sia l’effetto di una
strategia produttiva), consentendosi di raggiungere un pubblico più
vario ed esigente di quello della sezione “dedicata alle giovani
generazioni”. Che insieme a una generale perdita di spontaneità,
delle premesse e uno sviluppo piuttosto canonici e una immagine
degli animali quasi da cartoon d’altri tempi, offre qualche
lezioncina di troppo, pur mostrando una interessante alternanza tra
i diversi piani rappresentati da una Gerini meno sopra le righe di
altre volte e dal piccolo ed espressivo Sunny.
Impossibile non pensare
al Due fratelli di Jean-Jacques
Annaud e non restare a bocca aperta davanti alle splendide
location scelte da Quilici, non a caso produttore e regista di
oltre 100 special per reti televisive di tutto il mondo, tra cui
National Geographic e Discovery Channel. Panorami difficili da
vedere, quelli della giungla del Chitwan (dove riprese sono state
possibili solo dall’alto degli elefanti, per non disturbare le
tigri) e di Kathmandu, fino alle vette più alte dell’Himalaya, che
fanno passare in secondo – o terzo – piano anche la fretta con cui
si arriva al rassicurante (e un po’ slegato) finale.
Tutto chiede
salvezza è la
nuova serie originale italiana targata
Netflix che si potrà vedere solo sulla piattaforma a partire
dal 14 ottobre. Diretta da Francesco Bruni e sviluppata su sette
puntate, è liberamente tratta dal romanzo omonimo di Daniele
Mencarelli, per il quale lo scrittore ha vinto il Premio Strega
Giovani nel 2020. Ne spiegano entrambi la genesi, insieme alla
maggior parte del cast, tra cui
Federico Cesari,
Fotinì Peluso, Ricky Memphis, Vincenzo Crea, Raffaella
Lebboroni, Andrea Pennacchi e Lorenzo
Renzi.
Tutto chiede
salvezza racconta del trattamento sanitario obbligatorio che
subisce improvvisamente il giovane Daniele (Cesari) e di tutto
quello che si svela da quel momento in avanti nella sua vita
interiore ed esteriore, dentro e fuori la struttura in cui è
ricoverato.
«Questa storia è
dramedy», introduce Bruni, «genere che ha sempre fatto parte della
mia personale cifra stilistica, per quanto nelle prime puntate ci
siano più drammi che risate. Penso comunque che il produttore
Roberto Sessa (per Picomedia n.d.r.) mi abbia chiamato proprio per
questo mio modo di raccontare anche gli aspetti pesanti della vita.
Ho cercato in ogni momento di non scadere nel pietismo e, se
inavvertitamente me ne avvicinavo, ritornavo subito alla commedia.
Volevo che tutto fosse il più realistico possibile». Il microfono
passa poi subito allo scrittore Mencarelli che dice come sia stato
vedere le proprie parole scritte trasformarsi in immagini:
«All’inizio ho provato un po’ di terrore, ma poi è prevalso il
senso di responsabilità. Nel fare intrattenimento qui viene
mostrato seriamente un mondo di grande sofferenza. Questo è quello
che penso debba fare la letteratura: entrare nei mondi e scavarci
dentro. A proposito, ringrazio Francesco Bruni per come ha saputo
rendere il mio romanzo!».
Tutto chiede salvezza, la conferenza
stampa
Interviene poi Federico
Cesari, che gioca il ruolo principale di Tutto chiede
salvezza, e descrive quello che ha significato calarsi in un
profilo così: comprensibile ma non certo facile da incarnare. E
nella sua riflessione viene toccata una questione molto profonda:
«Ho approcciato al mio personaggio prima attraverso il romanzo e
poi con la sceneggiatura, perciò avevo ben chiaro quale fosse il
percorso narrativo. Ma ho dovuto trovare un modo per far sì che
emergesse anche nella mia corporeità. La caratteristica principale
del protagonista, Daniele, è quella di essere molto empatico, con
una sensibilità particolarmente spiccata, che difficilmente si
trova in giro. Per me è stata una rivelazione “incontrarlo” e farne
la conoscenza, scoprire questo suo superpotere».
«E io aggiungo una
cosa», interviene Mencarelli, «per me la grande scommessa di questa
serie è mostrare che questo superpotere in realtà è molto più
diffuso di quel che si pensi. C’è un grande sommerso, un “non
detto”, rispetto alla vita, all’esistenza, alla sensibilità, che
ognuno di noi porta in seno e c’è chi, spesso in maniera
patologica, malata, lo tira fuori. E sono convinto che la serie
farà vedere alle persone che la linea di confine è in realtà
inesistente tra chi fa un TSO e chi ha i galloni della normalità.
Perché nel momento in cui un uomo mette a disposizione la propria
sensibilità si trova a rispecchiarsi e riconoscersi nell’altro. Il
grande elemento poetico di Tutto chiede salvezza è che
nessuno mente. Nessuno passa attraverso delle convenzioni. Non c’è
il mondo borghese che giochi a nascondere quel che è imbarazzante
sotto al tappeto. Qui ognuno è semplicemente portatore di una
verità che spesso è dolorosa ma altre volte è ironica e divertente.
È questo il superpotere che abbiamo tutti, dobbiamo solo
ricordarcelo un po’ di più. Tanti uomini di potere non hanno mai
avviato un dialogo col loro mondo interiore. La serie mostra
semplicemente questo: affrontare insieme quel mondo interiore
conviene, perché da soli pesa troppo e schiaccia.
Diceva Ennio Flaiano che
la storia non insegna niente, quindi ogni periodo storico è buono
per fermarsi a riflettere. Dai quattordici anni in poi ho avuto la
fortuna d’incontrare la lingua che fa dei grandi temi della vita il
suo canto, che è la poesia. Ed è stata il mio supporto». Conclude,
infine, Francesco Bruni spiegando che Tutto chiede salvezza
è nettamente il naturale compimento del suo percorso registico
iniziato nel 2011 con Scialla! (Stai sereno) e sei anni dopo
con Tutto quello che vuoi, in quanto ogni tematica
affrontata attraverso l’uso dell’ironia, qui viene spalancata e
approfondita fino in fondo. Senza sconti.
La figura del ladro professionista
ha sempre avuto un certo fascino al cinema, specialmente nel
momento in cui assume i connotati di un antieroe per cui poter fare
il tifo. Celebre esempio di questo filone è il film Poter assoluto, di
Clint Eastwood,
ma più recentemente anche il premio Oscar Morgan
Freeman si è cimentato con un ruolo simile. Nel 2009
questi è infatti stato protagonista del film The
Code, diretto dalla regista Mimi
Leder, già nota per film adrenalinici come The Peacemaker e
Deep Impact. La vicenda
stavolta si svolge dunque nel mondo della criminalità, con
personaggi coinvolti in intrighi più grandi di loro, dai quali sarà
difficile uscire vivi.
Puro thriller d’azione, il film è
ancora oggi sconosciuto a molti dei fan del genere. Ciò è motivato
anche dal fatto che questo non ebbe modo di uscire in sala, venendo
invece distribuito direttamente per il mercato home video. A causa
di ciò le possibilità di popolarità sono decisamente state
inferiori, ma negli anni The Code è ugualmente riuscito a
conquistare una sua fetta di pubblico, attratto in particolare
dalla presenza di alcuni attori di fama internazionale. Oltre a
loro, è però possibile ritrovare un film dall’intrigante intreccio,
capace di costruire una tensione che porta direttamente con il
fiato sospeso sino alla risoluzione finale.
Si tratta dunque di un’opera da
riscoprire, che presenta una serie di caratteristiche che non
lasceranno indifferenti gli amanti del genere. Prima di
intraprendere una visione del film, però, sarà certamente utile
approfondire alcune delle principali curiosità relative a questo.
Proseguendo qui nella lettura sarà infatti possibile ritrovare
ulteriori dettagli relativi alla trama e al
cast di attori. Infine, si elencheranno anche le
principali piattaforme streaming contenenti il
film nel proprio catalogo.
The Code: la trama del
film
Protagonista del film è
Keith Ripley, ladro particolarmente esperto e
determinato, il quale vanta una lunga carriera alle spalle con
furti di grande valore. Anche lui deve però arrendersi all’avanzare
dell’età, trovando tuttavia ben poca comprensione nella mafia russa
e nel suo vecchio socio Viktor. Prima di lasciare
Keith alla sua pensione, il criminale vuole infatti commissionargli
un ultimo lavoro, da svolgere nel modo più delicato e possibile,
senza possibilità di fallire. Consapevole delle sue limitate
abilità, Keith decide di affidarsi al giovane
Gabriel, ladruncolo dalle capacità inespresse
incontrato in metropolitana. Per entrambi il colpo può
rappresentare una svolta nella loro vita, ma si tratterà anche del
più complesso mai fatto.
I due ladri devono infatti
introdursi in uno dei caveau più inaccessibili sulla faccia della
terra e rubare due uova Fabergé dal valore inestimabile. Ad
accompagnare i due uomini nella loro missione ci sarà anche la
bella Alexandra Korolenko, figlioccia adottiva di
Keith, la quale ben presto intreccerà una relazione molto
pericolosa con Gabriel. Il loro rapporto, infatti, rischierà di
compromettere il colpo, che non ammette errori. Studiando
attentamente il modo più sicuro per procedere, i tre ladri si
troveranno a dover mettere da parte ogni coinvolgimento esterno, ma
con l’aumentare della pressione sarà sempre più complesso non
cedere alle tentazioni.
The Code: il cast del film
Come anticipato, ad interpretare il
ruolo del ladro Keith Ripley vi è l’attore premio Oscar Morgan Freeman.
Questi, affascinato dalla possibilità di interpretare un
personaggio sfaccettato, si è subito dichiarato interessato al
progetto. Il suo coinvolgimento ha permesso la realizzazione del
film, e la performance di Freeman è poi stata lodata come
particolarmente credibile. Accanto a lui, nei panni di Gabriel, vi
è l’attore spagnolo Antonio Banderas. Per
calarsi nei panni del personaggio, questi ha raccontato di aver
approfondito le principali tecniche per i furti, avendo così modo
di poter risultare più realistico al momento di mostrare le sue
abilità.
Nel film sono poi presenti diversi
altri noti attori, a partire da Radha Mitchell.
Divenuta famosa per film come Neverland – Un sogno per la
vita e Melinda eMelinda, questa
interpreta qui il personaggio di Alexandra Korolenko, la figlioccia
di Keith. L’attore Robert Forster, celebre per
Jackie Brown, è invece presente nei panni del Tenente
Weber. Nei panni del criminale russo Viktor vi è invece l’attore,
poeta e musicista croato Rade Šerbedžija. Infine,
prima di diventare celebre grazie a film come Inception e
The Revenant, l’attore
Tom Hardy ha recitato
in The Code con il ruolo di Michaels.
The Code: il trailer e
dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile fruire di
The Code grazie alla sua presenza su
alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in
rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi di Rakuten
TV, Rai Play e Now TV. Per vederlo, una volta scelta la
piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il singolo film o
sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così modo di
guardarlo in totale comodità e al meglio della qualità video. Il
film è inoltre presente nel palinsesto televisivo di
venerdì 14 ottobre alle ore 21:10
sul canale Rai Movie.
Si è spento Robbie
Coltrane, celebre attore scozzese, famoso per aver
interpretato Rubeus Hagrid nei film di Harry
Potter, si è spento all’età di 72 anni.
A confermare la notizia l’Hollywood Reporter
tramite gli agenti dell’attore: Coltrane, malato da circa due anni,
si è spento in un ospedale vicino casa sua a Larbert, in
Scozia.
Lo avevamo visto l’ultima volta
nello speciale per i 20 anni di Harry Potter. In quell’occasione
aveva rilasciato una dichiarazione in cui con parole semplici e
dirette ha consegnato al mondo l’eredità di Hagrid.
“La generazione dei miei figli
mostrerà i film di Harry Potter ai loro figli, e così ancora, anche
tra 50 anni. Io non ci sarò, purtroppo, ma Hagrid sì. Hagrid
sì.”