Ricordate le parole dell’insegnante
di danza Lydia Grant, della scuola d’arte di Fame – Saranno
famosi? L’efficace discorsetto con cui toglieva dalla
testa dei nuovi allievi ogni idea di successo facile e veloce? “Voi
fate sogni ambiziosi: successo, fama. Ma queste cose costano, ed è
proprio qui che cominciate a pagare, col sudore”. Adrien
Brody di cui parliamo ha realizzato quei sogni senza
sottrarsi alla fatica necessaria, anzi, facendone il suo punto di
forza e proprio partendo dalla scuola che ispirò la nota serie
televisiva americana.
È il più giovane attore
statunitense ad aver ottenuto l’Oscar ed anche l’unico ad essersi
accaparrato un César.
Adrien Brody: dalla scuola
che ispirò Saranno famosi agli onori dell’Academy
Meticoloso e preciso, ama
immedesimarsi il più possibile nei personaggi che interpreta, anche
a costo di dure prove e pesanti trasformazioni. Basti ricordare che
per l’interpretazione che gli è valsa l’Oscar – quella di Wladyslaw
Szpilman ne Il pianista di Roman
Polanski – ha perso 13 chili, ha imparato a suonare Chopin
al piano, ha venduto la casa e la macchina e lasciato la
fidanzata.
Tutto ciò proprio per provare a
sperimentare su di sé, almeno in parte e per quanto possibile,
privazioni e sofferenze che lo avvicinassero a questo pianista
ebreo polacco della Varsavia della Seconda Guerra Mondiale. Ma per
fare al meglio il suo mestiere è anche diventato un ventriloquo, si
è rotto il naso tre volte girando scene d’azione, e così
via.
Per la sua duttilità
espressiva, per l’abilità nell’immedesimazione – nella quale, ha
affermato, i costumi di scena possono coadiuvarlo fortemente – per
la sua versatilità, per la profondità e intensità interpretativa
che lo contraddistinguono, sono stati scomodati paragoni
importanti. Lo stesso Tony Kaye – regista del più recente lavoro
che lo vede protagonista,
Detachment – Il distacco – lo ha definito a
pieno titolo un esponente della cosiddetta “scuola di New York”,
quella per intenderci di De Niro, Pacino e Hoffman. Lui apprezza il
paragone e ne è lusingato, ma allo stesso tempo afferma che
preferirebbe essere considerato il primo sé stesso, piuttosto che
il nuovo Al Pacino. Grande carattere e consapevolezza di sé e
delle proprie capacità, dunque, da parte di questo attore (e ora
anche produttore) newyorkese con evidentissime origini europee.
Adrien Brody nasce
il 14 aprile 1973 a New York, nel quartiere popolare del Queens
dalla fotografa e giornalista Sylvia Plachy – figlia di un
aristocratico ungherese cattolico e di una ceca ebrea – e da Elliot
Brody, un professore di storia di origine ebraica polacca. Fin da
bambino ama mettersi in mostra con piccoli spettacoli di magia alle
feste di compleanno, facendosi chiamare “The Amazing Adrien”.
Le sue prime apparizioni televisive risalgono a quando aveva appena
dodici anni. I genitori lo incoraggiano da subito a perseguire la
strada della recitazione. Frequenta, come detto in apertura, la
LaGuardia High School of Music & Art and Performing
Arts di New York, poi l’università statale a New York.
Dopo gli esordi in tv del 1988 (la
sit-com Annie McGuire e il film Home at
Last), riesce a ritagliarsi uno spazio in New York
Stories, lavoro collettivo che vede alla direzione tre
grandi del cinema Usa come Francis Ford Coppola, Woody Allen e
Martin Scorsese, prendendo parte all’episodio diretto da Coppola,
La vita senza Zoe. Nel 1991 si trasferisce a Los
Angeles, dove due anni e un grave incidente motociclistico dopo,
ottiene una piccola parte nel film di Steven Soderbergh
Piccolo grande Aaron. Seguono partecipazioni ad
alcune pellicole indipendenti, come Bullet di
Julien Temple (1996).
Ma la prima grande
occasione del giovane Brody arriva quando Terrence Malick gli
propone il ruolo da protagonista ne La sottile linea
rossa (1998). Caso e regista vogliono che, pur
essendo stato inizialmente pensato come il protagonista del film
(interpreta il caporale Fife), le scene che lo riguardano subiscano
tagli pesantissimi. Tuttavia, il nostro non si perde d’animo: si
gode l’esperienza, condividendo il set con attori come Sean
Penn, Nick Nolte e George Clooney in quello che non è solamente
un film di guerra, incentrato su un plotone dei marines in prima
linea in Oceania nel 1942 – e secondo molti uno dei migliori del
genere – ma anche un film corale che riflettendo sulla guerra, lo
fa anche sulla natura umana a un livello più ampio. Inoltre, i pur
pochi momenti di presenza di Brody nella pellicola fanno notare il
suo straordinario talento non solo al pubblico, ma, cosa assai più
importante, ai registi che contano. È evidente che quel ragazzo dal
fisico asciutto e slanciato, dai lineamenti particolari e con
lo sguardo triste è nato per recitare. Così, su consiglio di
Malick, manda il suo provino a Spike Lee, che non esita a
sceglierlo per S. O. S. Summer Of Sam – Panico a New
York (1999). Brody offre qui un’altra ottima
interpretazione nei panni di un musicista punk nel Bronx del ’77.
Questo gli spalanca definitivamente le porte di Hollywood. Nello
stesso anno è infatti contattato da Barry Levinson, che lo vuole
per la sua pellicola Liberty Heights, in cui
affronta temi legati al razzismo. Mentre nel 2000 torna al cinema
indipendente ed è Ken Loach a dirigerlo in un dramma non privo di
momenti divertenti sul tema delle rivendicazioni sociali, dei
diritti del lavoro, dell’immigrazione, in pieno stile Loach:
Bread and Roses.
Nel 2002 interpreta un ventriloquo
in Dummy di Greg Pritikin. Per immedesimarsi nel
ruolo impara davvero a fare il ventriloquo (e il burattinaio), per
poter recitare lui stesso le scene del film che richiedono
quest’abilità, dal vivo sul set, senza bisogno del doppiaggio.
A questo punto della carriera,
Adrien Brody è pronto per la sua grande occasione – “il ruolo
di una vita”, dirà ritirando l’Oscar – che puntualmente si
presenta: è la parte del protagonista Wladyslaw Szpilman ne
Il Pianista di Roman Polanski.
L’attore interpreta con grande
intensità la travagliata e dolorosa vicenda umana di questo giovane
pianista ebreo miracolosamente sopravvissuto all’orrore
dell’Olocausto nel ghetto di Varsavia. All’efficacia
dell’interpretazione concorrono tutte le doti di Brody, non ultima,
lo si diceva in apertura, la meticolosità nel preparare il
personaggio. A questo proposito ha affermato: “Il livello di
disagio che ho provato è stato significativo per me, anche se
minimo in termini assoluti. Ma quest’esperienza ha ampliato la mia
consapevolezza rispetto a un livello di sofferenza che esiste in
questo mondo ed è terribile. Penso sia importante per i giovani
conoscerlo per diventare esseri umani migliori. Se non avessi fatto
quest’esperienza sarei diverso adesso. Può avermi ferito in un
certo senso, ma mi ha introdotto nell’età adulta e mi ha dato modo
di apprezzare ed essere grato per ogni momento in cui sono libero
da quel tipo di sofferenza.” Il risultato di questo lavoro
d’immedesimazione è una performance di grande efficacia ed impatto
emotivo. Il film ottiene un enorme successo di pubblico e vale al
suo protagonista la prima nomination all’Oscar come miglior attore,
subito trasformata nella sua prima statuetta e accompagnata da
svariati altri riconoscimenti. Brody ha solo 29 anni, è il più
giovane attore ad aver ricevuto il premio e può dire di aver avuto
la meglio su un quartetto di colleghi non facili da battere:
Michael Caine, Jack Nicholson, Daniel Day-Lewis e Nicolas Cage. Insomma, è già ai vertici della
fama mondiale. Durante la cerimonia di consegna delle statuette
all’Academy appare visibilmente emozionato, ma riesce ugualmente a
stupire la platea, alternando toni brillanti – “Arriva un
momento nella vita in cui tutto sembra acquisire un senso. Questo
non è uno di quei momenti” – a toni più seri. Non mancano i
ringraziamenti di rito, mentre i colleghi in platea gli tributano
ben due standing ovation: una al suo arrivo, l’altra a fine
discorso quando dimostra ancora il suo carattere deciso, fermando
l’orchestra (intervenuta assurdamente a discorso non ancora
concluso), per ricordare il dramma del conflitto iracheno in corso:
il premio, dice, “mi riempie di grande gioia, ma sono anche
pieno di tristezza stanotte, perché sto accettando un
riconoscimento in un momento così strano. La mia esperienza nel
fare questo film mi rende molto consapevole della tristezza e
della disumanizzazione delle persone in tempo di guerra, delle
ripercussioni della guerra.”
E riferendosi più esplicitamente al
conflitto in corso, ne auspica una “pacifica e rapida
risoluzione”. Oscar anche alla sapiente regia di Roman
Polanski, che riesce a tirar fuori dal cilindro della sua
esperienza personale di vita, oltre che dalla biografia di
Szpilman, qualcosa di ancora originale e potente sul tema
dell’Olocausto. Palma d’Oro a Cannes per il miglior film e David di
Donatello come miglior pellicola straniera.
Adrien entra così a pieno titolo
nello star system hollywoodiano e lo vediamo nei primi anni 2000
prendere parte a pellicole come i thriller The
Village (2004)di M. Night Shyamalan, in cui veste i panni
del giovane disabile mentale Noah Percy, e The
Jacket (2005) di John Maybury, in cui è il veterano di
guerra Jack Stark e recita accanto a Keira Knightley, o il remake
di King Kong (2005) di Peter Jackson. Nel 2007 è
invece nella strampalata e riuscita commedia Il treno per
il Darjeeling di Wes Anderson e interpreta il torero
Manuel Rodíguez Sánchez in Manolete di Menno
Meyjes, accanto a Penélope Cruz. Non poteva che essere lui a
interpretare questo ruolo, vista l’incredibile somiglianza con il
famoso toreador. Brody ricorda che durante le riprese del film in
Spagna, la gente lo apostrofava per strada come Manolete, e di
essersi sentito investito di una grande responsabilità
nell’interpretare colui che, comunque la si pensi sulla corrida, è
stato un’icona della cultura spagnola. Qui l’attore si mostra
ancora una volta abile nel rendere i contrasti di una personalità
come quella del grande torero: da un lato profondamente timido e
introverso – al contrario di Brody, che dice di sé: “sono
socievole, mi trovo molto a mio agio con la gente” –
dall’altro, al centro dell’attenzione e alle prese con la propria
immagine pubblica, con una fama che andava oltre i confini della
stessa Spagna. A questo proposito dice: ““So come ci si
sente a diventare famosi, a raggiungere rapidamente la popolarità.
Le aspettative che arrivano assieme a questo, la presunzione che la
gente sappia chi sono, o che tutto sia perfetto, che la mia vota
sia grandiosa”. Parlando di questo ruolo, l’attore americano
ribadisce l’importanza che rivestono i costumi di scena nel suo
lavoro: “Se i costumi sono quelli giusti, sono molto utili per
me nella trasformazione, psicologicamente. Quando sono in costume
di scena sono una persona diversa”.

A proposito di immagine e, perché
no, anche di guardaroba in senso lato, in questi anni il nostro
attore si toglie anche una serie di “sfizi”: partecipa a diverse
campagne pubblicitarie, tra cui quelle di alcune note bibite, ma
anche di certi noti marchi di moda, come accade per lo stilista
italiano Ermenegildo Zegna, confermando la sua passione per la
moda, l’amore per lo stile, per l’eleganza. Inaugura così una
fortunata “carriera parallela” da testimonial che lo porterà, nel
2012, addirittura ad esordire come modello per la collezione
invernale di Prada. Inoltre, da amante della musica – che si
diletta a comporre nel tempo libero – non rifiuta certo l’invito di
una delle più belle e brave cantautrici del rock anni ’90 made in
Usa, Tori Amos, che gli offre una partecipazione al video di A
Sorta Fairytale.
Tornando al cinema, nel 2009 e nel
2010 lavora con Dario Argento che lo dirige in
Giallo, accanto a Emmanuelle Seigner e Elsa
Pataky, sua ex compagna. Il film però si rivela un pasticcio, non
solo perché non è dei più riusciti, ma anche per le burrascose
vicende che lo accompagnano. Alla fine uscirà solo in dvd, con
Brody che ricorre alla Corte Federale della California per
bloccarne l’uscita negli Usa e denuncia i produttori. Meno
travaglio per il thriller di Vincenzo Natali
Splice, del 2010. Nello stesso anno il poliedrico
Adrien non si fa sfuggire Predators di Nimrod
Antal, mentre è scontato il suo sì a Woody Allen, che lo vuole nel
ruolo di Salvador Dalì per Midnight in Paris
(2011).
Infine, il 2012 è l’anno di
Detachment – Il distacco per la regia di Tony
Kaye. Forse uno dei ruoli in cui è stato più facile immedesimarsi
per l’attore del Queens quello dell’insegnante in una scuola
americana con ragazzi problematici, considerato che suo padre è
stato un insegnante di storia. Lo conferma lo stesso regista, che
parla di come sia stato facile lavorare con Brody: “Io non ho
dovuto fare niente. Lui era un insegnante, fin dal primo
momento”. Parlando del suo personaggio alla presentazione del
film al Tribeca Film Festival 2011 l’attore ha affermato: “E’
un uomo che ha avuto molti problemi nella vita difficili da
affrontare, ma nel profondo, il suo desiderio è davvero
quello di aiutare questi studenti. Vuole incoraggiarli a diventare
individui, che si pongano domande su sé stessi e sul mondo che li
circonda. Mio padre era un insegnante polacco. Ho frequentato la
scuola pubblica a New York. Quindi interpretare un insegnante è
stato molto importante per me. Mi ha fatto riconoscere il
contributo di mio padre.” Al centro del film, dice, “un
gruppo di persone interiormente lacerate (fractured ndr)
che cercano di cavarsela”. In particolare, per
l’insegnante da lui interpretato, il problema è proprio riuscire a
trovare quel distacco dalle proprie ferite interiori di cui si
parla nel titolo: “Il problema è che devi muoverti al di sopra
di queste cose e aiutare a non creare generazioni future di persone
“fratturate”. Devi essere lì, presente per loro”. La
pellicola, nelle sale italiane dal 22 giugno, è prodotta da Paper
Street Films, Appian Way e Kingsgate Films e vede lo stesso Brody
al suo esordio come produttore.