A meno di un mese dal
Natale, Netflix regala in anticipo al suo
pubblico una nuova e originale commedia natalizia: stiamo parlando
di The Merry Gentlemen. La pellicola leggera
e divertente è diretta da Peter Sullivan e scritta dall’attrice e
sceneggiatrice Marla Sokoloff (Claire
in Desperate
housewives). The Merry
Gentlemen presenta un cast di figure già note nel
panorama cinematografico internazionale. Il protagonista Luke è
interpretato da una versione più adulta (e muscolosa)
di Chad
Michael Murray, attore divenuto noto nei primi 2000
con il ruolo di Tristan in Una
mamma per amica e Charlie Todd in Dawson’s
Creek. Al suo fianco l’americana Britt
Robertson (Tomorrowland,
The
space between us) è nel ruolo della protagonista femminile
Ashley. Altre figure ricorrenti nel film
sono Maria Canals-Barrera ( Camp Rock, I
maghi di Waverly) e Beth
Broderick (Diane in Lost,
Sabrina, vita da strega), rispettivamente nei panni di Denise e
Lily, madre di Ashley.
The Merry
Gentlemen: un Natale a luci rosse
Ashley vive il suo sogno di quando
era bambina di essere una delle Jingle belles, un gruppo di
ballerine che inscenano uno spettacolo a tema natalizio in uno
degli spettacolari teatri di Broadway. Tutto sembra perfetto fino
all’arrivo di una nuova giovane belles: Ashley viene tristemente
scaricata perché considerata troppo matura per lo spettacolo e
viene liquidata brevemente dalla coreografa poche settimane prima
di Natale.
Ashley fa ritorno a Sycamore Creek,
la sua città Natale. Qui scopre che il Rhythm room, il locale
gestito da tanti anni dai suoi genitori, ha perso fama e ha portato
la sua famiglia a indebitarsi. Il Rhythm room non sembra avere
altro scampo se non essere trasformato in un juice bar, per non
rischiare di divenire un altro buco nel muro tra troppi
buchi.
Con l’aiuto di Luke e degli altri
ragazzi, Ashley riuscirà a dare una nuova chance al locale portando
una ventata di novità da Broadway: uno show di varietà maschile. Lo
spettacolo si traduce in un’esibizione molto osé e attraente per il
pubblico femminile della città. Mentre il destino di Ashley sembra
essere nella sua città d’origine, il capitolo di Broadway non
sembra totalmente chiuso: la scelta tra Sycamore Creek e Luke e la
città sarà molto difficile.
The Merry
Gentlemen: le ingiustizie dello spettacolo
Il punto di partenza
di The Merry Gentlemen è una delle tante
ingiustizie che si creano in un settore come la danza o lo
spettacolo in generale. Sul palco ciò che conta di più è certamente
il talento e l’aspetto, ma ciò non giustifica i corpi di ballo a
liquidare con tale facilità le proprie ballerine con la comparsa
del primo capello bianco.
Come tutte le attività che
prevedono una certa prestanza fisica, come anche gli sport, la
danza non è certo una disciplina e un lavoro che può essere
praticato in maniera indisturbata per tutta la vita. Ciononostante,
sembra chiaro fin da subito quanto sia sbagliato che Ashley, a un
età identificabile intorno ai trent’anni, venga cacciata dal
proprio posto a favore di una se più giovane e soda.
Un Magic
Mike versione natalizia
Come spesso accade nelle pellicole
di Natale, non sempre si riesce a trovare nuovi elementi di
originalità per individualizzare il film. nel caso
di The merry gentlemen, l’elemento di novità
dovrebbe essere la presenza di giovani e attraenti ragazzi che si
esibiscono mezzi nudi per salvare il Rhythm room. Ciò comporta
molte scene hot in un clima natalizio. Questo non è di certo il
primo film che porta tematiche simili sul grande schermo: già solo
a pensare alla serie cinematografica di Magic
Mike la quale è incentrata totalmente su un
gruppo di spogliarellisti. Già in partenza sembra molto strano
immaginare una commedia di natale su degli pseudo
spogliarellisti.
Tralasciando questo elemento, tutto
il resto del film sembra essere molto standard: una storia a lieto
fine con un fantastico miracolo di Natale finale, una romantica
storia d’amore e un’atmosfera molto famigliare.
The Merry
Gentlemen si rivela una commedia leggera, piacevole
da guardare (magari non in compagnia dei propri genitori/figli per
evitare un Natale un po’ cringe!). Nonostante ci
sia un certo grado di originalità, la contemporanea presenza di
spogliarellisti e di spirito natalizio sembra un po’ stridere,
stranendo lo spettatore, più abituato alle classiche storie di
Natale.
Quando diverse forme d’arte e le
tradizioni culturali di un popolo si fondono in un’unica opera,
possono nascere autentici gioielli. Se a questa combinazione si
aggiungono poi valori e tematiche di forte risonanza sociale, come
quelli legati al femminismo, il risultato merita ancora di più
l’attenzione e l’interesse del grande pubblico. È il caso
di La nostra terra, il nuovo film
del duo Dk Welchman e Hugh
Welchman, già noti per il loro lavoro nel candidato
all’Oscar Loving Vincent,
dedicato agli ultimi giorni di Vincent van
Gogh.
Presentato in selezione ufficiale
al Toronto Film
Festival, La nostra terraè
l’adattamento cinematografico del celebre romanzo I
contadini (The
Peasants) di Władysław Reymont,
vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1924. Come un
dipinto vivo e prezioso, l’opera di Reymont prende forma sul grande
schermo grazie alla stessa straordinaria tecnica utilizzata
in Loving Vincent: il potere evocativo della pittura
a olio sulle immagini pre-registrate secondo l’animazione
al rotoscopio.
Ogni fotogramma del film è ispirato
alle opere dei pittori polacchi della fine del XIX e dell’inizio
del XX secolo, il risultato di un elaborato processo
tecnico che ha richiesto anni di lavoro. Distribuito
da Wanted, La nostra
terra sarà al cinema solo il 2, 3 e 4
dicembre.
Cosa racconta La nostra
terra?
Lunghi capelli color oro, occhi
tanto chiari quanto sinceri e un volto che sembra appartenere a un
angelo: Jagna è una giovane donna di
straordinaria bellezza, determinata a ritagliarsi il proprio spazio
nel mondo. Vive con sua madre in piccolo villaggio rurale della
campagna polacca, Lipce, alla fine del XIX secolo, cercando di
sopravvivere in una realtà dominata dal patriarcato, anche in una
famiglia priva di una figura maschile. Ben presto, Jagna si trova
intrappolata tra i desideri e le ossessioni degli uomini del
villaggio. Tra questi ci sono il contadino più
ricco, Maciej Boryna, che la costringe a
sposarlo, e il figlio maggiore di
lui, Antek, di cui Jagna è perdutamente
innamorata. In questo ambiente familiare e al tempo stesso
spietato, Jagna scopre che la libertà che tanto desidera le è
negata, e il destino che credeva di poter controllare si rivela
l’ennesima trappola: lei non è altro che una pedina nelle faide
familiari, un oggetto di scambio in una realtà dominata dal potere
del denaro e della tradizione della sua terra.
“L’amore non dura per
sempre. La terra, invece, sì.”
La nostra terra è
articolato in quattro capitoli, ognuno dei
quali corrisponde a una stagione dell’anno, riflettendo così i
cambiamenti della natura che fanno da cornice alle vicende dei tre
protagonisti. Questo suggestivo intreccio tra il ciclo
della vita e quello della terra diventa lo sfondo
ideale per una drammatica storia d’amore intrisa di dolore e
ingiustizia. Qui le dinamiche amorose e familiari si fondono
tragicamente con le spietate logiche di potere di una società in
cui la terra non è soltanto una risorsa vitale, ma rappresenta
anche il principale motivo di orgoglio, simbolo di identità e
misura di ricchezza.
Il film, realizzato con
straordinaria maestria tecnica dai coniugi Welchman, trasporta il
pubblico in un viaggio immersivo nella ricca cultura e
nelle tradizioni polacche. Le pittoresche celebrazioni,
gli abiti tradizionali, le danze vorticose e i canti carichi di
emozione e pathos non sono semplici dettagli
scenografici, ma elementi vivi e pulsanti che
danno voce alla più intima rappresentazione della
Polonia rurale. Attraverso questi dettagli, La
nostra terra, oltre a celebrare un capolavoro letterario
spesso poco conosciuto al di fuori dei confini del Paese, offre
anche uno sguardo autentico e intenso sull’identità nazionale della
Polonia.
La nobile battaglia di
Jagna
Rispetto al romanzo originale,
l’opera dei Welchman concentra gran parte della narrazione sul
personaggio di Jagna, trasformandola in una potente
metafora della lotta femminista in un mondo “a misura
d’uomo”. Jagna è una giovane donna di straordinaria
bellezza, dolcezza e intelligenza, ma anche caparbietà e
sensibilità artistica. Tuttavia, la terra che l’ha
vista nascere e crescere non la protegge né la accoglie,
anzi la disprezza fino a esiliarla. “All’inizio è invidiata e
fraintesa,” ha spiegato DK Welchman, “poi maltrattata e insultata,
infine emarginata: per essere bella, per essere sognatrice e
artistica, per essere appassionata e, soprattutto, per mettere in
discussione il patriarcato, un sistema sostenuto anche dalla
chiesa.”
Jagna è dunque un
personaggio contemporaneo: una donna complessa e
tragicamente incompresa, ribelle e audace, che si
scontra con una società in cui il patriarcato e il denaro dettano
l’unica legge possibile. Eppure, a lei non importa né
dell’uno né dell’altro. In questo mondo, gli uomini, per quanto
ipocriti, adulteri, bugiardi o stupratori, mantengono sempre il
potere, mentre le donne sono condannate a subire e ad accusarsi
l’una con l’altra. Nonostante sia consapevole delle conseguenze
delle sue scelte, Jagna accetta le lusinghe di Antek perché
innamorata, anche se lui è un uomo sposato e padre. Tuttavia,
quando la loro relazione clandestina viene scoperta, il giudizio
della comunità si accanisce solo su di lei. Jagna è additata come
traditrice, approfittatrice e sgualdrina, mentre Antek, pur
colpevole delle stesse azioni, non subisce la stessa condanna
sociale.
Jagna però non abbassa mai
la testa, diventa simbolo di resistenza e sofferenza
femminile, denunciando l’ipocrisia di una società in cui
le donne sono ancora oggi condannate a soccombere alle ingiustizie
della disuguaglianza di genere. La sua emarginazione non è,
infatti, solo il risultato del suo essere diversa, troppo bella e
troppo desiderata, ma anche un atto di punizione verso chi osa
sfidare i limiti dei ruoli prestabiliti, mettendo in discussione un
sistema che trae da sempre forza dalla sottomissione delle
donne.
Un’esperienza visiva tanto
affascinante quanto memorabile
Di primo impatto, è impossibile non
ammirare il lodevole lavoro artistico e la qualità pittorica
dell’animazione del duo registico. La nostra
terra è un’esperienza visiva tanto affascinante
quanto memorabile, capace di catturare lo spettatore e
immergerlo all’interno di una storia che pennellata dopo
pennellata, prende vita sotto i suoi occhi.
Partendo da un’opera letteraria di
Reymont apparentemente semplice e prevedibile, i Welchman
trasformano quella storia in un film che parla
all’oggi e va oltre il tributo alla scrittura e alla cultura
polacca. Il risultato è un’opera cinematografica potente,
che si fa veicolo di riflessione e denuncia sociale. Più che un
semplice adattamento, il film può essere
considerato un crudo e sincero manifesto
femminista, dove romanticismo, erotismo, violenza e
ossessione si fondono e si scontrano sul grande schermo, evocando
un profondo senso di inquietudine e urgenza all’azione.
La nostra
terra è una nobile dichiarazione
d’intenti: un chiaro memento che ci invita a riflettere
sui conflitti di potere intrinseci all’umanità, sul precario
equilibrio tra uomo e natura, e sul valore della libertà e della
dignità femminile in un mondo ancora troppo spesso crudele e
impari.
È arrivato il nuovo trailer di
Virgin
River. La serie Netflix, che ha debuttato nel 2019, racconta la
storia romantica e appassionante che ha inizio quando Mel Monroe
(Alexandra Breckenridge) si trasferisce nella piccola città della
California settentrionale nella speranza di trovare tranquillità,
ma scopre che tra gli abitanti ci sono molti conflitti e si
innamora del proprietario del bar Jack Sheridan (Martin Henderson).
La prossima Virgin River – stagione 6 non sarà l’ultima
della serie, poiché è già
stata rinnovata per la stagione 7, che la renderà la serie
drammatica in lingua inglese più longeva della piattaforma.
Netflix ha
ora svelato il primo trailer ufficiale completo della Virgin
River stagione 6. La frase di apertura del trailer è
“Sei pronta per questo?”, mentre Mel e Jack si preparano per
le loro imminenti nozze. Si rivela essere una sorta di presagio
inquietante, poiché le clip rivelano che, con l’avvicinarsi del
matrimonio, tutti i cittadini di Virgin River dovranno affrontare
importanti svolte nella trama, tra cui una gravidanza, segreti che
vengono svelati, visitatori misteriosi, rimpianti e una buona dose
di momenti bollenti. Guarda il trailer qui sotto:
Cosa significa questo per la
sesta stagione di Virgin River
Mentre il trailer si apre con Mel e
Jack felici per il loro imminente matrimonio e la prospettiva di
trascorrere il resto della loro vita insieme, le settimane prima
dell’evento non saranno sicuramente rose e fiori. Nel tipico
stile di Virgin River, anche i momenti più felici sembrano
destinati a non essere particolarmente facili per i personaggi
principali. Tuttavia, mentre si avvicinano al nuovo capitolo della
loro vita, entrambi i protagonisti appaiono più spesso felici nel
nuovo trailer.
Quasi lo stesso tempo è
dedicato alle trame degli altri personaggi che tornano…
Il trailer promette anche che,
mentre la maggior parte delle trame ruoterà in qualche modo
attorno ai preparativi del matrimonio, gli altri personaggi di
Virgin River che circondano Mel e Jack non saranno dimenticati.
Quasi lo stesso tempo è dedicato alle trame degli altri personaggi
che tornano, tra cui Jenny Cooper nel ruolo di Joey Barnes, Colin
Lawrence nel ruolo di John “Preacher” Middleton, Annette O’Toole
nel ruolo di Hope McCrea, Tim Matheson nel ruolo di Vernon “Doc”
Mullins, Zibby Allen nel ruolo di Brie Sheridan, Marco Grazzini nel
ruolo di Mike Valenzuela e Sarah Dugdale nel ruolo di Lizzie.
Netflix porta
sul piccolo schermo la vita di Ayrton da Silva in
Senna, una miniserie di sei episodi che, per la
prima volta, racconta in forma drammatica la vita e la leggenda del
pilota brasiliano, uno dei più grandi della storia della Formula 1.
Una produzione che non si limita a esplorare i circuiti e i record,
ma si addentra nella vita privata, nelle origini e nella tragica
scomparsa di un uomo che ha vissuto e amato senza riserve il mondo
delle corse.
Senna è un simbolo di passione
Ayrton Senna non è
solo un’icona sportiva: è un simbolo di passione,
talento e determinazione. La serie riesce a catturare la
complessità di questa figura leggendaria, evitando di cadere nei
cliché. Attraverso la buona interpretazione di Gabriel
Leone, attore brasiliano classe ’93, il ritratto del
pilota emerge vivido e autentico, realizzato con grande
sensibilità. Leone non si limita a una somiglianza fisica, ma
incarna le movenze, il carisma e quella determinazione feroce che
hanno reso Senna un fuoriclasse.
La serie si colloca a metà tra
l’adrenalina della pista e l’intimità del campione, bilanciando la
dimensione dello sportivo con quella dell’uomo. Le corse, girate
con realismo e grande padronanza dei ritmi, portano sullo schermo
l’eccitazione, l’elettricità di quei secondi in cui tutto sembra
sospeso, mentre i momenti più lenti rivelano le fragilità ma
soprattutto le ambizioni di un uomo che, dietro il casco, era molto
più di un semplice pilota.
Un biopic che non ha paura di
osare
I biopic, soprattutto quelli
dedicati a figure di culto, rischiano spesso di essere apologetici.
Troppo spesso si sbilanciano verso la sola celebrazione o, al
contrario, si impantanano in una critica fredda e distaccata.
Senna evita entrambe le trappole, riuscendo a
rendere omaggio al campione senza perdere l’obiettività narrativa,
ritraendo anche le sue ombre e i suoi eccessi. Questo equilibrio fa
sì che la serie sia coinvolgente anche per coloro che non subiscono
il culto del pilota, quindi anche per spettatori più giovani, che
non sono vissuti nell’eco di quel nome: gli appassionati di Formula
1 troveranno nei dettagli tecnici e nelle ricostruzioni storiche un
tributo sincero alla loro passione, e chi non ha mai seguito una
gara potrà lasciarsi trasportare da una storia universale di
sacrificio, ambizione e amore per ciò che si fa, anche fuori dal
mito.
Una regia tra velocità e
introspezione
Uno degli aspetti più sorprendenti
della serie è senza dubbio la regia firmata da Julia
Rezende. Le sequenze di corsa, con inquadrature
ravvicinate e movimenti di macchina che seguono le traiettorie
delle auto, trasmettono l’adrenalina di una gara. Il suono dei
motori, i cambi di ritmo e la tensione palpabile immergono lo
spettatore nell’esperienza, facendogli provare la stessa scarica di
energia che Senna viveva in pista. I piedi sui pedali diventano
materia più che immagini, seguendo un ritmo incalzante impreziosito
da un lavoro eccellente del reparto sonoro.
Ma nelle pause, nei momenti in cui
la macchina da presa si concentra sul volto di Gabriel
Leone o su uno scambio di battute con i familiari, emerge
tutta l’umanità del protagonista. La narrazione rallenta, si fa
intima, mostrando il lato più fragile e sincero del campione, anche
capriccioso e ostinato.
Un’interpretazione da pole
position
Gabriel Leone
merita una menzione speciale. La sua trasformazione in
Ayrton Senna è straordinaria, tanto da far
dimenticare allo spettatore di trovarsi davanti a un attore e non
al vero campione. E l’efficacia della sua interpretazione, oltre
che sulla somiglianza fisica, si fonda sulla delicatezza con cui è
in grado di interpretare l’Ayrton privato. La sua performance è una
delle ragioni di maggior pregio di questa miniserie.
Un racconto che conquista
tutti
La grande forza di
Senna sta nella sua capacità di parlare a un
pubblico trasversale. Quando si toccano i miti si corre sempre il
rischio di lasciarli in disparte, perché troppo in alto per la
gente comune, e invece la serie trascina giù l’idolo dal
piedistallo, lo abbraccia e lo schiaffeggia, rendendo umana la
divinità, popolano il re (per usare una metafore della serie
stessa). Il cuore pulsante di Senna non sono solo le gare, ma i
valori che Ayrton rappresentava: la dedizione, il coraggio, il
sacrificio. È un racconto che inevitabilmente ispira, ma anche che
sottolinea l’eccezionalità del soggetto. Senna è
un tributo sincero e appassionato a un uomo che ha cambiato la
storia dello sport.
A dare una scossa alle
uscite in sala di giovedì 28 novembre – tra documentari diversi e
revival, novità sentimentali, lo splendido
dramma con Cillian Murphy,
l’Hey
Joe con James
Franco e il ritorno
di Oceania della Disney –
attenzione a non perdere il The Strangers: Capitolo
1 di Renny
Harlin. Non a caso il film distribuito da Vertice360 è
stato scelto come film di apertura della 44esima edizione del
Fantafestival di Roma (che lo ha inserito in programma come
anteprima nazionale, mercoledì 27), contesto perfetto per presentare al
pubblico italiano questo nuovo inizio della saga inaugurata nel
2008 da Bryan Bertino.
Allora, quel film fu una
sorpresa piacevole – oltre che da brividi – e mise le basi per un
sequel molto meno fortunato, il The Strangers
2 (Prey at Night) che però incassò
poco più di 30 milioni di dollari contro gli oltre 82 del
capostipite. E dei già 48 di questo intelligente quanto ambiguo
terzo film e primo
capitolo di una trilogia che volutamente non è stata
indicata né come prequel, né come sequel, né tanto meno come remake
o reboot. Anche se di ripartenza non può non parlarsi, vista la
dichiarata appartenenza a quell’originale.
La storia
di The Strangers: Capitolo 1
In viaggio verso
Portland, dove un allettante proposta di lavoro attende Maya
(Madelaine Petsch), lei
e il suo fidanzato Ryan (Froy Gutierrez) decidono di fare
una sosta nella piccola Venus, in Oregon. Ma la sosta al Carol’s
Diner si rivela la scelta sbagliata. Costretta a trattenersi nella
piccola cittadina, per uno strano guasto meccanico, la coppia
raggiunge un cottage isolato nei boschi, dove trascorrere la notte.
Che si rivelerà molto meno romantica del previsto, quando la loro
permanenza sarà sconvolta dall’arrivo di tre sconosciuti mascherati
che iniziano a terrorizzarli facendoli sentire senza possibilità di
fuga.
Il passato
ritorna
Se la trama vi fa venire
in mente un numero imprecisato di altri film del genere, non vi
preoccupate, le prime sequenze del film confermeranno
l’impressione. Ma sarebbe eccessivamente ottimistico avvicinarsi a
un film come questo aspettandosi sorprese, che non siano quelle
date da jumpscare e un calibrato uso di modelli classici, e
originalità. E rischierebbe di non farvi godere un buon killer
drama – ancor più che horror – con alcuni momenti interessanti,
soprattutto se vi era piaciuto il The
Strangers del 2008.
Certo, come per il
sequel del 2018 anche in questo caso dinamica e struttura restano
le stesse, e sembra complicato trovare motivi per continuare a
seguire le gesta dei tre maniaci mascherati dal modus operandi
ripetitivo quanto efficace. O concedere il beneficio del dubbio a
un esperto del genere come Renny Harlin (Nightmare 4 – Il non
risveglio, 58 minuti per morire – Die
Harder, Cliffhanger, L’esorcista – La
genesi, The Covenant e via dicendo),
intenzionato a dirigere una intera trilogia, e quindi altri due
capitoli dopo questo…
The Strangers
Trilogy, la scommessa di Renny Harlin
Nei quali potremmo
ritrovare i personaggi principali (un asso nella manica del film,
visto che si tratta della Madelaine Petsch
di Riverdale e del Froy Gutierrez
di Cruel Summer e Teen
Wolf), anche se è meglio non sapere in che vesti, ma
soprattutto scopriremo il bluff organizzato per rilanciare il
franchise. Che continua imperterrito a presentarsi uguale a sé
stesso – per cui senza svelare o spiegare granché di quel che
vediamo da quindici anni – ma nel quale si intuiscono le basi di un
universo in costruzione, che nei prossimi film ci regalerà
connessioni interne e chiarificatori rimandi al passato.
Che, si spera, si
facciano perdonare leggerezze e comportamenti privi di senso messi
in scena dopo la lunga fase introduttiva, voluta per creare un
minimo di suspense e far crescere l’attesa, compensata dalle
immancabili maschere inquietanti, da coreografie accorte e qualche
efferatezza in quota gore. E potendo contare sulle statistiche –
quelle sì, spaventose – che registrano 1,4 milioni di morti
violente ogni anno negli Usa – costruire un prodotto meno
convenzionale di questo, o sarà inutile continuare fino
al terzo capitolo (le cui riprese in
realtà pare siano già terminate, avendo Harlin girato i tre film
insieme in 52 giorni tra il settembre e il novembre 2022, a
Bratislava, in Slovacchia).
Il finale di Oceania 2 (Moana
2) è un grande finale esplosivo che cambia radicalmente
l’eroe e pone le basi per un futuro Oceania 3 (Moana
3). Dopo il successo del film del 2016, il sequel lancia
la protagonista in un nuovo viaggio attraverso l’oceano. Incaricata
di ripristinare un’isola perduta e di sciogliere un’enorme
maledizione che mette in pericolo la sua tribù, Vaiana si imbarca
in una missione insieme a un gruppo di leali abitanti del villaggio
e al ritorno di Maui. Tuttavia, il loro cammino li porta
direttamente nelle macchinazioni del malvagio dio Nalo, che ha
lanciato la maledizione.
Oceania 2 (Moana 2) è
destinato a diventare un successo al botteghino, il che potrebbe
spiegare perché il film si conclude con una chiara allusione alle
direzioni future di altri possibili sequel. In particolare,
https://www.cinefilos.it/tutto-film/recensioni/oceania-2-657305″>
Oceania 2 (Moana 2) si conclude con un enorme cambiamento
per Vaiana e il suo mondo, ampliando la portata del suo mondo e
amplificando la sua natura in modo inaspettato. Ecco come il finale
di Oceania 2 (Moana 2) eleva il personaggio e prepara
ulteriori avventure.
Vaiana muore e diventa semidio
L’esperienza di quasi morte di
Vaiana finisce per darle più forza che mai
Tuttavia, grazie all’oceano, gli
spiriti degli antenati di Vaiana (tra cui sua nonna e Tautai Vasa)
sono in grado di riportarla in vita. Questo la trasforma in un
semidio come Maui, conferendole potenzialmente lo stesso tipo di
immortalità che ha permesso a Maui di vivere per oltre mille anni e
di sopportare ferite altrimenti fatali.
Nello stesso modo in cui i poteri
più evidenti di Maui sono incanalati attraverso il suo potente amo,
il remo di Vaiana assume un nuovo significato come arma spirituale.
Il remo è ora ornato da una scritta dorata e sembra essere
un’estensione delle nuove capacità di Vaiana. Sebbene sia probabile
che anche lei, come Maui, benefici di nuovi attributi fisici da
semidio, il remo è la fonte dei suoi poteri soprannaturali più
evidenti. Questo rende il remo un accessorio ancora più importante
per l’eroina in futuro.
I nuovi poteri di Vaiana sono
probabilmente simili alla capacità di Maui di trasformarsi grazie
all’uso del suo amo. Nel primo film, la separazione dall’amo ha
fatto sì che Maui perdesse l’accesso alle sue capacità di
trasformazione, pur mantenendo il suo corpo senza età e la sua
impressionante resistenza. Il remo di Vaiana, invece, non le
permette di trasformarsi. Ma grazie alla luce dorata che emette,
Vaiana può usare il remo per modellare le maree e creare percorsi
nell’oceano. Queste abilità saranno probabilmente fondamentali per
la futura esplorazione dell’oceano.
I tatuaggi di Vaiana
Con questa ascesa, Vaiana ottiene
anche alcuni tatuaggi. Sembrano raffigurare persone che festeggiano
sull’isola di Motufetu, facendo riferimento agli eventi del film
come a una grande azione da parte di Vaiana. Questo è simile al
modo in cui i numerosi tatuaggi di Maui sono stati rivelati nel
primo film come riferimenti ai suoi successi come semidio. È
probabile che, man mano che Vaiana andrà avanti nella vita e
raggiungerà altri traguardi, possa ottenere altri tatuaggi.
Potrebbero anche essere vivi come il Mini Maui, creando una Mini
Vaiana che apparirà in future storie sul personaggio.
Come Vaiana riconnette il popolo
dell’oceano
Il motivo per cui Vaiana si mette
alla ricerca di Motufetu è una visione di Tautai Vasa, che la
informa che l’isola affondata e superata da Nalo ha di fatto
isolato l’angolo di mare di Vaiana dal resto dell’umanità. Se
rimarranno isolati troppo a lungo, i popoli dell’oceano (compresa
la tribù di Vaiana e i Kakamora) si estingueranno. Questo rafforza
gli sforzi di Vaiana per trovare altre tribù, dando il via
all’avventura del film. Risollevando Motufetu e spezzando la
maledizione di Nalo, la protagonista ripristina le linee di
collegamento dell’oceano.
L’impegno si rivela subito proficuo:
altri esploratori provenienti da tutto il mondo approdano
rapidamente su Motufetu. Vaiana li riporta sulla sua isola natale,
dove i vari Wayfinder di diverse tribù vengono mostrati mentre
parlano con Tui e probabilmente creano alleanze. Si tratta di una
conclusione promettente per il film, in quanto apre la strada a
molti nuovi angoli del mondo da esplorare. Potrebbe anche creare un
potenziale dramma, dato che l’esistenza di altre tribù significa
anche che c’è spazio per possibili conflitti in futuro.
A prima vista, in Oceania 2
(Moana 2) Matangi si presenta come un pericoloso cattivo.
Capace di sopraffare e catturare Maui con relativa facilità,
Matangi all’inizio fa intendere di avere piani più grandi per lui e
Vaiana. Tuttavia, si scopre che Matangi è in realtà una serva
involontaria di Nalo ed è rimasta intrappolata nella vongola grande
come un’isola per anni. Sperando che rompere la maledizione che
Nalo ha lanciato sull’oceano la liberi dalla sua morsa, Matangi dà
a Vaiana alcuni consigli fondamentali e la aiuta (insieme a Maui e
al resto dell’equipaggio di Vaiana) ad avventurarsi sull’isola.
In questo modo Matangi diventa un
avversario potenzialmente riluttante per Vaiana, che segue i
comandi di Nalo anche se desidera liberarsi di lui. Tuttavia, una
Vaiana potenziata potrebbe trovare un modo per liberarla,
trasformando Matangi in un alleato.
La vendetta di Nalo e come ci
prepara a Moana 3
Nalo è il vero cattivo di Oceania
2 (Moana 2), anche se i Nalo cerca attivamente di uccidere
Vaiana e il suo equipaggio, inviando enormi serpenti marini e
saette luminose contro il gruppo quando si avvicinano all’isola.
Anche dopo essere stato sconfitto, l’apparizione della divinità
nella scena dei titoli di coda rivela un dio furioso e intenzionato
a vendicarsi. Tutto ciò pone le basi per un epico Oceania
3, soprattutto in considerazione dell’importante aumento
di potenza di Vaiana.
Come il finale di Oceania 2
(Moana 2) si basa sul finale del primo film
In Oceania, la
maledizione causata da Maui che ha preso il Cuore di Te Fiti stava
lentamente uccidendo tutta la vita biologica del mondo. Allo stesso
modo, Vaiana parte per la sua avventura con la consapevolezza che
l’incapacità di espandere l’oceano al suo vero potenziale porterà
alla scomparsa del suo popolo.
Oceania 2 (Moana 2) si
concentra in definitiva sull’importanza di abbracciare il nuovo e
di avere il coraggio di rischiare tutto per l’esplorazione. Tutti i
personaggi di Oceania 2 (Moana 2) sono costretti ad
abbracciare nuove strade pericolose, con la nonna di Vaiana che nel
primo atto comunica alla nipote di aver compreso il costo
potenziale delle sue avventure. La tribù deve letteralmente
espandersi attraverso l’oceano, altrimenti si estinguerà. I membri
dell’equipaggio di Vaiana crescono attraverso l’accettazione del
cambiamento, che si tratti dell’abbraccio di Loto alla
sperimentazione costante, di Moni che supera le sue paure o di Kele
che si adatta all’oceano.
Anche Vaiana e Maui affrontano
questa sfida: entrambi sono costretti ad accettare percorsi
difficili a cui sono naturalmente contrari. Gli sforzi di Maui per
proteggere Vaiana dal pericolo non fanno altro che prolungare la
missione a Motufetu, e i due vincono quando accettano di potersela
cavare da soli. Al contrario, Vaiana deve imparare ad abbracciare
un percorso diverso, accettando la guida di Matangi di “perdersi”,
tracciando una strada diversa da quella che le è congeniale per
poter continuare ad andare avanti. È una morale interessante da
esplorare, soprattutto in relazione alla svolta di Vaiana su Te
Fiti.
Oceania 3 non è stato confermato,
ma il remake in live action arriverà presto
Al momento in cui scriviamo, non c’è
stata alcuna conferma di Oceania 3. Dato che ci
sono voluti otto anni prima che Oceania 2 (Moana 2)
continuasse la storia dell’Indomita, potrebbe passare un po’ di
tempo prima che il pubblico abbia la conferma, in un senso o
nell’altro, se vedrà ancora la giovane donna avventurosa. Tuttavia,
l’atteso successo al botteghino di Oceania 2 (Moana 2),
insieme al palese richiamo al sequel nella scena a metà dei titoli
di coda, potrebbe dare alla Walt Disney Animation un motivo in più
per riportare il personaggio per altre avventure.
Un eventuale terzo film potrebbe
addirittura seguire la traiettoria di altri sequel animati Disney
confermati, come
Frozen, di cui è già stata confermata la presenza di due sequel
in fase di pre-produzione. I fan di Oceania avranno anche un
remake live-action nel 2026, con Catherine
Laga’aia nel ruolo di Vaiana e
Dwayne Johnson che riprenderà il ruolo di Maui. Questo
assicura che, anche dopo Oceania 2 (Moana 2), ci saranno
altre occasioni per vedere la giovane eroina nelle sale
cinematografiche.
È giunto il momento di tornare
nell’oceano. Fra le isole della Polinesia, immersi nella florida
vegetazione e coccolati dalle carezze delle onde. Dopo il grande
successo di Oceania,
la Walt Disney Pictures ha deciso di
investire su un sequel che
potesse raccontare le nuove avventure di Vaiana, seppur
inizialmente il progetto era stato pensato in formato seriale per
la piattaforma Disney+.
Un personaggio come ben sappiamo molto amato, che ha debuttato nel
2016, pronto ora a fare il suo ritorno in Oceania
2, sotto la direzione di David Derrick
Jr., Jason Hand e Dana Ledoux Miller. Questo è
il 63esimo Classico Disney, e arriva in un
anno in cui i secondi capitoli dominano la scena cinematografica:
basti pensare a Inside Out
2, Beetlejuice
Beetlejuice, Il
Gladiatore II e Joker:
Folie à Deux.
Tuttavia, è risaputo che i sequel
rappresentano un territorio insidioso: non sempre le idee alla base
riescono a dare vita a una storia vincente. Ma Oceania
2, in arrivo nelle sale il 27 novembre, dimostra che con la
giusta intuizione si può ancora creare qualcosa di molto buono. Nel
cast delle voci italiane ritroviamo Emanuela Ionica e
Chiara Grispo, rispettivamente ai dialoghi e al
canto, Fabrizio
Vitale e Angela Finocchiaro.
Fra questi spicca una new entry di tutto
rispetto, Giorgia, la quale
con Oceania 2 fa il suo debutto in una pellicola
Disney, prestando la voce a un nuovo personaggio, Matangi.
La trama di Oceania 2
Dopo aver restituito il cuore a Te
Fiti, Vaiana è ora una navigatrice a tutti gli effetti. Il suo
popolo prospera, e lei adesso ha un solo desiderio: incontrare gli
abitanti delle altre isole dell’oceano. Approda su queste alla
ricerca di prove che accertino il passaggio degli uomini e
finalmente, su una, lo trova. E così, passati alcuni giorni in
mare, torna a Motunui, dove riceve inaspettatamente un messaggio
dall’antenato Tautai Vasa, uno dei primi navigatori. Affinché la
sua isola e il suo popolo non restino soli, affinché gli uni
possano imparare dagli altri e continuare a crescere, Vaiana deve
andare sull’isola di Motufetū, ora inabissata a causa del Dio Nalo,
il quale vuole tenere separati i popoli in modo tale da non
evolversi.
Sopra l’isola, poi, incombe
minacciosa una fortissima tempesta, ma finché un essere umano non
metterà piede su quella terra, nessun canale con gli altri popoli
potrà mai essere aperto. Per raggiungerla, però, questa volta a
Vaiana serve un vero e proprio equipaggio: oltre al gallo Heihei e
al maialino Pua, salperanno insieme a lei Kele, Loto e Moni, pronti
ad aiutarla nei momenti di maggiore difficoltà. A supportarla anche
il semidio Maui, con cui Vaiana ha stretto una forte amicizia.
Verso l’unione dei popoli
Il richiamo dell’oceano si fa
ancora più forte in Oceania 2. Il mare,
dalla personalità vivacissima, torna a essere uno dei più bei
protagonisti, rendendo lo sfondo animato ancora più magico e
potente. La computer grafica, come già accaduto nel primo
capitolo, eccelle, regalando panorami mozzafiato, merito di un
rendering quanto più curato: acque cristalline, isole rigogliose e
colori vibranti e nitidi si fondono così una danza armonica. Dal
punto di vista visivo, il film continua a essere ricco
e variegato, confermando la cura meticolosa con cui Disney
costruisce le sue storie per garantire un’esperienza immersiva
completa. Ma la pellicola non è efficace solo sotto il profilo
tecnico-artistico: anche sul piano narrativo Oceania
2 si dimostra all’altezza. Se nel primo
capitolo Vaiana scopriva la sua vera identità diventando
una navigatrice, il sequel rappresenta la naturale prosecuzione –
ed evoluzione – di quel viaggio dell’eroe. La sua nuova avventura
le permette di abbracciare pienamente il suo ruolo di esploratrice
e leader, mentre affronta una sfida ancora più complessa,
proporzionale alle sue nuove responsabilità. Tutto per il bene del
suo popolo, a cui è molto devota.
Vaiana, la forza di un personaggio
efficace
Vaiana si conferma una
protagonista completa, eroina di se stessa e del suo
popolo, priva di qualsiasi interesse amoroso, neppure con l’arrivo
nel suo equipaggio di Moni, un fan sfegatato di Maui che nutre per
lei una profonda stima e con cui potevano creare un legame,
restando uno dei personaggi più indipendenti nel panorama
disneyano. La Casa di Topolino rimane così fedele alla
caratterizzazione di Vaiana, sottolineando ancora una volta la sua
emancipazione e libertà di espressione. La giovane navigatrice
resta focalizzata sulla sua missione, ossia riunire i popoli
dell’oceano, senza mai lasciarsi distrarre, evidenziando
indirettamente quanto sia fondamentale il senso di appartenenza
legato al concetto sia di famiglia che di comunità. Caratteristiche
che, sin dal primo film, l’hanno resa una protagonista moderna e
indipendente, pur riflettendo i valori classici della Casa di
Topolino: rispetto e amore verso gli altri e verso se stessi,
onestà e bontà d’animo.
Perdersi per ritrovare la
strada
In Oceania 2 non
mancano poi i temi cardine che accompagnano Vaiana nel suo cammino.
Uno dei più importante è espresso da Matangi a metà film, con la
canzone Perditi – fra le più belle dei
brani della pellicola – interpretata da una Giorgia
molto in sintonia con il suo personaggio. Il brano è profondo e
delicato al tempo stesso, e trasmette un messaggio ben chiaro:
anche quando si crede di conoscere la strada da seguire, è
importante accettare che perdersi, a volte, è necessario. Non si
può avere il controllo su tutto, e insistere troppo rischia di far
perdere se stessi. Alcuni momenti richiedono di lasciarsi andare,
di abbracciare l’incertezza. Gettarsi nel vuoto e affrontare
l’ignoto, in certe occasioni, può rivelarsi più utile di qualsiasi
sentiero prestabilito.
La terza stagione di From si
conclude in modo scioccante, con la risoluzione di molti misteri di
lunga data e l’emergere di nuove domande. Nel corso della terza
stagione, i personaggi di From sono stati spinti più che mai
al limite. I mostri di From hanno trovato nuovi modi per
tormentare gli abitanti della Township, tra cui l’uccisione brutale
di Tian-Chen Liu (Elizabeth Moy) davanti a Boyd Stevens (Harold
Perrineau) e una creatura sinistra che cresce dentro Fatima (Pegah
Ghafoori).
Il mistero della gravidanza di
Fatima viene svelato ed Elgin (Nathan D. Simmons) paga un prezzo
terribile per averla tenuta prigioniera nella cantina della città.
Nel frattempo, Tabitha Matthews (Catalina Sandino Moreno) e Jade
Herrera (David Alpay) finalmente ottengono le risposte che
cercavano, che riguardano gli alberi delle bottiglie di From
e i bambini “Anghkooey”. Forse la cosa più scioccante di
tutte è che uno dei personaggi più importanti di
From, Jim Matthews (Eion Bailey), viene ucciso da un
nuovo personaggio, l’Uomo in abito giallo (Douglas E.
Hughes).
Perché l’Uomo in abito giallo
uccide Jim nel finale della terza stagione di From
“La conoscenza ha un
prezzo”
L’Uomo in abito giallo uccide Jim
come conseguenza della scoperta di Tabitha e Jade. Dice a Jim
che “la conoscenza ha un prezzo” e che aveva cercato di avvertirlo
in precedenza. Quando pronuncia la frase “Tua moglie non avrebbe
dovuto scavare quella buca, Jim”, diventa chiaro che era lui la
voce alla radio alla fine della prima stagione che aveva detto
quelle stesse parole. È intervenuto quando Tabitha e Jim si stavano
avvicinando troppo alla verità nella prima stagione e ora è
intervenuto di nuovo dopo che Jade ha suonato la canzone.
L’uomo in abito giallo non può
uccidere definitivamente Tabitha o Jade a causa del loro legame
originario con la città, poiché tornerebbero semplicemente sotto
una forma diversa. Invece, uccide Jim, una morte che sconvolgerà la
famiglia Matthews e tutti gli abitanti della città. Dal punto di
vista narrativo, la morte di Jim aumenta notevolmente la posta in
gioco. Sebbene From abbia ucciso molti personaggi, si è
trattato per lo più di personaggi secondari, ma la morte di Jim
dimostra che nemmeno i personaggi principali sono più al
sicuro.
Cosa è successo alla Julie del
futuro nella scena finale della terza stagione di From?
Continua l’uso del viaggio nel
tempo in From
L’uccisione di Jim da parte
dell’Uomo in abito giallo non è l’unica sorpresa nella scena finale
della terza stagione di From. L’altra sorpresa è che una
versione futura di Julie Matthews (Hannah Cheramy) viaggia nel
tempo fino al momento prima che suo padre venga ucciso. Il
viaggio nel tempo di Julie aveva già risolto il mistero della corda
di Boyd, ma quello era solo l’inizio. Anche se suo fratello, Ethan
Matthews (Simon Webster), le dice che non può cambiare il passato,
lei continua a provarci.
Finché non verrà uccisa o
catturata dall’Uomo in abito giallo, Julie continuerà probabilmente
i suoi viaggi nel tempo, che le forniranno conoscenze inestimabili,
ma non potranno aiutarla a cambiare nulla, dato che From segue la
regola di Lost secondo cui “ciò che è successo, è
successo”.
Purtroppo, Julie non riesce a
salvare suo padre dall’Uomo in abito giallo. L’ultima immagine che
abbiamo di lei è mentre urla terrorizzata alla vista della gola di
Jim che viene squarciata. From –
stagione 4 dovrà rivelare cosa succede dopo a questa versione
futura di Julie. Finché non verrà uccisa o catturata dall’Uomo in
abito giallo, Julie continuerà probabilmente i suoi viaggi nel
tempo, che le forniranno conoscenze inestimabili, ma non potranno
aiutarla a cambiare nulla, poiché From segue la regola di
Lost secondo cui “ciò che è successo, è successo”.
Il legame tra Tabitha e Miranda
e quello tra Jade e Christopher spiegato
Le loro somiglianze sono sempre
state intenzionali
Dalla fine dell’episodio 9
della terza stagione, si capiva che Tabitha e Miranda (Sarah Booth)
erano la stessa persona, poiché Tabitha ha rivissuto il ricordo di
Miranda che veniva uccisa prima di raggiungere l’albero lontano. Il
finale della terza stagione lo conferma, insieme alla rivelazione
che Jade e Christopher (Thom Payne) sono la stessa persona. Tabitha
e Jade sono state tra i primi abitanti della Città e sono tornate
più volte nel corso degli anni nel tentativo di salvare i bambini e
liberarli.
Tabitha e Jade rimangono entrambe
intrappolate nella Città lo stesso giorno nell’episodio 1 della
stagione 1.
Miranda e Christopher erano le
versioni precedenti di Tabitha e Jade che hanno cercato senza
successo di salvare i bambini. Questo spiega perché ci sono sempre
stati così tanti parallelismi tra Miranda e Tabitha e tra Jade e
Christopher. Spiega anche perché Tabitha e Jade sono state le
uniche residenti in grado di vedere i bambini “Anghkooey” e
perché hanno visioni che gli altri non hanno. Anche il legame
naturale e l’istinto materno di Tabitha con Victor (Scott McCord)
hanno più senso, dato che Miranda era la madre di Victor.
Cosa rivela la gravidanza di
Fatima sui mostri
I mostri sono immortali
Fatima alla fine dà alla luce il
mostro Smiley (Jamie McGuire), che ora è rinato dopo essere stato
ucciso da Boyd nella seconda stagione. Questo rivela che i mostri
non possono essere uccisi in modo definitivo, il che si ricollega
alle origini delle creature e al modo in cui i bambini sono stati
uccisi. Victor ha detto in From season 3, episodio 8 che i
bambini sono stati uccisi nell’oscurità da persone che amavano e di
cui si fidavano. Fatima aggiunge a questa spiegazione la sua nuova
comprensione che From‘s monsters hanno sacrificato i
propri figli in cambio dell’immortalità.
Tutti gli episodi di From
sono disponibili in streaming su Paramount+.
Questa immortalità è il motivo per
cui Smiley e gli altri mostri non possono essere uccisi
definitivamente. Fatima dice solo che “esso” ha promesso ai mostri
che avrebbero vissuto per sempre, ma probabilmente si riferisce
all’Uomo in abito giallo. Sembra che lui sia il male originario al
centro della città, che ha usato l’offerta dell’immortalità per
rendere immortali i mostri e farli obbedire ai suoi ordini.
Tuttavia, se Tabitha e Jade riusciranno finalmente a salvare i
bambini e a liberarli, questo potrebbe distruggere tutto ciò che
l’Uomo in abito giallo ha costruito.
Cosa significano “Anghkooey” e i
numeri sull’albero delle bottiglie in From
Grazie a Jim, i numeri nelle
bottiglie si rivelano essere note musicali. Quando Jade va
all’albero delle bottiglie e suona una melodia con il violino
basata su queste note musicali, i bambini “Anghkooey”
riappaiono. È attraverso la canzone e la ricomparsa dei bambini che
Tabitha e Jade capiscono che “Anghkooey” significa
“ricordare.” I bambini e la canzone hanno
lo scopo di aiutare Tabitha e Jade a ricordare il loro legame
originario con la città. Ricordano chi sono e tutte le vite passate
che hanno vissuto nella città, compreso il periodo in cui erano
Miranda e Christopher.
Questa consapevolezza diventa ancora
più tragica quando si rendono conto che uno dei bambini che hanno
cercato ripetutamente di liberare era loro figlia, e che la canzone
è una ninna nanna che i loro io del passato cantavano a lei e agli
altri bambini. Tutte le visioni e le scoperte di Tabitha e Jade le
hanno portate a ricordare. Ora che ricordano chi sono e perché sono
intrappolate nella Città, potrebbero finalmente essere in grado di
cambiare le cose.
Le oscure decisioni di Boyd e
Sara con Elgin spiegate
Elgin si rifiuta di rivelare dove si
trova Fatima perché è stato ingannato facendogli credere che il
completamento della sua gravidanza è la chiave per la fuga degli
abitanti dalla Città. Nonostante il fantasma di padre Khatri (Shaun
Majumder) cerchi di dissuadere Boyd, Boyd colpisce la mano di Elgin
con un martello. Cerca di ragionare con Elgin, ma quando questo non
funziona, la disperazione e la rabbia di Boyd hanno la meglio su
di lui, che si rifiuta di lasciare che sua nuora soffra e
muoia.
Per quanto riguarda Sara Myers
(Avery Konrad), torna alle sue vie violente per la prima volta
dalla prima stagione, strappando un occhio a Elgin, che lo induce a
rivelare dove si trova Fatima. Sara lo fa perché tiene a Boyd, sa
che è un brav’uomo ed è grata per come lui si è preso cura di lei e
le ha dato una seconda possibilità. Non vuole che Boyd sprofondi
ancora di più e gli risparmia questo con il suo metodo di tortura
più brutale che costringe Elgin a parlare.
Il vero significato del finale
della terza stagione
Il finale della terza stagione di
From riguarda in definitiva la natura ciclica del bene e del male.
Tabitha e Jade sono rimaste intrappolate in un tragico ciclo che
non sono riuscite a spezzare. Anche il male della città è ciclico,
con Smiley che rinasce mentre i mostri continuano il loro regno
immortale di terrore. Invece di Sara che viene manipolata per
compiere azioni orribili in nome della libertà, ora è Elgin ad
essere manipolato, e Sara deve sprofondare nuovamente nella sua
vecchia oscurità per fermarlo.
Da è stato ufficialmente
rinnovato per la quarta stagione.
Sebbene il finale sia pervaso da un
senso di disperazione, ci sono anche segni che le cose potrebbero
finalmente cambiare in meglio. L’emergere dell’Uomo in abito giallo
e l’uccisione di Jim sono i segni più evidenti di questo. La
scoperta di Tabitha e Jade deve aver terrorizzato l’Uomo in abito
giallo al punto da spingerlo a rivelarsi e ad attaccare Jim. Anche
se questo è costato la vita a Jim, indica anche che il ciclo sarà
finalmente spezzato, i bambini saranno salvati e gli abitanti
troveranno un modo per tornare a casa prima della fine di
From.
Uno dei personaggi originali
di Dune: Prophecy è Desmond Hart,
un soldato con un programma misterioso, interpretato
da Travis
Fimmel. Fimmel si unisce al cast all-star
di Dune:Prophecy,
insieme a Emily Watson, Olivia Williams e Mark Strong, con un
personaggio che contribuisce alla complessa rete di schemi politici
incentrati sull’Imperium. Desmond Hart viene
introdotto a metà del primo episodio della serie come un
personaggio che ricorda quasi Duncan Idaho dei film
di Dune. È sopravvissuto a diverse missioni su
Arrakis, avendo imparato le tecniche di guerra nel deserto.
Tuttavia, c’è qualcosa di
notevolmente diverso tra lui e Idaho, interpretato con fascino e
carisma da Jason Momoa nel film Dune del
2021. Desmond Hart porta con sé subdoli segreti e sembra
intenzionato a manipolare coloro che lo circondano. Ambientato
all’incirca 10.000 anni prima nella linea
temporale di Dune, i personaggi del prequel della
HBO modificheranno drasticamente la portata del mondo, preparando
l’Universo Conosciuto a come sarà quando nascerà Paul Atreides.
Dato che non è presente nei libri, il ruolo di Desmond in questo
grande schema è il più difficile da prevedere.
Desmond Hart è l’unico soldato
sopravvissuto a un attacco su Arrakis
Desmond Hart arriva al palazzo
dell’Imperatore su Selusa Secundus, dichiarando di essere l’unico
sopravvissuto a un attacco su Arrakis. L’Imperatore credeva che
l’attacco fosse stato condotto dalle forze Fremen e stava
orchestrando un’alleanza con la Casa Richese per una flotta di navi
che aiutasse la produzione di spezie su Arrakis, prevenendo
ulteriori minacce. Desmond sostiene che l’attacco non
era in realtà opera dei Fremen, ma degli alleati
dell’Imperium, apparentemente come stratagemma per
costringere l’Imperatore a organizzare il matrimonio di sua figlia,
la Principessa Ynez.
Spiegato il legame di Desmond
Hart con l’Imperatore Javicco Corrino
Desmond è arrivato a casa
dell’Imperatore Javicco per conquistare la sua fiducia.
L’Imperatore sembrava sapere chi fosse Desmond Hart prima di
incontrarlo, ma non è chiaro se i due abbiano dei trascorsi
insieme. Più tardi nell’episodio, i due si incontrano in riva al
mare e discutono della situazione. Hart sostiene che
Casa Richese è tra le varie minacce per l’Imperatore, il
quale concorda sul fatto che non si sente a posto con il
matrimonio, nonostante sia stato consigliato dal suo Verificatore,
Kasha. Desmond afferma che l’attacco ad Arrakis è stato solo un
sintomo di un problema più importante.
Desmond Hart suggerisce a Javicco
che sta perdendo la presa sull’Imperium. Crede che sia perché i
leader delle Grandi Case sono sotto il controllo dei loro
Verificatori, anche se non lo dice ancora. È vero che nell’episodio
Javicco va contro il suo buon senso per ascoltare Kasha,
organizzando un matrimonio con un alleato inaffidabile per ottenere
più forza militare. Kasha impone questo matrimonio perché sostiene
Valya Harkonnen e il complotto della Sorellanza per piazzare una
Sorella sul trono, che sarebbe la Principessa Ynez, dopo la sua
formazione.
Il personaggio di Travis Fimmel
è un cattivo in Dune:Prophecy?
Il finale dell’episodio 1 di
Dune: Prophecy vede Travis Fimmel uccidere
un bambino grazie a un misterioso potere, il che sembra essere un
atto di cattiveria. Tuttavia, nel mondo
di Dune è sempre un po’ più complicato di così.
Capire cosa dice e cosa vede Javicco nell’ologramma è fondamentale
per capire cosa si sa del personaggio originale. Desmond Hart non
solo è sopravvissuto all’attacco degli alleati dell’Imperium che ha
ucciso tutti i suoi uomini, ma è anche stato
inghiottito nel sottosuolo da un sandworm ed è
sopravvissuto.
È importante notare che tutti
questi elementi si riferiscono anche alla visione della Madre
Superiora all’inizio dell’episodio: un verme sandwich, pelle
bruciata, sangue e la morte di un nobile.
Desmond Hart ha ora la misteriosa
capacità di far bruciare la pelle di qualcuno e sembra farlo sia
con Pruwet Richese che con Kasha. Prima di uccidere Pruwet,
dichiara che gli è stato “conferito un grande
potere”. È importante notare che tutti questi elementi si
riferiscono anche alla visione della Madre Superiora all’inizio
dell’episodio: un sandworm, pelle bruciata, sangue e la morte di un
nobile. Desmond Hart potrebbe essere in qualche modo
collegato al “Tiran-Arafel”, utilizzato nello show
per indicare una minaccia esistenziale per l’umanità.
“Arafel” è un termine dei libri
originali di Dune che si riferisce a una
‘nube-oscurità alla fine dell’universo’.
Quindi, sì e no. Il Desmond Hart di
Travis Fimmel è probabilmente il cattivo
di Dune:Prophecy,
poiché lo show è inquadrato dalla prospettiva di Valya Harkonnen e
della Sorellanza. Ma la Sorellanza, che si sta trasformando nella
Bene Gesserit che il pubblico conosce in Dune, non è
esattamente protagonista nemmeno in questo universo, e anche tra le
sue fila si discute sulla moralità dell’ingegneria genetica dei
leader mondiali. Valya e la Sorellanza cercano il
controllo, mentre Desmond vuole impedirlo, ma per farlo
potrebbe arrivare a estremi ancora peggiori.
Gli episodi 5 e 6 della quarta
stagione de L’Amica Geniale –
adattamento della tetralogia di Elena Ferrante
– si immergono nel cuore del tumultuoso intreccio tra maternità,
amicizia e amore, facendo emergere nuove dinamiche emotive e
conflitti irrisolti. La complessità delle relazioni tra i
personaggi raggiunge vette drammatiche, con una narrazione che
intreccia sapientemente momenti di tensione, fragilità e
consapevolezza, concentrandosi maggiormente sui fatti che vediamo
accadere più che sulla loro elaborazione.
La Frattura
Il quinto episodio, intitolato La
Frattura, si concentra proprio sulla separazione, la spaccatura che
si viene a creare, sempre più profonda, tra i personaggi
principali, riflessa sia nei legami personali sia nel tessuto
sociale che li circonda. La storia si apre con Lenuccia, che
riscopre sia la maternità con l’ultima arrivata, Immacolata, avuta
da Nino, che il rione, con tutti i suoi personaggi/manifesto: la
donna incontra di nuovo Michele Solara, nell’ufficio di Lila, e lo
trova notevolmente cambiato: è la pallida ombra di sé stesso mentre
si confronta con Lila, determinata e sovrana della situazione,
decisa nel suo disprezzo verso un uomo che un tempo rappresentava
il potere e il controllo, ma che ora è fragile e sconfitto. Il
terremoto che ha devastato Napoli fa da sfondo a un’umanità
altrettanto spezzata, traumatizzata ma anche affaticata dalla vita
stessa.
Parallelamente, il rapporto tra
Elena e Nino si sgretola progressivamente. Nino,
sempre più ingombrante nella vita di Elena, si dimostra un uomo
egocentrico e inaffidabile, incapace di essere presente nei momenti
cruciali. Quando Elena si reca in ospedale per partorire da sola,
la sua solitudine è straziante: un momento che dovrebbe essere di
gioia si trasforma in una riflessione amara sulla fragilità delle
sue scelte sentimentali. Il giorno seguente, Nino si presenta in
ospedale e proclama un’affermazione che sembra riecheggiare più un
bisogno egoistico che un’autentica dichiarazione d’amore: “Io non
ce la faccio a stare senza di te”. La domanda si insinua: Nino è
davvero l’uomo che Elena merita, o è solo una proiezione del
desiderio di appagare una idealizzazione che nasce dalla prima
giovinezza?
Dopo la nascita della piccola
Immacolata, che Elena sceglie di chiamare così come segno
riconciliatorio verso la madre malata, l’anziana donna e Lila vanno
a far visita alla neo-mamma a Via Petrarca, nella casa con le
finestre sul mare. Ma, quando la signora si sente male e viene
trasportata in ospedale, Lenù dimostra tutta la sua insicurezza nei
confronti del compagno: mentre la madre è in pericolo di vita e lei
è costretta a rimanere a casa con la neonata, Lila e Nino corrono
in ospedale con la signora, ma per Lenù il pensiero fisso è
la loro vicinanza, il loro tornare in contatto, la paura
che tra loro possa nascere di nuovo qualcosa. Questo atteggiamento
ostile e sospettoso non viene replicato da Lila, che di contro
esternando il suo disprezzo per Nino, resta accanto alla madre di
Elena come fosse la sua.
L’episodio de L’Amica
Geniale si chiude lasciando una sensazione di disagio.
Elena, sempre più esasperata, appare fastidiosa, quasi distante
dalla profondità emotiva che la caratterizzava. Un effetto forse
voluto, che sottolinea il suo stato di crisi e un momento in cui si
avvicinano decisioni importanti da prendere.
L’imbroglio
Il sesto episodio,
L’imbroglio, esplora ulteriormente la relazione
tra Lila e Elena, mettendo in luce due concezioni opposte di
maternità e di identità personale. Il parto di Lila, violento,
arrabbiato, quasi contro natura evidenzia quanto le due donne
abbiano un temperamento differente, anche rispetto a questi lati
dell’essere donna: Lenù è sempre accogliente, mentre Lila è
sfidante, costantemente in lotta. La nascita della bambina di Lila
avviene in un clima di tensione e fatica, specchio delle sue
resistenze emotive e fisiche. L’esperienza di Elena, che aveva
partorito in solitudine, è di tutt’altra natura. Due racconti
diversi di maternità, segnati dalle rispettive fragilità e dai
legami che le due donne intrecciano con chi le circonda.
La puntata si concentra su altri tre
avvenimenti molto importanti che vedono come filo conduttore Elena:
il primo è la confessione di Alfonso. L’uomo che sta cercando di
fare i conti con la sua identità di genere si confessa a Lenù
raccontandole in che modo l’aiuto di Lila è stato determinante per
accettarsi, l’amica lo ha incoraggiato a esplorare e deformare la
propria immagine.
Intanto la madre di Elena peggiora
e, nel suo ultimo atto di lucidità, chiede ai figli di fare la cosa
giusta: Peppe e Gianni devono lavorare per Lila e abbandonare le
attività criminali con i Solara, mentre Marcello deve sposare
Elisa. Per quello che riguarda Elena, lei ha sempre fatto le cose a
suo modo, lo farà anche adesso: sul letto di morte, Lenù riceve il
riconoscimento di indipendenza che ha sempre cercato da sua
madre.
Ma la morte di sua madre porta la
donna in un nuovo territorio, in cui si sente ancora una volta
intrappolata tra il peso delle responsabilità familiari e
l’incompiutezza della sua vita. Una situazione di impasse che verrà
sbloccata solo grazie all’intervento di Nino che,
involontariamente, si rivela alla fine per quello che è anche agli
occhi di Elena, che era l’unica a non vedere la sua infima caratura
umana. La scoperta di un suo tradimento – l’ennesimo, scopriremo –
consente a Elena di trovare la forza e la lucidità di allontanarlo
e solo dopo scopre da Lila che l’uomo non aveva mai smesso di
cercare la sua vecchia amante. La scelta degli showrunner di
raccontare in questi termini l’allontanamento di Elena e Nino si
allontana dal racconto originale eppure conferisce alla storia una
forza in più, una chiarezza e una inequivocabili che i libri di
Elena Ferrante non sempre tengono in considerazione.
L’Amica Geniale: un dittico di
eventi e temi
Questo nuovo dittico di
L’Amica Geniale – Storia della Bambina Perduta si
addentra nei momenti più dolorosi e complessi della serie: il senso
di smarrimento, il peso delle scelte sbagliate, la maternità come
croce e delizia, la perdita e il lutto. E sembra che il costante
balletto che l’adattamento fa tra ciò che accade nel romanzo e ciò
che invece viene reinventato e modificato per la serie riesca ad
acquisire autorità e credibilità man mano che gli eventi ci
appaiono chiari e privi delle ombre e dei non detti che Ferrante
adora disseminare.
La frattura e
l’imbroglio non sono solo eventi specifici, ma temi
ricorrenti che definiscono la traiettoria di questa stagione,
conducendo gli spettatori verso un finale che si preannuncia
doloroso e catartico. Il legame tra Lila ed Lenù,
fatto di gelosie, rancori, ma anche di un amore profondo e
indistruttibile, rimane il vero cuore pulsante della storia,
un’amicizia che resiste nonostante tutto e che è destinata ancora
una volta a evolversi.
Hayao Miyazaki in Hayao
Miyazaki e l'airone. Cortesia di Lucky Red.
È il 2013 quando, successivamente
all’uscita in sala Hayao Miyazaki annuncia il suo ritiro dal
mondo dell’animazione e del cinema. È il 2016 quando, nel
documentario Never Ending Man: Hayao Miyazaki viene rivelato che
Miyazaki sta tornando sui suoi passi, mettendosi al lavoro su un
nuovo lungometraggio. È il 2023 quando quel nuovo progetto,
Il ragazzo e l’airone (qui
la recensione) arriva finalmente in sala, rappresentando morte
e rinascita dell’amato maestro dell’animazione (giapponese e non).
Questo lungo e tortuoso viaggio, costellato da lutti, fatica, sogni
e speranze, viene ora svelato in Hayao Miyazaki e l’airone
da Kaku
Arakawa, documentario che ci riporta nuovamente all’interno
dello Studio Ghibli.
Arakawa – già regista di Never Ending Man: Hayao Miyazaki e della miniserie 10
Years with Hayao Miyazaki – realizza sostanzialmente
un’estensione (per non usare il termine sequel) di quel suo
documentario del 2016. Se quel progetto seguiva Miyazaki
dall’annuncio del suo ritiro passando attraverso il rendersi conto
di non saper stare senza matita in mano e fino al suo rimettersi al
lavoro, Hayao Miyazaki e l’airone riparte proprio da lì per
raccontare quel lungo percorso che dal 2016 al 2023 ha portato alla
realizzazione del film che ha incantato il mondo, ottenendo ampi
consensi e facendo guadagnare al suo autore il suo secondo Oscar
per il Miglior film d’animazione.
Ad unire spiritualmente i due
documentari vi sono le continue riflessioni di Miyazaki
sull’avanzare della sua età e sul dubitare delle proprie capacità e
forze per portare a termine questa nuova fatica. Ancor più di
Never Ending Man: Hayao Miyazaki, Hayao Miyazaki e
l’airone è però segnato dai lutti, che diventano tuttavia
spinta propulsiva per portare a termine quella nuova avventura. È
dunque un documentario dal tono malinconico, che ci mostra il lato
umano di una leggenda, dove però la speranza e la voglia di
scherzare trova infine sempre spazio, proprio come nelle opere
realizzate nel corso di oltre quarant’anni da Miyazaki.
Toshio Suzuki e Hayao Miyazaki in Hayao Miyazaki e l’airone.
Cortesia di Lucky Red.
Un regista non si ritira
“Un regista non si ritira”, è
ciò che un profondamente arrabbiato Isao Takahata, maestro,
rivale e amico di Miyazaki, ha detto a quest’ultimo quando annunciò
il suo ritiro. Regista di opere come Una tomba per le lucciole, Pom Poko e La storia della principessa splendente, Takahata – da
Miyazaki affettuosamente chiamato Paku-san – ha sempre avuto
un posto speciale nella vita del collega. Si può dire che è da quel
rimprovero che Miyazaki inizia a comprendere che Takahata ha di
nuovo ragione, che non ci si può ritirare da ciò che si è. E quando
anche la sua storica confidente e color designer Michiyo
Yasuda gli chiede di fare un nuovo film, Miyazaki comprende che
è ora di rimettersi al lavoro.
Inizia così a prendere forma un
nuovo racconto, che è per il regista di La città incantata l’occasione per ripensare a tutta la
sua vita e il suo lascito artistico e umano. Il documentario di
Arakawa inizia dunque a seguire il regista in modo anche
rocambolesco, con riprese quasi rubate di nascosto per cogliere
Miyazaki nell’intimo. Non sembra quindi un caso che il film inizia
proprio con il regista nudo mentre fa una sauna, quasi come a
volerci anticipare che quello che vedremo è un Miyazaki che si
metterà a nudo raccontandoci tutto di sé e del proprio lavoro.
Arakawa lavora però anche su un ritmo sempre piuttosto serrato,
riuscendo a far confluire nelle proprie immagini anche una forte
comicità – dovuta in particolare agli scambi di Miyazaki con il suo
storico produttore Toshio Suzuki – ma anche tutto quel senso
di quiete che lo stile di vita giapponese suggerisce.
Si lavora per accostamenti, tra ciò
che accade nella realtà e diretti corrispettivi nei film animati di
Miyazaki, dimostrando dunque quanto per il regista il confine tra
fantasia e realtà sia esile. Un discorso, questo, che torna più
volte nel corso del film, stupendo lo spettatore che si ritrova
davanti a situazioni, luoghi e persone che hanno direttamente
ispirato precisi elementi delle varie opere realizzate da Miyazaki.
In particolare, però, Hayao Miyazakie l’airone
riesce realmente a trasmettere lo sforzo creativo, la fatica, la
pazienza e le difficoltà che il lavoro su questo nuovo film ha
comportato. Miyazaki, che si concentra prevalentemente sullo
storyboard, torna più volte sui suoi disegni, sui suoi tratti,
facendo perfettamente comprendere quanto minuzioso lavoro c’è
dietro.
Il disegno dell’airone di Hayao Miyazaki. Cortesia di Lucky
Red.
Hayao Miyazaki e l’airone:
creare per restare vivi
Nel mostrarci tutto ciò, Hayao
Miyazaki e l’airone non solo fornisce una vera e propria
spiegazione di determinati elementi del film (come le persone che
hanno ispirato certi personaggi o lo svelamento di certi simboli),
ma porta ovviamente a anche a ripensare a Il
ragazzo e l’airone e a farlo apprezzare ancor di più. Ed è
proprio nel raccontarci la realizzazione del film, attraverso un
lunghissimo conto alla rovescia che porta sino alla sua agognata
uscita nei cinema giapponesi, che il documentario ci comunica un
secondo importante elemento, ovvero il comprendere – di nuovo – da
parte di Miyazaki come sia vero che un regista non si può ritirare,
perché “se non realizziamo qualcosa non abbiamo niente”,
come dirà Miyazaki stesso.
Hayao Miyazaki e l’airone è
dunque anche un’ode all’atto creativo, a quella vocazione che non
si può soffocare e che chiede invece di essere liberata, come
racconta il regista parlando del “coperchio del suo cervello”. Ed è
ancora una volta la vita a guidare la mano dell’artista,
“costretto” a portare avanti il suo lavoro mentre il mondo intorno
a lui perde pezzi. Se Il
ragazzo e l’airone inizia venendo concepito in un modo, la
scomparsa di Michiyo Yasuda e soprattutto quella di Isao
Takahata influenzano profondamente Miyazaki e il suo lavoro. È
proprio nel vedere il regista andare avanti nel suo lavoro
nonostante i lutti che segnano il cammino che si ritrova uno degli
elementi più toccanti del film.
Sono episodi che danno la misura del
tempo, che costringono Miyazaki a riflettere sul senso della vita,
sul tempo che gli resta, chiedendosi sé egli stesso riuscirà a
vedere finito quel suo nuovo lavoro. Il tono del documentario è
dunque spesso funebre, malinconico, ma con la possibilità che una
battuta e una risata si intromettano e riportino un equilibrio al
tutto, proprio come l’equilibrio ricercato dal personaggio del
prozio in Il
ragazzo e l’airone (ispirato proprio a Takahata). È così
che, passo dopo passo, si giunge al completamento del film, al suo
diventare pubblico, al suo trionfo globale. E quando tutto è
finito? La risposta ce la offre sempre Miyazaki: “è proprio
allora che la vita continua ad andare avanti“. Morte e
rinascita, lasciando aperta la porta verso il futuro.
A distanza di anni dalla prima
notizia che il musical di successo sarebbe arrivato al cinema,
finalmente Wicked – Parte
1 è disponibile in sala,
con Universal Pictures Italia, per incantare
sia i fan dello spettacolo di Broadway sia il pubblico generalista,
portato in sala dalla magica (e massiccia) promozione che sta
accompagnando il film. Cynthia
Erivo e Ariana Grande guidano
un progetto ambiziosissimo, come accennato, la prima delle due
parti previste per il maestoso progetto che però è in grado di
reggere benissimo anche da sola. Wicked è un adattamento sontuoso e
sorprendentemente attuale, che offre una nuova prospettiva sulla
dicotomia tra buoni e cattivi, interrogandosi sulle ragioni del
male.
Come mai esiste il male?
La grande domanda esistenziale di Wicked
Come sappiamo
da Il Mago di Oz, la Strega Cattiva
dell’Ovest è la villain della storia, d’altronde il nome è
inequivocabile! Tuttavia, in Wicked cerchiamo di capire cosa l’ha
resa tale, tanto che la domanda che fa detonare la storia è: come
mai esiste il male? È una cosa che nasce con noi o che ci viene
instillata? L’enormità, la complessità della risposta che una tale
domanda richiede ci porta dentro la storia, in cui la cattiveria di
Elphaba (la futura Wicked Witch, appunto) e la bontà di Galinda
(quella che diventerà la Strega Buona del Nord) vengono in qualche
modo ribaltate, diventando caratteristiche sfumate e mutevoli.
Basato sul romanzo
di Gregory Maguire e sull’iconico
musical di Broadway del 2003, il film esplora i temi di
discriminazione, paura dell’altro e manipolazione politica. Questi
motivi, già potenti al debutto teatrale, risultano ancora più
incisivi in un clima politico globale sempre più polarizzato e
incerto.
Wicked è un
trionfo visivo e musicale
Diretto da Jon M.
Chu, già noto per In the
Heights, Wicked è un trionfo visivo e
musicale. Il regista abbraccia un’estetica massimalista che combina
il tecnicolor degli anni ’30 con le moderne tecniche di CGI. Dai
campi di papaveri digitali alla strada di mattoni gialli, ogni
fotogramma è un’esplosione di dettagli e colori che incanta e
sovrasta, oltre a essere una vera e propria coccola per gli
appassionati del mondo di Oz. Questa attenzione al dettaglio si
riflette anche nei costumi di Paul Tazewell e nelle scenografie art
déco della Città di Smeraldo, magnificenza pura. Il risultato è un
film che sembra un’opera d’arte in movimento, progettata per il
grande schermo e destinata a lasciare senza fiato.
Cynthia
Erivo e Ariana Grande sono
mozzafiato
Così come senza fiato
lasciano le performance di Cynthia
Erivo e Ariana Grande. La
prima, nei panni neri e nella pelle verde di Elphaba, è il cuore
del film. Con il suo carattere complesso, Elphaba viene
interpretata con una profondità emotiva straordinaria. Erivo non si
limita a impressionare vocalmente; la sua performance offre
sfumature che invitano lo spettatore a comprendere il dolore e
l’isolamento del personaggio. Laddove Idina
Menzel ha dato un’interpretazione epica e teatrale a
Broadway, Erivo opta per un approccio più intimo e cinematografico,
che si adatta perfettamente al mezzo e entra a fondo dentro la
particolarità di chi a “troppo a cuore” le ferite del mondo che la
circonda. La sua versione di “Defying Gravity“, momento
iconico del musical, è emozionante e visivamente spettacolare.
Ariana
Grande, invece, affronta il compito impegnativo di
reinterpretare Glinda, la Strega Buona. Grande, con il suo look da
bambola di porcellana e una intonazione impeccabile, incarna
l’apparente perfezione del personaggio. Si cimenta con coraggio in
una performance comica che però non regge il confronto con quella
che Kristin Chenoweth ha reso celebre a
Broadway. La sua Glinda è rigida, il che potrebbe anche essere una
scelta consapevole per enfatizzare l’ipocrisia e l’egocentrismo del
personaggio, in attesa di una trasformazione redentrice.
Il cast di supporto regge il
confronto
Anche i comprimari fanno
grande sfoggio di sé. Michelle
Yeoh è una presenza magnetica come Madame
Morrible, mentre Jeff
Goldblum, nei panni del Mago di Oz, porta il
giusto equilibrio tra fascino e inquietudine. Jonathan
Bailey si distingue come Fiyero, un personaggio
che promette molte più sfaccettature di quante questa prima parte
abbia mostrato.
Dal punto di vista
musicale, Wicked rimane fedele al
materiale originale, pur con degli aggiustamenti che il cambio di
linguaggio richiedeva: la sequenze di “Dancing Through
Life” e “Popular” in particolare, sono state
arricchite con coreografie spettacolari e una regia lucida e
ordinata, che non rinuncia a evoluzioni ardite e che riesce a
sfruttare a pieno la dinamicità del cinema, rispetto alla staticità
del teatro.
Alcuni
punti in sospeso
Considerato che la durata
di questa prima parte coincide con la durata del musical, e
soprattutto visto che il film si interrompe su un arco narrativo
principale apparentemente chiuso, sarà interessante capire in che
modo la seconda parte affronterà quel che rimane della storia e
soprattutto in che modo farà luce su alcuni dettagli che sono
rimasti volutamente in ombra, come l’origine della pelle verde di
Elphaba oppure la sua vulnerabilità all’acqua. Ci aspettiamo anche
che il discorso politico del film venga portato avanti e
approfondito: già in questa prima parte, la persecuzione degli
animali parlanti sembra un’allegoria, neanche troppo velata, della
discriminazione razziale e della xenofobia. Ma forse il discorso
potrebbe assumere dei contorni più definiti.
Wicked è un’esperienza cinematografica
gloriosa ed emozionante, che non solo rende giustizia al musical
originale, ma lo espande, rendendolo accessibile a una nuova
generazione di spettatori. Con performance memorabili, una colonna
sonora senza tempo e una produzione visivamente sbalorditiva, il
film di Jon M. Chu si conferma uno dei musical
imperdibili degli ultimi anni.
È arrivato il primo trailer di
The
Pitt, che anticipa la prossima serie medica di Max con
protagonista un ex star di ER. Prodotto da John Wells, che ha
ricoperto lo stesso ruolo in ER, The
Pitt racconta la vita di vari professionisti del settore
medico in un ospedale di Pittsburgh, alle prese con i propri
problemi personali e le esigenze estreme del loro lavoro. L’ex
membro del cast di ER Noah Wyle recita nella serie nel ruolo
del dottor Michael Robinavitch, dopo aver interpretato il dottor
John Carter nella serie medica della NBC per diverse stagioni.
Max
ha pubblicato il primo teaser trailer di The Pitt, che
anticipa una prima stagione intensa per la serie in arrivo. Il
trailer rivela che la prima stagione sarà composta da 15 episodi,
ciascuno dei quali rappresenterà un’ora della vita dei personaggi
della serie. La serie nel suo complesso sembrerà svolgersi
durante un intenso turno al pronto soccorso di un ospedale. Il
trailer conferma anche che The Pitt debutterà nel gennaio
2025. Guardalo qui sotto. Oltre a Wyle, il cast di The Pitt
include anche Fiona Dourif, Gerran Howell, Katherine LaNasa, Isa
Briones, Tracy Ifeachor, Taylor Dearden e Shabana Azeez.
Cosa rivela il trailer di The
Pitt sulla serie
Come sarà rispetto a
ER?
Uno dei temi principali del trailer
di The Pitt è l’idea che lavorare al pronto soccorso di
un ospedale abbia conseguenze emotive, psicologiche e fisiche.
Il personaggio interpretato da Wyle menziona alcune di queste
conseguenze, tra cui “ulcere,tendenze suicide e
incubi”. The Pitt, quindi, non parlerà solo di medici
che curano i pazienti, ma anche dell’enorme impatto che il lavoro
di un medico del pronto soccorso può avere sulla vita di una
persona.
Questo, ovviamente, non è un tema
nuovo per le serie mediche, ed è qualcosa che anche le 15 stagioni
di ER hanno affrontato dal 1994 al 2009. Tuttavia, The
Pitt sembrerà differenziarsi nella rappresentazione della vita
in pronto soccorso. A differenza di ER, che è andato in onda
sulla NBC ed era limitato in termini di argomenti che poteva
mostrare sullo schermo, The Pitt, essendo un programma
originale Max, non avrà le stesse limitazioni. Il pubblico
dovrebbe aspettarsi ferite più crude, linguaggio volgare e una
rappresentazione generalmente più realistica e straziante di
ciò che è realmente la vita di un medico di pronto soccorso.
Disponibile su Netflix dal 20
novembre, Adorazione si presenta come un viaggio a
capofitto nel mondo degli adolescenti, immersi in una provincia
carica di segreti e contraddizioni, come tutte le province del
mondo. Tratta dall’omonimo romanzo di Alice Urciuolo e diretta da Stefano
Mordini, la serie, presentata in anteprima ad
Alice nella Città durante la Festa del Cinema di
Roma, è caratterizzata dal cast corale, volti per lo più
sconosciuti, con tante promesse negli occhi. La storia è un
intreccio di thriller, dramma e coming of age tra difficoltà, sogni
infranti e un mistero, che poi diventa tragedia, a far detonare la
storia.
Adorazione, un viaggio iniziatico
in un’estate di fini e inizi
L’ambientazione estiva nella
tranquilla Sabaudia, con il litorale pontino che
si risveglia per la stagione balneare, fa da sfondo
all’esplorazione della gioventù, promettendo un racconto ben
diverso da quello che ci si aspetta. Conosciamo subito Elena e
Vanessa, due amiche molto diverse ma legatissime da quell’amore
totalizzante che solo l’adolescenza conosce. Elena, ribelle e
inquieta, vive un senso di soffocamento che la spinge a sognare una
fuga verso Roma. Vanessa, invece, è l’opposto: popolare, sicura di
sé, con una vita apparentemente perfetta. La loro amicizia è il
primo tassello di una trama che si complica rapidamente con la
scomparsa improvvisa di Elena, un evento che scuote la comunità e
porta a galla segreti nascosti.
La narrazione si trasforma
rapidamente in un racconto corale che esplora le vite intrecciate
di un gruppo di adolescenti e delle loro famiglie, tutte, in un
modo o nell’altro, intaccate da Elena e dalla sua vivace diversità.
Vera e Giorgio, i cugini di Elena con una situazione familiare
difficile, ma anche Gianmarco e Enrico, fidanzati delle due
protagoniste, si trovano anch’essi coinvolti in una spirale di
bugie e verità nascoste che contribuisce a costruire un mosaico
complesso e stratificato. Ogni personaggio, infatti, nasconde un
pezzetto di un puzzle molto grande, una piccola parte di un’ampia
storia che non riguarda solo la scomparsa della ragazza, ma anche
il percorso di crescita, identità e conflitti di tutti i
protagonisti. Da questo punto di vista, con esiti ovviamente molto
diversi e molto meno alti, Adorazione ricorda Twin Peaks, nella
misura in cui racconta la reazione di una comunità alla scomparsa
di una ragazza, il dolore che quella scomparsa provoca, i segreti
che hanno portato a quella triste vicenda, le conseguenze su chi la
conosceva e anche su chi non aveva idea di chi fosse.
Senza riuscire a aggirare alcune
ingenuità e cliché, Adorazione trova un buon equilibrio tra il
racconto di formazione e il mistero da risolvere, un racconto ricco
di voci. Trai volti più noti che compongono il nutrito cast
annoveriamo Noemi (cantante al debutto come
attrice), Ilenia Pastorelli, Barbara
Chichiarelli (che vedremo presto in M) e Claudia
Potenzasi. Tuttavia, sono i ragazzi a reggere il cuore
emotivo della storia: Alice Lupparelli (Elena),
Beatrice Puccilli (Vera), Giulio
Brizzi (Giorgio) e gli altri giovani talenti trasmettono
con autenticità la confusione, la sofferenza e la ricerca di un
senso che caratterizzano l’adolescenza, pur rimanendo in difficoltà
nelle situazioni in cui i sentimenti da passare diventano intimi e
profondi.
Come una mappatura precisa di tutti
quelli che possono essere i problemi, le paranoie e le difficoltà
dell’adolescenza, Adorazione tocca quasi ogni
possibile sfumatura del disagio giovanile, da quello “classico”
legato all’amore e all’amicizia, all’accettazione del proprio corpo
e ai rapporti conflittuali con i genitori, a quello deviato e
pericoloso, come la violenza di genere, la droga, il bullismo.
I coetanei sono allo stesso tempo il
principale scoglio contro cui sbattere ma anche fonte inesauribile
di supporto e sostegno, nei modi maldestri che ognuno impara,
sbagliando. I genitori invece sembrano tutti inadatti, non
all’altezza della situazione, incapaci di inquadrare e capire i
propri figli, anche loro presi dalle miserie quotidiane e ignari
della vera natura delle cose.
CAMILLA CATTABRIGA/NETFLIX
Copyright
2024 Netflix
Un mistero diluito nella
quotidianità
L’aspetto più interessante di
Adorazione è quello che immerge il mistero della
scomparsa di Elena nella quotidianità, un susseguirsi lento e
banale di giorni tutti uguali, uno scenario apatico che non offre
certo il massimo ai giovani protagonisti e che fa da sfondo
indifferente alle vicende che scivolano lungo un’estate che nessuno
dei protagonisti dimenticherà mai. Proprio questa mescolanza tra
thriller e vita di ogni giorno permette alle indagini per la
scomparsa di Elena di portare alla luce non solo pezzetti di storia
nascosta, ma anche i segreti dei giovani protagonisti e delle loro
vite diversamente complicate. Ogni personaggio, ha qualcosa da
nascondere, un segreto che contribuisce a costruire un mosaico
sempre più complesso.
Una regia solida e cupa setta un
tono molto serio per Adorazione
La regia di Stefano
Mordini crea un’atmosfera cupa e pesante, nonostante gli
scenari prevalentemente soleggiati e ariosi del litorale pontino,
l’effetto restituito è quello di una provincia asfissiante, un
luogo tanto familiare quanto opprimente. Con Fabri
Fibra alla supervisione della colonna sonora,
Adorazione svela la sua costruzione attenta e
stratificata, anche se non sempre felice. Il risultato è quello di
una semplificazione eccessiva di alcune dinamiche personali e
relazionali, che si svelano quando i dialoghi si mostrano artefatti
e la recitazione dei protagonisti non ancora sufficientemente
matura. Sebbene l’ambizione di Adorazione sia
quella di andare oltre il semplice intrattenimento, la serie
Netflix
si perde nei dettagli degli archi narrativi secondari, nei cliché e
nelle ingenuità di chi per raccontare troppo, perde la
concentrazione su ciò che è importante.
Prodotto
da Jennifer
Lawrence, che sfrutta la sua posizione di primo piano
a Hollywood per dare voce a chi non ce l’ha, il
documentario Bread and Roses della
regista afghana Sahra Mani, è un grido di protesta che mette in
luce le devastanti conseguenze del ritorno al potere dei talebani
in Afghanistan nel 2021. Attraverso le storie intime
di tre
donne, Zahra, Taranom e Sharifa, Mani
offre un ritratto ravvicinato di una resistenza viva che si
aggrappa con coraggio alla speranza e alla forza della
condivisione, nonostante le oppressive restrizioni che hanno
trasformato le loro vite in una prigione a cielo aperto.
Bread and Roses ci
porta nel cuore dell’esperienza quotidiana
Dalla scena di
apertura, Bread and Roses si distingue
per la sua scelta stilistica di abbandonare qualsiasi voce narrante
o intermediario che guidi lo spettatore. Questa decisione
conferisce al documentario un’immediatezza cruda e autentica
attraverso la quale Mani ci invita a entrare direttamente nella
quotidianità delle protagoniste, affidandosi principalmente alla
forza delle immagini e delle loro esperienze. È un approccio che
richiede attenzione e rispetto da parte del pubblico, e aggira con
agilità l’effetto didascalico di molte opere a tema sociale. La
vicinanza ai soggetti non sacrifica mai la chiarezza: il contesto
politico e storico emerge con forza dalla narrazione stessa, senza
bisogno di espedienti invadenti.
Zahra, Taranom e
Sharifa: donne di resistenza
Il cuore pulsante del
documentario sono le donne che Mani sceglie di seguire. Zahra,
Taranom e Sharifa non sono figure passive né vittime rassegnate,
come le vorrebbe il regime afghano. Il film evidenzia la loro
determinazione a sfidare uno status quo che nega loro dignità e
diritti fondamentali, sono donne che rischiano la vita
semplicemente per protestare, per cercare di rivendicare ciò che è
stato loro strappato. Il punto di maggiore forza del documentario è
proprio quello di riuscire a bilanciare la denuncia delle
violazioni dei diritti umani e la celebrazione della resilienza e
del coraggio delle donne
afghane, che attraverso Bread
andRoses dimostrano di avere
una voce.
L’intuizione che premia
il film è quella di mostrare quanto in fretta sia stata trasformata
la vita delle protagoniste: la chiusura delle scuole, il divieto di
lavorare, l’imposizione di un regime di segregazione che le
costringe agli arresti domiciliari. Ogni aspetto della vita è stato
ridotto a un binario rigido e soffocante in cui le donne possono
assumere soltanto i ruoli di madri rispettose o vergini educate,
altrimenti sono considerate “cattive” e private di qualsiasi
diritto. Un dualismo cieco che riduce le donne a strumenti di un
ordine patriarcale spietato.
Ribellione e
solidarietà
Mani non si limita a
documentare l’oppressione. L’energia del film deriva anche dalla
capacità di mettere in evidenza i momenti di resistenza, i gesti di
ribellione e solidarietà che le donne afghane continuano a
compiere, nonostante il pericolo costante. Questo non solo serve a
veicolare la speranza tra chi deve affrontare il regima, ma evita
che il film diventi un racconto in cui la tragicità della
situazione raccontata prenda il sopravvento restituendo un quadro
di sola disperazione. L’umanità e la forza delle protagoniste
emergono in ogni fotogramma, rendendo evidente quanto sia ingiusto
e inaccettabile il silenzio della comunità internazionale.
Bread and
Roses invita anche a riflettere su un diffuso
malinteso sulla condizione delle donne in Afghanistan, dal momento
che riferisce con chiarezza che i diritti delle donne afghane non
sono un miraggio mai raggiunto: nel 1919, ottennero il diritto di
voto prima ancora delle donne italiane. Le protagoniste del film
non lottano per ottenere ciò che non hanno mai avuto, ma per
riconquistare una libertà che era stata loro garantita. Questo
dettaglio storico rende ancora più evidente la regressione imposta
dai talebani.
Con una regia sobria e
rispettosa, Sahra Mani ci ricorda che ignorare ciò che accade in
Afghanistan equivale a condannare metà della sua popolazione
all’oppressione e al silenzio. Bread and
Roses è un documentario arrabbiato, che non si fa
accecare da quella rabbia e anzi, è commovente e pieno di dignità,
invita a non voltare lo sguardo e a riconoscere la forza delle
donne che continuano a lottare per la loro libertà.
Ci sono storie che non le puoi
semplicemente mettere da parte. Storie che sembrano vivere di vita
propria, con la capacità e la consapevolezza di attendere il
momento giusto per venire allo scoperto. Storie che anzi ottengono
da questa attesa un’accresciuto valore, complice quella certa
distanza temporale che permette di osservare le cose da nuove e più
attente prospettive. È proprio quello che è accaduto
con Napoli – New York, il nuovo film del
regista premio Oscar Gabriele
Salvatores (Mediterraneo, Il
ritorno di Casanova), nato però dalla mente e dalle mani
di Federico
Fellini e Tullio Pinelli.
Un soggetto scritto sul finire
degli anni Quaranta e rimasto nel cassetto per decenni, finalmente
riscoperto e infine divenuto film, con il quale Salvatores ha
potuto tornare a raccontare temi a lui cari come il viaggio,
l’altrove, la solidarietà. Il regista – come
da lui dichiarato – ha lasciato pressocché intatta la
prima parte del film, rielaborando però quella ambientata negli
Stati Uniti affinché si avvalesse di uno sguardo meno idealizzato
di quello che si poteva avere quando fu scritto il soggetto. In
generale, però, Salvatores ha reso Napoli – New
York una favola, nella quale come in tutte le favole
si ritrova tanta realtà.
La trama di Napoli –
New York: un popolo di migranti
Nell’immediato dopoguerra, tra le
macerie di una Napoli piegata dalla miseria, i
piccoli Carmine (Antonio
Guerra)
e Celestina (Dea
Lanzaro) tentano di sopravvivere come possono, aiutandosi
a vicenda. Una notte, s’imbarcano però come clandestini su una nave
diretta a New York per andare a vivere con la sorella di Celestina
emigrata anni prima. I due bambini si uniscono ai tanti emigranti
italiani in cerca di fortuna in America e, con l’aiuto di Domenico
Garofalo (Pierfrancesco
Favino), sbarcano in una metropoli sconosciuta, che
dopo numerose peripezie, impareranno a chiamare casa.
Napoli ferita ma sempre viva
Tutto parte dunque
da Napoli, città ferita dal passaggio della
guerra ma sempre colorata, profumata, calorosa in tutta la sua
incontenibile vitalità. Una città che ci presenta la definizione
perfetta di quell’arte di arrangiarsi che tanto ci è propria, con
la sua popolazione sempre pronta a rimboccarsi le maniche e vivere
come meglio può alla giornata, senza chinare il capo dinanzi ai
traumi della guerra. Una Napoli che con questa veste è stata
raccontata innumerevoli volte, dal capolavoro del
neorealismo Paisà (sceneggiato anche da Fellini
e platealmente citato in Napoli – New York)
fino al recente Hey
Joe (al cinema dal 28 novembre).
Salvatores omaggia dunque la città
in cui è nato raccontandola e mostrandocela con quante più
sfumature possibili, scegliendo quegli ambienti e quei volti che ne
esaltano il bello e il brutto, il sacro e il profano. Una
rappresentazione che risulta ancor più realistica proprio in quanto
ideata negli stessi anni in cui il film è ambientato, potendo
dunque contare su una vicinanza storica che ha permesso di essere
fedeli a quanto realmente avveniva tra i vicoli, il porto o gli
ambienti più altolocati della città. Il risultato è come sempre
suggestivo, coinvolgente, con un che di ammaliante per quel certo
qualcosa che ci è come famigliare.
New York terra delle promesse
Ben altro discorso si ha invece
per New York, città che Fellini e Pinelli
poterono solo immaginare secondo i racconti idealizzati dell’epoca,
ma che Salvatores restituisce con un fare favolistico ma
decisamente più disincantato. Cambia infatti il linguaggio del film
e dall’animo caloroso di Napoli si passa a quello più composto e
squadrato di New York, mostrata con colori e ambienti
apparentemente da sogno ma dietro i quali si nascondono numerose
menzogne, come racconterà poi il sogno americano infranto della
sorella di Celestina.
Un’ode alla solidarietà
italiana
Nel mezzo, tra Napoli e New York,
c’è il lungo viaggio in nave. Un viaggio che ricopre un significato
importantissimo all’interno del film, in quanto porta al
manifestarsi di tutti quei valori e temi che a Salvatores sta a
cuore trattare. Emerge in particolar modo la solidarietà italiana,
che porta ad aiutarsi, difendersi e proteggersi senza badare alle
possibili “differenze”. Un valore che Salvatores sembra volerci
anche ricordare, dato il suo essersi indebolito in questi ultimi
difficili tempi. Come ci ricorda anche che migranti lo siamo stati
e lo siamo tutt’ora, in un periodo in cui anche questo dettaglio
del nostro passato sembra essere stato dimenticato.
Napoli – New
York vuole dunque essere sì una favola, proponendoci
un racconto appassionante e impreziosito dalle interpretazioni
degli attori protagonisti, ma nel guidarci attraverso tutto ciò –
tra risate, paure e momenti di grande emozione – ribadisce dunque
la forza del popolo italiano davanti alle avversità, purché sappia
far fronte comune come gli si vede fare nella Little Italy presente
a New York. Una terra lontana eppure uguale a quella Napoli/Italia
lasciatasi alle spalle, dove ritrovare tutto il calore e l’affetto,
sapendo di poter sempre contare sulla mano di qualcuno che ci
salva.
Nel 2008, all’interno delle
Giornate degli Autori della 65esima edizione della Mostra
del Cinema di Venezia, Sylvie
Verheyde aveva presentato Stella, film
di stampo autobiografico che ripercorreva l’infanzia della regista.
Nel 2022, con Stella è innamorata,
Verheyde torna sui passi della bambina che
fu,ora diventata adolescente. Siamo
ancora a Parigi, nel pieno degli anni ’80. Stella ha 17 anni, ha
fame di vita e vuole scoprire chi è davvero e cosa ne sarà del suo
futuro. Come ogni giovane a quell’età comincia a sentire il sangue
che le ribolle nelle vene a causa di un ragazzo, a sperimentare il
desiderio sessuale e a gestire i suoi ormoni ballerini.
È il tempo della spensieratezza,
che si alterna alle crisi esistenziali giovanili, dettate dalla
poca consapevolezza di quel che si vuole fare da
adulti. Stella è innamorata ha debuttato
al Locarno Film Festival del 2023, ed è in
concorso nella selezione ufficiale dell’edizione 2025 del
Prix Palatine (il premio giovani del cinema europeo
in collaborazione con Unifrance). Nei panni della protagonista
l’ottima Flavie Delangle. La pellicola arriva al cinema il
21 novembre distribuita da No.Mad Entertainment.
La trama di Stella è
innamorata
1985. Siamo in Italia, a Napoli.
Stella scende da una vespa rossa e dà un bacio al ragazzo che le ha
fatto compagnia per tutto il tempo trascorso lì, dove era andata a
passare le vacanze estive con le amiche. È tempo ora di tornare a
casa, a Parigi, e affrontare il temibile anno della maturità. A
Stella però sembra non importare molto dell’ultimo anno di liceo,
nonostante sia conscia del fatto che i risultati che raggiungerà
decreteranno il suo futuro. Nel bar dei genitori, poi, dove oramai
lavora solo la madre lasciata dal padre, non ne vuole proprio
sapere di stare. Una sera decide di accompagnare una compagna di
classe in discoteca, al Les Bains-Douches, dove scopre la passione
per il ballo e il ritmo e un ragazzo, André, di cui si innamora. Da
qui cerca di rimettere in prospettiva tutta la sua vita, alla
ricerca del suo posto nel mondo, che spera di trovare prima della
fine della scuola.
Un sofisticato racconto di
formazione
L’adolescenza è il momento più
delicato della propria vita. Sono gli anni dell’indecisione, delle
insicurezze più radicate, dei dubbi e della fame di libertà.
Talmente forte da offuscare il resto. È il periodo in cui i colori
sono più vividi che mai, rappresentativi di un momento di
transizione fatto di esplosione e curiosità. Difficile trattenersi
quando si incrocia lo sguardo di qualcuno che ci piace, e
all’improvviso ci si ritrova fra i banchi di scuola a sognare a
occhi aperti ripensando al primo incontro. Lo stomaco si controce,
le farfalle svolazzano, il desiderio di sapere cosa succede una
volta scivolati via i vestiti dal corpo cresce a dismisura. C’è poi
l’esigenza di capire cosa ne sarà di sé una volta chiuse le porte
della scuola, quando l’ingresso nel mondo degli adulti e delle
responsabilità arriva e si è chiamati a compiere delle scelte.
Crescere vuol dire anche chiarirsi
le idee, fare i conti con se stessi non prima, però, di essersi
lasciati guidare dalle proprie sensazioni. Ed è quello che accade a
Stella: da un lato costretta a
diplomarsi per non rimanere indietro mentre le sue
amiche vanno avanti, dall’altro bisognosa di seguire
quell’istinto che la porta a comunicare con il corpo. E
così arriva la discoteca, l’impellente esigenza di ballare,
ondeggiare con il bacino, assorbire la musica fin dentro le ossa.
Un destino che sa appartenerle, nonostante i diversi ostacoli che
incontra lungo il cammino, e che dipendono anche dal confronto con
le sue compagne di viaggio, ben lontane da lei sia nel pensiero che
nelle intenzioni future.
Vivere ascoltando se stessi
La scelta dei primi piani
di Sylvie Verheyde sulla sua attrice protagonista è funzionale e
necessaria per cogliere le trasformazioni del corpo e della mente
che passano prima dal suo viso. Dalle labbra che si
inarcano in un sorriso a mezzalunga, dagli occhi pieni di amore e
bramosia, dalla fronte corruciata e dalle guance che accolgono
lacrime amare. Il campo si restringe spesso su lei e sul sul
microcosmo, per cogliere gli attimi catartici di Stella e
quell’epifania avuta la prima sera alla discoteca Les
Bains-Douches. Attraverso questa ponderata scelta registica il
pubblico è ancor più a contatto con lei, vivendo in prima persona
l’atmosfera trasognata tipica dell’adolescenza. La regista
accarezza con tenerezza la sua Stella, la insegue e la analizza
amorevolmente, lasciando solo intuire quel che le accade nel
privato, senza mai essere troppo esplicita.
Un racconto elegante ma al tempo
stesso frenetico, accentuato da una fotografia dai colori saturi,
che si legano alla forza dominante di quegli anni belli quanto
complessi. Flavie Delangle recita con talmente tanta
naturalezza da avere a volte l’impressione che non lo
stia facendo affatto, rendendola una bella promessa per il cinema
francese. L’unica pecca è il doppiaggio italiano, attraverso cui si
perde un po’ di quella autenticità che caratterizza Stella
è innamorata, soprattutto perché Stella, con la voce fuori
campo, ci accompagna in tutto il suo viaggio. La sua voce, come
quella dei suoi comprimari, è stata affidata a una professionista
itaiana che non le rende giustizia come dovrebbe, e questo è un
vero peccato ai fini della completa riuscita dell’opera. Avrebbero
dovuto fare come accaduto con Chien
de la casse: proporre la visione con la versione
originale, sottotitolata.
Dune:Prophecy introduce
il pubblico in una complessa rete di intrighi politici e, solo dal
primo episodio, c’è già una tonnellata di materiale da
analizzare. Dune:Prophecy è
guidata da Emily Watson e Olivia Williams,
che interpretano le sorelle Valya e Tula Harkonnen. La serie
prequel della HBO è ambientata 10.000
anni prima degli eventi legati ai film di Dune di Paul
Atreides e Denis Villeneuve, e analizza l’ascesa delle Bene
Gesserit e l’influenza dell’ordine nell’Universo conosciuto.
Il primo episodio vede Valya Harkonnen ottenere il controllo della
Sorellanza per portare a termine gli obiettivi della prima Madre
Superiora, usando la Voce per costringere Dorotea a uccidersi. Nel
corso dell’episodio, il pubblico viene introdotto a un complotto
politico che riguarda la Casa Corrino e l’Imperatore
(Mark
Strong).
Per rafforzare la sua posizione militare, egli accetta un’alleanza
matrimoniale con la Casa Richese. Tuttavia,
alla fine
dell’episodio Desmond Hart (Travis
Fimmel) uccide
il giovane erede dei Richese,
impedendo il previsto matrimonio.
Perché e come Desmond Hart ha
ucciso Pruwet Richese nel finale dell’episodio 1
L’episodio 1 di Dune: Prophecy introduce Desmond
Hart, un personaggio originale della serie. È un soldato
sopravvissuto ai recenti attacchi dei Fremen su Arrakis, anche se
arriva su Selusa Secundus sostenendo che non sono stati i Fremen ad
attaccare le sue forze, ma piuttosto gli alleati dell’Imperium. Non
viene rivelato molto in questa scena iniziale, ma Desmond scambia
un’occhiata di sfida con Kasha, il Verificatore dell’Imperatore,
lasciando intendere i suoi piani. Nel finale
dell’episodio, Desmond Hart cerca di conquistare la
fiducia dell’Imperatore Corrino, suggerendo che la Casa Richese è
uno dei tanti nemici che lo stanno prendendo di mira.
Afferma inoltre che gli è
stato “ conferito un grande potere ”, che sembra
usare per uccidere Pruwet, facendo bruciare la pelle del ragazzo
senza toccarlo.
L’Imperatore suggerisce che vorrebbe
essere liberato dal matrimonio, cosa che Desmond prende sul serio.
Trova il giovane Pruwet Richese, che dice di essere stato svegliato
da un brutto sogno. Desmond dice a Pruwet che è in
corso una guerra da parte di un nemico che si è reso
indispensabile, riferendosi alla Sorellanza. Afferma
inoltre che gli è stato “conferito un grande potere”, che
sembra usare per uccidere Pruwet, facendo bruciare la pelle del
ragazzo senza toccarlo. La natura esatta del suo potere non è
ancora chiara, ma il piano di Desmond è quello di ostacolare gli
sforzi della Sorellanza.
Cosa è successo al verme della
sabbia che l’imperatore Corrino ha visto su Arrakis
L’Imperatore Corrino, come Pruwet
Richese, viene svegliato da un brutto sogno nel cuore della notte.
Si reca quindi in una stanza dove è stato lasciato un chip con un
filmato olografico, presumibilmente da Desmond. L’Imperatore
Corrino assiste alla scena precedentemente descritta da Desmond in
cui, per qualche miracoloso motivo, Desmond Hart è
l’unico sopravvissuto a un attacco e viene schiacciato da un
gigantesco verme sandwich. In qualche modo, Desmond è
sopravvissuto a tutto questo ed è riemerso con un potere e un senso
di scopo ritrovati.
La scena mostrata è molto simile
alla visione della Madre Superiora all’inizio dell’episodio, che
vedeva un gigantesco verme sandwich schiacciare un edificio su
Arrakis prima di mostrare pelle bruciata e sangue. Desmond Hart
sembra essere direttamente legato alla sua visione come
rappresentante della minaccia esistenziale da cui la Madre
Superiora aveva messo in guardia Valya.
Il piano di Valya per la
Sorellanza spiegato
Valya Harkonnen è stata spinta dal trattamento riservato alla
Casa Harkonnen dopo la Jihad Butleriana, in cui la Casa Harkonnen è
stata definita codarda e traditrice. Pertanto, si unì alla
Sorellanza e divenne fedele alla prima Madre Superiora. La Madre
Superiora sognava in punto di morte la fine del mondo,
“Tiran-Arafel”, per mano di un tiranno corrotto. Credeva
che, per evitarla, la Sorellanza avrebbe dovuto allevare
geneticamente i leader ideali e insediare una Sorella sul trono
dell’Imperium. Valya Harkonnen è intenzionata a portare a termine
questa missione a qualsiasi costo.
Valya sembra credere che Ynez possa essere la Sorella
leader in grado di impedire Tiran-Arafel.
La Principessa Ynez si reca a Wallach IX e si allena con la
Sorellanza. Valya e Tula stanno selezionando una delle loro
studentesse per guidare Ynez al suo arrivo. Poiché l’Imperatore non
ha figli veri, il figlio di Ynez sarà l’erede al trono, quindi la
Sorellanza ha intenzione di coinvolgere Ynez nel proprio controllo
attraverso la Sorella che sceglierà per guidarla. Valya sembra
credere che Ynez possa essere la Sorella governante che può
impedire Tiran-Arafel.
Spiegazione della visione della reverenda madre
Kasha
Kasha profetizza l’insuccesso del piano di Valya
Va detto innanzitutto che Kasha era una delle ragazze che hanno
complottato con Valya Harkonnen nei flashback, quindi è una Sorella
che è a conoscenza del piano di Valya ed è stata messa al fianco
dell’Imperatore per diffondere l’influenza della Sorellanza. Dopo
l’incontro con Desmond Hart, ha una visione che ha caratteristiche
simili a quella della Madre Superiora morente all’inizio
dell’episodio: sangue e vermi. Nel suo caso, vede la
Principessa Ynez, che sta per sposarsi, apparentemente in fin di
vita e che accusa Kasha di essere coinvolta nel suo
pericolo.
Kasha si reca quindi a Wallach IX per incontrare Valya e Tula
Harkonnen, suggerendo che la principessa Ynez potrebbe
non essere il candidato ideale che stanno cercando.
Avverte Valya che l’insediamento di Ynez sul trono come Sorella
potrebbe causare la devastazione che spera di evitare. Valya,
ritenendo che la precedente Madre Superiora l’abbia scelta per uno
scopo specifico, è ferma sulle sue posizioni e intende che il
matrimonio proceda come previsto. In seguito, Valya suggerisce di
allontanare Kasha dall’Imperatore, poiché non crede più che i loro
ideali siano allineati.
Cosa significa la battuta di Valya Harkonnen “Vedo,
madre”
Valya non torna indietro dal suo piano
Uno dei momenti finali
di Dune:Prophecy vede
Kasha bruciare nello stesso modo di Pruwet Richese, causandone la
morte. Questo ricorda a Valya il messaggio della Madre
Superiora, in cui diceva che sarebbe stata lei a vedere
“la bruciante
verità” e a sapere cosa farne.
La scena probabilmente ribadisce a Valya che è sulla buona strada e
che deve continuare a guidare la Sorellanza fino agli estremi che
si è prefissata. La morte di Kasha non è chiara, ma sembra essere
collegata all’uccisione di Pruwet Richese da parte di Desmond
Hart.
Perché le macchine pensanti sono vietate nell’universo di
Dune
Le macchine pensanti sono una forma di intelligenza artificiale
presente nell’universo di Dune, che aveva un
ruolo importante prima
di Dune:Prophecy. A un certo punto,
l’umanità è diventata dipendente dalle Macchine Pensanti, che hanno
iniziato a diventare troppo potenti. Gli umani furono costretti a
entrare in guerra con loro in un evento chiamato Jihad Butleriana,
i cui effetti si protrassero per migliaia di anni. Le macchine
pensanti vennero bandite e, al punto
diDune,
“Non costruire una macchina a somiglianza di
una mente umana” è un comandamento ben
noto.
Perché Casa Corrino è costretta a un’alleanza
matrimoniale
Il pubblico viene introdotto all’Imperatore Corrino mentre media
un’alleanza con la Casa Richese, che gli promette navi da guerra in
cambio di un matrimonio tra il novenne Pruwet Richese e la
Principessa Ynez. L’imperatore Corrino ha ereditato l’Imperium dopo
una serie di imperatori in guerra e non è certo il leader più forte
e aggressivo. Governa in un periodo di fragile pace, con il
matrimonio con sua moglie, l’imperatrice Natalya, che ha unito
l’Imperium in quello che è all’inizio della serie.
Il Duca Richese offre alla Casa Corrino una flotta di navi da
guerra per aiutare la raccolta di spezie su Arrakis. Come nei film,
Arrakis è il pianeta più importante dell’universo grazie alla
sostanza ultrapotente che vi si può raccogliere. Inoltre, come nei
film, l’Imperium ha problemi con la produzione di
spezia a causa dell’interferenza dei Fremen. Questo porta
l’Imperatore Javicco Corrino a stringere un accordo poco dignitoso
con la Casa Richese
in Dune:Prophecy,
poiché ha un disperato bisogno del loro supporto militare.
La prossima serie
HBO/Max Dune:Prophecy sarà
un prequel e uno spin-off del celebre Dune:
Parte Uno e Dune:Parte
Due (2024) di Denis Villeneuve. Dopo il successo
di critica e di botteghino
di Dune:Parte Due, che è ancora il
secondo film di maggior incasso del 2024 al momento in cui
scriviamo, HBO/Max farà debuttare la sua prima serie
originale di Dune a novembre. La serie,
composta da sei episodi, approfondirà le origini della Bene
Gesserit, guidata da Valya Harkonnen di Emily Watson, Tula
Harkonnen di Olivia Williams e dall’imperatore Javicco Corrino
di Mark Strong.
La serie, originariamente intitolata
“Dune: Sisterhood”, è basata sul romanzo di Brian Herbert e Kevin
J. Anderson ‘Sisterhood of Dune’, pubblicato nel 2012. Sia Anderson
che Brian Herbert, il figlio
dell’autoreoriginaledi
DuneFrank Herbert, sono stati
nominati produttori esecutivi
di Dune:Prophecy, il che indica che la
storia seguirà da vicino la trama di “Sisterhood of Dune”, che
cronologicamente è il quarto libro dell’intera serie
di Dune. Il cast
di Dune:Prophecy sarà
caratterizzato da una serie di personaggi di
Dune completamente nuovi, guidati da Emily
Watson, Travis
Fimmel, Camilla Beeput, Sarah Lam, Mark Strong, Olivia
Williams, Jodhi May e altri ancora.
Dune:Prophecy è
ambientato 10.000 anni prima dei film su Dune
Dune:Prophecy si svolge 10.000 anni
prima della narrazione di Paul Atreides che inizia nel romanzo di
Frank Herbert e nei due film di Dune di
Villeneuve. Ciò significa che è quasi certo che l’iconico
personaggio di Chalamet non
sarà presente nella prossima serie di Max, né alcuno dei personaggi
originali visti nei celebri film di Dune di
Villeneuve. Essendo uno dei primi episodi cronologici del franchise
di Dune, Dune:Prophecy si
concentrerà in particolare sulla formazione della Bene Gesserit.
Questo includerà probabilmente una panoramica di come
il misticismo magico della Bene Gesserit sia nato.
Dune:Prophecy descriverà come la Bene
Gesserit è stata inizialmente fondata, si è affermata e ha
acquisito un’influenza di massa. Concentrarsi sulle origini dei
Bene Gesserit aprirà uno degli aspetti più oscuri e misteriosi
dell’universo di Dune e potrebbe far sì che
alcune parti della profezia in Dune:Parte
Uno e Dune:Parte
Due più facili da comprendere. Si stabilirà un chiaro
legame tra le Harkonnen e le Bene Gesserit, dal momento che due
delle protagoniste della serie, Emily Watson e Olivia
Williams, sono Harkonnen e le più potenti leader della
sorellanza. Dune:Prophecy racconterà
come le Bene Gesserit hanno iniziato a muovere i fili
intergalattici che alla fine hanno portato all’ascesa di Paul
in Dune.
Cosa si sa del mondo di
Dune: La Cronologia della Profezia
La Reverenda Madre Mohiam
(Charlotte Rampling) è vista in stretta relazione con i Corrinos al
potere in Dune:Parte
seconda, quindi la serie dovrebbe esplorare le origini della
loro alleanza.
Al momento in cui scriviamo, la
HBO/Max sta mantenendo il riserbo su molti dettagli specifici della
trama di Dune:Prophecy non sono
stati resi noti. Basata sul romanzo Sisterhood of
Dune, i protagonisti
diDune:Prophecysaranno
Valya e Tula Harkonnen e l’imperatore Javicco Corrino,
antenato dell’imperatore Shaddam Corrino IV (Christopher Walken) e
della principessa Irulan Corrino (Florence
Pugh) visti in Dune:Parte
Due La Reverenda Madre Mohiam (Charlotte Rampling) si
vede che ha un rapporto stretto e tranquillamente manipolativo con
i Corrino al potere in Dune:Parte
seconda, quindi la serie dovrebbe esplorare le origini della
loro apparente alleanza.
Gli Atreides dovrebbero essere presenti anche
in Dune:Prophecy con
l’introduzione di Keiran Atreides, un antenato di Paul
e Leto, che sarà interpretato da Chris Mason. Secondo la
trama di “Sisterhood of
Dune”, Dune:Prophecy si svolgerà
dopo la Battaglia di Corrin e la Jihad Butleriana, un antico evento
cataclismatico che porta alla distruzione di tutte le forme di
computer e di tecnologie AI avanzate. È probabile che le sorelle
Harkonnen, che iniziano la sorellanza
in Dune:Prophecy, inizieranno il
loro lungo programma di riproduzione che si svilupperà nelle
puntate successive di Dune.
Se ci sono collegamenti diretti da tracciare
tra Dune:Prophecy e
i due film di Dune, non si tratta di
Paul ma della madre di Paul, Jessica. In origine,
infatti, i Bene Gesserit le avevano imposto di partorire una figlia
anziché un figlio, che divenne
Paul. Dune:Prophecy potrebbe
alludere alle origini dei sofisticati piani di riproduzione
selettiva delle Bene Gesserit e mostrare come la sorellanza sia
diventata così profondamente radicata nella mente e nelle tasche
della famiglia
Corrino. Dune:Prophecy probabilmente
racconterà l’ascesa delle Bene Gesserit stesse e non avrà nulla a
che fare con Paul, anche se tutte le principali case
di Dune avranno una presenza antica.
Dopo un ritorno e un aggiustamento a
causa del nuovo casting, siamo pronti a buttarci nuovamente, con
familiarità e passione, nella vita di Lenù e Lila, con gli episodi
3 e 4 de L’amica geniale –
Storia della bambina perduta, ultima stagione della
serie che adatta la tetralogia di Elena Ferrante, famosa in tutto
il mondo e già conclusa nella messa in onda per gli Usa su HBO.
L’amica geniale torna in un rione
completamente cambiato
Le stagioni più felici della serie
hanno visto il rione come luogo di violenza e ignoranza, ma anche
posto sicuro, dove si aveva un’identità, una certezza, la
possibilità di esistere in un microcosmo piccolo ma confortante.
Il ritorno di Elena ai luoghi natii, nel capitolo 27, I
Compromessi, la riporta in un luogo che ormai è
sconosciuto. La donna ritrova la madre, la famiglia, soprattutto
Lila e tutti vivono in un mondo notevolmente cambiato e reso
pericoloso da una modernità, che in lì ha attecchito con il suo
volto peggiore. Elena si trova catapultata, di nuovo, in un nuova
vita, a fronteggiare delle circostanze impreviste, ma si ritrova
anche nuovamente in compagnia (e all’ombra di) Lila. L’amica
d’infanzia ha dato una svolta importante alla sua vita, diventando
una donna d’affari e trovando, non capiamo ancora bene come, il
modo di sovrastare il potere dei Solara, i boss di quartiere che
hanno tormentato le ragazze sin da ragazzine.
Lila è ora una specie di padrona
buona dei rione, una vera e propria “Madrina”, potente e ricca,
spietata, ma anche buona, generosa e compassionevole, l’unica a cui
rivolgersi per cercare aiuto. Una posizione che sembra sposarsi
alla perfezione con le due anime della donna, che vive da sempre di
contrasti, di nobiltà d’animo e cattiveria. E mentre Lila sale in
considerazione agli occhi dello spettatore, Elena si confronta con
la povertà delle sue scelte di vita, continua a vivere come
l’amante ufficiale di Nino, lo accompagna anche alle visite
domenicali in famiglia, nelle quali (orrore supremo!) Incontro di
nuovo il laido Donato Sarratore, padre di Nino e, a tutti gli
effetti, suo stupratore.
Il corpo come dispositivo
narrativo
In queste circostanze ambivalenti,
le due donne dovranno affrontare un felice imprevisto: entrambe
restano incinta (di Nino e di Enzo, rispettivamente), e cominciano
a condividere questo percorso trasformativo che le avvicina di
nuovo, tanto che Lila diventa “la zia preferita” di Dede e
Elsa.
La serie si sposta quindi di nuovo
sull’importanza del corpo abitato non solo dalle donne, ma anche da
quello che loro stesse generano e, di nuovo, le due amiche/nemiche
non potrebbero essere più diverse nell’affrontare questo percorso
(che entrambe conoscono bene, essendo già madri). Elena è contenta
della sua rotondità, paziente, serena, stanca. Lila è irrequieta,
senza questo nascituro come un corpo estraneo, da espellere, che
“le tocca i nervi”, ovvero la infastidisce, arrivando a pensare che
in lei ci sia qualcosa che non va…
Un terremoto che
scopre le crepe di Lila e la solidità di Elena
La chiave di lettura di questo
disagio, e dell’intera personalità di Lila, ce la offre in un
momento di enorme generosità della sceneggiatura, l’episodio
successivo, il capitolo 28, Terremoto. Se
l’episodio precedente aveva citato la Strage di Bologna dell’estate
del 1980, confermando, anche in maniera marginale, quanto L’Amica
Geniale sia radicato nel suo tessuto sociale, questa seconda
puntata settimanale ci porta avanti nel tempo, fino a novembre,
quando ci fu il terribile Terremoto dell’Irpinia e tutta la
provincia napoletane venne scossa, letteralmente, con grande
violenza. Lenù e Lila sono da sole, è domenica, e le due amiche in
stato avanzato di gravidanza decidono di passare un pomeriggio
pigro in compagnia, a casa di Lila, al rione, fino a che la terra
non comincia a tremare (un tocco di enfasi ha fatto coincidere
l’inizio della prima scossa con la domanda di Elena a Lila: “Cosa
sai di Nino?”).
La due donne si aiutano e si fanno
forza, riescono a farsi strada fino alla strada e alla macchina,
dove rimangono in cerca di riparo. E qui, Lila ha un’altra delle
sue crisi, fa di nuovo esperienza di quella “smarginatura” a cui
avevamo assistito nella prima stagione, quando ai suoi occhi la
realtà si sfrangia, i confini delle cose si aprono e lasciano
uscire la loro parte viscerare e irrazionale, e nulla ha più senso.
Irene Maiorino abbraccia quindi la responsabilità di spiegare,
finalmente, la natura di Lila al pubblico e anche a Elena,
riportando a parole il celebre passo dei romanzi: L’unico problema
è sempre stato l’agitazione della testa. Non la posso fermare, devo
sempre fare, rifare, coprire, scoprire, rinforzare e poi
all’improvviso disfare, spaccare.
Ma la sceneggiatura non si ferma a
riportare la citazione dall’originale, va più a fondo e per molti
versi spiega meglio (cosa che il libro non farà mai fino all’ultima
pagina) quello che è il “mistero Lila”, in un impeto di purezza e
onestà, la donna confessa all’amica: “In me il male score insieme
al bene”, dimostrando così a se stessa a Elena e allo spettatore
tutta la sua specialità, ma anche la sua debolezza. È un momento
intimo e epifanico, in cui capiamo finalmente qual è il rapporto di
forze tra le due e quanto siano indispensabili l’una all’altra per
camminare dritte in un mondo continuamente spazzato dalle onde
della tragedia, della violenza e della prepotenza maschile. Una
prepotenza che nella sua violenza esteriore viene contrastata con
fierezza da Lila, ma che nella sua violenza psicologica e subdola,
rappresentata dalla stessa esistenza di Nino Sarratore
(Fabrizio
Gifuni), costringe ancora Lenù a soccombere.
L’Amica Geniale – Storia della
bambina perduta perde anche l’ispirazione
Il guizzo di generosità nello
svelamento della personalità di Lila si perde però in un mare
piatto. La serie sembra faticare a trovare quell’animo ruvido e
dolente, ma anche romantico e favolistico, che l’aveva
caratterizzata sin dall’inizio. Ormai siamo affezionati a Lila e
Lenù e vogliamo sapere come va a finire la loro storia e cosa il
futuro ha in serbo per loro. Siamo persino disposti a sopportare il
miscasting di Alba Rohrwacher perché comunque la sua voce
rappresenta un legame lungo e affettivo con lo show (lei non ne ha
nessuna colpa, si capisce), ma la regia e le idee, in questa
stagione, sembrano davvero distribuite a risparmio e ci sembra di
avviarci verso la fine di questa storia con stanchezza e
rassegnazione.
A Luca
Argentero, con una carriera alle spalle di vent’anni,
mancava – come lui stesso ammette – un progetto con Groenlandia. È
stato questo uno dei motivi che lo ha spinto ad accettare di
ricoprire il ruolo del protagonista Sante
Moras in La coda del diavolo,
nuovo film Sky Exclusive in arrivo sulla piattaforma
dal 25 novembre. Una collaborazione partita dalla lettura
del romanzo omonimo di Maurizio Maggi, nel quale è ritratto un uomo
che ben si allontana dai personaggi che hanno costellato
l’esperienza cinematografica dell’attore torinese, diventando così
una sfida e un’occasione da cogliere. Argentero, in questo viaggio
fra la ricerca di sé e la salvezza, è stato accompagnato da due
ottimi comprimari, Cristiana dell’Anna e Francesco
Acquaroli.
Insieme al suo Sante, sono
personaggi che tessono le fila di un thriller dalle tinte noir, e
definiti dal regista Domenico De
Feudis come tre solitudini che cercano la propria
strada, affrontando le loro più intime paure. Tre ritratti che però
non emergono mai come dovrebbero nella storia, e il cui background
rimane per lo più sconosciuto, faticando a dargli delle vere
sfaccettature. La coda del diavolo si basa su una sceneggiatura di
Nicola Ravera Rafele e Gabriele Scarfone, ed
è prodotto da Matteo Rovere e Andrea
Paris.
La coda del diavolo, la trama
Sante Moras è un ex poliziotto ora
guardia carceraria in un carcere della Sardegna. È un uomo solo,
che trascorre il suo tempo libero ad aggiustare una barca a cui è
estremamente legato. Un giorno viene arrestato un uomo colpevole di
aver ucciso a sangue freddo una giovane davanti a due poliziotti, e
dietro questo delitto sembra celarsi una verità atroce, legata in
principal modo a una sorta di tatuaggio che la ragazza porta dietro
il collo e che assomiglia alla coda di un diavolo. Sante viene
incaricato di sorvergliarlo, ma quando all’improvviso si
addormenta, al suo ritorno il detenuto nella cella è stato ucciso.
In preda alla paura di essere dichiarato colpevole, l’ex poliziotto
scappa, autocondannandosi. A inseguirlo è il commissario Tommaso
Lago, determinato a trovarlo e portarlo davanti alla giustizia.
Sante, però, capisce che l’unico modo per tornare alla normalità è
scavare fino in fondo nella verità: ad aiutarlo sarà la giornalista
Fabiana Lai, che non si fermerà all’apparenza delle cose ma
guarderà oltre, per stanare i veri assassini, scoprendo una realtà
ancora più oscura.
Caccia all’uomo in una fredda
Sardegna
Inabissarsi in un film di genere
non è mai semplice. Ogni tassello deve incastrarsi bene nel puzzle
finale. L’equilibrio è sempre precario, e bisogna che la tensione
abbia un costante crescendo se si indossano gli abiti di un
thriller-noir come La coda del diavolo. Per quanto
sia esemplare la performance di Luca Argentero, il cui impegno è
percepibile, a questa pellicola manca il giusto coinvolgimento per
convincere a pieno. L’incipit è fuor di dubbio
buono: un uomo solido ma con diversi fantasmi viene
incolpato di un crimine che non ha mai commesso. Mentre cerca di
fuggire da un immeritato destino deve fare i conti con se stesso e
il suo passato, due elementi che lo hanno ingrigito. Una trama
classica, in cui si intrecciano mafia, redenzione, riscatto, e dove
la dicotomia fra bene e male impregna ogni angolo della narrazione.
Peccato, però, che a livello di esecuzione non tutto
ingrani come dovrebbe: a volte si è inondati dalla
sensazione che manchi qualcosa nel racconto, o che ci siano
dinamiche messe al margine. L’aspetto criminoso non si
approfondisce, è un contorno offuscato, trasformandosi solo in un
pretesto per il progresso delle azioni dei personaggi.
L’action non è mai pienamente
intrattenitivo, facendo calare l’attenzione sulla scena che si sta
guardando (e che dovrebbe essere adrenalinica). Anche sulla
caratterizzazione dei personaggi la sceneggiatura ha faticato a
metterli a fuoco come ci si aspetterebbe da un film di genere,
specie se sono le colonne portanti attraverso cui si esplicano le
tematiche che si vogliono affrontare. Per affezionarsi ai
protagonisti sullo schermo non basta calarli in un contesto
minaccioso, ma serve sapere quali sono i loro demoni nell’armadio,
quali le loro preoccupazioni, cosa li soffoca e le ragioni concrete
che li spingono a reagire in un determinato modo. Incontrando gli
attori, Cristiana dell’Anna ha dichiarato che la sua Fabiana è una
di quelle giornaliste che guardano al di là del pregiudizio, che
scavano nella verità con le unghi e con i denti senza preoccuparsi
della loro incolumità. Tuttavia il personaggio non respira mai
totalmente, soffocato forse da tempi troppo stretti. Lo stesso si
può dire di Sante e e il commissario Lago, la cui storia oltre quel
che si vede è nascosta nell’ombra. Il risultato è un
prodotto che funziona a metà. Spesso zoppicante, che
avrebbe meritato un minutaggio differente per farlo apprezzare
meglio.
Con Dune: Prophecy, HBO ci riporta nel
vasto e affascinante universo creato da Frank Herbert, e di recente
esplorato al cinema da Denis Villeneuve con i suoi
film (in fase di scrittura dovrebbe esserci anche il terzo
capitolo). La serie,
disponibile su Sky e NOW dal 18 novembre 2024 con il primo
episodio, ci invita a un viaggio che precede di 10.000 anni la
nascita di Paul Atreides, concentrandosi sulle
origini della potente sorellanza delle Bene
Gesserit. Basata sul romanzo Sisterhood of Dune
di Brian Herbert e Kevin J.
Anderson, la serie segue le vicende legate alle sorelle
Valya e Tula Harkonnen, accomunate dal sangue e da
un innegabile affetto, ma divise da ambizioni e strategie su come
ottenere i propri risultati.
Dune: Prophecy racconta un
mondo tra potere e introspezione
Nonostante la serie si proponga
l’importante ambizione di raccontare l’origine di uno degli aspetti
più affascinanti dell’universo di Dune, la nascita delle Bene
Gesserit, la serie non ha l’aria solenne che invece Villeneuve ha
adottato per il suo sguardo al franchise. I primi quattro episodi
visti in anteprima rivelano una storia ricca di intrighi politici e
dinamiche personali, una dicotomia che rievoca più Il trono di Spade che l’estetica
filosofeggiante dei romanzi di Herbert. HBO ha costruito su questo
tipo di intrecci una delle serie di maggiore successo degli ultimi
anni, e quindi non sorprende che l’approccio adottato sia tale. La
spettacolarità visiva è messa da parte in favore di aspetti
soapoperistici, alcune trovate ingenue ma un risultato dignitoso
soprattutto per quello che riguarda il modo in cui vengono
tratteggiate le protagonisti, a cavallo tra passato e presente.
La serie si focalizza sull’ambiziosa
Valya Harkonnen (una magistrale Emily Watson),
figura centrale nella nascita della Sorellanza, e su sua sorella
Tula (Olivia Williams), con la quale ha un
rapporto conflittuale eppure di grande lealtà e affetto. Le due
interpreti chiamate a dare vita a questi due personaggi si
distinguono per la grande capacità di mettere in scena forti
contrasti ed emozioni con una recitazione composta e misurata, che
si fonda molto sulla forza dello sguardo e dei micro gesti. Sullo
sfondo, un’umanità segnata da ambizioni imperiali, patriarcato
opprimente e l’immancabile influenza della spezia di Arrakis, il
vero motore dell’universo di Dune, l’elemento che dà poteri
sovrumani e permea di desiderio di potere tutti i cuori più
deboli.
Intrighi di palazzo e produzione di
alto livello
Quello che colpisce in negativo di
Dune: Prophecy è senza dubbio la sceneggiatura che per necessità di
impostare un nuovo livello di un universo conosciuto finisce per
essere verbosa rallentando l’azione. Seppure solida, viene
appesantita da dialoghi/spiegazioni che non rendono dinamico il
racconto. Questo aspetto ostico e contrario all’azione offre però
la possibilità di dare molta voce e struttura ai personaggi,
mostrandone le complessità e le ragioni in maniera esaustiva e
dettagliata. Da un punto di vista visivo invece la serie si impegna
a offrire una continuità con quanto visto al cinema.
L’estetica è quindi
essenziale ed elegante, e indugia sui costumi con particolare
ricercatezza e ricchezza di dettagli che però risentono di quando
realizzato da Villeneuve: il risultato è un mondo in cui l’unica
cosa stravagante è il guardaroba di alcuni personaggi, ma in cui
non c’è nessuna differenza di etnia e provenienza, nonostante le
origini letterarie richiedano diversamente. Come visto in
Dune di
Villeneuve e in Dune di Lynch prima di lui,
le Bene Gesserit sono caratterizzate da abiti monacali, lunghi e
neri, che simboleggiano il loro stile di vita austero ma anche il
loro modus operandi nella storia dell’umanità: operano nell’ombra
dei loro segreti, manovrando gli imperi.
Uno sguardo alla
contemporaneità
Il richiamo a Il Trono di
Spade si fa sentire anche negli elementi più controversi:
sesso, violenza e intrighi sono centrali nella narrazione, anche se
sembra meno cruento della serie basata sui romanzi di Martin in
ognuno di questi aspetti. Dune: Prophecy riesce a trovare una sua
identità esplorando temi che parlano in maniera molto chiara alla
contemporaneità, con riflessioni molto specifiche sull’oppressione
patriarcale e l’ambigua moralità del potere. Questa scelta
contribuisce a rendere la serie affascinante per chi cerca una
narrazione complessa e ingaggiante, ma risulterà certamente una
delusione per chi sperava in un approccio più epico e meno
dialogico.
Uno sguardo al futuro
I primi quattro episodi di
Dune: Prophecy lasciano intravedere il potenziale
di una narrazione più ampia e profonda. Il personaggio di Valya
Harkonnen emerge come il fulcro del racconto, incarnando il fascino
e le contraddizioni della Sorellanza nascente. Tuttavia, sembra che
per il momento la serie si sia concentrata sul posizionamento del
pezzi su una complessa e accidentata scacchiera. Resta da vedere se
le pedine, una volta disposta, riusciranno a dare vita a una
partita avvincente.
Il generale Acacius è un personaggio
fondamentale nel film Il gladiatore II, di Ridley Scott, e la performance di Pedro Pascal conferisce realismo a questa
spettacolare pellicola. Data la sua importanza, molti spettatori
sono naturalmente curiosi di sapere se sia realmente esistito.
Sebbene il regista abbia spesso tratto ispirazione da eventi e
personaggi storici reali, il generale Acacius è un personaggio di
fantasia.
Oltre ad essere una
copia oscura di Maximus in Il gladiatore, Acacio è un
veicolo interessante per guidare la difficile situazione di Lucio e
mettere in discussione le strutture di potere nella storia. Essendo
un personaggio di fantasia, funge anche da sostituto del contesto
storico in cui i generali erano effettivamente considerati delle
celebrità nell’antica Roma. Gladiator II ha già battuto i
record al botteghino di Ridley Scott, e l’equilibrio tra
influenza storica e spettacolo cinematografico è parte di ciò che
rende la sua narrazione così di successo.
Il generale Acacius di Il
Gladiatore 2 non è basato su una persona reale
Il personaggio di Pascal è
romanzato ma scritto con la stessa gravitas
Il generale Acacius, il suo
matrimonio con Lucilla e la sua ribellione sono interamente frutto
di fantasia. Non esiste alcun generale Acacius nella storia
romana. Il suo scopo nel cast diIl Gladiatore
2 è quello di fornire a Lucio qualcuno su cui
vendicare la morte della moglie, il che riecheggia la vendetta di
Massimo in Il Gladiatore. Il suo ruolo di generale è anche
un modo per rappresentare il desiderio di dominio fine a se stesso
degli imperatori Geta e Caracalla. Il personaggio, interpretato da
Pedro Pascal, è ben scritto ed è un ottimo esempio del perché non
tutto in Il gladiatore deve essere storicamente
accurato.
[Ridley Scott] fonde la storia
con la grandiosità cinematografica e studi approfonditi dei
personaggi per creare storie commoventi…
Un altro motivo per cui il generale
Acacius deve essere un personaggio di fantasia è che anche la
storia di Lucio è romanzata. Lucio Vero II, figlio del
co-imperatore Lucio Vero e di Lucilla, morì giovane insieme alla
sorella Aurelia Lucilla. Nel film sopravvive e diventa un
gladiatore come il padre immaginario, Massimo. I personaggi
storici influenzano Ridley Scott, ma i suoi film non sono legati
all’accuratezza storica. Piuttosto, fonde la storia con la
grandiosità cinematografica e studi approfonditi dei personaggi per
creare storie commoventi. Per il primo film ha avuto dei consulenti
storici, ma a quanto pare non per Il gladiatore II (The
Guardian), dando invece la priorità allo spettacolo e alla
continuità narrativa.
Il generale Acacio potrebbe
essere ispirato ad altri generali romani
Gli antichi romani avevano una
cultura delle celebrità che idolatrava le figure militari
La priorità nel sequel è la visione
di Ridley Scott e come si è sviluppata dopo Il gladiatore.
Tuttavia, alcuni generali erano effettivamente considerati
delle celebrità nell’antica Roma. Ad esempio, Gaio Giulio Cesare
era in origine un generale. L’ascesa al potere di Cesare fu
notevolmente favorita dal suo status di celebrità, derivante
principalmente dalle sue conquiste militari. La cultura delle
celebrità nell’antica Roma era l’opposto della nostra. Coloro che
avevano un rango militare o politico erano celebrati; coloro che
oggi considereremmo celebrità, come attori, musicisti o qualsiasi
altro artista, erano afflitti dall’“infamia” per scoraggiare
l’adorazione di queste figure (secondo la Princeton University Press).
Ciò è particolarmente rilevante per
la rappresentazione dello spettacolo pubblico di Scott. I
gladiatori erano popolari tra il pubblico e l’élite reagiva di
conseguenza per preservare la propria presunta superiorità morale.
Usavano il concetto di “infamia” per scoraggiare i cittadini
romani liberi dall’entrare nell’arena per il proprio tornaconto.
L’infamia li privava dei loro diritti ed era una sorta di morte
sociale. Il modo in cui l’élite dirige la moralizzazione del
pubblico è evidente in Gladiator II, quando il
generale Acacius viene messo nell’arena a combattere per la propria
vita. In precedenza era adorato come una celebrità militare, poi
ridotto a un semplice intrattenitore.
Da star del cinema a attori
televisivi amati dai fan, il cast di Silo è
pieno di grandi interpreti riconoscibili da altri progetti. Basata
sui libri Silo di Hugh Howey, la serie Apple
TV+ è ambientata in un lontano futuro distopico e ruota attorno
a una comunità che vive nelle profondità del sottosuolo sotto
l’imposizione di regole severe che, secondo quanto viene loro
detto, sono state messe in atto per proteggerli. Man mano che la
storia si svolge, un ingegnere e uno sceriffo cercano di scoprire
la verità oscura sulla loro esistenza sotterranea. La serie è stata
sviluppata per la televisione da Graham Yost, famoso per
Justified.
Come promesso dal
trailer di Silo, il cast stellare dello show include
attori famosi di altre serie televisive e film di grande
successo.
I membri del cast principale
possono essere visti nei film Dune,
The Social Network e The Shawshank Redemption, mentre i comprimenti
recitano nelle serie Game of Thrones, Succession e The Walking
Dead. Con una star di Parks and Recreation, un attore importante
della serie Mission: Impossible e l’attore che ha interpretato
Martin Luther King Jr. sul grande schermo, Silo è pieno di volti
noti.
Rebecca Ferguson nel ruolo di
Juliette
Data di nascita: 19 ottobre
1983
Attiva dal: 1999
Attrice:Rebecca Ferguson ha esordito nel ruolo di Anna
Gripenhielm nella soap opera svedese Nya Tider. Ha poi
ottenuto l’attenzione internazionale con la sua interpretazione
di Elizabeth Woodville nella miniserie The White
Queen, per la quale è stata nominata ai Golden Globe. Da
allora Ferguson ha interpretato l’agente dell’MI6 Ilsa Faust nei
film Mission: Impossible, Jenny Lind in The Greatest
Showman, Rose the Hat in Doctor Sleep e Lady Jessica in
entrambe le parti di Dune di Denis Villeneuve.
Personaggio: Rebecca
Ferguson è la protagonista del cast di Silo nel ruolo di
Juliette, un’ingegnere che si ribella all’autorità. Sebbene
inizialmente viva nei livelli inferiori del silo, riesce a
raggiungere i piani superiori dopo essere stata nominata nuovo
sceriffo. Sfrutta la sua nuova posizione di autorità per scoprire
la verità sull’omicidio del suo ex amante.
David Oyelowo nel ruolo di
Holston
Data di nascita: 1 aprile
1976
Attivo dal: 1998
Attore: L’attore è noto
soprattutto per aver interpretato Martin Luther King Jr. nel film
biografico Selma, fedele alla storia. Ha anche
interpretato Louis Gaines in The Butler, Seretse Khama in
A United Kingdom e Steven Jacobs in L’alba del pianeta
delle scimmie. Tra gli altri ruoli televisivi ricordiamo Javert
nella miniserie della BBC tratta da Les Misérables e
l’agente dell’MI5 Danny Hunter nella serie di spionaggio
Spooks. Nella sua lunga carriera di attore, Oyelowo ha
ricevuto un Critics Choice Award e due NAACP Image Awards.
Personaggio: Holston è uno
sceriffo di Silo che lotta per mantenere l’ordine nella
comunità sotterranea. Tuttavia, il suo scopo nel bunker sotterraneo
cambia completamente quando sua moglie decide volontariamente di
uscire nel mondo reale. Un anno dopo la partenza della moglie,
Holston decide di seguire il suo esempio.
Attore: Common ha debuttato
con l’album Can I Borrow a Dollar? e ha ottenuto ulteriore
riconoscimento con il suo seguito, Resurrection. Ha fatto
il suo debutto sul grande schermo nel ruolo del mafioso Sir Ivy in
Smokin’ Aces. Common ha continuato a interpretare ruoli
come quello del sottovalutato cattivo Cassian in John Wick:
Chapter 2, Turner Lucas in American Gangster e il
luogotenente di John Connor, Barnes, in Terminator
Salvation. Ha anche interpretato Elam Ferguson nella serie
western della AMC Hell on Wheels e ha interpretato James
Bevel in Selma al fianco di David Oyelowo, vincendo un Oscar
per aver co-scritto la canzone “Glory” per il film.Film e serie TV
di rilievo:Film/Serie TVRuoloJohn Wick: Capitolo 2CassianSuicide
SquadMonster TWantedThe GunsmithSmokin’ AcesSir Ivy
Personaggio: Sims è il
braccio destro di Bernard in Silo, che supera persino molti limiti
morali per garantire l’ordine nel bunker sotterraneo. Da quando
Juliette sfida gli ordini di Bernard e cerca di scoprire la verità,
Sims fa del suo meglio per catturarla prima che sia troppo tardi.
Tuttavia, verso la fine della prima stagione di Silo, inizia a
chiedersi se la sua lealtà verso Bernard valga davvero la pena.
Attore: Robbins è noto
soprattutto per aver interpretato Andy Dufresne nel film drammatico
Le ali della libertà. Ha vinto l’Oscar e il Golden Globe
come miglior attore non protagonista per la sua interpretazione di
Dave Boyle in Mystic River. Robbins ha anche interpretato
Griffin Mill in The Player e Nuke LaLoosh in Bull
Durham, oltre al tenente Samuel “Merlin” Wells in Top
Gun. Sul piccolo schermo, ha precedentemente interpretato il
segretario di Stato Walter Larson nella serie satirica politica di
breve durata della HBO The Brink.
Personaggio: In Silo stagione 1, Bernard, interpretato da Tim Robbins, è
l’antagonista principale, inizialmente descritto come il capo
dell’IT. Tuttavia, con il progredire della serie e l’ascesa di
Bernard a nuovo sindaco del silo, diventa evidente che il reparto
IT ha molto più potere di quanto sembri. Sebbene Bernard sembri
inizialmente amichevole e si presenti come alleato di Juliette,
mostra il suo vero volto nell’arco finale della serie.
Avi Nash nel ruolo di Lukas
Kyle
Data di nascita: 16 ottobre
1958
Attivo dal: 2013
Attore: L’informatico Lukas
Kyle è interpretato da Avi Nash. Nash è famoso soprattutto per
il ruolo ricorrente di Siddiq in The Walking Dead. La
sua carriera di attore è stata piuttosto breve e ha ottenuto la
maggior parte del successo sul piccolo schermo. Prima di
interpretare Siddiq in The Walking Dead, ha anche
interpretato Wajeed in Silicon Valley e ha fatto
un’apparizione in Black Mirror nel 2023 (“Joan is Awful”).
Per quanto riguarda i film, è apparso in Amateur Night,
The Braid e nel film biografico di Netflix del 2016 su Barack Obama, Barry.
Personaggio: Lukas Kyle
lavorava per il reparto IT nel silo come analista di sistemi. Nella
prima stagione di SIlo, Lukas stringe amicizia con Juliette
e le rivela molti segreti sul silo mentre trascorrono insieme le
serate nella caffetteria. Tuttavia, quando Juliette gli chiede
aiuto, lui la respinge perché è l’unico che può prendersi cura di
sua madre. Nella seconda stagione rimane nel silo principale,
mentre Juliette è fuggita.
Chinaza Uche nel ruolo di Paul
Billings
Data di nascita: 20 settembre
1987
Attivo dal: 2012
Attore: Chinaza Uche appare
nel cast di Silo nel ruolo di Paul Billings, che lavora nel
dipartimento giudiziario del silo. Nato a Edimburgo, in Scozia,
Uche è noto soprattutto per aver interpretato Henry, il
bracciante della famiglia, in Dickinson. Ha anche
interpretato Derek in Fear the Walking Dead, Shawn in The
Devil Below e Nathan nel film drammatico di Zach Braff A
Good Person. È apparso anche in serie TV come Law & Order,
The Blacklist, Deception e Blue Bloods.
Personaggio: Paul Billings
era un ex vice che lavorava nei Mids prima di passare al
dipartimento giudiziario. Paul voleva tornare al dipartimento dello
sceriffo, ma è stato scavalcato da Juliette. È anche un personaggio
tragico, poiché soffre della Sindrome, ma lo nasconde perché se
qualcuno lo scoprisse non gli sarebbe più permesso ricoprire una
carica ufficiale. Questo ha causato un dramma tra loro quando lei
ha scoperto che era infetto e lo nascondeva.
Harriet Walter nel ruolo di
Martha Walker
Data di nascita: 24 settembre
1950
Attiva dal: 1974
Attrice: Personaggio
veterano ingegnere in Silo. Altri ruoli televisivi di
Harriet Walter includono Lady Caroline Collingwood, la fredda madre
di Kendall, Roman e Siobhan, un membro piuttosto estraniato della
famiglia Roy in Succession.
Ha anche interpretato Dasha in Killing Eve e Deborah in
Ted
Lasso. Tra i suoi ruoli cinematografici figurano Emily
Tallis in Atonement, Nicole de Buchard in The Last
Duel e la dottoressa Kalonia in Star
Wars: The Force Awakens.
Personaggio: Martha Walker è
un ingegnere elettrico nel Down Deep ed era lì per aiutare Juliette
a imparare come funzionava il Silo quando lei si è unita a loro da
bambina. È stata praticamente una madre per Juliette durante la sua
crescita e si è isolata dal mondo per 25 anni dopo la fine del suo
matrimonio con Carla (Claire Perkins). Alla fine della prima
stagione, Martha è rimasta scioccata dalla decisione di Juliette di
uscire all’aperto.
Rick Gomez nel ruolo di Patrick
Kennedy
Data di nascita: 1 giugno
1972
Attivo dal: 1990
Attore: Il trafficante Patrick
Kennedy è interpretato da Rick Gomez. L’attore ha precedentemente
interpretato il tecnico radiofonico di quarto grado George Luz nel
cast della serie HBO Band of Brothers e “Endless Mike”
Hellstrom nella serie Nickelodeon The Adventures of Pete and
Pete. Ha anche interpretato Tom Dowd in Ray e Klump in
Sin City, e ha doppiato Loki nel film d’animazione MarvelThor: Tales of
Asgard, distribuito direttamente in home video.
Personaggio: Patrick Kennedy
lavorava nella manutenzione e dipingeva muri. Era anche un
criminale che trafficava in reliquie proibite. All’inizio di
Silo, nutriva rancore nei confronti del vice sceriffo Sam
Marnes, che riteneva responsabile della morte di sua moglie.
L’agente giudiziario Douglas Trumbull ha cercato di incastrare
Patrick per l’omicidio di Sam, ma il piano è fallito e Juliette ha
finito per proteggere Patrick e smascherare le azioni di
Trumbull.
Steve Zahn nel ruolo di
Solo
Data di nascita: 13 novembre
1967
Attivo dal: 1990
Attore: Steve Zahn
interpreta l’unico personaggio nuovo annunciato per la seconda
stagione di Silo, Solo. Zahn recita dal 1990, quando ha
esordito nel mondo del cinema indipendente insieme ai suoi amici di
teatro Ethan Hawke e Robert Sean Leonard. Dopo essersi fatto notare
in film come Reality Bites e Happy, Texas, Zahn si è
costruito una reputazione interpretando personaggi fannulloni, che
gli ha permesso di godere di una carriera di grande successo. Il
suo ruolo in Silo sembra riprendere sia il suo personaggio
prototipico, sia un lato più oscuro.
Personaggio: Si sapeva molto
poco della seconda stagione di Silo prima della sua uscita
nel novembre 2024, ma l’unico nuovo personaggio rivelato era Solo,
interpretato da Steve Zahn. L’intera premiere della seconda
stagione ha visto Juliette trovare un secondo silo. Le persone in
questo silo si sono ribellate e sono uscite con la forza, dove sono
morte tutte. Dopo aver superato i corpi ed essere entrata nel silo
ormai abbandonato, incontra l’unico sopravvissuto, Solo, che non la
vuole assolutamente lì.
Cast secondario e personaggi di
Silo
Rashida Jones nel ruolo di
Allison: Rashida Jones appare nel cast di Silo nel ruolo
di Allison, la moglie di Holston. Jones ha recitato in precedenza
in serie TV come Louisa Fenn in Boston Public, Karen
Filippelli in The Office, Ann Perkins in Parks and
Recreation e nel ruolo della protagonista in Angie
Tribeca. Ha anche recitato in film come The Social
Network nel ruolo di Marylin Delpy, I Love You, Man nel
ruolo di Zooey Rice e Celeste and Jesse Forever nel ruolo di
Celeste Martin, che ha anche co-sceneggiato con Will McCormack.
Iain Glen nel ruolo del dottor
Pete Nichols – Ian Glen ha precedentemente interpretato Ser
Jorah Mormont in Game of Thrones, Sir Richard Carlisle in
Downton Abbey e Bruce Wayne nella serie di supereroi della
HBO Max Titans. Sul grande schermo, Glen ha interpretato
Manfred Powell in Lara Croft: Tomb Raider e il dottor
Alexander Isaacs nella serie di film Resident Evil.
Ferdinand Kingsley nel ruolo di
George Wilkins – Kingsley è riconoscibile per i suoi ruoli
cinematografici di Hamza Bey in Dracula Untold e Irving
Thalberg in Mank, nonché per i ruoli televisivi di Mr.
Francatelli in Victoria e Hob Gadling in The
Sandman.
Shane McRae nel ruolo di Knox
– Un personaggio meccanico in Silo. McRae è meglio
conosciuto per aver interpretato il ruolo principale di Taylor
Bowman in Sneaky Pete, così come i ruoli ricorrenti di
Robert in The Following e Patrick in Nashville. Al
cinema, McRae ha interpretato Raleigh Leefolt in The Help,
Charlie Howland-Jones in Still Alice e Adrian Troussant in
The Adjustment Bureau.
Matt Gomez Hidaka nel ruolo di
Cooper – Matt Gomez Hidaka appare nel cast di Silo nel
ruolo di Cooper. Hidaka ha anche interpretato Miguel Reyes nella
serie poliziesca Chicago P.D. e Mario Hernandez nella commedia
familiare Carlos Through the Tall Grass.
Lee Drage nel ruolo di Franky
Brown – Franky Brown è interpretato da Lee Drage, che ha
recitato in precedenza nel ruolo di Freddie nella serie TV
Missing Something e in quello di Jake nel cortometraggio
833.
Henry Garrett nel ruolo di
Douglas Trumbull – Henry Garrett interpreta Douglas Trumbull
nel cast di Silo. Garrett ha anche interpretato Hart in
Red Tails, George Catlin in Testament of Youth e i
ruoli ricorrenti di Pete McCullough in The Son e del
capitano Malcolm McNeil in Poldark.
Will Merrick nel ruolo di Danny
– Merrick è noto soprattutto per la sua interpretazione di Alo
Creevey nella terza generazione della serie televisiva britannica
Skins. Ha anche interpretato Jay nella commedia romantica
sui viaggi nel tempo About Time e Mark nel film horror di
Netflix A Classic Horror Story.
Paul Herzberg nel ruolo di
Kilroy – Paul Herzberg appare nel cast di Silo
nel ruolo di Kilroy. Herzberg ha anche interpretato Jacob Tanios
nell’episodio “Dumb Witness” di Agatha Christie’s Poirot,
Villem Craven nella miniserie della BBC tratta da Smiley’s
People e il soldato Reynolds nel sequel per la TV di Dirty
Dozen, The Dirty Dozen: Next Mission.
Snot & Splash – Il mistero
dei buchi scomparsi di Teemu
Nikki è una commedia con per protagonisti due fratelli,
uguali fisicamente ma opposti nel carattere, che durante le vacanze
invernali in uno sperduto paese immerso nella neve si ritrovano a
vivere una fantastica avventura. Prodotto da it’s
alive Films questo lungometraggio va ad arricchire il
“Teemu Nikki Universe”, un insieme di storie capaci di incantare un
pubblico variegato e distribuite da noi in Italia da I
Wonder Pictures sempre attenta e alla ricerca di novità
cinematografiche.
La trama di Snot & Splash – Il
mistero dei buchi scomparsi
Questo lungometraggio è basato
sull’omonimo
libro di Juice Leskinen, in
originale Räkä ja Roiskis, su una sceneggiatura
di Ilja Rautsi e segue i giovani eroi
Snot e Splash ( Hugo
Komaro e Urho Kuokkanen )
che devono prendersi una pausa dalle loro ferie per salvare il
mondo. Il film infatti si apre con una scena in cui i due fratelli
in treno, direzione di Acquainbocca e
dove abita la nonna, notano guardando fuori dal finestrino che dal
cielo cadono oggetti: un frigorifero e sacchi dell’immondizia.
Appena incontrano l’anziana parente fanno notare questi strani
fenomeni e la donna gli dice che è colpa
del cambiamento climatico che ha colpito
anche la Finlandia.
I giovani protagonisti però non
sono convinti della spiegazione, iniziano anche a notare che gli
abitanti del posto sorridono, tutti in modo
molto inquietante, mostrando i denti
che sono bianchissimi e
innaturali. Arrivati a casa poi scoprono un altro mistero, cioè non
ci sono più buchi, pure quelli delle ciambelle, ma non finisce qui
perché quando Snot e Splash vanno sul ghiaccio, per pescare, il
buco sparisce appena viene creato. All’improvviso appare uno strano
uomo con una pistola e finalmente
capiscono che è proprio lui, con quello strano oggetto,
che risucchia tutte le buche dalle più
piccole alle più grandi.
I due bambini quindi decidono che
devo scoprire di più e inseguono di nascosto il signore che si
ripara dentro una fattoria. All’interno invece
troveranno una macchina, precisamente un
sistema di smaltimento dei rifiuti molto fatiscente, che invece si
rivelerà essere un buco nero pronto a
risucchiare la cittadina. Ovviamente Snot e Splash, grazie al loro
coraggio, ma anche alla genialità che si possiede solo quando si è
bambini, salveranno tutti dall’imminente catastrofe.
Snot & Splash tra Roald Dahl e
Doctor Who
Questo film è decisamente una
storia che potrebbe benissimo uscire dalla penna
di Roald Dahl, uno degli autori più famosi
della letteratura per ragazzi. I due protagonisti durante la loro
avventura e in missione per salvare Acquainbocca, incontrano e
conoscono personaggi fantastici ma anche un pochino paurosi.
L’antagonista Migren Junior, che vuole
cancellare ogni forma di caos dal mondo, compresa anche la più
preziosa di tutte come la fantasia, di lavoro fa
proprio il dentista decisamente
nell’immaginario dei piccoli, e non solo, non uno dei lavori più
amati.
Uno dei tratti che il pubblico più
giovane non noterà è quanto Teemu
Nikki nella realizzazione di questo film sia stato
molto influenzato dalla storica serie Doctor
Who. Qua non c’è nessuno Dottore che appare con la sua cabina
blu, Il Tardis, ma i colori, le vicende potrebbero benissimo essere
estratte da uno dei numerosi episodi della serie britannica più
longeva di sempre. I due gemelli protagonisti invece nei loro
continui litigi e discorsi senza senso ricordano tanto i celebri
gemelli Zack e Cody, interpretati da Dylan
e Cole Sprouse della sit-com Zack e Cody al
Grand Hotel di Disney Channel.
Un film per tutti e pieno di
genialità
Il film è visivamente bello ed
esplora il mistero attraverso gli occhi dei bambini e forse per gli
adulti, i genitori che accompagneranno i figli, qualche battuta
risulterà stupida ma non per il pubblico più giovane che riderà
molto. Per concludere Snot & Splash – Il mistero dei
buchi scomparsi è un ottimo esempio per far conoscere
agli spettatori più piccoli che esiste anche un cinema per loro, al
di fuori di Hollywood o di quello targato Disney.
Più instancabile che
mai, Ridley
Scott – esattamente un anno dopo aver portato al
cinema il colossal Napoleon –
torna sul grande schermo con Il Gladiatore
II, sequel di una delle opere per cui è maggiormente
ricordato. Se nel 2000 Il
Gladiatoreaveva risvegliato l’interesse per i film
epici e consacrato la carriera di Russell
Crowe con il ruolo di Massimo
Decimo eridio, questo inaspettato seguito (scritto
da David Scarpa, già autore
di Napoleon) si fa ora promotore non solo di quella
stessa epica ma anche di un forte messaggio politico che richiama
alla decadenza – politica e morale – degli attuali “imperi”.
Ed è proprio in questo sguardo
fortemente politico che si ritrova il meglio del film, che usa
sapientemente il passato per parlare dell’oggi, attraverso la
decadenza del più importante impero di tutti i tempi. L’epica
di Il Gladiatore II si ritrova allora
qui, non tanto negli scontri all’interno del Colosseo quanto negli
intrighi di palazzo, nelle vicende politiche che inquinano l’anima
di Roma e la condannano ad una fine apparentemente inevitabile.
Scott trova dunque occasione qui di unire le sue due anime: la
spettacolarità esagerata ed esagitata e l’esplorazione delle
oscurità dell’animo umano.
La trama di Il
Gladiatore II
Il Gladiatore II – Paul Mescal
Anni dopo aver assistito alla tragica morte del venerato
eroe nonché
padre Massimo Decimo Meridio per mano del suo perfido zio,
Lucio (Paul
Mescal) si trova costretto a combattere nel Colosseo
dopo che la sua patria viene conquistata da parte delle centurie di
Marco Acacio (Pedro
Pascal) per ordine dei due
tirannici imperatori, Geta (Joseph
Quinn)
e Caracalla (FredHechinger),
che ora governano Roma. Con il cuore ardente di rabbia e il destino
dell’Impero appeso a un filo, Lucio deve affrontare pericoli e
nemici, riscoprendo nel suo passato la forza e l’onore necessari
per riportare la gloria di Roma al suo popolo.
Ci si è chiesti a lungo se fosse o
meno necessario un sequel di Il Gladiatore
II e con grandi probabilità c’è chi –
comprensibilmente – se lo chiede anche ora che questo seguito è
realtà. Partiamo subito con il dire che questo nuovo film non si
discosta poi molto da quanto mostrato e compiuto dal primo. Anzi,
ne segue attentamente le orme con un fare celebrativo. Non a caso,
sono innumerevoli i riferimenti al titolo del 2000, che come
un’ombra si aggira su questo sequel quasi a guidarne ogni
passo.
Ciò significa che questo sequel
propone di nuovo tutta l’epica già evocata dal primo, seppur con
tutte le prodezze tecnologiche e di effetti speciali che un quarto
di secolo in più ha portato a disposizione. Questo non
necessariamente comporta che questo sequel sia più spettacolare, ma
certamente riesce ad essere al di sopra della media degli odierni
blockbuster di questo tipo. Merito della capacità di Scott – ad 87
anni – di immaginare scenari e situazioni dotati di un senso della
grandiosità e della meraviglia da far invidia.
Poco – anzi nulla – importa quindi
se la verosimiglianza storica non è di casa neanche stavolta,
perché per quanto la rappresentazione di battaglie navali e i
combattimenti con babbuini o rinoceronti possa essere
forzata, possiede quel certo fascino che soddisfa la voglia di un
intrattenimento, certamente folle, ma capace di far parlare di sé.
Gli stessi scontri tra gladiatori o le battaglie di più ampia
portata sono sempre poste in scena con una brutalità che, tra
sangue, sudore e muscoli che si flettono, trasmette proprio
quell’eccitazione e quella tensione che gli spettatori sugli spalti
del Colosseo devono aver provato.
Il Gladiatore
II tra Shakespeare e monito sul presente
Il Gladiatore II – Denzel Washington
Di certo, come si diceva in
apertura, l’aspetto più interessante del film è la vicenda politica
che porta avanti. Leader assoluto in ciò è
il Macrino di Denzel
Washington, perfetto Riccardo III
shakespeariano che machiavellicamente trama per
ribaltare completamente il proprio status. Un personaggio magnifico
il suo, con cui Washington dimostra di essere un fuoriclasse. Per
quanto il cast sia composto di ottimi attori, è lui a fagocitare
tutte le attenzioni, rubando facilmente la scena ai suoi
colleghi.
Con lui, Scarpa e Scott propongono
un ritratto di quei subdoli uomini di potere che oggigiorno
riescono, facendo leva sulla pancia del popolo, a raggiungere i
propri loschi obiettivi, ponendo sempre più in crisi la democrazia.
In questo il film diventa dunque un monito che si unisce
all’intrattenimento offerto. Certo, il racconto di Lucio –
l’effettivo protagonista – si muove su diverse soluzioni narrative
piuttosto facili e poco convincenti ma, come valeva
per Napoleon, anche con Il Gladiatore
II si può chiudere un occhio quando nel complesso
Scott si dimostra ancora una volta un tale maestro nello spettacolo
cinematografico.
Suonate il campanello
d’allarme: Outer Banks è tornato per
un’ultima visita nella quarta stagione. Dopo
il viaggio sulle montagne russe della
Parte 1, conclusosi con un enorme cliffhanger,
la Parte
2 è pronta a partire con i Pogues sull’orlo della loro
uscita più esplosiva. Uno degli spettacoli più visti
su Netflix, la prima metà della Stagione 4 ha raggiunto
la vetta delle classifiche dello streamer, guadagnando
oltre 15 milioni di visualizzazioni e volando in cima alla
lista. Con la seconda parte che dovrebbe fare lo
stesso, è lecito pensare che l’attesa sia alta. Quindi, senza
ulteriori indugi, ecco tutto quello che c’è da sapere
su Outer Banks 4 – Parte 2.
Outer Banks 4 – Parte
2 è ufficialmente disponibile dal 7
novembre 2024.
Dove si può vedere in
streaming Outer Banks 4 – Parte 2
Come sempre, è
possibile vedere in streaming Outer Banks 4 – Parte
2 su Netflix. Al momento, tutte le
altre stagioni dello show di successo sono disponibili sullo
streamer.
C’è un trailer
per Outer Banks 4 – Parte 2
La posta in gioco è più alta che
mai quando Outer Banks entra nella parte finale
della sua quarta stagione, e potete vedere il
trailer ufficiale qui sotto. Dopo che la prima
parte si è conclusa con più domande che
risposte, questo trailer promette già una risposta al
desiderio del fandom. Aspettatevi una seconda parte esplosiva e
ricca di azione, con la messa in discussione della
leadership di John B., la crisi d’identità di JJ e la caccia alla
vendetta di Cleo; come dice John B. nel trailer, “Tutti
noi abbiamo creato una casa. Ora è tutto in gioco. La domanda è:
cosa rischieremmo per proteggerla?”. Oltre al trailer, Netflix ha
rilasciato anche i titoli di ogni episodio: l’episodio 6 si
intitola “Il consiglio comunale”, l’episodio 7 “Madri e padri”,
l’episodio 8 “Il giorno della decisione”, l’episodio 9 “La
tempesta” e il finale “La corona blu”. Netflix ha anche rilasciato
i primi 8 minuti della Outer Banks 4 – Parte
2, come perfetto assaggio del dramma che verrà.
Di cosa
parla Outer Banks 4 – Parte 2?
La fine della quarta stagione
di Outer Banks , parte 1, ha lasciato le
mascelle a terra quando è stata rivelata
la rivelazione bomba che JJ è nato come Kook.
Da quando la prima parte, a ritmo lento, è entrata in azione
nell’episodio finale, era chiaro che la seconda parte della
stagione 4 sarebbe stata esplosiva.
Nella recensione della Parte 1 per
Collider, Therese
Lacson ha subito elogiato la traiettoria che la
Stagione 4 sta percorrendo, affermando che
“Anche se ci vuole un po’ di
tempo per prendere slancio, quando la caccia inizia ad andare
avanti, lo show torna a sparare a tutto spiano.Ci
sonoesperienze di
pre-morte ,situazioni altamente
improponibili,adulti che vengono sventati
dalla Scooby Gange altri misteri da
svelare per i ragazzi.Sebbene abbia criticato i primi
episodi per la mancanza di elementi che legassero la caccia ai
Pogues, alla fine dell’episodio 5, “Albatross”, viene
finalmente svelato un importante colpo di scena che bolle in
pentola da un po’ di tempo e che coinvolge
JJ.Se John B. è senza dubbio il cuore dei Pogues, JJ
ne è l’impulsivo Id, e sarà interessante vedere come gestirà questa
rivelazione che gli cambierà la vita.Inoltre, lo show
introduce il tradimento dei personaggi e una morte scioccante che
mi ha reso ansioso per la seconda parte della
stagione.Proprio quando sembra che stia decollando, la
prima parte si conclude.Con lo show che promette più
drammi nei prossimi episodi, i Pogues e la quarta stagione
di Outer Banks sono su una buona
traiettoria.Ora vediamo se rimarrà così”.
Per coloro che sono alla ricerca di
un riassunto di tutto ciò che ci si può aspettare dall’intera
stagione, ecco un’occhiata alla sinossi della stagione 4
di Outer Banks:
“Dopo il flashforward di 18 mesi
della scorsa stagione che mostrava la proposta di Wes Genrette ai
Pogues di trovare il tesoro di Barbanera, la quarta stagione ci
riporta indietro nel tempo fino a quel momento.Dopo
aver trovato l’oro a El Dorado, i Pogues tornano a OBX e si
impegnano ad avere una vita “normale”.Si sono
costruiti un nuovo rifugio sicuro, ufficialmente soprannominato
“Poguelandia 2.0”, dove vivono insieme e gestiscono un negozio di
esche, attrezzature e tour charter di discreto
successo.Ma dopo alcuni problemi finanziari, John B,
Sarah, Kiara, JJ, Pope e Cleo accettano l’offerta di Wes e tornano
nel gioco “G” per una nuova avventura.Ma prima che se
ne accorgano, si ritrovano in una situazione di pericolo, con nuovi
nemici alle calcagna che li spingono verso il
tesoro.Nel frattempo, i loro problemi non fanno che
aumentare e sono costretti a mettere in discussione il loro
passato, presente e futuro: chi sono veramente, ne è valsa la pena
e quanto sono disposti a rischiare?”.
Chi fa parte del cast
di Outer Banks 4 – Parte 2?
Il cast della quarta stagione,
parte 2, dovrebbe rimanere esattamente lo stesso, e includerà
attori del calibro di Chase Stokes nel
ruolo di John B, Madelyn Cline nel ruolo
di Sarah Cameron, Madison Bailey nel
ruolo di Kiara Carrera, Jonathan
Daviss nel ruolo di Pope Heyward, Rudy
Pankow nel ruolo di JJ Maybank, Austin
North nel ruolo di Topper
Thorton, Carlacia Grant nel ruolo di
Cleo, Drew Starkey nel ruolo di Rafe
Cameron, J. Anthony
Crane nel ruolo di Chandler
Grotte .Anthony
Crane nel ruolo di Chandler
Groff, Brianna Brown nel ruolo di Hollis
Robinson, Pollyanna McIntosh nel ruolo
di Dalia, Mia Challis nel ruolo di
Ruthie e Rigo Sanchez nel ruolo di
Lightner.
Chi c’è dietro la quarta
stagione di Outer Banks?
Ancora una volta, i creatori dello
show Shannon Burke, Jonas
Pate e Josh Pate saranno
al timone. Ognuno degli episodi finali è stato scritto da loro e
Jonas ha diretto il primo di essi. Il trio ha prodotto
esecutivamente la stagione insieme ai produttori Sunny
Hodge, Aaron
Miller e Carole Peterman.
Outer Banks 4 – Parte 2
sarà l’ultima?
Rallegratevi! Netflix ha confermato
ufficialmente che i Pogues torneranno per una
quinta stagione, con il finale dell’imminente Parte 2
che sarà un lungometraggio, pronto a dare il via a un’accattivante
quinta uscita. Tuttavia, hanno anche confermato che
la quinta
stagione sarà l’ultima, affermando in una
dichiarazione ai fan:
“Ora, con un po’ di tristezza,
ma anche di eccitazione, ci lasciamo alle spalle la quarta stagione
e ci dedichiamo alla quinta, in cui speriamo di riportare a casa i
nostri amati Pogues nel modo che abbiamo immaginato e pianificato
anni fa.La quinta stagione sarà la nostra ultima e
pensiamo che sarà la migliore.Speriamo che vi unirete
a noi per un’altra remata verso il surf break”.
Sebbene il finale della serie
Grotesquerie abbia offerto alcune risposte agli
spettatori, la conclusione dello show ha lasciato ancora molti
misteri irrisolti. A giudicare dall’episodio 9di
Grotesquerie, il finale della prima stagione di
Grotesquerie non aveva alcuna possibilità di
concludere la trama in modo soddisfacente. I raccapriccianti
omicidi multipli alla fine dell’episodio hanno fatto sembrare che i
sogni di Lois potessero essere premonizioni distorte. Il finale
della prima stagione di Grotesquerie sembrava dare ragione a
Lois, poiché i sogni inquietanti dell’eroina hanno iniziato a
diventare realtà nel penultimo episodio. Questo sembrava rendere
irrilevante l’enorme colpo di scena dell’episodio 7 di
Grotesquerie, secondo cui l’intera serie era solo un sogno
di Lois in coma.
Tuttavia, il finale della prima
stagione di Grotesquerie non ha né confermato né smentito
questa ipotesi. Il medico di Lois non era colpevole degli omicidi
di Grotesquerie, ma gli spettatori non hanno mai potuto conoscere
la sua vera identità (al di fuori del sogno in coma), poiché è
stato vittima dell’assassino. Questo finale piatto e privo di colpi
di scena ha lasciato gli spettatori con più domande che risposte.
Il creatore della serie,Ryan Murphy di American
Horror Story, è noto per i finali che non riescono a dare
seguito alle idee interessanti sviluppate in precedenza nella
serie, e Grotesquerie ha indubbiamente ripetuto questa
tendenza con un finale che ha sollevato molte nuove domande, ma non
ha dato alcuna risposta.
Chi era l’assassino in
Grotesquerie?
Il finale della prima stagione
di Grotesquerie non ha rivelato l’assassino
Dopo aver stuzzicato la curiosità
degli spettatori per nove episodi, il finale della prima stagione
di Grotesquerie non ha mai spiegato chi fosse l’omonimo
killer biblico. Nel sogno di Lois in coma, il colpevole si è
rivelato essere padre Charlie e la sua complice era
l’apparentemente innocente e eccentrica amica di Lois, suor Megan.
Tuttavia, in realtà, padre Charlie era il medico di Lois e Megan
era l’agente di polizia che aveva sostituito Lois come capo della
polizia.
Nessuno dei due sembrava essere
colpevole degli omicidi, dato che Megan stava indagando su di loro
e il medico è diventato una delle ultime vittime di Grotesquerie
nelle scene finali dell’episodio. Molte cose sono successe prima di
questo colpo di scena sconcertante.
Perché Marshall ha cercato di
togliersi la vita nel finale di Grotesquerie
Il marito di Lois è stato
accusato di violenza sessuale da una studentessa
Marshall e Redd prepararono la cena
per Lois, tentandola con un martini e l’offerta di vivere insieme
come una strana coppia non omogenea. Lois rifiutò la proposta e
Redd rivelò di sapere che Marshall la tradiva. Disse che aveva
accettato il piano di Marshall solo per vedere Lois rifiutarlo.
Dopo che uno studente lo ha accusato
di violenza sessuale, Marshall ha tentato il suicidio con
un’overdose. Ha protestato la sua innocenza e ha affermato che la
loro relazione era consensuale, ma ha rapidamente perso ogni
speranza dopo essere stato arrestato e incriminato. L’overdose di
Marshall non ha avuto successo e Redd ha ribadito che non voleva
più avere nulla a che fare con Marshall quando si è
svegliato.
Il Mexicali Men’s Club dal
finale della serie Grotesquerie spiegato
Fast Eddie ha portato Marshall al
Mexicali Men’s Club, che si è presto rivelato essere
un’organizzazione politica clandestina. La difesa di Marshall della
mascolinità tradizionale ha suscitato applausi, rivelando i valori
reazionari del gruppo. Il gruppo era anche ampiamente contrario al
fenomeno della cultura della cancellazione, ma sorprendentemente
favorevole ad approcci progressisti nei confronti dei pronomi.
Apparentemente, il gruppo
rappresentava un bizzarro mélange di ideologie che abbracciavano i
valori tradizionali e l’individualismo gerarchico, sostenendo allo
stesso tempo alcune cause liberali. Tutti i personaggi maschili
principali della serie, dal medico di Lois allo specialista dei
sogni di Santino Fontana, si sono rivelati membri di questo club
oscuro.
Perché Lois ha tentato di
togliersi la vita nel finale di Grotesquerie
Nel frattempo, Lois si chiedeva se
si fosse mai svegliata dal coma. Questo la portò anche a tentare di
togliersi la vita, con conseguente appuntamento con lo specialista
di Fontana. Lo specialista di Lois le spiegò che soffriva della
sindrome di Cotard, una condizione in cui i pazienti credono di
essere morti.
Lois ha ammesso allo specialista di
Fontana di aver accusato il medico che le ha salvato la vita di
aver organizzato orge nella sua stanza d’ospedale mentre era in
coma. Inorridito, il medico di Grotesquerie ha detto di
essere d’accordo con Marshall sul fatto che Lois non avrebbe dovuto
sopravvivere al coma quando lei ha insinuato che lui avesse messo
incinta un’altra paziente.
La morte di Justin era
reale?
La goccia che ha fatto traboccare il
vaso e ha reso l’eroina di Grotesquerie, Lois, incapace di
distinguere la realtà, è stata la morte di Justin. Lois ha sparato
e ucciso Justin, l’amante violento di Megan, alla fine
dell’episodio 9, e il suo corpo sembrava essere scomparso. Lois ha
visto Megan incontrare Glorious McCall e ha supposto che fosse
stato il boss del crimine a sbarazzarsi del corpo. Megan non solo
ha respinto questa teoria, ma ha anche affermato di non vedere
Justin da settimane. Infuriata e confusa, Lois ha accusato lo
specialista di Fontana di aver commesso diversi omicidi
dall’episodio 9, mentre lui l’ha accusata di aver immaginato gli
omicidi.
Lo specialista ha detto che Lois ha
inventato gli omicidi per giustificare la sua visione di sé stessa
come una figura santa che avrebbe salvato l’umanità dalla sua
peggiore depravazione. Tuttavia, Megan ha fatto dimettere Lois da
un istituto psichiatrico poco dopo che lei si era ricoverata.
Megan, in lacrime, ha ammesso di aver insabbiato la morte di Justin
e di aver assunto Glorious McCall per aiutarla a disfarsi del
corpo.
Ha manipolato Lois al riguardo, ma
ha ammesso la verità alla sua ex collega quando ha avuto bisogno
del suo aiuto. Megan ha poi condotto Lois all’ultima macabra
creazione di Grotesquerie nei minuti finali del finale della prima
stagione.
Tutte le morti nel finale della
prima stagione di Grotesquerie spiegate
Grotesquerie ha ucciso
l’accusatrice di Marshall e il medico di Lois nel finale della
prima stagione di Grotesquerie, disponendoli in un tableau
che ricordava l’Ultima Cena. Una ricostruzione dell’Ultima Cena con
cadaveri umani al centro e i discepoli è apparsa nell’episodio 2
come parte dell’elaborato sogno di Lois in coma, il che significa
che questa scena sembrava dimostrare che i suoi sogni erano davvero
solo premonizioni. Tuttavia, Lois aveva chiaramente sbagliato
l’identità del cattivo. Il medico che lei era convinta fosse
Grotesquerie doveva essere innocente, a giudicare dalla sua morte
brutale.
Cosa significa davvero il finale
della prima stagione di Grotesquerie
Fino all’episodio 6 di
Grotesquerie, la serie sembrava un giallo abbastanza lineare,
anche se campy e melodrammatico. Tuttavia, il finale della stagione
1 ha dimostrato che si trattava più di una storia satirica e
sovversiva. Il vero assassino non è mai stato rivelato, il rapporto
tra i sogni di Lois e la realtà non è mai stato svelato e i
collegamenti della setta con gli omicidi (se ce ne sono) non sono
mai stati spiegati. Tutti questi filoni narrativi potrebbero essere
risolti in un secondo momento, ma la prima stagione non ha offerto
alcuna soluzione definitiva.
Come il finale della prima
stagione di Grotesquerie prepara la seconda
Il finale della prima stagione
di Grotesquerieprepara la seconda lasciando misteriosa
l’identità dell’assassino, il che significa che gli spettatori
dovranno sintonizzarsi sulla prossima stagione per scoprire la
verità sull’identità di Grotesquerie. L’assassino potrebbe essere
lo specialista di Lois, chiunque altro abbia accesso ai registri
dei suoi sogni in coma, o forse Lois stessa. Potrebbe essere Megan,
che ha scoperto entrambe le scene del crimine, ma non può più
essere il medico tanto denigrato di Lois. Il finale della prima
stagione di Grotesquerie non ha avvicinato la sua eroina
alla scoperta della verità, ma ha lasciato molti misteri aperti da
esplorare nella seconda stagione.
Come è stato accolto il finale
di Grotesquerie
Mentre molti critici hanno
elogiato i primi episodi di Grotesquerie, gli spettatori
della serie indicano il settimo episodio come il punto in cui la
serie ha iniziato a peggiorare. La decisione di rendere gli
eventi della serie un sogno da coma non è stata ben accolta da
molti spettatori.
“Era tutto un sogno” è un tropo
molto usato in televisione, e non sempre ha successo. I fan sono
diventati sempre più cinici nei confronti di questa particolare
scelta sceneggiata perché li fa sentire come se avessero investito
senza motivo nei personaggi e nella trama.
Un utente di Reddit ha sottolineato che il primo episodio era
molto promettente per una serie horror che si sarebbe mantenuta al
limite del disagio, ma gli episodi finali della stagione hanno
abbandonato questa linea:
Il primo episodio in particolare
era girato molto bene e aveva un tema “disgustoso” mentre preparava
una trama fantastica… se avessero mantenuto quel tema per tutta la
serie e non avessero rovinato tutto nell’episodio 7, rivelando che
era tutto frutto dell’immaginazione dei personaggi principali,
avrebbe potuto avere successo e bastare una sola stagione. Ma la
seconda metà era come un dramma, che non spingeva oltre i limiti
del disagio, ma comunque non riusciva a distogliere lo sguardo
dallo schermo.
I fan volevano davvero vedere la
serie fare qualcosa di nuovo nel campo dell’horror, ma alla fine
non è stato così.Molti fan hanno attribuito il fatto di
non aver apprezzato il finale della stagione semplicemente al fatto
di aver guardato una serie diretta da Ryan Murphy.Molti utenti di Reddit hanno concordatoche “Solo
Ryan Murphy può rovinare qualcosa che avrebbe potuto essere oro
colato”.
Questo sentimento lascia dubbi
sul fatto che i fan seguiranno la seconda stagione diGrotesqueriee sulla risoluzione del finale
sospeso.
A tre anni di distanza
da Cry
Macho, Clint Eastwood torna
in sala con Giurato numero 2, nuovo
lungometraggio del leggendario regista che arriva al cinema il 14
novembre. Il film, che vede come protagonista Nicholas
Hoult nei panni di un giurato alle prese con un
caso controverso, riunisce un cast che include Toni
Collette, Zoey
Deutch, Kiefer
Sutherland, Chris
Messina e J.
K. Simmons. Scritto
dall’esordiente Jonathan
Abrams, Giurato numero 2 è poi
musicato da Mark Mancina e distribuito
in sala da Warner Bros.
La trama di Giurato
numero 2
La vita di Justin
Kemp (Nicholas Hoult)
un giurato in un caso di omicidio, viene sconvolta da una
rivelazione scioccante: potrebbe essere stato lui l’autore del
crimine. Diviso tra il senso del dovere e la paura del giudizio,
l’uomo si trova di fronte a un dilemma morale che metterà alla
prova la sua integrità.
Giurato numero 2:
rielaborare gli immaginari
Hollywood conosce da sempre due
soli modi di regolare i conti: a suon di pistolettate o all’interno
di un’aula di tribunale. Vecchi cowboy e brillanti avvocati sono i
due volti, le due più consuete manifestazioni, di una giustizia per
lo più polverosa, ma efficace. Anime complementari della medesima
astrazione che, forse inevitabilmente, convivono anche in
quest’ultima creatura di Clint Eastwood.
Segno di un cinema che, vissuto davanti e dietro la macchina da
presa, prosegue fin dagli albori a fagocitare e rielaborare
immaginari. A incarnare valori e significati alti, puntualmente
offerti alla rigorosa rilettura poetica del suo autore.
Implacabile, eppure immancabilmente lucida.
In
quest’ottica, Giurato numero 2 non fa
eccezione. Lo capiamo subito, a partire dalla didascalia – ai
limiti della western-punch line – che campeggia appena sotto al
titolo: “la giustizia è cieca, la colpa vede tutto”.
Lo percepiamo nell’atmosfera da saloon che aleggia sul pub di
periferia al centro della vicenda. E ancora nel ripetuto gioco di
sguardi con cui i protagonisti sembrano a più riprese duellare nel
corso della storia – o nel bicchiere di whisky (?) che, silenzioso,
sfida il protagonista in uno dei frangenti di maggior tensione del
racconto.
Eppure, Justin Kemp non è certo un
georgiano dagli
occhi di ghiaccio. Né tantomeno uno straniero
senza nome – o un cavaliere solitario.
Semmai un uomo dal passato torbido, anche se giovane marito e
futuro padre. Tormentato da spettri e demoni interiori che bussano
alla sua porta come le maschere della notte di Halloween – che
guarda caso cade il primo weekend che contribuisce a ritardare il
verdetto della giuria.
Giustizia e verità
Fin da subito, dall’establishing
shot tematico sulla dea Themis e i suoi attributi (la bilancia e la
benda sugli occhi), Clint
Eastwood cede la parola al giurato.
E attorno alla sua figura, attorno ai dilemmi, agli squarci etici e
morali dello script di Jonathan Abrams, il
cineasta edifica una complessa architettura di sguardi che si fa
frontiera di riferimenti e suggestioni. A imperversare,
prevedibilmente, sono innanzitutto gli spazi e le intuizioni del
primo Lumet,
che Eastwood si diverte a citare e
insieme ad aggiornare secondo le coordinate dell’America di oggi –
ragion per cui l’ostinata fermezza di Cedric
Yarbrough, erede ideale del vecchio Lee J.
Cobb, diviene la pur momentanea cassa di risonanza di un
divario socio-economico che il regista non manca di mettere a
fuoco.
Ma nel grande affresco
eastwoodiano, calibrato al millimetro e al contempo quasi bulimico
nelle sue vertigini citazioniste, confluiscono anche le principali
istanze di molto del legal-thriller (e legal-drama) che ha
costituito l’ossatura del genere fin dalle origini. Opportunamente
imbevuto della filosofia del suo autore e di un’ironia che, di
recente, abbiamo ritrovato solo nell’ultimo Friedkin –
presentato postumo nel 2023 in occasione
dell’80esima Mostra d’Arte Cinematografica di
Venezia.
“Io voglio la
verità!” gridava del resto un giovane Tom
Cruise nell’epilogo di Codice
d’onore di Rob Reiner. Eppure,
alimentando il parallelismo, il personaggio di Nicholas
Hoult sembra piuttosto concretizzare l’”arringa”
pronunciata dal colonnello Jessep di Jack
Nicholson – lui giurato e insieme colpevole
che “non può reggere” una verità che lo dilania.
Epicentro non tanto dell’inevitabile e inflazionata dialettica tra
verità processuale e verità storica. Quanto di una ricerca della
“realtà dei fatti” che, come avveniva già in Richard Jewell,
è più che altro frutto di ricostruzioni, narrazioni ad hoc e
scampoli di sguardo catturati da uno smartphone – quando l’unico
dispositivo in grado di fare ancora la differenza, sembra
suggerirci Eastwood, rimane invece il mezzo cinematografico
stesso.
Così, sebbene alla sbarra dei
testimoni compaiano forse anche il Ridley
Scott di The Last Duel e
l’ultimo esperimento seriale di Alfonso Cuaròn –
delle cui opere Clint Eastwood ripropone l’acuta frammentarietà
audio-visiva – l’atteggiamento del regista classe 1930 non si
impronta a un aprioristico rifiuto del valore delle immagini, ma
piuttosto si colora dell’invito, premuroso, a maneggiarle con cura.
Per un’opera dal respiro classico, ma perfettamente inserita nel
presente, che muovendosi come di consueto tra dimensione pubblica e
privata, crede ancora fermamente nell’impegno sociale – quindi
umano – del singolo. Senza il quale l’intero sistema è destinato a
collassare.
Spiazzante, vero, spietato.
Buono, brutto e cattivo. A 94 anni inoltrati Clint
Eastwood non sbaglia un colpo.
Outer Banks, serie drammatica
adolescenziale di Netflix, ha
avuto un successo costante nel corso delle sue quattro stagioni ed
è stata
rinnovata per Outer Banks 5, la quinta stagione. Creata
per la TV da Josh Pate, Jonas Pate e Shannon Burke nel 2020, la
serie è incentrata su un gruppo di amici (che si fanno chiamare
Pogues), che cercano un tesoro perduto e si scontrano con il gruppo
di adolescenti rivale, The Kooks, nella regione di Outer Banks, in
North Carolina. Mescolando tutti gli elementi della classica storia
d’amore adolescenziale con l’avventura di una spada, Outer
Banks offre un’esperienza di visione unica che ha
contribuito a renderla uno degli originali più popolari
di Netflix.
La quarta
stagione si apre con un bagaglio emotivo non indifferente:
i Pogues devono affrontare non solo la loro complicata vita
familiare, ma anche la nuova avventura che si sta delineando
davanti a loro. Le relazioni in Outer
Banks diventano sempre più complicate a ogni
stagione, così come l’intrigo. Forse l’aspetto più sottovalutato
della narrazione dello show, Outer Banks è una
storia di crescita che diventa sempre più ricca man mano che il
pubblico impara insieme ai Pogues. Tutto ciò rende la quinta
stagione una necessità, e Netflix ha prontamente rinnovato il
contratto per la quinta e ultima stagione.
Netflix
ordina Outer Banks 5,
la quinta e ultima stagione
Prima ancora che arrivasse la
seconda metà della quarta stagione, le ultime notizie hanno
confermato che Netflix
ha rinnovato Outer Banks per la quinta
stagione. L’eccitante notizia è arrivata anche con una certa
tristezza, poiché è stato anche rivelato che
l’imminente quinta stagione sarà l’ultima dello show. A
riprova dell’intelligente decisione di Netflix di rinnovare, è
stato rivelato che la prima parte della quarta stagione ha
debuttato al primo posto nella classifica mondiale dello streaming
in lingua inglese, un’impresa non facile nell’affollato campo dello
streaming.
Sebbene non sia stata fornita
alcuna ragione esplicita per la cancellazione,
i creatori della serie Josh Pate, Jonas Pate e Shannon
Burke hanno rivelato che il piano è sempre stato quello di
raccontare una storia di cinque stagioni. Il trio ha
rilasciato una dichiarazione congiunta insieme al rinnovo della
quinta stagione, in cui si legge: “La quinta stagione sarà la
nostra ultima e pensiamo che sarà la
migliore.Speriamo che vi unirete a noi per un’altra
remata verso il surf”. Con una trama già pianificata, è
chiaro che Outer Banks avrà una conclusione
adeguata.
Leggete la dichiarazione congiunta
dei Pates e di Shannon Burke qui sotto:
Sette anni fa, nell’estate del
2017, ci siamo imbattuti in una foto di adolescenti su una spiaggia
al crepuscolo durante un’interruzione di corrente.Da
quella foto è scaturita l’idea di una storia di quattro migliori
amici che vogliono solo divertirsi sempre.Da questo
inizio, abbiamo immaginato un mistero che avrebbe portato a un
viaggio di cinque stagioni all’insegna dell’avventura, della caccia
al tesoro e dell’amicizia.
All’epoca, sette anni fa,
sembrava impossibile che saremmo riusciti a raccontare l’intera
storia di cinque stagioni, ma eccoci qui, alla fine della quarta
stagione, ancora in fase di lavorazione.
La quarta stagione è stata la
più lunga e la più difficile, ma la più gratificante, da
produrre.La stagione si conclude con un episodio di
lunghezza notevole, che riteniamo essere il nostro episodio
migliore e più potente.Ci auguriamo che la pensiate
allo stesso modo.
Ora, con un po’ di tristezza, ma
anche di eccitazione, ci lasciamo alle spalle la quarta stagione e
ci dedichiamo alla quinta, in cui speriamo di riportare a casa i
nostri amati Pogues nel modo che avevamo immaginato e pianificato
anni fa.La quinta stagione sarà la nostra ultima e
pensiamo che sarà la migliore.Ci auguriamo che vi
unirete a noi per un’altra remata verso il
surf.P4L,Josh, Jonas e Shannon
La quinta stagione di Outer
Banks è confermata
Secondo i co-creatori della
serie Josh Pate, Jonas Pate e Shannon Burke, l’arco di cinque
stagioni era sempre stato previsto.
Non ci è voluto molto perché
Netflix decidesse il destino di Poguelandia, e lo
streamer ha rinnovato
preventivamenteOuter
Banksper una quinta stagione pochi
giorni prima della première della quarta parte della seconda
stagione. La decisione è stata chiaramente intelligente, e
la quarta stagione ha trascorso un periodo significativo in cima
alle classifiche di streaming in lingua inglese. Sebbene l’annuncio
del rinnovo sia una notizia entusiasmante, è anche un po’ agrodolce
perché la quinta stagione sarà l’ultima uscita dei Pogues. Secondo
i co-creatori della serie Josh Pate, Jonas Pate e Shannon Burke, un
arco di cinque stagioni era sempre stato previsto.
I dettagli sul cast
di Outer Banks5
Ritorneranno i Pogues e i
Kooks
Sebbene sia sempre possibile un
colpo di scena scioccante nel corso delle due metà
della quarta
stagione, non è difficile fare ipotesi sul cast della quinta
stagione di Outer Banks . Il nucleo centrale di
adolescenti ha sostenuto lo show fin dall’inizio,
e non c’è motivo di pensare che tutta Poguelandia
tornerà per le stagioni successive. Allo stesso modo,
anche gli antagonisti Kooks dovrebbero essere presenti, dato che la
netta divisione di classe tra i due è uno dei temi più forti della
serie.
Detto questo, il cast sarà
probabilmente guidato da attori del calibro di Chase Stokes nei
panni di John B. insieme a regular come Madison Bailey nei panni di
Kiara, Johnathan Daviss nei panni di Pope, Rudy Pankow nei panni di
JJ, Carlacia Grant nei panni di Cleo, Austin North nei panni di
Topper e Drew Starkey nei panni di Rafe. La quarta
stagione ha anche aggiunto una serie di nuovi personaggi,
ma al momento non è chiaro se torneranno nelle stagioni
successive.
Dettagli sulla trama della
stagione 5 di Outer Banks
Poiché la quarta stagione
di Outer Banks non è ancora finita, non è
possibile prevedere con esattezza cosa accadrà nei prossimi
episodi. Tuttavia, alcuni eventi importanti hanno già
cambiato la fisionomia delle vite dei personaggi e questo getta le
basi per la quinta stagione.JJ che scopre il segreto della
sua vera discendenza non è solo un bel colpo di scena, ma introduce
anche un elemento di pericolo perché la sua identità è stata
probabilmente nascosta per un motivo. Cambiamenti più grandi
potrebbero verificarsi nella quarta parte della seconda stagione,
ma gli spettatori dovranno aspettare e vedere cosa succederà nella
quinta stagione di Outer
Banks.