Sono passati tre anni da Jurassic World, nuovo reboot di una delle saghe più amate del cinema che aveva lasciato le porte aperte a un eventuale seguito, che arriva infatti puntuale nelle sembianze di Jurassic World: il Regno Distrutto, in sala dal 7 giugno 2018.
Il primo capitolo del 2015 vedeva la piena realizzazione delle volontà di John Hammond: un parco a tema dove i dinosauri “redivivi” fossero l’attrazione principale per migliaia e migliaia di turisti. Ovviamente le cose erano sfuggite di mano, e la splendida Isla Nublar era stata sfollata dei suoi visitatori umani e lasciata interamente alle creature preistoriche.
Ma la storia ha il brutto vizio di ripetersi, e proprio come un triste déjà-vu anche sull’isola di Nublar i dinosauri rischiano l’estinzione a causa di un vulcano che sta per eruttare e distruggere tutto.
Inizia così Jurassic World: il Regno Distrutto in cui alcuni esemplari giurassici riescono ad essere tratti in salvo grazie all’aiuto congiunto della ex responsabile del parco, Claire Dearing (Bryce Dallas Howard), del domatore di velociraptor Owen Grady (Chris Pratt) e di un convoglio dell’esercito sovvenzionato dall’anziano collega di Hammond, Benjamin Lockwood (James Cromwell). A complicare le cose però ci penserà Eli Mills (Rafe Spall), socio di Lockwood e intenzionato a utilizzare i dinosauri come merce in ambito militare e scientifico.
La favola creata da Spielberg nel lontano 1993 è ormai un lontano ricordo. Il capostipite è entrato nella storia e nella memoria collettiva per la sua capacità di stupire, soprattutto grazie agli effetti speciali (Industrial Light & Magic, neanche a dirlo) – incredibilmente all’avanguardia per l’epoca – sapientemente affiancati dalle riproduzioni animatroniche delle bestie giganti. Per non parlare poi dell’indimenticabile colonna sonora di John Williams.
La nuova saga di Jurassic World, già dal primo film, si dimostra una vaga eco di ciò che era il progetto di partenza. La reazione dello spettatore si fa metafilmica, in quanto proprio come per i visitatori del parco giurassico, lo stupore è ormai passato. Tutto sa di già visto.
Ma la regia di J.A. Bayona si rivela un’ottimo passaggio di testimone (a dirigere il primo era stato Colin Trevorrow, qui solo sceneggiatore), in quanto il regista spagnolo dona a Jurassic World: il Regno Distrutto il proprio stile, tingendo la trama di una buona suspense, che è poi tipica della sua filmografia (si pensi all’horror The Orphanage o alla serie tv Penny Dreadfull).
Jurassic World: il Regno Distrutto, il parco è perduto
La pellicola di Bayona non lesina nemmeno su una certa dose di splatter, rendendo il tutto un fantasy a 360 gradi, con buona pace della credibilità e del buon senso. La creazione dell’ennesimo dinosauro in laboratorio dovrebbe essere il leit-motiv dell’intera storia (come accadeva nel primo reboot), mentre invece in questo secondo capitolo diventa un mero pretesto per trattare di argomenti più profondi.
Sì, perché Jurassic World: il Regno Distrutto, sotto la patina di colossal movie pieno zeppo di effetti speciali e di fanservice, si fa portatore di un messaggio ben più importante e sotteso. Nelle intenzioni, il film dovrebbe denunciare dell’abuso di potere dell’uomo sulla natura, in particolare sugli animali. Estremamente coinvolto nel sociale, Jurassic World 2 ha due chiavi di lettura: la prima è dettata da un approccio più semplicistico. Il franchise nasce come opera di puro intrattenimento, ed è importante che in questo senso venga assorbito e goduto.

Ma se si ha modo, e voglia, si scorge una seconda chiave di lettura, neanche troppo nascosta, che è una denuncia dei più svariati crimini contro l’ambiente causati dall’uomo. Dal discorso ispirato di Ian Malcolm (Jeff Goldblum) alle fugaci notizie dei telegiornali, tutto ci parla del pericolo che corre il nostro pianeta (reale o fittizio non ha più importanza).
Sulla scia di una Hollywood sempre più coinvolta nelle battaglie a favore dell’ambiente (si pensi a Leonardo DiCaprio), persino una saga come Jurassic World si impegna nel far sentire la propria voce. Che è poi quel verso di disperazione che sentiamo provenire dai dinosauri maltrattati lungo tutto il film, e col quale è impossibile non entrare in empatia.



Il lavoro rispecchia infatti meglio di tante commedie recenti, l’essenza della generazione dei quarantenni di oggi, oppressa da un passato troppo presente, ancora legata a doppio filo a genitori incapaci di fiducia, e con un futuro che sembra non arrivare mai, mentre di fatto il tempo scorre. Mostra tutto ciò con amara ironia e tenerezza, ma senza vittimismo, piuttosto mettendo al centro il riscatto, la possibilità per il protagonista di mettersi finalmente in prima persona e realizzarsi. Questa possibilità è innescata dall’elemento surreale e fanciullesco ben inserito nel contesto del film. Attraverso la voce di Francesco bambino passa l’invito al Francesco adulto a non lasciarsi sprofondare in una grigia insoddisfacente routine, ma a provare fino in fondo a realizzare i propri sogni di un tempo, o almeno ad esserne degno. Non fantasie infantili da eterno Peter Pan, ma desideri concreti da far diventare realtà con tenacia e perseveranza, nonostante le difficoltà. Non bisogna mai smettere di provare a diventare quello che si vuole essere. È questa, in fondo, l’essenza del film e anche dell’esperienza di Camilli regista. È così che va inteso il riferimento agli anni ’80, ben ricostruiti nei flashback e inseriti in un insieme coeso, non per un revival nostalgico, ma come propulsori per il presente e verso il futuro.
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