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Ronan Day-Lewis: intervista al regista di Anemone

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Ronan Day-Lewis esordisce al cinema con Anemone, un dramma familiare con protagonisti Daniel Day-Lewis e Sean Bean. Lo abbiamo incontrato a Roma, in occasione della presentazione del film ad Alice nella Città 2025, ecco cosa ci ha raccontato del film. Anemone arriva nei cinema italiani dal 6 novembre, distribuito da Universal Pictures.

Leggi la nostra recensione di Anemone

Ambientato nel nord dell’Inghilterra, il film racconta di un uomo che si avventura nei boschi per confrontarsi con il fratello che da anni vive come un eremita, intrappolato in un passato di violenza politica e personale.

Diretto da Ronan Day-Lewis, al suo debutto come regista, da una sceneggiatura scritta insieme al padre Daniel Day-Lewis, che interpreta anche il ruolo principale. Coproduzione tra Regno Unito e Stati Uniti, il film segna il ritorno di Day-Lewis alla recitazione per la prima volta dopo Phantom Thread nel 2017, affiancato da Sean Bean e Samantha Morton nei ruoli secondari. Il film racconta la storia di un solitario tormentato, il cui fratello, da cui si era allontanato, arriva per convincerlo a tornare a casa e ricongiungersi con la sua famiglia.

Left-Handed Girl: recensione del film di Shih-Ching Tsou – #RoFF20

Produttrice di lungo corso per Sean Baker (Anora, Un sogno chiamato Florida) e co-regista di Take Out, Shih-Ching Tsou firma con Left-Handed Girl il suo primo lungometraggio da sola, pur restando in dialogo strettissimo con il sodale: Baker co-scrive e soprattutto monta, imprimendo quel ritmo spinto che conosciamo. Il risultato è un film che porta addosso i tratti “familiari” (sguardo sugli invisibili, precarietà luminosa, bambini come bussola morale) ma che prova a prendersi uno spazio personale, più legato a memorie, cultura e dinamiche di genere del contesto taiwanese. L’accoglienza festivaliera lo conferma: esordio alla Semaine de la Critique di Cannes e percorso internazionale, con l’ulteriore peso specifico della candidatura taiwanese agli Oscar.

Taipei come parco giochi (e campo minato)

Tsou immerge lo spettatore nel ventre dei mercati notturni di Taipei: scooter che sfrecciano, insegne acide, vapore delle cucine, contrattazioni, odori. È un dispositivo sensoriale che fa da habitat alla piccola I-Jing, alla sorella maggiore I-Ann e alla madre Sho-Fen, tornata in città per riaprire una minuscola cantina di street food e rimettere insieme la vita. La regia abbraccia la frenesia urbana e la traduce in messa in scena: macchina spesso in movimento, raccordi rapidi, ellissi che tengono il racconto in corsa. Ne nasce uno slalom tra commedia di sventura, osservazione sociale e melò familiare che, pur con qualche curva brusca, raramente perde aderenza.

La mano sinistra: stigma, gioco, gesto politico

Il titolo non è un vezzo: il nonno impone alla nipote di non usare la mano sinistra – “la mano del diavolo” – e quel rimprovero superstizioso diventa miccia narrativa e simbolica. La “mano che fa da sé” ruba cianfrusaglie, combina guai, a volte salva la situazione; soprattutto, materializza un doppio movimento: il controllo patriarcale che disciplina i corpi femminili fin dall’infanzia e, in risposta, la ribellione capricciosa ma vitalissima di chi rifiuta di farsi correggere. È un’idea semplice e potente, che Tsou declina con umorismo fisico e tenera crudeltà quotidiana, senza tesi martellanti.

Una scena di Left-Handed Girl

Tre generazioni, tre traiettorie

La regista intreccia le linee narrative di tre figure femminile: la nonna con zone d’ombra legate all’immigrazione e ai debiti, la madre Sho-Fen schiacciata dai conti del banco al mercato, la figlia maggiore I-Ann che cerca autonomia in equilibrio precario, e la piccola I-Jing, magnete del racconto. Per 108 minuti l’idea di “romanzo familiare al presente” funziona: i segreti filtrano per indizi, il quartiere diventa rete di sostegno e di conflitto, la città è personaggio. Qualche snodo corre via in fretta, ma l’insieme resta coeso grazie a un disegno chiaro degli archi emotivi e alla costanza di tono tra leggerezza e ferita.

Vitalismo vs. scorciatoie

Quando Left-Handed Girl si affida al gesto e allo spazio – gli inseguimenti in scooter, i corridoi del mercato come labirinto, l’intimità compressa dell’appartamento – trova un respiro suo: il movimento racconta la lotta, la topografia urbana rispecchia gli ostacoli. In pochi passaggi affiora il rischio “facile”: il cute factor della bambina è spinto al massimo e certe catarsi arrivano un attimo prima di quanto sarebbe necessario per farle maturare. Sono scivolate episodiche più che un’impostazione ruffiana: si percepisce il desiderio di Tsou di tenere il pubblico vicino senza tradire i personaggi.

Interpretazioni, sguardo e consistenza visiva

Il trio femminile regge e trascina il racconto: Janel Tsai dà a Sho-Fen una concretezza stanca e combattiva; Shih-Yuan Ma costruisce un’adolescenza non apologetica; la piccola Nina Ye calamita lo sguardo ma, quando la regia le concede tempo, resta personaggio e non mascotte trascinante. Intorno, comprimari affettuosamente tratteggiati (il venditore “angelo custode”, i nonni contraddittori) rendono credibile la micro-comunità del mercato. Sul piano visivo, la fotografia abbraccia un colorismo saturo che potrebbe stancare altrove, qui coerente con l’idea di un mondo “troppo pieno” in cui farsi strada. Il soundscape – clacson, sfrigolii, chiacchiericcio – non è semplice cornice: è drammaturgia.

Il film mette a fuoco il patriarcato per accumulo di gesti: il giudizio sull’essere mancini, i debiti “ereditati”, la sessualizzazione precoce dell’adolescente, i piccoli ricatti economici e affettivi. Tsou preferisce la frizione del quotidiano alla lezione espositiva e, proprio lì, si sente la sua voce distinta dal “marchio Baker”. Quando serve, sa anche colpire con nettezza – una carezza negata, un pasto saltato, uno sguardo del nonno – senza bisogno di sottolineature.

Left-Handed Girl, una scena dal film

Left-Handed Girl è un’opera prima vibrante e generosa: il vitalismo è autentico, la cornice urbana è viva, la metafora della mano sinistra è spina dorsale e bussola. L’editing a caleidoscopio e qualche scorciatoia sentimentale ogni tanto erodono profondità, ma non intaccano la sensazione di un mondo pieno, osservato con empatia e senso del dettaglio. Si esce da questa visione con immagini appiccicate addosso – mercati, scooter, piccole disobbedienze – e con la certezza che Tsou abbia già un tono (o meglio, una mano) chiaramente riconoscibile.

Il Falsario: teaser trailer del nuovo film con Pietro Castellitto in anteprima alla Festa del Cinema di Roma

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Il Falsario, il nuovo film diretto da Stefano Lodovichi con protagonista Pietro Castellitto, verrà presentato questa sera in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, fuori concorso nella sezione Grand Public. Contestualmente all’anteprima, Netflix ha diffuso il teaser trailer del film, che sarà disponibile in streaming dal 23 gennaio 2026.

Prodotto da Cattleya, parte di ITV Studios, Il Falsario è scritto da Sandro Petraglia con la collaborazione di Lorenzo Bagnatori, e tratto dal libro Il Falsario di Stato di Nicola Biondo e Massimo Veneziani. Nel cast, accanto a Pietro Castellitto, troviamo Giulia Michelini, Andrea Arcangeli, Pierluigi Gigante, Aurora Giovinazzo, con Edoardo Pesce e Claudio Santamaria.

Una storia di talento, inganno e destino

Ambientato nella Roma degli anni ’70, Il Falsario racconta la storia di Toni, un giovane pittore che arriva nella Capitale con il sogno di diventare un grande artista. Dotato di un talento naturale e di una fame di vita che lo spinge oltre i limiti, Toni finisce però risucchiato in un mondo di trame oscure, menzogne e segreti di Stato. Il suo dono per la pittura lo porterà a diventare il più grande falsario italiano, figura chiave in alcuni dei misteri più oscuri della storia del Paese.

I crediti del film

Un film Netflix prodotto da Cattleya – parte di ITV Studios. Soggetto di Sandro Petraglia e Lorenzo Bagnatori, sceneggiatura di Sandro Petraglia con la collaborazione di Lorenzo Bagnatori, diretto da Stefano Lodovichi (La stanza, Christian).

Spider-Man: Brand New Day foto dal set rivelano il primo sguardo a Sadie Sink nell’MCU

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Spider-Man: Brand New Day riporterà finalmente Tom Holland nell’universo cinematografico Marvel. Sebbene ci siano solo pochi film MCU in uscita nel 2026, uno dei più attesi del prossimo anno è il quarto film da solista dell’attore, dopo essere stato assente dal franchise dal 2021.

Con le riprese principali ancora in corso, @UnBoxPHD ha dato una prima occhiata a Sadie Sink, mentre è sul set insieme al regista di Spider-Man: Brand New Day, Destin Daniel Cretton. L’immagine mostra la star di Stranger Things avvolta in una felpa beige con cappuccio mentre chiacchiera con il regista.


Holland, che ha ripreso le riprese dopo aver subito una lieve commozione cerebrale il 21 settembre 2025, è stato avvistato mentre girava una scena in costume mentre era sospeso su dei cavi. Sink è entrata a far parte del progetto il 12 marzo 2025.

Sebbene le foto dal set abbiano rivelato la sua prima apparizione sul set, non è chiaro quale ruolo interpreterà l’attrice 23enne nel film, dato che la Marvel Studios e la Sony Pictures hanno mantenuto il riserbo sui dettagli. Ci sono state varie voci su chi potrebbe interpretare, tra cui Jean Grey degli X-Men, dato che è in programma un reboot dei mutanti per la timeline dell’MCU.

In un’intervista con Deadline il 23 maggio 2025, Sink ha mantenuto il riserbo quando le è stato chiesto dei rumors sul personaggio per la Fase 6. Ha dichiarato: “Anch’io vedo molti rumors. È stato davvero bello leggerli. Adoro l’universo Marvel. Insomma, sono rumors fantastici”.

Il cast di Spider-Man: Brand New Day ha aggiunto anche Liza Colón-Zayas e Tramell Tillman in ruoli misteriosi. Marvin Jones III darà vita a Tombstone della Marvel nel film del 2026, dopo aver doppiato il cattivo dei fumetti in Spider-Man: Into the Spider-Verse.

Jon Bernthal farà finalmente il suo debutto cinematografico nell’MCU, riprendendo il ruolo di Frank Castle, alias Punisher, dopo averlo interpretato per anni in Daredevil, Daredevil: Born Again e nella sua serie per Netflix. L’attore avrà anche una presentazione speciale nell’MCU in arrivo nel 2026, anche se Disney+ non ha ancora fissato una data di uscita.

Il film di Holland sarà l’ultimo della Fase 6 prima di Avengers: Doomsday e Avengers: Secret Wars, con il film del 2027 che concluderà The Multiverse Saga, anche se non è chiaro se la star britannica sarà presente in entrambi i progetti. Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

Blood Diamond – Diamanti di sangue, la spiegazione del finale del film con Leonardo DiCaprio

Uscito nel 2006 e diretto da Edward Zwick, Blood Diamond – Diamanti di sangue è un film che unisce l’azione al dramma politico, raccontando le atrocità della guerra civile in Sierra Leone negli anni ’90 e il traffico dei cosiddetti “diamanti insanguinati”, pietre preziose vendute per finanziare i conflitti armati in Africa. Interpretato da Leonardo DiCaprio, Djimon Hounsou e Jennifer Connelly, il film non è solo un thriller avvincente, ma anche una riflessione sulla colpa, sulla redenzione e sul prezzo dell’avidità.

Il finale di Blood Diamond – Diamanti di sangue rappresenta la conclusione emotiva e morale di questo percorso: un momento in cui i personaggi principali si confrontano con la verità delle proprie scelte e con la possibilità – o impossibilità – di salvarsi.

La corsa verso la libertà e la morte di Danny Archer

Nell’atto finale, Danny Archer (Leonardo DiCaprio) e Solomon Vandy (Djimon Hounsou) riescono a recuperare il diamante rosa nascosto dal minatore africano durante la prigionia nei campi dei ribelli. La fuga attraverso le montagne è una delle sequenze più tese del film: i due uomini, un tempo separati da interessi opposti, sono ora uniti da un obiettivo comune – la libertà del figlio di Solomon e la possibilità di un futuro migliore.

Quando Archer viene colpito dai ribelli, comprende che non potrà sopravvivere. In uno dei momenti più iconici del film, consegna il diamante a Solomon e lo aiuta a fuggire in elicottero, accettando di rimanere indietro. Sanguinante, si arrampica su una collina, accende una sigaretta e osserva il paesaggio africano al tramonto. È un addio silenzioso, ma anche una confessione visiva: per la prima volta nella sua vita, Danny Archer agisce per qualcun altro, non per profitto.

Il suo sacrificio rappresenta il compimento di un arco morale complesso. Ex mercenario e trafficante di diamanti, Archer aveva visto l’Africa solo come una fonte di guadagno. Nel finale, invece, trova una forma di redenzione attraverso la solidarietà e la consapevolezza.
La morte, per lui, diventa una liberazione: smette di essere un predatore e si riconcilia con la terra che aveva sfruttato.

Il significato del diamante e il tema della redenzione

Djimon Hounsou in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Il diamante rosa non è soltanto un oggetto di valore, ma un simbolo di corruzione e potere. Tutto il film ruota attorno a esso: è la causa della guerra, del dolore di Solomon e della vita cinica di Archer. Ma nel momento in cui Archer lo consegna all’amico, la pietra cambia significato: non è più un mezzo di sfruttamento, ma di libertà. Quel gesto trasforma il “diamante di sangue” in un diamante di speranza, segno che anche nel cuore della violenza può nascere un atto di giustizia.

L’elemento visivo – il sangue di Archer che macchia la terra – rafforza il messaggio del film: il prezzo della ricchezza è sempre umano. Zwick costruisce questo momento con un linguaggio epico e intimo insieme, alternando il respiro ampio del paesaggio africano e il dettaglio degli occhi di DiCaprio, che per la prima volta esprimono pace.

Il finale e la denuncia del sistema

Jennifer Connelly e Leonardo DiCaprio in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Dopo la morte di Archer, il film mostra Solomon Vandy arrivare a Londra per testimoniare davanti a una commissione internazionale. Porta con sé il diamante, ora prova tangibile dei traffici illegali che finanziano le guerre africane. L’aula è piena di giornalisti, politici e rappresentanti del settore minerario: il suo discorso, semplice ma incisivo, denuncia l’indifferenza dell’Occidente verso le tragedie africane.

Questa sequenza chiude il film su un doppio livello: individuale e collettivo. Sul piano personale, Solomon ottiene giustizia e riabbraccia il figlio, riscattando la propria umanità. Sul piano politico, Blood Diamond – Diamanti di sangue invita lo spettatore a riflettere sul costo etico del lusso. Il diamante, oggetto di desiderio universale, diventa simbolo di complicità globale: chi lo compra senza sapere da dove proviene partecipa, indirettamente, al ciclo di violenza che lo ha generato.

Un epilogo di speranza e consapevolezza

Jennifer Connelly e Djimon Hounsou in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Il film si chiude con un applauso della sala dopo la testimonianza di Solomon. È un momento di catarsi collettiva, ma anche una domanda aperta: cosa cambierà davvero? Zwick non offre risposte consolatorie. L’applauso non cancella il sistema di sfruttamento, ma segna un punto di svolta simbolico. Il sacrificio di Archer e il coraggio di Solomon rappresentano due forme di resistenza: una personale, l’altra civile.

Il titolo stesso, Blood Diamond – Diamanti di sangue, rimane un monito: dietro ogni oggetto di bellezza può nascondersi una storia di sangue. Il finale, dunque, non è un lieto fine ma un invito alla consapevolezza – quella che trasforma la denuncia in memoria e la memoria in responsabilità.

Nel suo ultimo sguardo sull’Africa, Danny Archer ritrova ciò che aveva dimenticato: un legame umano. E in quell’istante di quiete, mentre la terra assorbe il suo sangue, Blood Diamond trova la sua verità più semplice e universale: la redenzione non cancella il passato, ma gli dà finalmente un senso.

Hood Witch – Roqya, la spiegazione del finale del film di Saïd Belktibia

Nel finale di Hood Witch – Roqya di Saïd Belktibia, la tensione spirituale e sociale che attraversa tutto il film raggiunge il suo culmine. Dopo aver tentato di riscattarsi grazie alla sua app Baraka, creata per connettere i guaritori spirituali con chi cerca aiuto, Nour si ritrova intrappolata in un meccanismo che non controlla più. La promessa di redenzione e di equilibrio che aveva motivato la sua impresa si trasforma in un incubo morale.

La pellicola, interpretata magistralmente da Golshifteh Farahani, non si conclude con una vittoria o una sconfitta, ma con una presa di coscienza: la protagonista scopre che il potere della roqya — la pratica di esorcismo e guarigione coranica — non è solo un atto spirituale, ma un riflesso delle paure, delle fragilità e delle contraddizioni di chi vi si affida.

Come abbiamo raccontato nell’approfondimento dedicato alla storia vera di Hood Witch – Roqya, il film non si basa su fatti realmente accaduti, ma affonda le sue radici nella realtà sociale delle periferie francesi e nell’uso contemporaneo della spiritualità come via di sopravvivenza. È proprio questo legame con la realtà a rendere il finale così potente: anche se fittizia, la storia di Nour parla di vite autentiche e di dilemmi universali.

La discesa di Nour: dal desiderio di salvezza all’illusione del potere

Nel corso del film, Nour passa dall’essere una piccola contrabbandiera a una sorta di “intermediaria spirituale” digitale. L’app Baraka, nata con buone intenzioni, diventa presto un mercato ambiguo dove fede e profitto si confondono. Il suo successo attira attenzione, denaro, ma anche oscurità. Nour inizia a perdere il controllo del progetto e di sé stessa, mentre intorno a lei cresce un clima di sospetto e paura.

Il finale mostra questa trasformazione come una discesa interiore. Nour non è più soltanto un’imprenditrice o una truffatrice: è una donna che, cercando la guarigione per sé e per gli altri, finisce per diventare vittima del sistema che ha creato. La roqya, che nel film rappresenta la speranza di purificazione, si ribalta nel suo contrario: un rituale di potere e dominio che consuma chi lo pratica.

Belktibia costruisce la scena conclusiva come un rito speculare al titolo: Hood Witch — la “strega della periferia” – non è una figura demoniaca, ma un simbolo della distorsione contemporanea della spiritualità. Nour, che voleva solo riscattarsi, finisce prigioniera della stessa logica che aveva voluto combattere: quella che trasforma la fede in merce e la sofferenza in occasione di guadagno.

Il significato simbolico della “guarigione”

Nell’ultima parte del film, la roqya diventa un concetto ambivalente. Da un lato, è il rito di liberazione dal male, dall’altro rappresenta la tentazione di controllare la fede per trarne vantaggio. Nour comprende troppo tardi che nessuna formula o applicazione può davvero curare l’anima se alla base non c’è empatia.

Quando la vediamo affrontare il fallimento e la perdita, il film suggerisce che la vera roqya non è quella recitata con parole sacre, ma quella che nasce dal riconoscere i propri errori e accettare la vulnerabilità. La protagonista, svuotata e lucida allo stesso tempo, guarda il proprio riflesso: non c’è più magia, solo umanità. È una guarigione simbolica, ottenuta attraverso il dolore e la presa di coscienza.

Un finale aperto, sospeso tra fede e disillusione

Il film si chiude con un’immagine ambigua e potente: Nour si allontana, lasciandosi alle spalle l’app, i guaritori e il mondo che aveva costruito. Non c’è redenzione completa, ma neppure condanna. Belktibia sceglie un finale aperto, dove la protagonista resta sospesa tra due mondi – quello della spiritualità che promette salvezza e quello della realtà che chiede responsabilità.

La luce fioca, i colori freddi e il ritmo lento dell’ultima sequenza rimandano a una sensazione di sospensione, come se la roqya non fosse finita ma avesse cambiato forma. Nour ha perso tutto, ma ha anche ritrovato se stessa: non più mediatrice di miracoli, ma donna consapevole del proprio limite.

Il messaggio del film: fede, potere e sopravvivenza

Il finale di Hood Witch – Roqya riassume la visione del regista: la spiritualità non è mai neutra, ma riflette le tensioni del mondo moderno. In una società dove la religione si mescola con la tecnologia, la fede rischia di diventare uno strumento di potere anziché una via di liberazione.

Belktibia non giudica, ma invita lo spettatore a porsi una domanda: dove finisce la fede autentica e dove inizia l’illusione del controllo? Attraverso il destino di Nour, il film mostra che la vera magia non è quella della roqya, ma quella — più fragile e reale — di chi riesce a perdonare sé stesso e a ricominciare.

Hood Witch – Roqya: il film è tratto da una storia vera?

Uscito in Francia nel 2023, Hood Witch – Roqya è un film d’azione e dramma diretto da Saïd Belktibia con protagonista Golshifteh Farahani, affiancata da Amine Zariouhi e Jérémy Ferrari. La pellicola, della durata di 95 minuti, racconta una vicenda ambientata nella periferia parigina contemporanea, dove il desiderio di riscatto e le credenze spirituali si intrecciano in modo inedito. Ma la storia di Hood Witch è realmente accaduta o è frutto della fantasia del suo autore?

Un racconto di finzione radicato nella realtà sociale

Hood Witch – Roqya non è basato su una storia vera, ma trae ispirazione da un contesto autentico e riconoscibile: quello delle comunità immigrate francesi e del crescente interesse per la roqya, una pratica di guarigione spirituale di origine islamica. Il film racconta la storia di Nour, una giovane contrabbandiera che cerca di dare una svolta alla propria vita creando un’app, Baraka, pensata per mettere in contatto chi cerca aiuto spirituale con guaritori tradizionali. L’idea di fondo — la mercificazione della fede e il business della spiritualità — nasce da fenomeni reali osservati in Europa e nel Maghreb, dove le pratiche di esorcismo e guarigione religiosa convivono con la modernità digitale.

Saïd Belktibia, regista e sceneggiatore, costruisce una storia di finzione ma profondamente ancorata al presente, in cui il linguaggio tecnologico incontra la superstizione, e la ricerca di salvezza diventa metafora del disagio urbano e identitario.

Cosa significa “Roqya” e perché è centrale nel film

Il termine roqya (in arabo “recitazione” o “incantesimo”) si riferisce a un rito di purificazione spirituale praticato in molte comunità musulmane, in cui si recitano versetti del Corano per allontanare influssi negativi, tra cui il malocchio o la possessione.
Nel film, questa pratica assume una dimensione narrativa e simbolica: Roqya diventa il punto di contatto tra fede e business, tra desiderio di autenticità e sfruttamento economico del sacro.

Attraverso la figura di Nour, interpretata da Golshifteh Farahani con grande intensità, Belktibia esplora il confine sottile tra guarigione e manipolazione, spiritualità e potere. L’app “Baraka”, che all’inizio sembra un mezzo per aiutare le persone, finisce per trasformarsi in una rete di interessi e rischi che mette in crisi l’etica della protagonista, spingendola a interrogarsi su cosa significhi davvero “aiutare gli altri”.

Il contesto culturale e la critica sociale

Anche se non racconta un fatto realmente accaduto, Hood Witch – Roqya rispecchia dinamiche molto attuali della società francese contemporanea. Belktibia ambienta il film in una banlieue multiculturale, dove la precarietà economica e la perdita di punti di riferimento generano nuove forme di spiritualità “ibrida”. Il regista osserva senza giudicare, mostrando come la fede, la tecnologia e la disperazione possano intrecciarsi fino a creare nuove forme di dipendenza o di salvezza collettiva.

L’uso dell’azione e del ritmo da thriller non serve solo a intrattenere, ma a esprimere la tensione costante tra modernità e tradizione, tra laicità e credenze religiose.
In questo senso, Hood Witch – Roqya è una storia di finzione, ma anche un ritratto sociologico realistico, capace di far emergere le contraddizioni della Francia post-coloniale e delle sue periferie invisibili.

Finzione e verità emotiva

Pur non essendo tratto da una vicenda vera, il film di Saïd Belktibia si fonda su una verità emotiva e collettiva: quella di chi cerca redenzione, riscatto o semplicemente un senso di appartenenza. Come ha dichiarato il regista in più interviste, il personaggio di Nour nasce dall’osservazione di persone reali che vivono ai margini del sistema, costrette a reinventarsi tra spiritualità, truffa e sopravvivenza.

Hood Witch – Roqya non documenta un fatto di cronaca, ma fotografa una condizione umana contemporanea: quella di chi, in un mondo frammentato, tenta di ricomporre la propria identità tra fede, tecnologia e desiderio di salvezza. Ed è proprio in questa tensione tra realtà e invenzione che il film trova la sua forza più autentica.

Il caso Spotlight, la spiegazione del finale del film di Tom McCarthy

Quando Il caso Spotlight si chiude, lo spettatore è lasciato con un silenzio denso e inquietante. Il telefono della redazione del Boston Globe inizia a squillare, e gli squilli si moltiplicano, fino a diventare un suono continuo, quasi assordante. Non è un espediente drammatico, ma una scelta precisa di regia: quel rumore rappresenta le voci di centinaia di persone che finalmente trovano il coraggio di parlare. È il punto più alto e più doloroso del film, il momento in cui la verità, dopo anni di silenzio, trova finalmente spazio per emergere.

Diretto da Tom McCarthy, Il caso Spotlight racconta con rigore quasi documentaristico la vera inchiesta del Boston Globe che nel 2002 portò alla luce decenni di abusi sessuali su minori da parte di sacerdoti cattolici, sistematicamente coperti dall’Arcidiocesi di Boston. Come abbiamo ricostruito nell’articolo dedicato alla storia vera dietro Il caso Spotlight, il film si basa su fatti autentici e segue fedelmente l’indagine del team investigativo del giornale. Il finale, dunque, non è una chiusura convenzionale, ma una constatazione amara: rivelare la verità non porta sollievo, ma apre una ferita collettiva che non si rimarginerà facilmente.

Un finale senza catarsi: la vittoria della verità, non dell’eroismo

A differenza di molti film di denuncia, Il caso Spotlight rifiuta qualsiasi forma di trionfalismo. Non c’è un momento liberatorio, nessuna scena in cui i protagonisti vengono celebrati come eroi. La verità arriva, ma il prezzo è altissimo.

Quando il Boston Globe pubblica la prima inchiesta, nel gennaio 2002, i giornalisti sanno che non stanno scrivendo solo un articolo, ma rovesciando un intero sistema di potere.
La camera di McCarthy si sofferma sui volti esausti dei reporter: Walter “Robby” Robinson (Michael Keaton), Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Matt Carroll (Brian d’Arcy James). Sono persone comuni, non eroi invincibili, ma professionisti che hanno dedicato mesi a raccogliere prove, testimonianze e documenti legali, sfidando la Chiesa cattolica in una città in cui la fede era un’istituzione intoccabile.

Il finale mostra la pubblicazione del pezzo, ma anche la consapevolezza che il lavoro non finisce lì. Il film termina con una lista di oltre 200 città nel mondo dove sono stati denunciati casi simili. È un epilogo asciutto, quasi giornalistico, che amplifica il senso di responsabilità: Boston non è un’eccezione, ma il primo tassello di una verità globale.

Il significato simbolico delle ultime scene

Michael Keaton e Rachel McAdams in Il caso Spotlight (2015)
Foto di Kerry Hayes – © 2015 – Open Road Films

L’ultima sequenza, quella del telefono che squilla senza sosta, è il vero centro emotivo del film. Non vediamo le vittime, ma le sentiamo – o meglio, sentiamo la loro voce collettiva. Il suono ripetuto del telefono non rappresenta il clamore mediatico, bensì la rottura del silenzio: dopo decenni di vergogna e isolamento, gli ex bambini diventati adulti trovano finalmente qualcuno disposto ad ascoltarli.

In quel momento, la redazione non è più solo il luogo del giornalismo, ma uno spazio di giustizia. I giornalisti, che per mesi hanno cercato prove e documenti, capiscono che la loro vera missione non era solo pubblicare un’inchiesta, ma dare voce a chi era stato dimenticato.

McCarthy costruisce questo momento con grande sobrietà visiva: nessuna musica, nessuna esaltazione, solo il rumore del telefono e i volti dei protagonisti. È una lezione di cinema e di etica: la verità non ha bisogno di effetti speciali, ha bisogno di coraggio e di ascolto.

La portata storica e morale del finale

Michael Keaton, Brian d'Arcy James, Mark Ruffalo, John Slattery e Rachel McAdams in Il caso Spotlight (2015)
Foto di Kerry Hayes – © 2015 – Open Road Films

Il finale di Il caso Spotlight si estende ben oltre la cronaca. Il film si chiude con un testo che riporta il numero dei 249 sacerdoti identificati a Boston come responsabili di abusi, e la notizia che l’Arcidiocesi aveva coperto i loro crimini spostandoli di parrocchia in parrocchia. Subito dopo, un elenco scorre sullo schermo: decine di città, paesi, diocesi nel mondo dove casi analoghi sono stati documentati.

È una conclusione di straordinaria potenza perché ribalta la prospettiva: il male non è circoscritto a un luogo o a un tempo, ma è universale e sistemico. Quello che i giornalisti hanno scoperto a Boston non è un’anomalia, ma il riflesso di una cultura globale di silenzio e protezione del potere.

La scelta di non mostrare i colpevoli puniti o i protagonisti esultanti sottolinea la responsabilità condivisa: anche la stampa, come la società civile, aveva taciuto troppo a lungo. In questo senso, il finale non celebra un trionfo, ma una presa di coscienza collettiva.

Un film che parla ancora oggi

Michael Keaton e Mark Ruffalo in Il caso Spotlight (2015)
Foto di Kerry Hayes – © 2015 – Open Road Films

Il valore del finale di Il caso Spotlight sta anche nella sua attualità. A distanza di oltre vent’anni, l’inchiesta del Boston Globe continua a essere un punto di riferimento per il giornalismo d’inchiesta e per il dibattito sulla trasparenza delle istituzioni religiose. Come ha dichiarato il vero Marty Baron, il problema “non è solo l’abuso, ma la copertura sistematica che lo ha reso possibile”.

Il film non offre soluzioni, ma ricorda che il primo passo verso la giustizia è credere alle vittime. Il finale, silenzioso e devastante, diventa così una riflessione sul potere della parola e sulla necessità di non voltarsi dall’altra parte.

In definitiva, Il caso Spotlight si conclude senza applausi né colpi di scena, ma con un gesto di grande umanità: ascoltare. E proprio in quell’ascolto, nell’apertura di quei telefoni che squillano senza tregua, si trova la vera catarsi del film — quella della verità che finalmente trova voce.

Il caso Spotlight: la storia vera dietro il film premio Oscar

Vincitore dell’Oscar come Miglior Film nel 2016, Il caso Spotlight (Spotlight, 2015) di Tom McCarthy è uno dei più potenti film giornalistici del nuovo millennio. Interpretato da Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, Liev Schreiber e Stanley Tucci, racconta la vera inchiesta condotta dal team investigativo del Boston Globe che, nel 2002, portò alla luce decenni di abusi sessuali su minori commessi da sacerdoti cattolici e coperti sistematicamente dall’Arcidiocesi di Boston. Ma quanto c’è di vero nella storia del film?

Una storia vera di giornalismo e coraggio civile

Il caso Spotlight è basato su fatti reali, e segue con estrema fedeltà gli eventi che portarono alla pubblicazione della storica inchiesta del Boston Globe. Tutto iniziò nel luglio del 2001, quando Marty Baron, da poco nominato direttore del giornale, lesse una colonna di Eileen McNamara su alcune cause legali intentate contro un sacerdote accusato di abusi, padre John J. Geoghan. Quando scoprì che i fascicoli giudiziari erano stati sigillati per decisione del tribunale, Baron decise di sfidare la Chiesa di Boston e ottenere la desecretazione dei documenti. Fu la scintilla che accese una delle più importanti inchieste giornalistiche della storia americana.

Sotto la guida di Walter “Robby” Robinson (interpretato da Michael Keaton), la squadra Spotlight iniziò a scavare. I primi risultati furono sconvolgenti: non si trattava di un caso isolato, ma di una rete di coperture sistematiche che per decenni aveva permesso a decine di preti accusati di pedofilia di restare in servizio, spostati di parrocchia in parrocchia per evitare scandali pubblici.

Secondo quanto dichiarato dallo stesso Robinson, il team scoprì circa 250 sacerdoti coinvolti in episodi di abuso, protetti dall’omertà dell’istituzione ecclesiastica e da accordi economici segreti.

Leggi anche la spiegazione del finale di Il caso Spotlight

Le libertà del film e la fedeltà alla realtà

Il regista Tom McCarthy e lo sceneggiatore Josh Singer hanno lavorato a stretto contatto con i veri membri del team Spotlight. Gli eventi, le testimonianze e persino i dialoghi si basano su fonti reali. Le uniche variazioni riguardano piccoli adattamenti funzionali alla narrazione. Ad esempio, nel film è la reporter Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) a intervistare un sacerdote che ammette apertamente gli abusi, mentre nella realtà l’intervista fu condotta dal giornalista Steve Kurkjian. Padre Ronald H. Paquin, realmente esistito, dichiarò:

“Sì, ho fatto delle cose, ma non mi sono mai sentito gratificato, e non ho mai violentato nessuno.”

Una confessione scioccante che, come nel film, mostrò quanto profonda fosse la negazione del crimine da parte di molti religiosi coinvolti. L’inchiesta fu particolarmente difficile anche a causa del potere della Chiesa Cattolica a Boston, allora percepita come un’autorità non solo spirituale ma anche politica. Come ricordò lo stesso Robinson, “bisognava muoversi con estrema cautela, perché la Chiesa aveva un’influenza capillare su tutta la città.”

Le conseguenze reali dell’inchiesta Spotlight

Il 6 gennaio 2002 il Boston Globe pubblicò il primo di una serie di articoli che documentavano l’estensione degli abusi e il ruolo dell’Arcidiocesi nel nasconderli. Nei mesi successivi, centinaia di vittime contattarono la redazione, sentendosi per la prima volta legittimate a raccontare la propria storia. Solo a Boston, oltre 300 nuove testimonianze emersero nel giro di poche settimane.

L’impatto fu enorme: il cardinale Bernard F. Law si dimise nel dicembre 2002, e la Chiesa Cattolica fu costretta a riconoscere pubblicamente l’esistenza di un problema sistemico.
L’anno seguente, nel 2003, il team Spotlight — composto da Walter Robinson, Michael Rezendes, Sacha Pfeiffer e Matt Carroll — ricevette il Premio Pulitzer per il Servizio Pubblico, il massimo riconoscimento giornalistico negli Stati Uniti.

Dopo lo scandalo: la risposta della Chiesa

Quando il film uscì nel 2015, l’Arcidiocesi di Boston, guidata dal cardinale Sean P. O’Malley, accolse il suo arrivo con compostezza. O’Malley definì Spotlight “il racconto di un periodo doloroso”, ma ribadì l’impegno della Chiesa nel perseguire una politica di tolleranza zero verso ogni forma di abuso.

Nonostante ciò, anche lo stesso Marty Baron, oggi tra i giornalisti più rispettati d’America, ha riconosciuto che la Chiesa ha impiegato troppo tempo a istituire un vero sistema di responsabilità per i vescovi che avevano coperto i reati dei propri sacerdoti.

Una lezione di verità e responsabilità

Come sottolineato dal regista Tom McCarthy, l’importanza dell’inchiesta del Boston Globe non fu solo nel rivelare un crimine, ma nel “collegare i puntini”: dimostrare che non si trattava di casi isolati, bensì di un meccanismo di insabbiamento sistematico.

Il caso Spotlight resta, a distanza di anni, un film necessario: un omaggio al potere del giornalismo d’inchiesta e alla forza civile di chi sceglie la verità anche quando è scomoda. La storia vera dietro il film ricorda che la luce della verità, una volta accesa, non può più essere spenta.

The librarians: recensione del docufilm di Kim A. Snyder – #RoFF20

I libri sono ancora oggi uno dei migliori strumenti per la diffusione della conoscenza; quest’ultima non dovrebbe mai essere frenata o circoscritta, ma talvolta la paura dei governi li porta a limitare tale sete di sapere. Questo è proprio ciò che viene raccontato in The Librarians: diretto e prodotto da Kim A. Snyder, con l’ausilio di Sarah Jessica Parker alla produzione esecutiva con la Pretty Matches Production, il documentario riporta le vicende che riguardano la messa al bando di molti libri dalle scuole pubbliche. The Librarians è stato proiettato per la prima volta al Sundance Film festival lo scorso 24 gennaio, per poi essere presentato anche allo Zurich Film Festival e infine alla Festa del Cinema di Roma nella categoria Freestyle.

The librarians: la cultura al rogo

Nel 2021, con il chiudersi gradualmente del capitolo pandemico, in Texas inizia a diffondersi un’altra pericolosa malattia: l’ignoranza. Il comitato Moms for Liberty da il via a una potente campagna per eliminare alcuni generi di libri dalle scuole pubbliche di vario grado, in quanto considerati non adatti a minori: le opere in questione sono spesso collegate a importanti tematiche quali la comunità LGBTQ+, la lotta contro il razzismo e le discriminazioni. Le madri dell’associazione puntano a difendere i propri figli da influenze esterne di tipo pornografico o da “inclinazioni” che potrebbero modificare il loro orientamento sessuale e identità di genere.

Alla fondazione del comitato, segue un provvedimento approvato dal deputato repubblicano Matt Kraus che imponeva alle scuole pubbliche del Texas di rimuovere dalle proprie biblioteche i titoli elencati in una lista di ben 850 opere. Con il diffondersi del fenomeno in altri stati federati, vengono individuati come perfetti capri espiatori tutte le bibliotecarie che si opponevano alla rimozione dei libri, ergendosi quali custodi della conoscenza.

La paura del diverso

Tema focale di The librarians è certamente il timore di ciò che è diverso e poco conosciuto: i libri che divengono target della censura sono proprio opere su persone di colore o di diversi orientamenti sessuali. La paura di molti di coloro che si fanno fautori di questa battaglia contro la conoscenza è per l’appunto il fatto che ci si possa allontanare dai canoni tradizionali, che i bambini o i ragazzi, entrando a contatto con ciò che è diverso, ne vengano influenzati nel diventare adulti.

L’idea di evitare che i giovani crescano di altri orientamenti sessuali o con idee diverse viene smentita proprio dai tanti ragazzi che si oppongono fermamente all’eliminazione dei libri dalle loro biblioteche scolastiche: ragazzi che già al liceo comprendono l’importanza di avere una vasta conoscenza di molteplici punti di vista. A ciò si aggiunge anche la figura di Weston Brown: figlio di Monica Brown, una delle maggiori sostenitrici delle Moms for Liberty e della censura dei libri, è dichiaratamente gay, ha una relazione stabile con un altro ragazzo e, sfortunatamente, è stato allontanato da tutta la sua famiglia.

Da sottolineare inoltre che i libri segnalati nella lista non riguardano solamente “l’ideologia gender”, ma sono talvolta anche libri storici, su temi molto rilevanti in territorio americano, quali la schiavitù e il Ku Klux Klan.

Le bibliotecarie come custodi di conoscenza

A ergersi come primarie oppositrici di queste politiche in The Librarians abbiamo proprio le bibliotecarie: figure che talvolta restano in secondo piano, come dei ponti per l’acquisizione di conoscenza, divengono in questo caso delle figure fulcro. Nel rifiutarsi di eliminare i libri presenti nella lista redatta dal repubblicano Kraus, molte vengono licenziate e messe alla gogna mediatica: ricevono minacce di morte, vengono accusate di avere inclinazioni pedofile e di somministrare materiale pornografico agli studenti. Pian piano che il fenomeno si diffonde nei vari stati federati, dal Texas fino alla Florida, la questione assume un carattere sempre più serio: a diventare dei target non sono più le sole bibliotecarie, ma tutti coloro che si oppongono pubblicamente all’eliminazione di certe opere dalle scuole pubbliche.

The Librarians porta sul grande schermo degli eventi tanto poco conosciuti quanto però importanti: nel vedere a confronto i roghi di libri effettuati dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale e quelli del 2022 in America, sembrerebbe che la storia si stia pericolosamente ripetendo. Alternando scene di film in bianco e nero, quali The Twilight Zone e Farenheit 451, citazioni di libri e testimonianze attuali di bibliotecarie e persone coinvolte nei fatti, il risultato è certamente un documentario molto interessante, anche se a tratti con dei ritmi più lenti.

Intervista a Valerio Jalongo, regista di Wider than the sky

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Che cos’è davvero l’intelligenza artificiale? E’ quello che si chiede Valerio Jalongo in Wider than the sky, il suo nuovo film presentato alla Festa del Cinema di Roma 2025 nella sezione Special Screening. Ecco cosa ci ha raccontato a riguardo.

Girato in oltre dieci città tra Europa, Stati Uniti e Giappone, il film mette in dialogo neuroscienziati, filosofi, artisti e robot umanoidi per interrogarsi sul futuro dell’umanità di fronte a una tecnologia che sta ridefinendo le nostre vite.

Wider Than The Sky – Più grande del cielo è una produzione internazionale, un’indagine senza confini politici e geografici realizzato in collaborazione con la comunità scientifica europea dell’Human Brain Project e la compagnia di danza Sasha Waltz & Guests.  Protagonisti del film sono pensatori e innovatori di fama mondiale, tra cui Antonio Damasio, Andrea Moro, Rob Reich, Refik Anadol, Hany Farid, Rainer Goebel, Sasha Waltz, Sougwen Chung, e i robot Anymal e Ameca che mostrano i punti di contatto tra ricerca neuroscientifica, arti performative e robotica avanzata.

“Non dovremmo chiamarla intelligenza artificiale – afferma Jalongo – ma intelligenza collettiva, perché nulla esisterebbe senza la conoscenza condivisa dell’umanità. La vera sfida è decidere se questa rivoluzione sarà usata per concentrare il potere o per costruire un futuro aperto e democratico” dichiara Jalongo che, dopo Il senso della bellezza e L’acqua l’insegna la sete, torna al cinema quale mezzo di riflessione necessaria sul nostro presente, tra emozione e profonda inquietudine.

Con immagini sorprendenti e momenti di grande intensità visiva – dalle coreografie di Sasha Waltz ai droni da competizione, fino ai laboratori di robotica di Zurigo – Wider Than The Sky – Più grande del cielo svela un’IA non solo come sfida tecnologica, ma come mistero profondamente umano, destinato a cambiare radicalmente il nostro rapporto con la conoscenza, la creatività e la libertà.

Wider Than The Sky – Più grande del cielo è una produzione Aura Film, RSI Radiotelevisione Svizzera, Ameuropa International, con Rai Cinema e sarà disponibile da subito per le programmazioni nei cinema con matineé dedicate e rivolte alle scuole, e nelle sale italiane prossimamente con Wanted.

Angelina Jolie incanta il tappeto rosso della Festa del Cinema di Roma 2025

Insieme a Alice Winocour, Louis Garrel e Anyier Anei, regista e interpreti di Couture, Angelina Jolie è stata la protagonista del sabato sera della Festa del Cinema di Roma. L’attrice ha sfilato nella cavea dell’Auditorium per la gioia dei fan, accorsi numerosi e alcuni in attesa sin dalla mattina del giorno stesso.

La nostra recensione di Couture

Il film – presentato nella sezione Grand Public – vede protagoniste tre donne, di culture, età e professioni diverse, immerse nella Fashion Week di Parigi: una regista americana che deve girare un video di moda, che ha problemi con la figlia adolescente e riceve una dura diagnosi medica; una truccatrice francese che ha aspirazioni letterarie e vorrebbe scrivere un libro sull’ambiente della moda; una studentessa di farmacia diciottenne di Nairobi che è diventata la nuova scoperta “esotica” delle passerelle. Angelina Jolie guida un cast che, oltre alle coprotagoniste Ella Rumpf e Anyier Anei, annovera Louis Garrel e Vincent Lindon, in un dramma che, nonostante il glamour dell’ambientazione, Alice Winocour riesce a rendere quotidiano e umano.

Il Professore e il Pinguino, la spiegazione del finale del film di Peter Cattaneo

Nel finale di Il Professore e il Pinguino (The Penguin Lessons) di Peter Cattaneo, la storia giunge al suo momento più toccante e rivelatore. Dopo aver attraversato un percorso di crescita personale e morale, Tom Michell (interpretato da Steve Coogan) si trova a confrontarsi con la perdita del suo inseparabile compagno di viaggio, Juan Salvador, il pinguino che aveva salvato da una spiaggia devastata dal petrolio. Questa morte improvvisa, apparentemente semplice nella sua dinamica, racchiude invece il senso più profondo del film: l’incontro tra due esseri vulnerabili che, per un tempo limitato, si sono salvati a vicenda.

La scena del funerale di Juan Salvador, celebrata nel cortile della scuola davanti agli studenti e al personale, è girata con una compostezza quasi documentaria. Nessun eccesso di pathos, ma un dolore silenzioso, trattenuto, che riflette la natura del legame tra l’uomo e l’animale. Michell pronuncia poche parole, ma il suo discorso — semplice e diretto — diventa una lezione di vita: il pinguino è stato la prova che la gentilezza e la cura possono restituire senso anche quando tutto sembra perduto.

Dal libro alla realtà: la storia vera che ha ispirato il film

Come abbiamo approfondito nell’articolo dedicato alla storia vera di Il Professore e il Pinguino, il film è tratto dal memoir autobiografico di Tom Michell, pubblicato nel 2015.
Nel libro, Michell raccontava realmente di aver salvato un pinguino in Uruguay negli anni Settanta e di averlo portato con sé in Argentina, dove insegnava in un collegio per ragazzi. Quel pinguino, chiamato Juan Salvador, divenne una sorta di mascotte, capace di unire studenti e docenti e di restituire un senso di umanità in un periodo storico complesso, segnato dal colpo di Stato e dalle tensioni sociali.

Peter Cattaneo e lo sceneggiatore Jeff Pope hanno mantenuto la base reale del racconto, ampliandola però con elementi di finzione — come la figura di Sofia, la giovane attivista, e il trauma personale di Michell per la perdita della figlia — per esplorare un arco emotivo più ampio. Nel film, la storia del pinguino diventa un catalizzatore di redenzione, un simbolo di empatia in un mondo in cui la violenza politica e la disillusione personale sembrano prevalere.

La morte di Juan Salvador e la rinascita di Tom Michell

Il momento della morte di Juan Salvador segna la conclusione simbolica del percorso del protagonista. Michell, che fino a quel momento aveva represso il dolore per la perdita della figlia, riesce finalmente a elaborare il lutto. La cura per il pinguino — lavarlo, nutrirlo, proteggerlo — è stata una forma di espiazione inconscia, un modo per ridare valore alla vita e al contatto umano dopo anni di distacco e colpa. Quando il pinguino muore, non è soltanto una perdita: è la chiusura di un cerchio. Michell ha imparato ad amare di nuovo, a sentire compassione e a restare presente nel mondo, nonostante il dolore.

La regia di Cattaneo accompagna questo momento con toni sobri e colori desaturati: il cortile della scuola, il vento tra gli alberi, il rugby field in lontananza. È un’immagine di quiete, quasi spirituale. E mentre Michell pronuncia il suo elogio funebre, Sofia ricompare, viva ma segnata dalle torture subite. Il ritorno della ragazza, che rappresenta la gioventù argentina e il coraggio della libertà, fa da contrappunto alla morte del pinguino: uno se ne va, l’altra ritorna. È la vita che, nonostante tutto, continua.

Simbolismo e significato del finale

Il finale di Il Professore e il Pinguino è costruito come una catarsi emotiva e morale. Juan Salvador, nella sua innocenza, incarna la purezza e la lealtà che Michell aveva dimenticato. La sua morte non è una sconfitta, ma una liberazione: l’animale ha compiuto la sua funzione di guida, restituendo al protagonista la capacità di provare empatia.

Quando Sofia torna e si riunisce alla nonna Maria, Michell osserva la scena in silenzio. Non c’è bisogno di parole: quel momento di riconciliazione familiare riflette ciò che lui stesso ha ritrovato interiormente. Il film termina con Michell che guarda il campo di rugby dove ha seppellito Juan Salvador, mentre i ragazzi giocano. L’inquadratura si allarga, lasciando lo spettatore con un senso di pace e continuità: la vita non si ferma davanti al dolore, ma lo integra e lo trasforma.

Una lezione di umanità e resilienza

Il Professore e il Pinguino

Attraverso il suo finale, Il Professore e il Pinguino racconta che la gentilezza non è mai un atto inutile. Anche un piccolo gesto — come salvare un animale sconosciuto — può cambiare radicalmente il corso di una vita. Michell non trova salvezza attraverso la fede o la logica, ma attraverso l’empatia. Il film si chiude dunque non con una tragedia, ma con una rinascita interiore: la consapevolezza che, per quanto breve o fragile, ogni legame autentico lascia un segno.

Peter Cattaneo costruisce così un finale sospeso tra realtà e poesia, fedele allo spirito del libro di Michell: una commedia umana che, dietro il sorriso, custodisce un invito profondo a prendersi cura degli altri — e di sé stessi.

Il Professore e il Pinguino: il film è tratto da una storia vera?

Il Professore e il Pinguino (The Penguin Lessons) è un film del 2024 diretto da Peter Cattaneo e interpretato da Steve Coogan e Jonathan Pryce. Presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival il 6 settembre 2024, il film è una commedia drammatica che alterna ironia e malinconia per raccontare l’incontro tra un insegnante britannico e un pinguino sopravvissuto a un disastro ambientale. Ma quanto c’è di vero in questa storia che ha commosso pubblico e critica?

Una storia vera tratta dal memoir di Tom Michell

Il film è tratto dal libro autobiografico The Penguin Lessons di Tom Michell, pubblicato nel 2015 e divenuto un caso editoriale internazionale. Nel suo memoir, Michell racconta la propria esperienza come giovane insegnante inglese trasferitosi in Argentina negli anni Settanta per insegnare inglese e rugby in un collegio maschile.

Durante un viaggio in Uruguay, sulla spiaggia di Punta del Este, si imbatté in decine di pinguini uccisi da una fuoriuscita di petrolio. Tra i corpi senza vita trovò un unico sopravvissuto: lo ripulì nel bagno dell’hotel, lo nutrì e cercò di restituirlo al mare. Ma l’animale, ribattezzato Juan Salvador, rifiutò di andarsene, seguendolo ovunque. Michell decise così di portarlo con sé in Argentina, dove divenne la mascotte della scuola e un simbolo di speranza per studenti e insegnanti.

Dal libro al film: libertà creative e nuovo contesto storico

La sceneggiatura, firmata da Jeff Pope, mantiene la struttura del racconto originale ma inserisce nuovi elementi di fiction per ampliare il dramma umano e politico. Nel film, Michell insegna in una Buenos Aires attraversata dalle tensioni del colpo di Stato del 1976, e stringe legami con Maria e Sofia, due donne coinvolte nella lotta contro la repressione militare.

Attraverso di loro, il film intreccia il percorso personale del professore — segnato dalla perdita della figlia — con la storia collettiva del Paese, trasformando la vicenda in una riflessione sulla libertà, il coraggio e la redenzione. Il pinguino Juan Salvador diventa così una presenza simbolica, un ponte tra dolore e speranza, tra la fragilità umana e la purezza della natura.

Una lezione di umanità ispirata a fatti reali

Il Professore e il Pinguino

Nonostante le licenze narrative, Il Professore e il Pinguino resta ispirato a una storia vera. L’esperienza reale di Tom Michell e del suo pinguino ha rappresentato un piccolo miracolo quotidiano, capace di restituire fiducia, empatia e leggerezza in un tempo di crisi.

Nel film, la morte di Juan Salvador e il suo funerale nel cortile della scuola diventano una metafora di rinascita: un modo per dire addio, ma anche per celebrare ciò che resta. Come nel libro, l’incontro tra uomo e animale è una parabola sulla cura reciproca e sulla possibilità di riscoprire la gioia nei luoghi più inattesi.

Il Professore e il Pinguino ricorda che a volte la più grande lezione di vita arriva da chi non parla, ma sa ascoltare.

Tre ciotole, la spiegazione del finale del film di Isabel Coixet

Presentato al Toronto International Film Festival e diretto da Isabel Coixet, Tre ciotole si chiude con un finale denso di significato, dove il percorso della protagonista, Marta (Alba Rohrwacher), raggiunge la piena consapevolezza di sé e del proprio corpo. La regista spagnola, adattando il romanzo di Michela Murgia, costruisce un epilogo che non parla di morte, ma di trasformazione e continuità.

L’accettazione della fine e la scelta del distacco

Dopo la diagnosi di tumore metastatico, Marta comprende che non può più aggrapparsi alla vita di prima. La malattia non è solo un evento biologico, ma un passaggio simbolico che la obbliga a rivedere il proprio modo di stare al mondo. Nel film, il gesto di fingere una partenza per un lungo viaggio diventa un atto di libertà: Marta sceglie di “uscire di scena” secondo le proprie regole, evitando di essere definita solo attraverso la malattia. È un modo per liberare sé stessa e chi le sta accanto, ribaltando la dinamica di passività che spesso accompagna la malattia terminale.

Il lascito di Marta e la memoria condivisa

Il salto temporale finale mostra la casa di Marta piena di persone care — familiari, amici, colleghi — che, seguendo le sue ultime volontà, prendono con sé un oggetto, un frammento della sua vita quotidiana. Questo gesto collettivo è il vero cuore del finale: la trasmissione del ricordo come forma di continuità. Nessun addio teatrale, ma un rito di passaggio intimo e comunitario, che rispecchia perfettamente la visione di Michela Murgia sulla famiglia scelta, come luogo affettivo costruito oltre i legami di sangue.

Il significato simbolico delle “tre ciotole”

Il titolo, ripreso dal romanzo, richiama una pratica di consapevolezza suggerita da un maestro zen: tenere tre ciotole sul tavolo, una per ciò che si ha, una per ciò che si dà e una per ciò che si accoglie. Nel finale, questa immagine diventa la chiave interpretativa dell’intera storia. Marta ha imparato a riempire le sue “ciotole” in equilibrio — accettando la perdita, donando affetto e ricevendo amore senza paura. La sua casa, riempita di persone che si scambiano ricordi, è la rappresentazione concreta di questo equilibrio raggiunto.

Un epilogo coerente con la poetica di Michela Murgia

Come nel libro, anche nel film il finale è una riflessione sulla vita dopo la vita, sulla possibilità di restare presenti negli altri attraverso i gesti e gli affetti condivisi. Isabel Coixet non cerca il melodramma, ma un tono di sobria gratitudine. L’ultima inquadratura — la luce che filtra tra gli oggetti di Marta — suggella la continuità tra materia e spirito, tra presenza e assenza. In questo senso, Tre ciotole è meno un racconto di morte e più un manifesto di vita, fedele allo sguardo lucido e compassionevole di Michela Murgia.

Tre ciotole: il film è tratto da una storia vera?

Tre ciotole è un film del 2025 diretto da Isabel Coixet e scritto dalla stessa regista insieme a Enrico Audenino, basato sull’omonimo romanzo di Michela Murgia, pubblicato pochi mesi prima della sua scomparsa. Presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival, il film segna un momento di grande intensità emotiva nel cinema italiano contemporaneo: una riflessione sul corpo, sulla malattia, ma anche sull’amore come forma di resistenza e consapevolezza.

Protagonista della pellicola è Marta, interpretata da Alba Rohrwacher, affiancata da Elio Germano nel ruolo di Antonio. I due vivono a Roma, in una relazione che sembra aver perso equilibrio e curiosità reciproca. L’indolenza di Marta verso gli interessi del compagno porta quest’ultimo a lasciarla, innescando un cambiamento profondo che coinvolge anche il corpo della donna. I disturbi gastrointestinali diventano il segno visibile di un disagio interiore più ampio, destinato a condurla verso una diagnosi inaspettata: un tumore metastatico non operabile.

Tre ciotole non è una storia vera, ma racchiude la verità di Michela Murgia

Pur non raccontando una vicenda realmente accaduta, Tre ciotole è intimamente legato all’esperienza e al pensiero di Michela Murgia. Nel romanzo da cui trae origine, l’autrice sarda affrontava temi che risuonavano con la sua condizione personale negli ultimi anni di vita: la malattia, la famiglia scelta, la libertà di amare e di lasciare andare. Isabel Coixet traduce tutto questo in un linguaggio visivo fatto di silenzi, piccoli gesti e sguardi sospesi, trasformando la storia di Marta in una metafora dell’accettazione.

Il personaggio della specialista gastroenterologa, che accompagna Marta in un percorso di guarigione non solo fisica ma anche emotiva, diventa nel film una figura chiave: simbolo della cura e della solidarietà femminile che Murgia ha spesso celebrato nelle sue opere.

Un finale che parla di vita, non di morte

Nel finale del film, Marta – ormai consapevole della propria condizione – sceglie di affrontare la malattia con dignità e amore, fingendo una partenza per un lungo viaggio. Il collega di filosofia, segretamente innamorato di lei, promette di vigilare sulle questioni lasciate in sospeso. Con un salto temporale, la casa di Marta si riempie di amici e persone care che, seguendo le sue volontà, si portano via un oggetto, un ricordo, un frammento della sua esistenza. È una scena di commiato e gratitudine, che restituisce il senso profondo del titolo: tre ciotole come immagine di equilibrio, di misura e di accoglienza del cambiamento.

La verità emotiva di una storia universale

Tre ciotole non è dunque tratto da una storia vera, ma da un romanzo profondamente autobiografico, in cui Michela Murgia intreccia la propria esperienza alla riflessione universale sulla perdita e sulla rinascita. Isabel Coixet, autrice da sempre attenta ai temi dell’intimità e dell’identità femminile, ne offre un adattamento rispettoso e commosso, che trasforma la finzione in verità emotiva. Nel viaggio di Marta c’è la voce di Murgia, la sua ironia, la sua lucidità e quella forza gentile che continua a parlare al pubblico come un lascito d’amore e libertà.

Le 5 migliori interpretazioni in After The Hunt, in ordine di gradimento

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After the Hunt – Dopo la caccia uscirà finalmente nelle sale questo fine settimana e il film potrebbe essere sulla buona strada per una forte campagna di premi nei prossimi mesi. Sebbene le recensioni di After the Hunt siano state generalmente contrastanti, i critici hanno elogiato molto le interpretazioni dei protagonisti Andrew Garfield, Ayo Edebiri e Julia Roberts.

L’ultimo thriller di Luca Guadagnino pone molte domande importanti sul consenso, l’autonomia e le dinamiche di potere sul posto di lavoro, che sembrano sempre più rilevanti nel mondo di oggi. Questo importante commento è presente fino al finale di  After the Hunt d’impatto, che lascia il pubblico con più domande che risposte.

Sebbene molte critiche siano state rivolte alla sceneggiatura di Guadagnino, la maggior parte concorda sul fatto che le interpretazioni dei protagonisti di After the Hunt – Dopo la caccia sono abbastanza forti da sostenere il progetto per la maggior parte del tempo. Si tratta di una storia molto incentrata sui personaggi, e le interpretazioni richiedono una grande quantità di sfumature per far risaltare questa narrazione ambigua.

Chloë Sevigny

Julia Roberts e Chloë Sevigny in After the Hunt- Dopo la caccia (2025)
Foto di Yannis Drakoulidis/Yannis Drakoulidis – © 2025 Amazon Content Services LLC.

Chloe Sevigny offre una performance convincente in After the Hunt – Dopo la caccia, ma il suo personaggio è in definitiva troppo distante dalla narrazione principale per lasciare un impatto significativo. Interpreta la dottoressa Kim Sayers, referente degli studenti dell’università e amica intima della protagonista interpretata da Julia Roberts, Alma.

Il problema principale del personaggio di Sevigny è che ha ben poco in comune con gli altri personaggi. Esiste solo per portare avanti una specifica sottotrama (la richiesta di Alma per ottenere la cattedra all’università), ma non ha molto a che fare con la trama principale del film, ovvero la violenza sessuale subita da Maggie e le sue ripercussioni professionali.

La Sevigny fa un ottimo lavoro nel mettere in evidenza l’ipocrisia di Kim e nel mostrare quanto possa essere spietato il mondo accademico, ma alla fine questo sembra irrilevante in una storia che ha al centro questioni molto più urgenti. Non aiuta nemmeno il fatto che After the Hunt – Dopo la caccia si sia fortemente pubblicizzato come una sorta di triangolo amoroso distorto, lasciando i ruoli secondari poco sviluppati.

Come hanno sottolineato molte recensioni di After The Hunt, questa è una storia molto tematica che ruota attorno a un’idea particolare, e tutto il resto finisce per sembrare secondario. Chloe Sevigny si ritrova vittima di questa struttura non convenzionale; fa del suo meglio con un personaggio molto piatto, ma il suo ruolo alla fine ha un impatto minimo sulla storia.

Ayo Edebiri

Ayo Edebiri in After the Hunt- Dopo la caccia (2025)
Foto di Yannis Drakoulidis/Yannis Drakoulidis – © 2025 Amazon Content Services LLC.

After the Hunt – Dopo la caccia è un ruolo completamente diverso per Ayo Edebiri. L’attrice è nota soprattutto per il suo lavoro comico in progetti come The Bear, Bottoms e Abbott Elementary, ma il nuovo film di Guadagnino richiede competenze completamente diverse. Invece di battute sarcastiche e scherzi arguti, questo ruolo richiede qualcosa di molto più serio.

Edebiri interpreta Maggie in After the Hunt – Dopo la caccia, la studentessa tormentata che accusa il suo insegnante di averla aggredita sessualmente dopo una festa. Quando gli adulti della sua vita cercano di impedirle di diffondere questa storia, lei si rivolge a un giornalista prolifico per assicurarsi che il mondo sappia cosa è successo quella notte.

In verità, Edebiri offre una performance molto forte in After the Hunt – Dopo la caccia. È un personaggio profondamente stratificato e ricco di sfumature, che non lascia mai entrare il pubblico nella sua mente e lo tiene costantemente a distanza. Questo è esattamente ciò che il personaggio richiede, poiché noi spettatori non dobbiamo essere sicuri se lei stia dicendo la verità sulla violenza di Hank o meno.

Maggie è un personaggio intrinsecamente frustrante. Ha (apparentemente) vissuto qualcosa di molto traumatico e scioccante, ma non dovrebbe essere un personaggio simpatico, né tantomeno piacevole. Edebiri fa un ottimo lavoro nel catturare i due lati della storia di Maggie, ma la sua interpretazione alla fine non sembra così intensa o appassionata come quella di chi la circonda.

Andrew Garfield

After the Hunt - Dopo la Caccia

Andrew Garfield ha recitato in alcuni film eccellenti nel corso della sua carriera e, sebbene After the Hunt – Dopo la caccia non sia acclamato dalla critica come i suoi lavori precedenti, la qualità della sua recitazione non è affatto inferiore. Forse la cosa più impressionante della performance di Garfield in questo dramma agghiacciante è il modo sottile e discreto in cui cambia nel corso del film, svelando costantemente nuovi aspetti del personaggio.

Garfield interpreta Hank in After the Hunt – Dopo la caccia, uno dei professori più rispettati dell’università e il migliore amico della protagonista di Roberts, Alma. È un insegnante incredibilmente dotato, ma è anche una persona che non è abituata a vedere le persone respingere il suo comportamento civettuolo, quindi la sua vita viene sconvolta quando Maggie lo accusa di averla aggredita sessualmente.

After the Hunt – Dopo la caccia ruota completamente attorno alla performance di Garfield, anche se non è il protagonista del film. Il mistero centrale della storia (almeno in apparenza) è se ci sia del vero nelle accuse di violenza sessuale di Maggie, e Garfield deve trovare il perfetto equilibrio tra colpevolezza e innocenza per rendere avvincente questa narrazione.

Garfield fa un ottimo lavoro nel decostruire l’ego maschile e nel mostrare come l’orgoglio possa facilmente trasformarsi in rabbia se visto attraverso la lente sbagliata. La sua regressione da professore raffinato dell’alta società a uomo rabbioso e presuntuoso è brillante e aiuta davvero a svelare i temi chiave di After the Hunt.

Michael Stuhlbarg

Michael Stuhlbarg in after-the-hunt

Il ruolo di Michael Stuhlbarg in After the Hunt – Dopo la caccia può essere solo secondario, ma lui domina ogni scena in cui appare. È una performance molto sobria, e per nulla paragonabile a quella emotiva dei tre protagonisti, ma è lui il collante stoico che tiene insieme l’intera storia. Senza di lui, il commento di After the Hunt – Dopo la caccia sulla fiducia e il sacrificio non sarebbe altrettanto efficace.

Stuhlbarg interpreta Frederick, il marito di Alma in After the Hunt: un prolifico psichiatra e una delle poche persone a esprimersi contro lo stile di vita egocentrico e spesso narcisistico di Alma. Il film pone alcune domande importanti sul fatto che chi si trova in una posizione privilegiata possa davvero entrare in empatia con gli altri, e Alma e Frederick occupano gli estremi opposti dello spettro.

Michael Stuhlbarg offre sempre interpretazioni convincenti ed è un’aggiunta preziosa al cast di After the Hunt. Il suo personaggio è l’unica voce chiara della ragione nel film e, senza di lui, l’intera storia sarebbe solo un parco giochi di personaggi insopportabili senza nessuno che li ritenga responsabili delle loro azioni.

Fondamentalmente, After the Hunt tratta dello squilibrio di potere tra uomini e donne, sia a livello personale che professionale. Ciò si manifesta in modo più evidente nella dinamica tra Maggie e Hank, ma l’opposto è chiaro anche nel matrimonio di Alma e Frederick. Stuhlbarg interpreta il suo ruolo con una certa vulnerabilità che non si trova in Hank.

Julia Roberts

After the Hunt - Dopo la Caccia

Uno dei tanti motivi per cui After the Hunt – Dopo la caccia ha ricevuto recensioni così dure è anche il motivo per cui è un progetto così affascinante: nessuno dei personaggi è minimamente simpatico. Sono tutti personaggi molto complessi, con profondi difetti e imperfezioni, che alimentano la stessa atmosfera tossica che permette a questo sfruttamento del potere di manifestarsi in primo luogo.

La protagonista di Julia Roberts, Alma, è senza dubbio l’esempio più evidente di questo. È una professoressa molto rispettata che, secondo alcune voci, otterrà la cattedra nei prossimi mesi, ma è anche una presenza molto sfruttatrice che approfitta dei suoi studenti per il proprio piacere. Quindi, quando Maggie esprime le sue preoccupazioni su Hank, la sua reazione è del tutto egoistica.

Roberts cattura in modo eccellente questo aspetto parassitario della personalità di Alma, presentandola come una persona a cui tutti tengono, ma che non tiene a nessuno più che a se stessa. Ciò consente un commento molto acuto sull’era #MeToo, inquadrando l’intero movimento sociale come qualcosa che non protegge le vittime, ma mira semplicemente a vendicarle.

Questa è una delle migliori interpretazioni di Julia Roberts degli ultimi anni, e sarebbe un peccato se l’attrice non venisse riconosciuta durante il circuito dei premi di quest’anno. L’accoglienza mista della critica significa che è improbabile che venga nominata agli Oscar, ma merita sicuramente qualche elogio per questa interpretazione ricca e stratificata.

Eddington, la spiegazione del finale del film di Ari Aster

Il finale brutale di Eddington è sorprendentemente straziante, anche se costringe i personaggi principali a confrontarsi con il peso delle loro azioni. Eddington è l’ultimo film di Ari Aster, un’angosciante esplorazione di una piccola città texana nel 2020. Con la pandemia che infuria e le proteste che scoppiano in tutto il paese, Eddington si rivela una polveriera pronta a esplodere, e le elezioni per la carica di sindaco tra Ted, interpretato da Pedro Pascal, e Joe, interpretato da Joaquin Phoenix, si rivelano la scintilla che minaccia di avvolgere la città nelle fiamme.

Eddington, con i suoi temi politici espliciti, è uno dei film più controversi del 2025, soprattutto quando diventa chiaro come il film affronti un ampio spettro di ideologie e ideali politici. Teorie cospirative e rancori personali spingono le persone a commettere atti terribili, tutto nel nome della protezione della loro città o della loro causa. È un film cupo e silenzioso che finisce con molto sangue, molti proiettili e molto da dire sull’America. Ecco come finisce Eddington e cosa significa tutto questo.

Chi uccide Ted in Eddington (e perché)

Pedro Pascal in Eddington

La morte di Ted cambia la traiettoria e il tono di Eddington

Il grande colpo di scena di Eddington arriva a metà del film, quando Joe cede alla sua rabbia e uccide Ted e suo figlio, innescando una serie di eventi che sfociano nel brutale finale di Eddington. Dopo aver accusato pubblicamente (e falsamente) Ted di aver abusato sessualmente di Louise mentre stavano insieme, la vita di Joe va rapidamente fuori controllo.

In preda alla rabbia, Louise lo abbandona e si unisce alla setta di Vernon. Joe va a confrontarsi con Ted riguardo a una raccolta fondi che sta organizzando, ma Ted lo sminuisce e lo schiaffeggia. Dopo aver ucciso l’uomo sfollato che aveva fatto irruzione nel bar di Ted e aver nascosto il suo corpo, Joe si intrufola nella proprietà di Ted e lo uccide (insieme a suo figlio Eric) con un fucile da cecchino.

Joe cerca di far ricadere la responsabilità dell’omicidio sui manifestanti, spingendolo a rilasciare dichiarazioni pubbliche aggressive sull’organizzazione. La rabbia di Joe nei confronti di Ted e le sue azioni successive sono ciò che spinge Joe a diventare un vero e proprio cattivo in Eddington, portandolo persino ad uccidere un adolescente che non aveva fatto altro che affrontarlo e rimproverarlo.

Joe non usa la morte di Ted solo come mossa politica, ma si ritrova anche a tradire una delle sue poche relazioni sincere e sane. Nonostante sia un mentore per Michael e vicino al padre apparentemente deceduto, Joe incastra Michael per gli omicidi per sfuggire alle sue responsabilità. È una svolta cupa per Joe che prepara il macabro climax del film.

Chi è il pistolero mascherato in Eddington

Eddington terrorismo

Il personaggio più pericoloso di Eddington è anche il più misterioso

Uno degli elementi più misteriosi di Eddington è il pistolero mascherato che arriva in città. I video che mostrano uomini armati mascherati che causano il caos per conto di “organizzazioni liberali” come ANTIFA vengono mostrati per influenzare Joe e terrorizzare il suo vice, Guy. Tuttavia, non vengono mostrati come normali manifestanti, le cui azioni pubbliche ben intenzionate non hanno un impatto reale sulla città.

L’uomo armato viene invece presentato mentre si allena su un aereo privato, il che implica che sia un provocatore pagato. Sembra essere stato mandato per seminare il caos in luoghi come Eddington, il che spiega la sua presenza nel climax del film. Sebbene la sua identità e il suo datore di lavoro non vengano mai rivelati, il pistolero mascherato finisce per avere un enorme impatto sulla narrazione una volta arrivato.

Attirando Joe e Guy in una trappola usando Michael come esca, l’uomo mascherato uccide Guy in un’esplosione che lascia un messaggio in codice ANTIFA tra le fiamme.

Poi insegue Joe per la città nel cuore della notte, riuscendo a ucciderlo solo grazie all’intervento di Brian.

Il killer non viene mai identificato con certezza, ma i momenti finali del film suggeriscono che la cultura in generale lo abbia preso per quello che era. Descritto come un terrorista affiliato all’ANTIFA, la sua morte proietta Joe e Brian verso la celebrità, in un modo che gioca sul vero messaggio tematico di Eddington.

Le altre grandi morti di Eddington, spiegate

Eddington

Il terzo atto di Eddington, ricco di morti, è brutale

Sebbene la morte di Ted sia il momento cruciale che cambia il corso del film, ci sono altre morti importanti che caratterizzano la seconda metà di Eddington. La prima è quella dell’uomo sfollato che vaga per la città, ucciso a sangue freddo da Joe. Questo evento segna il grande momento di svolta di Joe, che da personaggio moralmente conflittuale diventa una persona veramente cattiva.

L’attacco di Joe a Ted provoca anche la morte di Eric, che ha un ruolo importante nell’arco narrativo di Brian. Brian viene mostrato mentre piange la morte del suo amico e teme che il suo tentativo di far infuriare Michael e spingerlo ad attaccare Eric sia ciò che lo ha portato alla morte. Questo, a sua volta, spinge Joe a incastrare Michael. Anche se Michael e Joe rimangono solo feriti nell’esplosione provocata dal killer mascherato, Guy non riesce a sopravvivere all’esplosione.

Eddington è la seconda collaborazione di Ari Aster con Joaquin Phoenix dopo Beau ha Paura​​​​​​ del 2023.

Infatti, il vice più instabile di Joe viene eliminato dal film dopo aver innescato una mina piazzata dall’uomo mascherato, lasciando di lui solo alcune parti del corpo smembrate. Una delle morti più tragiche di Eddington è quella dell’agente Butterfly Jimenez. Agente della vicina riserva, Butterfly conduce le sue indagini sulla morte di Ted e alla fine scopre che è stato Joe ad ucciderlo. Tuttavia, Joe ferisce accidentalmente Butterfly durante lo scontro a fuoco con l’uomo mascherato, che successivamente uccide Butterfly con un colpo alla testa destinato a Joe.

L’ultima grande morte in Eddington è quella del pistolero mascherato, che viene finalmente eliminato dopo aver ferito gravemente Joe con un coltello alla testa. Prima che se ne renda conto, il pistolero si trova di fronte Brian. Brian usa una pistola per sparare ripetutamente al pistolero, uccidendolo sul colpo e salvando la vita di Joe.

Il destino di Joe in Eddington è irritante e straziante (ed è proprio così che deve essere)

Joaquin Phoenix Eddington

Joe ottiene ciò che voleva, e non potrebbe essere più infelice

Joe, tuttavia, non ottiene davvero la vita che voleva o che aveva prima. A causa delle ferite riportate, Joe rimane in uno stato vegetativo. Anche se viene eletto sindaco, la madre di Louise, Dawn (con cui Joe ha avuto un rapporto molto teso per tutto il film), diventa la sua badante e la sua portavoce nei confronti del pubblico.

Dawn usa questa piattaforma per promuovere ulteriormente le sue accuse estreme e le sue ideologie politiche, tradendo le intenzioni originali di Joe e portando avanti l’accordo precedentemente stipulato da Ted con una grande azienda per trasformare la città in un settore tecnologico, nonostante i timori dei nuovi elettori di Joe che ciò danneggi l’ambiente locale.

In un certo senso, è giusto che Joe ottenga il potere e il rispetto che desiderava, a costo dell’amore e della vita che aveva prima.

Al di là della nuova incapacità di Joe di parlare o prendersi cura di sé stesso, ci sono altri momenti devastanti per lui. Dawn e Joe sono affranti nel vedere un video di Louise con Vernon, apparentemente incinta di suo figlio. Nel frattempo, un Michael amareggiato sembra indagare su Joe. Il destino di Joe è allo stesso tempo irritante e straziante.

Da un certo punto di vista, è giusto che Joe ottenga il potere e il rispetto che desiderava, a costo dell’amore e della vita che aveva prima. Dopo aver ucciso Ted ed Eric, sembra una punizione adeguata. È anche una svolta davvero tragica per un uomo che il pubblico potrebbe aver inizialmente simpatizzato, il cui desiderio di controllo gli è costato tutto.

Cosa c’è dietro il ruolo di Eddington interpretato da Austin Butler?

Austin Butler in Eddington (2025)

Il leader della setta interpretato da Austin Butler è uno dei personaggi più interessanti (ma secondari) del film

Vernon è un personaggio secondario nella trama generale di Eddington, ma rappresenta una parte importante dei temi del film. Vernon, un leader di una setta New Age che Dawn ha incontrato durante la sua esplorazione su Internet di varie teorie cospirative, è un oratore carismatico che sembra credere che gli autori di abusi sessuali si nascondano in bella vista.

Nonostante l’improvviso orrore e shock di Dawn per le sottili accuse contro il defunto padre di Louise, Louise arriva a credere alle argomentazioni di Vernon sui ricordi repressi. Questo, insieme alla sua crescente distanza da Joe, esacerbata dalla sua campagna politica, porta Louise ad abbandonare la sua famiglia e unirsi a Vernon.

Eddington ha attualmente un punteggio del 66% da parte della critica su Rotten Tomatoes.

Da un certo punto di vista, Vernon gioca sui temi politici generali e sulla satira di Eddington, fungendo da chiaro sostituto di movimenti come QAnon. La sua fede performativa ricorda molti leader spirituali che hanno avuto un ruolo centrale durante la pandemia, facendo affermazioni audaci sullo stato del mondo.

Venon è anche la dimostrazione più chiara del film del potere delle teorie del complotto. Dawn può credere a dozzine di teorie, ma è offesa da quella che sembra finalmente toccare la sua vita personale e rimane sconvolta quando sua figlia ci crede. Questo, ovviamente, non le impedisce di esprimere le sue teorie, mettendo in evidenza i difetti umani al centro di Eddington.

Il vero significato di Eddington

Deirdre O'Connell ed Emma Stone in Eddington (2025)

Eddington critica la società americana

Eddington ha una visione severa della società americana, mettendo in evidenza le ipocrisie e i fallimenti di tutti i tipi di persone in tutto lo spettro politico e sociale. Ci sono parodie della politica liberale performativa, la natura conflittuale di alcuni manifestanti che portano avanti il conflitto e un momento chiaro in cui la folla liberale si allontana dal vagabondo sfollato.

Le critiche più severe di Eddington potrebbero essere rivolte a persone apertamente conservatrici come Joe e Dawn, che sfruttano le paure degli altri e varie teorie cospirative per cercare di imporre i propri ideali e desideri.

Tuttavia, le critiche più severe di Eddington potrebbero essere rivolte a persone apertamente conservatrici come Joe e Dawn, che sfruttano le paure degli altri e varie teorie cospirative per cercare di imporre i propri ideali e desideri. Potrebbero vincere le elezioni e guadagnarsi il favore della gente, ma per arrivare a questo risultato hanno tradito i propri principi morali e commesso atti atroci.

La critica sociale più severa di Eddingtonè Brian. Presentato come un adolescente normale che cerca di usare la politica liberale per impressionare Sarah, una ragazza che gli piace, Brian diventa sempre più teatrale e “appassionato” nella sua crescente fede nella giustizia sociale. Tuttavia, questo dura solo fino a quando scopre che Eric ha invece conquistato Sarah.

CorrelatiMartin Scorsese dà una recensione entusiastica al controverso film A24: “Spaventoso”Il leggendario regista e cinefilo certificato Martin Scorsese condivide una recensione entusiastica del nuovo film A24 di Ari Aster, che sta dividendo profondamente la critica.

È allora che l’istinto egoistico dell’adolescente riprende il sopravvento, con Ben che avvisa Michael di questa relazione (apparentemente nella speranza che Michael, che secondo alcune voci aveva precedentemente frequentato Sarah, lo attaccasse). Dopo aver salvato Joe, Brian cambia improvvisamente atteggiamento e abbraccia una retorica conservatrice incendiaria che va contro tutto ciò che aveva giurato solo poche scene prima.

Questo gli fa guadagnare il rispetto della destra, una posizione redditizia come podcaster conservatore e persino una relazione romantica perfetta per i social media. In Eddington, la politica, le convinzioni e l’integrità possono essere messe da parte per una vittoria rapida o una presa di potere. Tutto questo contribuisce alla dura critica di Eddington alla politica moderna in America.

Black Phone 2 trasforma il Grabber in una risposta moderna a Freddy Krueger

Black Phone 2 trasforma il Grabber del primo film in una minaccia soprannaturale simile a Freddy Krueger. Black Phone 2 riporta in scena il Grabber interpretato da Ethan Hawke, un killer sadico che ha ucciso diversi giovani nel corso di The Black Phone. Ciò che rende sorprendente questo fatto è che il cattivo era stato ucciso senza pietà nel film precedente da Finny.

Sebbene le circostanze complete del suo ritorno non vengano mai rivelate, Black Phone 2 trasforma lo spirito del Grabber in una forza malvagia, con la capacità di tormentare i sogni degli altri e ferirli gravemente nel mondo reale. È una scelta interessante che trasforma il Grabber da un archetipo di cattivo horror in un altro tipo di minaccia.

Come Black Phone 2 trasforma il Grabber in un Freddy Krueger

Madeleine McGraw in Black Phone 2
© 2025 Universal Studios.

Black Phone 2 reimmagina il Grabber come una minaccia incorporea, trasformando il cattivo horror inizialmente concreto in una figura più soprannaturale simile a Freddy Krueger della serie Nightmare on Elm Street. In The Black Phone, il Grabber era presentato come una minaccia molto concreta, priva di poteri soprannaturali evidenti.

Sebbene gli spiriti delle sue vittime passate fossero presenti e le capacità psichiche latenti di Gwen aggiungessero un tocco di soprannaturale al primo film, The Black Phone non suggeriva che il Grabber fosse qualcosa di speciale. Era più simile al Ghostface Killer di Scream, un assassino in grado di nascondersi in piena vista.

Black Phone 2 non aveva altra scelta che incorporare alcuni elementi soprannaturali se voleva che apparisse nel sequel, dato il suo destino nel film precedente. Black Phone 2 rivela che il Grabber è effettivamente andato all’inferno dopo la sua morte, dove forze demoniache invisibili sembrano aver svuotato la sua umanità residua per lasciargli solo le sue peggiori qualità.

Questa ombra persistente del Grabber è stata in grado di violare il mondo materiale nel luogo dei suoi primi omicidi, l’Alpine Lake Camp, grazie agli spiriti persistenti delle sue prime vittime. Potenziato dalla loro paura, il Grabber può ora muoversi nel mondo dei sogni e attaccare le persone nel mondo reale come una forza invisibile e apparentemente inarrestabile.

Questo conferisce al Grabber poteri simili a quelli di Freddy di A Nightmare on Elm Street, che è ben lungi dall’essere l’unica somiglianza tra i due. Entrambi sono assassini che prendevano di mira i bambini e sono stati uccisi per i loro crimini. Entrambi sono tornati dall’aldilà con nuovi poteri e uno spirito vendicativo. Entrambi prendono di mira anche i propri cari come forma di vendetta.

Entrambi finiscono per confrontarsi con una delle loro vittime designate nel regno dei sogni e vengono sconfitti quando le loro debolezze vengono esposte e vengono sopraffatti. Il Grabber ha anche un lato malvagio che ricorda Freddy, che assaporava sempre le sue uccisioni con una battuta superficiale e un sorriso inquietante che si abbina alla maschera del Grabber.

Come la trasformazione di Freddy in Grabber potrebbe preparare il terreno per Black Phone 3

The Grabber e Gwen in Black Phone 2
© 2025 Universal Studios.

Black Phone 2 abbraccia pienamente il soprannaturale con il ritorno di Grabber e prepara un modo interessante per continuare la serie. Anche se Grabber è stato sconfitto, lo stesso è successo a Freddy prima del suo ritorno. Se la serie volesse continuare, non sarebbe difficile far liberare Grabber dalla sua prigione ghiacciata attraverso qualche mezzo soprannaturale invisibile.

Dopotutto, è così che il personaggio è riuscito a tornare in primo luogo. Questo potrebbe permettergli di riprendere la caccia a Finny e Gwen, o prepararlo a dare la caccia ad altri adolescenti. L’Alpine Lake Camp è un’ambientazione facile per introdurre nuovi personaggi/nuovi obiettivi di un Grabber rinnovato, rendendolo una minaccia più flessibile.

Si tratta di un’escalation selvaggia rispetto al primo film. Tuttavia, il primo film ha stabilito l’universo di Black Phone come uno con elementi soprannaturali al suo interno, quindi non sembra che il nuovo film stia necessariamente infrangendo le regole del primo film trasformando il Grabber in questo modo. Semmai, rende questa risposta moderna a Freddy ancora più inquietante.

Il pubblico ha scoperto i crimini umani di Freddy solo dopo che era tornato come fantasma assassino. Tuttavia, mostrando al pubblico com’era il Grabber nella vita reale, l’idea che acquisisca abilità soprannaturali diventa molto più inquietante. Anche quando pattina sul ghiaccio verso le sue vittime, i suoi lati più duri lo rendono profondamente inquietante e pericoloso.

Blumhouse ha l’opportunità, con la nuova trasformazione del Grabber, di trasformare Black Phone nel A Nightmare on Elm Street di questa generazione. Il fatto che il Grabber trascorra gran parte del film senza mostrare il suo vero volto significa che i film futuri potrebbero ricreare il personaggio, se necessario. Al contrario, Ethan Hawke potrebbe consolidare ulteriormente la sua posizione come figura di spicco dell’horror con questo ruolo.

È un’evoluzione interessante del concetto di Freddy, soprattutto alla luce di come trasforma il personaggio da un archetipo di Wes Craven (il killer mascherato) a un altro (la forza soprannaturale che tormenta i sogni delle sue vittime). Continuare a sviluppare questo elemento potrebbe contribuire a rendere la trasformazione del Grabber in Black Phone 2 solo l’inizio per il cattivo.

Black Phone 2, spiegazione del finale: come ritorna il Grabber e cosa vuole

Black Phone 2 riporta in scena il Grabber in modo sorprendente (ed efficace). Seguito del film del 2021 The Black Phone, il nuovo film vede il ritorno di Mason Thames nel ruolo di Finny e Madeleine McGraw in quello di Gwen. Nel corso di quattro anni, i due hanno cercato di superare il trauma dell’aggressione subita. Tuttavia, la minaccia del Grabber non è stata completamente risolta.

Film molto più soprannaturale del primo, Black Phone 2 espande i poteri di alcuni personaggi e stabilisce ulteriori regole su come funzionano i fantasmi e le abilità psichiche in questo universo. Nel corso della trama, il film rivela anche la vera storia del Grabber e il suo legame segreto con la madre di Finny e Gwen, morta da tempo.

Come ritorna il Grabber in Black Phone 2

Ethan Hawke the Grabber in Black Phone 2
© 2025 Universal Studios.

Il Grabber appare in Black Phone 2 come uno spirito vendicativo, conferendogli una nuova serie di poteri. Anni dopo il primo film, Gwen continua a sognare tre bambini assassinati nello stesso campo estivo. Si scopre gradualmente che i tre sono stati le prime vittime del Grabber, e la loro paura persistente alimenta il suo spirito indugianti.

Si scopre che il Grabber ha potere nel campeggio, confermando che le anime persistenti di quelle vittime alimentano lo spirito omicida. Il Grabber appare a Gwen nei suoi sogni e si dimostra capace di attaccarla e ferirla nel mondo reale in modo simile a Freddy Krueger della serie Nightmare on Elm Street.

Il Grabber conferma che dopo la sua morte è stato mandato all’inferno. Questo ha portato alla svuotamento della sua anima, lasciando solo gli aspetti peggiori di sé stesso. Questa è l’entità che sta attaccando Gwen, con il Grabber che intende ucciderla per vendicarsi di Finny per averlo ingannato e averlo spinto a uccidere suo fratello nel primo film.

Il Grabber è persino in grado di attaccare altre persone nel mondo reale mentre si trova vicino al campeggio, portando al culmine del film. La fonte del suo potere si rivela anche la sua debolezza, poiché trovare i corpi dei tre ragazzi per poterli finalmente seppellire indebolisce il Grabber e dà a Gwen la possibilità di contrattaccare.

La spiegazione dei poteri di Gwen in Black Phone 2

Madeleine McGraw in Black Phone 2
© 2025 Universal Studios.

Gwen era stata descritta come dotata di un certo potenziale psichico in The Black Phone, ma il cambiamento di focus del sequel verso di lei rivela anche di più sulle sue capacità. In Black Phone 2, Gwen comunica con gli spiriti dei morti attraverso i suoi sogni. È così che le prime tre vittime del Grabber contattano Gwen, aiutandola a raggiungere il campeggio.

Le abilità di Gwen crescono man mano che il film procede. È in grado di stabilire una sorta di connessione con la madre morta da tempo, apparentemente trascendendo lo spazio e il tempo per comunicare con una versione di lei di anni prima. Gwen arriva anche a realizzare gradualmente il suo pieno potere nel mondo dei sogni, imparando a reagire contro il Grabber.

Questo si rivela cruciale per il climax di Black Phone 2, con Gwen che usa le sue capacità nel mondo dei sogni per combattere il Grabber e aiutare a recuperare i corpi dei tre ragazzi da un lago ghiacciato. Questo permette agli spiriti di aiutare a combattere il Grabber, ponendo fine alle loro sofferenze e fermando definitivamente il Grabber una volta per tutte.

Come Black Phone 2 riconsidera il legame tra il Grabber e la madre di Finn

Mason Thames Madeleine McGraw in Black Phone 2
© 2025 Universal Studios.

Una delle grandi rivelazioni in Black Phone 2 è il destino di Finny e della madre di Gwen, Hope. Si scopre che Hope aveva gli stessi poteri di Gwen, il che suggerisce che questi siano stati tramandati lungo la loro linea familiare. Mentre Gwen ha ereditato la maggior parte del potenziale psichico, questo spiega anche perché Finny abbia una certa capacità di comunicare con i defunti.

Si scopre che Hope era una consulente nello stesso campo in cui un tempo lavorava il Grabber. Conosciuto come Wild Bill Hickok dal personale e dai campeggiatori, il Grabber ha commesso i suoi primi omicidi mentre era al campo. Negli anni successivi, le capacità psichiche di Hope le hanno permesso di assistere alla cattura da parte di Bill di un ragazzo che consegnava i giornali (si presume fosse Billy).

Tuttavia, il Grabber l’ha vista arrivare a casa sua per confermare la notizia e l’ha catturata prima che potesse informare le autorità. È stato il Grabber ad uccidere Hope, facendo passare la morte come un suicidio per nascondere i sospetti. Questo dà a Finny e Gwen un ulteriore incentivo a sconfiggere il Grabber una volta per tutte, vendicando così la loro madre.

Questo aggiunge anche un livello più oscuro al primo film, dando al Grabber un legame più profondo con Finny e Gwen. Essendo stato a casa loro e ora consapevole di chi fosse la loro madre, l’attenzione finale del Grabber su Finny sembra molto più maliziosa e mirata, col senno di poi.

Il vero significato di Black Phone 2

Madeleine McGraw come Gwen in Black Phone 2
© 2025 Universal Studios.

Black Phone 2 è un film sulla fede e sul trauma, soprattutto quando il conflitto con il Grabber diventa il fulcro della narrazione. Finny è descritto come sconvolto dagli eventi del primo film, che seppellisce il suo trauma sotto uno strato di sarcasmo adolescenziale e marijuana. Quando Gwen finalmente lo affronta su questo, Finny scoppia in lacrime.

Il suo trauma è alimentato non solo dalla rabbia persistente per ciò che gli è successo, ma anche dalla paura che rimane dentro di lui. Amette in lacrime che non vuole più avere paura o essere arrabbiato. Questo è il motivo per cui inizialmente non aiuta i tre giovani fantasmi e spiega gran parte della sua personalità distaccata nel primo atto del film.

Superare quel trauma affrontandolo apertamente si rivela la chiave, con Finny che sferra persino alcuni colpi piuttosto duri al Grabber una volta che è stato indebolito abbastanza da Gwen e dagli altri affinché altre persone reali possano interagire con la sua forma invisibile. Alla fine del film, Finny ha superato il suo trauma in modo fortemente emotivo.

L’altro grande elemento del film è la fede. Gwen ammette al suo interesse amoroso Ernesto che prega Gesù, e alla fine la sua fede si rivela meritevole. Mentre il Grabber è stato mandato all’inferno dopo la sua morte, una conversazione finale tra Gwen e lo spirito di sua madre conferma silenziosamente l’esistenza del paradiso.

Black Phone 2 non è necessariamente un film intrinsecamente cristiano, tuttavia. Una piccola spina nel fianco di Gwen per gran parte del film è Barbara, una donna fondamentalista che lavora al campo. Le due si scontrano al loro primo incontro, l’atteggiamento moralista di Barbara in conflitto con il linguaggio volgare di Gwen.

Barbara inizialmente rifiuta persino di aiutare a localizzare i corpi dei bambini o di proteggere Gwen, cedendo solo insieme al marito quando il bracciante Mustang li rimprovera di essere dei cristiani mediocri. Questo evidenzia l’attenzione del film sull’importanza della fede genuina e della buona volontà, in contrapposizione a un uso superficiale della Bibbia come arma.

In definitiva, Black Phone 2 usa la fede come scudo. È la fede dei fantasmi in Gwen che porta alla loro salvezza, e la fede di Finny in sua sorella che lo spinge ad aiutarla. Black Phone 2 usa questi elementi per sottolineare il potere della fede e l’importanza di applicarla agli amici, alla famiglia e agli estranei.

Sandokan: un funerale nella prima clip della serie con Can Yaman

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È online la prima clip ufficiale di Sandokan, la serie evento internazionale diretta da Jan Maria Michelini e Nicola Abbatangelo con protagonista Can Yaman nel ruolo della leggendaria Tigre della Malesia. La sequenza mostra un funerale carico di mistero, preludio al tono epico e drammatico che attraverserà la produzione, tra avventura, sentimento e libertà.

Prodotta da Lux Vide, società del gruppo Fremantle, in collaborazione con Rai Fiction, Sandokan nasce da un’idea di Luca Bernabei ed è un nuovo adattamento della storica saga di romanzi di Emilio Salgari, sviluppata per la televisione da Alessandro Sermoneta, Scott Rosenbaum e Davide Lantieri. La serie andrà in onda dal 1° dicembre 2025 su Rai1, per poi arrivare prossimamente su Disney+, e sarà distribuita in tutto il mondo da Fremantle e in Spagna da Mediterráneo Mediaset España Group.

Le riprese si sono svolte tra l’isola di Réunion, il Lazio, la Toscana e la Calabria, dove – con il sostegno della Calabria Film Commission – è stata costruita a Lamezia Terme la spettacolare colonia inglese di Labuan. Un lavoro scenografico imponente che restituisce il fascino esotico e la dimensione epica del romanzo salgariano, a cinquant’anni dalla celebre serie Rai che rese Sandokan un’icona popolare grazie a Kabir Bedi.

Il cast di Sandokan

Nel cast, accanto a Can Yaman, figurano Alanah Bloor, Alessandro Preziosi, Ed Westwick, Madeleine Price e John Hannah. Il racconto è ambientato nel Borneo del 1841, dove il pirata Sandokan solca i mari con il fedele amico Yanez finché l’incontro con Marianna Guillonk, la “Perla di Labuan”, lo spinge verso un destino inaspettato tra amore e ribellione. Sul suo cammino si frappone Lord James Brooke, l’affascinante “cacciatore di pirati” deciso a catturarlo e a conquistare il cuore della stessa Marianna.

In occasione della presentazione alla Festa del Cinema di Roma, al MAXXI sarà inaugurata una mostra immersiva che trasporterà il pubblico nel cuore dell’universo di Sandokan: sarà possibile ammirare la ricostruzione a grandezza reale del Praho, i costumi originali, oggetti di scena e un video di making of. L’esposizione sarà visitabile dal 18 al 26 ottobre, con ingresso libero.

Con questa prima clip, Sandokan si conferma uno dei progetti televisivi italiani più ambiziosi degli ultimi anni, capace di riportare sul piccolo schermo un eroe senza tempo e di far rivivere, tra mari, giungle e battaglie, il mito della Tigre della Malesia.

La camera di consiglio: recensione del film che racconta il backstage del Maxiprocesso – #RoFF20

C’è qualcosa di profondamente necessario in La camera di consiglio, il nuovo film di Fiorella Infascelli, presentato nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma e in uscita il 20 novembre con Notorious Pictures. Dopo anni di cinema che ha guardato alla mafia come a un tema di superficie, Infascelli sceglie di tornare al cuore della questione: la responsabilità. Non quella del criminale, ma quella di chi deve giudicarlo. Il film racconta la camera di consiglio più lunga della storia giudiziaria: trentasei giorni di isolamento in cui otto giurati, chiusi in un appartamento-bunker all’interno del carcere dell’Ucciardone di Palermo, dovettero decidere condanne e assoluzioni per 470 imputati del Maxiprocesso.

Ambientato alla fine degli anni Ottanta, La camera di consiglio si muove dentro una dimensione sospesa, dove la tensione storica del Maxiprocesso si intreccia con la dimensione privata, umana e morale dei protagonisti. È un film che lavora sul tempo e sull’immobilità, sull’eco delle decisioni e sul peso della parola “giustizia”.

La sceneggiatura, firmata dalla stessa Infascelli insieme a Mimmo Rafele e con la collaborazione di Francesco La Licata, si avvale della consulenza di Pietro Grasso, che di quella camera di consiglio fu testimone diretto come giudice a latere del Maxiprocesso. Il risultato è un racconto che possiede il rigore della ricostruzione storica e la tensione del dramma morale. Non un film “di mafia”, ma un film sulla democrazia, sull’atto più difficile del vivere civile: giudicare.

La camera di consiglio, un teatro chiuso dove si decide il destino

Girato interamente in interni, La camera di consiglio adotta un’impostazione scenica quasi teatrale, nella quale i confini dello spazio coincidono con i confini della coscienza. La macchina da presa esplora ogni angolo dell’appartamento-bunker, restituendone la pesantezza e l’aria satura, mentre la luce filtra come un respiro difficile, mai completamente libero. In questa cornice, gli attori si muovono come figure costrette a confrontarsi non solo con la legge, ma con sé stesse. Ed è in questo secondo faccia a faccia che la regista riesce a trovare anche della leggerezza.

Sergio Rubini, nei panni del Presidente della giuria, è il fulcro del racconto: il suo personaggio incarna la lucidità, il rispetto per il principio di legalità, la resistenza alla tentazione emotiva. Il suo sguardo è quello di chi cerca di rimanere fedele alla ragione in un contesto dove la pancia, l’istinto e la rabbia potrebbero sembrare vie più facili e in qualche modo giustificate. È inevitabile il rimando a La parola ai giurati: come Henry Fonda, anche Rubini porta sullo schermo un’idea di giustizia che non è vendetta, ma responsabilità. Accanto a lui, Massimo Popolizio nel ruolo del Giudice a latere rappresenta il contraltare, la voce della legge che deve restare ferma anche quando la pressione morale diventa insostenibile.

Il film si nutre della forza del suo cast corale: Betti Pedrazzi, Roberta Rigano, Anna Della Rosa, Stefania Blandeburgo, Rosario Lisma e Claudio Bigagli danno vita a un gruppo eterogeneo di giurati, ciascuno portatore di una propria storia, di un proprio conflitto interiore. L’opera di Infascelli non li usa come funzioni narrative, ma come coscienze in movimento, che si osservano e si scontrano in un continuo processo di ridefinizione.

Ciò che colpisce è la precisione della regia: la macchina da presa non invade mai, osserva, ascolta, accompagna accentuando l’impianto teatrale del film. L’isolamento è palpabile e il tempo si dilata, diventando quasi un personaggio. Infascelli costruisce un ritmo ipnotico, dove la tensione non esplode, ma cresce per stratificazione. Le pareti dell’Ucciardone diventano una prigione fisica e mentale, e il fuori mondo, con le sue urla e i suoi fantasmi, resta solo evocato. Tuttavia, in questo spazio chiuso, la regista riesce a inserire momenti di respiro poetico: la ricerca del cielo da una finestra che non si apre mai, o la comparsa di un gatto sulle alte mura del carcere, presenze simboliche che aprono brecce nel realismo e suggeriscono la speranza di un altrove. In questi momenti, i giurati respirano, si aprono al futuro, fanno entrare l’ironia e la leggerezza che vanno di pari passo con il senso di responsabilità.

Infascelli scava con delicatezza dentro le paure dei suoi personaggi. Ogni dialogo pesa come una testimonianza, ogni silenzio contiene la fatica del giudizio. La scelta di alternare toni realistici a momenti sospesi, quasi metafisici, arricchisce il film di una dimensione ulteriore, dove la storia collettiva si intreccia con la ricerca di senso individuale.

Giustizia, memoria e umanità

Ciò che rende La camera di consiglio interessante è la sua capacità di unire il rigore civile all’intimità del dubbio umano. In quei trentasei giorni di isolamento, Infascelli trova il laboratorio perfetto per interrogare il rapporto tra individuo e istituzione, tra emozione e legge, tra giustizia e verità. Ogni personaggio porta con sé la propria misura di paura e di fede, e la regia sa restituirla con pudore, senza proclami.

Il film parla di una democrazia sotto pressione, di uno Stato che deve riconoscere la propria forza senza perdere la propria umanità. La condanna collettiva di Cosa Nostra, che nel Maxiprocesso segnò una svolta storica, diventa metafora di una nazione che finalmente sceglie di guardare in faccia il male, di riconoscerlo come sistema e non come eccezione. Ma il merito di Infascelli è quello di riportare questo passaggio epocale su una scala umana: otto persone, chiuse in una stanza, che devono scegliere tra giustizia e vendetta, tra dovere e compassione.

Nel linguaggio asciutto e nel ritmo contenuto, La camera di consiglio ritrova quella tradizione del cinema civile italiano che sapeva essere politico senza mai rinunciare alla sensibilità narrativa. È un film che non cerca l’applauso, ma il confronto, che si rivolge allo spettatore come a un cittadino, chiedendogli di partecipare, di ricordare, di prendere posizione.

Rubini e Popolizio offrono due interpretazioni complementari e magnetiche, sostenute da un ensemble coeso che restituisce la coralità del racconto. E mentre l’ambientazione chiusa potrebbe sembrare una limitazione, in realtà diventa la chiave per capire il senso più profondo dell’opera: la giustizia nasce sempre in uno spazio ristretto, in un luogo interiore dove si deve imparare a scegliere.

Fiorella Infascelli firma un film sobrio, intenso, profondamente civile, capace di parlare al presente senza perdere il legame con la Storia. La camera di consiglio non urla, ma lascia un’eco lunga, fatta di silenzi, di sguardi e di coscienze in conflitto. È un cinema che crede ancora nella memoria come forma di resistenza, nella giustizia come gesto umano, e nella responsabilità come atto d’amore verso il Paese.

Wolf Man, spiegazione del finale: chi ha attaccato la famiglia e perché quel personaggio è morto

Il finale cupo di Wolf Man (2025) è molto potente, dato il modo in cui collega la morte più importante del film con i temi generali della storia. Wolf Man è l’ultima rivisitazione dell’iconico The Wolf Man di Lon Chaney Jr., che reinterpreta il concetto e lo trasferisce in un contesto completamente nuovo con personaggi e temi inediti. Wolf Man è un thriller familiare incentrato su Blake, Charlotte e la loro figlia Ginger, che lottano per sopravvivere alla notte mentre sono braccati da una temibile creatura notturna.

Dopo aver portato con sé la sua famiglia per sistemare gli affari di suo padre, Blake e i suoi cari rimangono intrappolati nella casa della sua infanzia da una creatura brutale che non è proprio un lupo, ma sicuramente non è un uomo normale. Nel caos, Blake si ritrova contagiato da una malattia della creatura, trasformandosi rapidamente in qualcosa che sua moglie e sua figlia riescono a malapena a riconoscere. Nonostante i classici tropi horror in gioco, Wolf Man fa un ottimo lavoro nel modernizzare le idee per raccontare una storia spaventosa molto specifica sulla famiglia che non si sente obbligata a creare sequel del franchise.

La morte di Blake nel finale di Wolf Man spiegata

La morte di Blake è il climax emotivo di Wolf Man

Dopo essere diventato il mostro del titolo, Blake non sopravvive al finale di Wolf Man, ma la natura della sua morte è più agrodolce che tragica. Blake è di fatto il protagonista di Wolf Man, alle prese con il trauma di essere stato cresciuto da un padre militante, mentre piange la morte dell’uomo e cresce la propria famiglia. Dopo essere stato infettato dall’attacco di una misteriosa creatura, Blake trascorre gran parte del film perdendo lentamente se stesso a causa di una malattia apparente e trasformandosi in uno stato animalesco simile. Sebbene diventi sempre meno umano, Blake conserva in modo notevole alcuni elementi della sua personalità e prospettiva umana.CorrelatiL’ispirazione horror del Wolf Man del 2025 dovrebbe alleviare le preoccupazioni sul nuovo aspetto del mostroIl Wolf Man di Leigh Whannell ha tratto ispirazione da un classico dell’horror per il suo personaggio principale, e questo spiega il suo aspetto controverso.Di Adrienne Tyler22 novembre 2024

Nonostante abbia acquisito alcune abilità grazie alla sua trasformazione (come sensi potenziati e maggiore resistenza), Blake non diventa improvvisamente inarrestabile nella sua forma di Wolf Man. Conserva persino abbastanza di sé stesso da implorare silenziosamente sua moglie di porre fine alle sue sofferenze, costringendola alla fine a premere il grilletto quando è con le spalle al muro. La morte di Blake è tragica in Wolf Man, ma dimostra anche che la sua umanità ha avuto la meglio sui suoi impulsi più brutali. Blake si lascia uccidere per salvare i suoi cari, conferendo al film un finale cupo che dimostra che Blake è rimasto un uomo piuttosto che un lupo.

Chi è l’uomo lupo che attacca la famiglia di Blake? Identità e colpo di scena spiegati

Christopher Abbott in Wolf Man
© Nicola Dove/Universal Pictures

Un mistero all’inizio di Wolf Man riemerge in modo straziante

Inizialmente, non è chiaro chi sia l’uomo lupo che attacca Blake e la sua famiglia. Blake aveva visto una creatura simile durante la sua infanzia mentre cacciava con suo padre, e la creatura non mostra mai alcun senso di sé o personalità. Tuttavia, il fatidico duello di Blake con la creatura si conclude con la rivelazione che in realtà si tratta del padre di Blake, infettato dalla stessa malattia. Ciò viene rapidamente confermato da un’inquadratura di un tatuaggio distintivo sul lupo mannaro, esattamente uguale a quello che Blake aveva notato su suo padre durante la sua giovinezza.

Il padre di Blake era impegnato a dare la caccia alla creatura nella foresta, rendendo il suo destino finale di trasformarsi in una bestia simile un’amara ironia.

Da un lato, il padre di Blake era impegnato a dare la caccia alla creatura nella foresta, rendendo il suo destino finale di trasformarsi in una bestia simile un’amara ironia. Il fatto che abbia minacciato la sua famiglia dopo aver chiarito quanto volesse proteggere Blake è una svolta oscura rispetto alle sue motivazioni precedenti. Blake che uccide suo padre e si rende conto della verità solo dopo il fatto è il momento che sembra spezzare anche Blake, portandolo a ritirarsi all’esterno e a completare la sua trasformazione fisica, un abbraccio simbolico della brutalità che Blake aveva sperato di risparmiare a sua figlia.

Cosa succederà a Ginger e Charlotte dopo la fine di Wolf Man?

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© Nicola Dove/Universal Pictures

Due dei personaggi principali di Wolf Man sopravvivono al film

Charlotte e Ginger sopravvivono agli eventi di Wolf Man. Anche se non hanno subito ferite fisiche durante gli eventi della storia, Wolf Man attira l’attenzione sul modo in cui le ferite mentali possono persistere. È improbabile che Charlotte o Ginger dimentichino il trauma di ciò che è successo. Data la carriera di Charlotte come giornalista in una grande città e la loro esperienza negativa nella natura selvaggia, è probabile che torneranno in città. Anche se non c’è un modo chiaro per loro di contattare i soccorsi o raggiungere la civiltà nel cuore della notte, probabilmente avranno più fortuna durante il giorno.

In particolare, Charlotte trascorre il primo atto di Wolf Man chiedendosi se stesse perdendo il vero legame con sua figlia. Sebbene il film metta in evidenza questa mancanza di connessione (come quando Ginger crede con rabbia che Charlotte abbia abbandonato Blake), il film sottolinea anche il loro legame mostrando fino a che punto Charlotte è disposta ad arrivare per proteggere sua figlia, arrivando persino a uccidere suo marito. Anche se Wolf Man non ha necessariamente un lieto fine per Charlotte e Ginger, dà loro la speranza di un nuovo giorno alla fine del film.

Il finale di Wolf Man non prepara il terreno per un sequel

Non c’è alcun accenno a un sequel o a un teaser dopo i titoli di coda in Wolf Man

Nonostante i film moderni spesso facciano di tutto per creare un potenziale franchise in tutti i film, Wolf Man evita questo impulso e rimane una storia decisamente autonoma. Il film non termina con alcun cliffhanger o anticipazione sul futuro, a parte la possibilità che altre persone siano state infettate dal Volto del Lupo che si aggira nelle remote foreste dell’Oregon. Il finale del film è invece più incentrato sui personaggi e si conclude in modo definitivo per Blake. Anche se Charlotte o Ginger potrebbero tornare in eventuali sequel, non ci sono ragioni evidenti o trame in sospeso che ne giustifichino il ritorno.

Leigh Whannell, che ha diretto Wolf Man ed è stato uno degli sceneggiatori del film, ha anche diretto Invisible Man del 2020, un altro reboot di un classico film della Universal Monster.

L’unico motivo per cui sono venuti in Oregon era Blake, e la sua morte significa che non c’è motivo di tornare. Blake non conclude il film con una finta morte, e la morte di suo padre all’inizio del film non suggerisce che ci sia alcuna immortalità o qualità di resurrezione nell’equivalente della maledizione del lupo mannaro di Wolf Man. Dal punto di vista tematico, Wolf Man si conclude con una nota soddisfacente, con Blake che supera i fallimenti di suo padre e accetta volontariamente la morte per proteggere la sua famiglia.

Come il finale di Wolf Man si confronta con altri film su Wolf Man

Wolf Man condivide una connessione tematica con The Wolf Man e The Wolfman, anche se hanno un finale diverso

Wolf Man è il terzo film con questo titolo. The Wolf Man, con Lon Cheney, debuttò nel 1941. Poi ci fu The Wolfman del 2010, con Benecio Del Toro. Wolf Man del 2025 è una storia drasticamente diversa, priva di molti degli elementi condivisi dai primi due film. Questo vale anche per il finale. L’elemento comune più importante di tutti e tre i film è il fatto che il lupo mannaro protagonista viene ucciso nel momento culminante della rispettiva pellicola. Sebbene l’interesse amoroso, i temi e le trame generali di ciascuna versione siano diversi, c’è un elemento tematico comune degno di nota.

Sebbene ogni Wolf Man includa un confronto tra padre e figlio e la morte del figlio, tutti si svolgono in modo diverso. Nell’originale del 1941, il padre di Larry Talbot non crede alle affermazioni del figlio di essere maledetto e lo uccide inavvertitamente mentre è trasformato. Nel film del 2010, Lawrence Talbot scopre che anche suo padre è un lupo mannaro e i due ingaggiano una battaglia che si conclude con la morte del Talbot senior. Mentre Blake uccide suo padre in forma di lupo, in modo simile alla versione di Talbot di Del Toro, alla fine muore per mano di sua moglie, volontariamente.

Il vero significato di Wolf Man

Un film horror sui mostri che i genitori possono diventare accidentalmente

Wolf Man è un film horror sorprendentemente emozionante, incentrato sul trauma che può crescere tra le persone care. Nella narrazione del film, gli impulsi più animaleschi vengono spesso mostrati come pericolosi su più livelli. Anche quando non sono fisicamente minacciosi e non sono compiuti da un lupo mannaro, il film mette in evidenza il dolore emotivo che può lasciare un genitore quando aggredisce un figlio. Il rapporto tra Blake e suo padre va in pezzi man mano che lui cresce, e Blake chiarisce che non vuole diventare lo stesso tipo di genitore che è stato suo padre.

Anche se il padre di Blake può aver agito per amore, il suo atteggiamento severo e la sua rabbia incontrollata hanno chiaramente lasciato un segno su Blake.

Questo è ciò che rende così significativi gli sforzi di Blake per controllarsi con la sua famiglia e spiega perché alla fine del film sceglie la morte piuttosto che ferirli. Wolf Man mette in evidenza l’umanità nel controllo e fino a che punto l’amore ci spinge, anche a sfidare i nostri impulsi animaleschi o i nostri complessi personali. Wolf Man utilizza i tropi di una storia di lupi mannari per esplorare una storia complessa e stratificata sulle responsabilità familiari.

Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness ), la spiegazione del finale

Diretto da Agustín Díaz Yanes, Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness ) di Netflix segue Amaia, una giovane ufficiale della Guardia Civil spagnola che da un decennio vive nel sud della Francia come agente sotto copertura all’interno dei ranghi dell’ETA, il gruppo separatista basco. Dopo essere entrata gradualmente nei circoli più profondi del gruppo, la protagonista usa tutto il suo potere per portare a termine la sua missione e scoprire i segreti custoditi dall’organizzazione terroristica. Tuttavia, questa doppia vita, unita all’orrore di cui è testimone come membro dell’ETA, inizia a pesare su Amaia. Questo thriller di spionaggio esplora in profondità come i confini tra giusto e sbagliato diventino sfumati quando i percorsi della violenza e della giustizia si fondono, con conseguenze per la persona che si trova al bivio. Man mano che la fine della missione si avvicina, gli eventi prendono nuovamente una piega inaspettata, gettando Amaia in una situazione di vita o di morte.

Cosa succede in Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness) ?

Il film inizia con Amaia che consegna le chiavi a due uomini in un’auto, che poi escono in strada e assassinano un personaggio politico in pieno giorno. Amaia, un’insegnante, è scioccata da questo sviluppo, e la spirale che ne segue riporta indietro il tempo di quasi due anni. Scopriamo che la sua vera identità è Amaya Mateos Gines e che è un’agente della Guardia Civil spagnola diventata spia. Il suo compito è quello di infiltrarsi nelle file del gruppo terroristico noto come ETA, il cui obiettivo finale è la separazione dei Paesi Baschi dalla Spagna. Il suo obiettivo principale, a tal fine, diventa Begona Landaburu, una leader dell’ETA che gestisce anche una scuola, dove Amaia trova lavoro. Da lì, le due entrano gradualmente in contatto e la protagonista diventa parte del gruppo terroristico con il compito di collegare elementi e strategie essenziali. Durante questo periodo, mantiene regolarmente i contatti con la polizia, scambiando informazioni attraverso sacchi della spazzatura.

Man mano che l’operazione segreta si intensifica, Amaia si ritrova sempre più coinvolta nelle attività dell’ETA, che spesso portano alla morte di diversi personaggi famosi e politici. Desiderosa di rendersi utile, la protagonista individua il prossimo obiettivo del gruppo, un sergente che in realtà è stato selezionato e addestrato dalla Guardia Civil. Nel tentativo fallito di assassinio che segue, Amaia viene quasi sconfitta dal sergente e deve sparargli al petto. L’uomo sopravvive, ma l’incidente la lascia scossa e dubbiosa sulla sua nobile causa, spingendola ad abbandonare prematuramente la missione e l’ETA. Questa separazione, tuttavia, è di breve durata, poiché in poco tempo si ritrova nuovamente coinvolta nell’organizzazione. Questa volta la posta in gioco è ancora più alta e, con molti membri arrestati a destra e a manca, Amaiya e Begona sono costrette a fuggire in Francia, che era il piano della Guardia Civile fin dall’inizio.

Una volta in Francia, Amaia assume il ruolo di autista, trasportando uno dopo l’altro i membri importanti dell’ETA in luoghi sempre più appartati. Comincia a disegnare mappe mentali di queste occasioni, individuando la posizione di molti dei nascondigli e dei membri. Tuttavia, le perdite crescenti costringono l’ETA a riconsiderare la possibilità che ci sia una talpa sotto copertura. Prima che le cose tornino ad Amaiya, viene scoperta un’altra talpa, che lavora per i servizi segreti, e viene uccisa brutalmente proprio davanti a lei. Tuttavia, questo non impedisce ad Amaia di continuare le sue coraggiose immersioni nei segreti dell’ETA, che la portano alle coordinate esatte del più grande nascondiglio dell’ETA, chiamato Txernobel. Questo, insieme all’arresto di diversi nomi importanti, porta il gruppo a rendersi conto che ci sono ancora nemici all’interno e, di conseguenza, il tempo stringe per Amaia.

La spiegazione del finale: Amaia viene catturata dall’ETA? Sopravvive?

Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness) film netflix

Nella sequenza finale di Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness), Amaia rischia di essere scoperta come la talpa che ha creato problemi all’ETA fin dall’inizio. Dopo una lunga indagine all’interno dei propri ranghi, Anboto scopre che la protagonista, che lavora come autista del gruppo terroristico, ha fornito informazioni alla Guardia Civile spagnola. Questa rivelazione richiede un’azione immediata e Anboto invia uno dei suoi mercenari per portare a termine il lavoro con il pretesto di un nuovo incarico di guida. Tuttavia, ciò che salva la vita di Amaia in questo scenario quasi fatale è il sistema prestabilito di codici di avvertimento ideato dal colonnello Sanchez, il suo capo e responsabile. In una scena precedente, aveva spiegato che la canzone italiana “Parole Parole” sarebbe stata trasmessa alla fine del programma radiofonico mattutino se la copertura di Amaia fosse stata scoperta. Quando arriva il momento della verità, Sanchez anticipa i tempi e trasmette la canzone nel bel mezzo del programma radiofonico, causando un’interruzione della comunicazione. Pensando rapidamente, fa seguire la versione francese della canzone trasmessa da una radio locale, allertando Amaia.

L’arrivo del mercenario coincide con il momento in cui Amaia sente la canzone e si rende conto della gravità della sua situazione. A quel punto, le sue opzioni si riducono sempre più, costringendola a fuggire di nascosto dalla casa e a correre a perdifiato verso la foresta. Quando il suo avversario se ne accorge, è già troppo tardi. Mentre Amaia corre attraverso la fitta vegetazione, la canzone aiuta a collegare diverse altre scene, trasformando la sequenza in un ricordo di tutto ciò che la protagonista ha sopportato. Dopo una corsa estenuante che spinge Amaia al limite, lei finalmente raggiunge di nuovo la strada e si ferma per riprendere fiato. La distanza che si è creata tra lei e l’ETA, insieme ai loro mezzi di trasporto limitati, indica che Amaia è ora libera, con la possibilità di tornare in Spagna che diventa sempre più credibile.

Mentre il colonnello Sanchez promette di catturare Amaia, l’incertezza della sua futura posizione nella Guardia Civil rende più ambigua la traiettoria della protagonista. È probabile che lei riesca ad arrivare al confine e ottenga l’aiuto della polizia spagnola e francese, potenzialmente allertandole su altri segreti che l’ETA custodisce al suo interno. Con il suo ritorno imminente, Amaia è destinata a tornare alle sue perenni domande sull’identità, questa volta con un passato inquietante ad esse legato. In una scena precedente, rivela la sua persistente solitudine e il suo desiderio di stringere nuove amicizie e riaccendere vecchi legami. Anche se la fine della sua operazione sotto copertura le offre la possibilità di fare tutto questo, il bagaglio emotivo e psicologico che ne deriva rende le cose ancora più complicate. Il fatto che Amaia continui a far parte della Guardia Civile o metta in discussione i metodi duri che spesso impiegano dipende interamente dalle trasformazioni che ha subito nel corso degli anni.

L’ETA cade? Anboto e Dagoki vengono arrestati?

Il fatto che Amaia riesca probabilmente a sfuggire alla loro presa è uno dei tanti colpi devastanti per l’ETA, che ne segnano l’imminente caduta. Nelle schede informative che seguono la scena finale, apprendiamo che la missione segreta, chiamata “Operazione Mayhem”, ha svolto un ruolo fondamentale nel portare alla luce molte delle debolezze dell’organizzazione terroristica. In particolare, le sue informazioni sulla posizione dei nascondigli dell’ETA privano il gruppo di gran parte della sua capacità offensiva. Questo processo di indebolimento è accelerato dall’arresto di diversi pianificatori e dirigenti di alto livello all’interno dell’ETA. Il conseguente colpo ai loro numeri e alla loro logistica diventa un fattore determinante nella loro caduta finale, come confermano le schede informative. Anche se non ci viene mostrato il momento esatto in cui l’ETA crolla o viene sconfitta dalle forze di polizia, la traiettoria stabilita supporta questa idea.

L’imminente sconfitta dell’ETA è esemplificata dall’arresto di Anboto e Dagoki, due dei leader e principali ideatori del gruppo terroristico, che vengono catturati in rapida successione. La sequenza si svolge parallelamente alla fuga di Amaia, legando narrativamente i due eventi. All’inizio del film, Sanchez rivela il suo piano di intercettare prima o poi la casa di Anboto, e lo sforzo di salvare la vita della protagonista probabilmente gioca un ruolo in questa rapida missione. Con le menti dell’ETA ora dietro le sbarre, il gruppo è sbilanciato e questi disordini interni portano a ulteriori conflitti esterni, non solo nei Paesi Baschi ma in molte parti d’Europa e oltre. Tuttavia, l’arresto di Anboto ha anche una dimensione microscopica, poiché sconvolge l’intero caso che il leader terrorista aveva costruito contro Amaia. Ritenendola troppo perfetta, Anboto ha tenuto costantemente d’occhio la protagonista, ma con l’arresto del primo, quella dinamica contorta giunge a una conclusione fuori dallo schermo.

Cosa succede al colonnello Sanchez? Viene processato per tortura?

Mentre il colonnello Sanchez ha aperto la strada al lavoro di Amaia come poliziotta e agente sotto copertura, la sua stessa consapevolezza di produrre informazioni viene messa in discussione. In particolare, un episodio del suo passato torna alla ribalta quando Sanchez viene a sapere di essere processato per tortura e abuso. In precedenza nel film, viene mostrato che la vasta conoscenza di Sanchez sui meccanismi interni dell’ETA deriva dal fatto che ha catturato uno dei suoi leader più importanti, Joseba Landaburu. Sua moglie conferma in seguito che le torture inflittegli sono state la potenziale ragione del suo suicidio. In questo modo, le accuse contro Sanchez chiudono il cerchio della storia, offrendo una critica equilibrata alla dimostrazione di atti disumani su tutta la linea. Tuttavia, dopo questa rivelazione, non abbiamo modo di conoscere la vita interiore e le lotte di Sanchez, il che rende il suo destino in qualche modo ambiguo.

Poiché Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness) si conclude con Sanchez che mette sotto controllo alcuni dei membri e dei nascondigli più importanti dell’ETA, c’è una forte possibilità che le accuse contro di lui vengano ritirate alla luce dei suoi successi. Tuttavia, dato che ciò va contro i principi narrativi del film, una conclusione del genere è improbabile. Ha invece più senso che l’arresto dei terroristi sia un momento di chiusura per il colonnello, che porta al suo processo per tortura come conseguenza delle misure contorte intraprese. Ciò che rende la situazione più complessa è il suo innegabile amore per la sua nazione, ma ciò non giustifica né scusa gli orribili atti di violenza che compie sui prigionieri come Joseba per ottenere informazioni. In quanto tale, la conclusione del colonnello rappresenta un momento di riflessione che si applica alla storia più ampia, comprese le decisioni di Amaia.

La scioccante storia vera dietro al film documentario Netflix The Perfect Neighbor

The Perfect Neighbor, disponibile su Netflix dal 17 ottobre, è un documentario su una donna bianca della Florida che nel 2023 ha sparato e ucciso la sua vicina, una madre nera di quattro figli, ricostruito utilizzando le riprese delle telecamere indossate dagli agenti di polizia.

Non ci sono interviste, solo due anni di registrazioni delle interazioni della polizia con la responsabile della sparatoria, la sessantenne Susan Lorincz, che spesso si lamentava dei rumori causati dai bambini del quartiere mentre giocavano in un terreno libero vicino alla sua casa di Ocala, in Florida, e filmati delle telecamere indossate dagli agenti durante le interviste ai vicini. Nel 2024, Lorincz è stata giudicata colpevole di omicidio colposo con arma da fuoco e sta ora scontando una pena detentiva di 25 anni.

Ecco come una disputa tra vicini si è trasformata in una tragedia mortale.

Una vicina “spaventata”

Lorincz ha chiamato ripetutamente la polizia per segnalare dei bambini rumorosi del quartiere che, secondo lei, stavano “violando la sua proprietà”, urlandole continuamente contro, dicendole di stare zitta e minacciando di ucciderla. Lorincz diceva alla polizia che era stata aggredita e che “temeva per la sua vita”. Nel film, gli spettatori vedranno le registrazioni che lei faceva dei bambini che giocavano per poterle mostrare alla polizia. Il titolo del film, The Perfect Neighbor (Il vicino perfetto), deriva da un commento fatto da Lorincz alla polizia: “Sono come il vicino perfetto”.

Il filmato rivela che gli agenti hanno ripetutamente risposto con scetticismo alle chiamate di Lorincz perché era l’unica residente a presentare queste lamentele. I bambini non stavano tecnicamente giocando nella proprietà della Lorincz, ma nel giardino del suo vicino di casa. Quest’ultimo li incoraggiava a venire da lui e insegnava loro a giocare a calcio. La Lorincz aveva chiesto al suo padrone di casa di mettere un cartello con la scritta “vietato l’accesso” sul suo prato per dividere l’area tra la sua proprietà e il giardino del vicino.

I vicini hanno affermato che la Lorincz urlava parolacce ai loro figli e si sono sentiti disturbati nell’apprendere che lei li stava registrando. I bambini hanno detto alla polizia che stavano solo giocando a nascondino nel terreno e che la Lorincz li molestava, insultandoli e brandendo un ombrello o una pistola contro di loro.

Una volta, i bambini hanno detto che lei aveva persino lanciato loro dei pattini a rotelle, anche se la Lorincz sostiene di aver restituito un paio di pattini lasciati sul suo prato. Dicono che la Lorincz li abbia accusati di aver cercato di rubare il suo furgone. “Abbiamo 11 anni!”, si sente dire uno dei bambini nel documentario. Hanno soprannominato la Lorincz “Karen”, slang che indica donne bianche di mezza età arrabbiate che possono essere razziste nelle loro lamentele.

Dalle telefonate alla tragedia

Il film è incentrato su un incidente avvenuto il 2 giugno 2023, quando Lorincz ha affermato che dei ragazzi stavano violando la sua proprietà e, quando lei ha detto loro di andarsene, hanno risposto che avrebbero chiamato la madre. Lorincz ha chiamato la polizia e un operatore ha detto che gli agenti sarebbero arrivati a breve.

Poi Lorincz sostiene di essere stata dentro casa sua quando Ajike Owens, una manager di McDonald’s che viveva nel suo quartiere, si è presentata e ha iniziato a bussare alla sua porta. Così ha preso una pistola e ha sparato attraverso la porta, senza rendersi conto che il figlio di Owens era proprio accanto a lei. “Pensavo che mi avrebbe ucciso”, ha detto Lorincz alla polizia, insistendo ripetutamente che non si è trattato di un atto intenzionale e premeditato. Quando la polizia le ha dato la possibilità di scrivere una lettera di scuse dopo essere stata interrogata, lei ha accettato l’offerta, scusandosi con i bambini e spiegando che aveva “agito per paura”, temendo che la loro madre la avrebbe uccisa.

Le leggi della Florida “Stand Your Ground” consentono l’uso della forza letale se sussiste un presunto stato di paura. Gli omicidi che coinvolgono tiratori bianchi e vittime di colore sono più facilmente giudicati giustificabili rispetto a quelli che coinvolgono tiratori di colore e vittime bianche. Il caso più famoso è quello di George Zimmerman, un uomo bianco che nel 2013 è stato assolto per aver sparato a Trayvon Martin, un ragazzo di colore di 17 anni disarmato.

Tuttavia, nel filmato dell’interrogatorio della polizia a Lorincz, gli investigatori dicono di non capire perché abbia estratto una pistola solo due minuti dopo che un operatore del 911 aveva detto che la polizia stava arrivando sul posto. Come ha detto uno di loro, “le decisioni che prendi non sono ragionevoli”. Durante la sentenza del 2024, il giudice che presiedeva ha sostenuto che Lorincz ha agito più per rabbia che per paura.

Il documentario presenta alcuni frammenti della copertura televisiva nazionale del caso. Lorincz e il reverendo Al Sharpton hanno persino tenuto l’elogio funebre al funerale della Owens, lodando le sue azioni e rivolgendosi direttamente ai suoi figli: “Se lei avesse permesso alle persone di umiliarvi, sareste cresciuti con la sensazione di essere qualcosa che può essere umiliato”.

Il messaggio da trarre da The Perfect Neighbor

“Se non testimoniamo crimini come questo, se distogliamo lo sguardo, se non li portiamo alla luce, continueranno a rimanere nell’ombra”, dice la regista Geeta Gandbhir a TIME.

Esaminando due anni di filmati delle telecamere indossate dai poliziotti, Gandbhir sperava di trasformare uno strumento destinato a proteggere la polizia in uno strumento che ne smascherasse i difetti.

Gandbhir, la cui famiglia era vicina agli Owens, si chiede perché la polizia non abbia chiamato un assistente sociale o un altro tipo di mediatore per placare la situazione.

E pensa che la polizia avrebbe dovuto intervenire prima contro Lorincz, vista la presenza di armi nella sua casa e le numerose chiamate ai servizi di emergenza per situazioni non urgenti.

“La polizia non deve necessariamente arrivare sparando e picchiando le persone per aver comunque deluso la comunità”, sostiene. “Se sei in grado di impugnare una pistola per risolvere una banale disputa con il tuo vicino, di cos’altro sei capace?”

The Diplomat – stagione 4: tutto quello che sappiamo

Il cuore emotivo della serie imperdibile di Netflix The Diplomat è il rapporto appassionato e complicato tra l’ambasciatrice statunitense Kate Wyler (Keri Russell) e suo marito Hal (Rufus Sewell), un uomo dalla moralità discutibile. Alla fine della terza stagione, che ha mostrato sia l’inizio della coppia che la loro breve separazione (a seguito del nuovo ruolo di Hal come vicepresidente), Kate torna da suo marito e si impegna nuovamente come sua complice.

Ma questo prima che un grave tradimento che coinvolge la presidente Grace Penn (Allison Janney) cambi tutto. Con tutti gli episodi della terza stagione in uscita il 16 ottobre, gli spettatori potrebbero chiedersi se il rapporto tra Kate e Hal tornerà mai come prima (e, ovviamente, se la terza guerra mondiale sia alle porte). Di seguito, riportiamo tutto ciò che sappiamo finora sul futuro di The Diplomat. (Se state cercando un’analisi completa del finale della terza stagione di The Diplomat, abbiamo ciò che fa per voi).

La serie “The Diplomat” è stata rinnovata per la quarta stagione?

Sì! Netflix ha annunciato il rinnovo anticipato del thriller politico nel maggio 2025, cinque mesi prima dell’arrivo della terza stagione sulla piattaforma. La lieta notizia è stata rivelata durante la presentazione Upfront dello streamer a New York City, come riportato da Variety.

Potrebbe interessartiLa terza stagione di The Diplomat torna questo autunno con Kate Wyler che tiene d’occhio la presidente Grace PennAnalisi di tutti i colpi di scena del finale della terza stagione di The Diplomat, compresa la scioccante verità sul Poseidon“The Diplomat” torna con la terza stagione il mese prossimo: ecco cosa ricordare del cast stellare e dei loro legami con West Wing.

Quando uscirà la quarta stagione di The Diplomat?

Netflix non ha ancora annunciato una data di uscita per la quarta stagione di “The Diplomat”, dato che la terza stagione è appena arrivata, e al momento non si sa se la serie manterrà il suo ritmo annuale. Finora, The Diplomat è stata una delle rare serie Netflix a debuttare con una nuova stagione ogni anno, con la stagione 1 arrivata nell’aprile 2023, la stagione 2 nell’ottobre 2024 e la stagione 3 nell’ottobre 2025. Tuttavia, questo rapido ritorno ha richiesto un programma di produzione insolito, in cui le riprese della stagione 3 sono iniziate prima ancora che la stagione 2 fosse trasmessa.

Secondo What’s on Netflix, le riprese della quarta stagione inizieranno a novembre e potrebbero continuare fino all’estate del 2026. Poiché la serie richiede un paio di mesi per la post-produzione, è più probabile che la quarta stagione debutterà sulla piattaforma all’inizio del 2027 piuttosto che alla fine del 2026.

Quali membri del cast torneranno per la quarta stagione di The Diplomat?

Diplomat, preparatevi a vedere molto più spesso i Penn! Netflix ha rivelato che Allison Janney (la presidente Grace Penn) e Bradley Whitford (Todd Penn) sono stati promossi a personaggi fissi della quarta stagione. Dopo il finale sospeso della terza stagione e l’unica scena domestica carina che abbiamo visto con la coppia presidenziale, siamo entusiasti di vedere altri ex membri del West Wing!

Oltre a Janney e Whitford, si prevede che tutto il cast principale tornerà per la quarta stagione di The Diplomat, compresi Keri Russell (Kate Wyler), Rufus Sewell (Hal Wyler), Ato Essandoh (Stuart Hayford), Ali Ahn (Eidra Park), Nana Mensah (Billie Appiah), David Gyasi (Austin Dennison), Rory Kinnear (Nicol Trowbridge).

Nel frattempo, resta ancora da vedere se la star di Poldark Aidan Turner e l’ex protagonista di The Pitt Tracy Ifeachor torneranno nei loro ruoli rispettivamente di Callum Ellis e Thema.

Dennison (al centro a sinistra) presenta la sua nuova moglie Thema (Tracy Ifeachor, al centro a destra) agli americani. Nella foto, da sinistra: Todd Penn (Bradley Whitford), Grace, Hal e Kate.

Di cosa parlerà la quarta stagione di The Diplomat?

Presidente Grace in The Diplomat - Stagione 4
Clifton Prescod/Netflix

Il finale della terza stagione di The Diplomat si conclude con alcune manovre tutt’altro che diplomatiche da parte della minacciosa squadra composta dalla presidente degli Stati Uniti Grace Penn e dal vicepresidente Hal Wyler. Dopo che Trowbridge accetta il compromesso di Kate e decide di seppellire il Poseidon, un’arma russa “apocalittica” al largo delle coste inglesi, l’ambasciatrice euforica (che nell’episodio 7 ha capito di aver forse incolpato Hal per i propri problemi) dichiara di volersi unire a Hal a Washington per dare un’altra possibilità alla loro collaborazione. Poco dopo, Callum informa Kate che la testata è misteriosamente scomparsa. Basta qualche suggerimento paranoico da parte di Todd perché lei colleghi i puntini: Grace e Hal hanno rubato il Poseidon, il che farà sicuramente infuriare il Regno Unito e la Russia. Hal fa promettere a Kate di tenere la bocca chiusa, e gli spettatori rimangono a chiedersi cosa farà ora la nostra eroina tradita.

La delegazione statunitense, da sinistra: Billie Appiah (Nana Mensah), la presidente Grace e il vicepresidente Hal.

Parlando con Tudum, la creatrice Deborah Cahn è stata piuttosto minacciosa mentre anticipava cosa succederà nella serie. Alla domanda se gli spettatori dovrebbero preoccuparsi per ciò che accadrà, ha risposto: “Dovrebbero essere preoccupati. Ci sono molti motivi per preoccuparsi… Hal e Grace stanno giocando con il fuoco nella casa di qualcun altro. Le ripercussioni non si limiteranno all’America, ma si estenderanno anche ad altri paesi. Questo renderà davvero infelici molte persone”.

Sulla base di ciò, sembra che la quarta stagione seguirà Kate mentre affronta sia il tradimento etico di Hal sia la prospettiva che due elementi incontrollabili stiano governando l’America. (Ricordiamo che Grace era dietro l’esplosione dell’HMS Courageous e Hal è, beh, Hal). “[Loro] sono due persone davvero potenti e dinamiche che si alimentano a vicenda con la loro intelligenza e intensità”, ha aggiunto Cahn. “Quando due persone premono l’acceleratore contemporaneamente e nessuno ha il piede sul freno, è spaventoso”.

Gli sporcelli (The Twits), spiegazione del finale: cosa è successo al signor e alla signora Twit?

Il nuovo film d’animazione di Netflix Gli sporcelli (The Twits)è una divertente commedia d’avventura incentrata sulle persone “più cattive, più disgustose e più puzzolenti” del mondo, il signor e la signora Twit. Odiavano tutti e tutto, specialmente l’un l’altro. Erano sposati da 47 anni e trascorrevano la maggior parte delle loro giornate a prendersi in giro a vicenda. Era diventato il loro linguaggio d’amore e provavano piacere nell’intrattenersi con stupidi scherzi. Un giorno, hanno pensato di dedicare tutte le loro energie e la loro intelligenza alla costruzione di un parco divertimenti. E così, hanno inaugurato Twitlandia, il “parco divertimenti più disgustoso, più pericoloso e più idiota” con bagni chimici, materassi usati e altra spazzatura. Erano sicuri che avrebbero guadagnato bene, ma sfortunatamente il parco è stato chiuso subito dopo la messa in onda degli spot promozionali in televisione. Così, quando due bambini, Beesha e Bubsy, arrivarono per esplorare il parco, i Twits si sentirono pieni di speranza.

Come fece Beesha a smascherare i Twits?

Dopo che la polizia ha chiuso a tempo indeterminato il loro parco divertimenti, i Twits hanno deciso di escogitare un piano per punire la città. Hanno rubato un camion che trasportava carne liquida per hot dog, hanno caricato la carne nel serbatoio dell’acqua e l’hanno fatta esplodere. La città di Triperot è stata invasa da un’alluvione di carne liquida per hot dog e la gente comune era furiosa. Il sindaco, Wayne John John-John, era un inutile idiota che ha sfruttato l’attenzione dei media per chiedere voti nelle imminenti elezioni. L’intera vicenda ebbe un effetto tremendo su Bubsy. Stava per essere adottato, ma la coppia rifiutò di prenderlo dopo aver scoperto che aveva bevuto acqua contaminata. Beesha, che era diventata la sorella maggiore di Bubsy all’orfanotrofio, si sentì malissimo, quindi decise che i responsabili dell’inondazione dovevano essere puniti. Beesha e Bubsy arrivarono a Twitlandia e notarono il camioncino della carne liquida per hot dog parcheggiato fuori dalla loro residenza.

La coppia ammise con orgoglio il crimine che aveva commesso e Beesha usò una telecamera nascosta per registrare la loro confessione. Mentre lasciavano Twitlandia, i bambini notarono tre strane creature rinchiuse in una gabbia. Erano i Muggle-Wumps, che la coppia di astuti ladri aveva rubato da Loompaland, una terra magica piena di strane bestie. All’inizio Beesha e Bubsy non capivano la lingua dei Muggle-Wumps, ma gradualmente capirono cosa stavano cercando di comunicare. La narratrice della storia (Pippa, una cavalletta, racconta la storia dei Twits a suo figlio) dice al pubblico che i bambini estremamente empatici sono in grado di capire gli animali. Beesha e Bubsy erano determinati a salvare i Muggle-Wumps, quindi dovevano trovare la chiave della gabbia. Dopo che i canali di informazione hanno mandato in onda il video della confessione registrato da Beesha, i Twits sono stati arrestati e i bambini hanno finalmente avuto la possibilità di entrare nella loro casa e trovare le chiavi. Ma, a quanto pare, il signor Twit portava le chiavi al collo.

Come sono diventati famosi Gli sporcelli (The Twits)?

Nel frattempo, i Twits avevano guadagnato un discreto seguito dopo aver affermato di aver scoperto la formula per rendere Triperot di nuovo grande (capite cosa intendo). Le famiglie a basso reddito e della classe media avevano difficoltà ad arrivare a fine mese dopo che la città aveva smesso di attrarre turisti. Triperot era un tempo conosciuta come la capitale mondiale del divertimento, ma dopo che il lago Tripe si era prosciugato (a causa dell’inquinamento), il numero di turisti aveva iniziato a diminuire. Di conseguenza, le attività commerciali avevano chiuso e la disoccupazione era in aumento. La gente aveva bisogno di qualcosa/qualcuno in cui credere, e i bugiardi e intriganti signori Twit erano diventati la loro unica speranza.

Anche se Twitlandia era un cumulo di spazzatura, erano convinti che se il parco divertimenti fosse stato autorizzato ad aprire, la città si sarebbe sviluppata e le loro vite sarebbero cambiate drasticamente. Queste persone pagarono la cauzione per il signor e la signora Twit e, non appena furono rilasciati, i Twit capirono (come veri politici) che potevano facilmente giocare con le emozioni del pubblico, fare false promesse che non avevano alcuna intenzione di mantenere e estorcere loro denaro. Chiesero ai loro sostenitori di pagare loro 1000 dollari e, in cambio, avrebbero guadagnato un miliardo dopo il successo del parco divertimenti. Dopo che i Twits tornarono a casa, Beesha e Bubsy riuscirono a rubare le chiavi e salvarono la famiglia Muggle-Wump.

Come hanno fatto i Twits a vincere le elezioni?

I Twits erano disperati di riavere le creature magiche, poiché usavano le loro lacrime come carburante per far funzionare il parco. Una volta capito che avrebbero avuto l’autorità di entrare nell’orfanotrofio di Beesha e Bubsy solo se fossero diventati sindaci, decisero di candidarsi alle elezioni. Come previsto, ricorsero a mezzi sleali e prepararono una torta con sostanze tossiche per il sindaco Wayne John John-John. Durante un dibattito televisivo, il sindaco mangiò la torta e, beh, il suo sedere esplose in pubblico! I Twits avevano raccolto un buon numero di sostenitori che li seguivano ciecamente ed erano pronti a fare qualsiasi cosa chiedessero nella speranza che un giorno le loro vite sarebbero migliorate. Beesha si sentiva senza speranza, soprattutto dopo aver visto gli adulti incolpare lei per la chiusura di Twitlandia, l’unica soluzione a tutti i loro problemi. Nel frattempo, poiché il sindaco Wayne John John-John era stato ricoverato in ospedale per un intervento chirurgico di sostituzione del sedere, il signor e la signora Twit furono dichiarati sindaci di Triperot.

Come hanno ingannato Beesha i Twits?

Beesha aveva deciso di sorvegliare l’orfanotrofio di notte, poiché i Twits avevano espresso la loro disperazione nel voler riavere la famiglia Muggle-Wump. Quando ricevette una telefonata dal signor Napkin, responsabile della sorveglianza dell’orfanotrofio, che le diceva che i suoi genitori erano tornati e volevano riportarla a casa, Beesha si emozionò. Abbandonò la sua postazione fuori dall’orfanotrofio e si recò alla pista da bowling dove le era stato chiesto di incontrare i suoi genitori. Ben presto scoprì che si trattava di una trappola. Il signor Twit aveva usato un dispositivo per modificare la voce per imitare quella del signor Napkin e attirare Beesha alla pista da bowling. Beesha si sentì in imbarazzo; si odiava per essere stata così ingenua. Beesha riuscì a liberarsi, ma quando raggiunse l’orfanotrofio, tutto era sparito.

I Twit avevano rubato l’orfanotrofio (i loro sostenitori avevano letteralmente sollevato l’edificio e lo avevano portato a Twitlandia), lasciando solo il rospo Sweet-Toed. Lui le spiegò cosa era successo e, quando sentì Beesha incolpare se stessa, le ricordò che la sua famiglia aveva bisogno di lei. Il cuore di Beesha si spezzò quando sentì la parola “famiglia”; i suoi genitori l’avevano lasciata all’orfanotrofio e per tutti questi anni aveva sperato che tornassero a prenderla per portarla a casa. Stava lentamente accettando il fatto che forse non sarebbero mai tornati, e questo era piuttosto devastante per lei. Il rospo conosceva la sua storia, ma credeva che lei avesse già una famiglia che l’amava immensamente. Anche se non erano legati da vincoli di sangue, l’amore che condividevano era sufficiente perché lei li considerasse la sua famiglia. Beesha si rese conto che il rospo aveva ragione e che, invece di sentirsi triste per ciò che non aveva, doveva concentrarsi sulla protezione di coloro che le stavano accanto.

Cosa spinse i Twits a confessare la verità?

Beesha e il rospo dai piedi dolci hanno interrotto la festa di inaugurazione a Twitlandia. Quando i Twits sono saliti sul palco, il rospo è intervenuto e, come era già stato stabilito, se si bacia il piede del rospo, si diventa il proprio opposto. I Twits, in questo caso, sono diventati onesti e amorevoli. Hanno confessato di aver mentito ai loro sostenitori e di aver usato tutti i soldi che avevano contribuito per i fuochi d’artificio. I loro sostenitori erano furiosi, ma prima ancora che potessero reagire, i Twits hanno lanciato una dozzina di fuochi d’artificio che hanno finito per distruggere il parco divertimenti. Beesha era riuscita a liberare i Muggle-Wumps e tutti i suoi amici dall’orfanotrofio. Proprio mentre stavano per andarsene, Beesha si rese conto che i Twits sarebbero sempre stati una minaccia nella loro vita. Piuttosto che fuggire, decise che doveva affrontarli una volta per tutte.

Durante il finale di Gli sporcelli (The Twits), Beesha e i suoi amici si intrufolarono nella casa dei Twits e la ridecorarono per farla sembrare capovolta. Mentre la coppia stava per entrare in casa, due bambini versarono della colla sulle loro teste senza che loro si rendessero conto di cosa stesse succedendo. I Twits erano ancora un po’ intontiti dopo l’effetto magico del rospo. Quando hanno visto che la loro casa era sottosopra, hanno pensato che se si fossero messi a testa in giù, tutto sarebbe andato bene. Non appena si sono messi a testa in giù, sono rimasti incollati al pavimento. Beesha e i suoi amici hanno finalmente ottenuto la vendetta che desideravano e lei ha creduto che il mondo sarebbe stato un posto molto migliore senza i Twits.

Perché Beesha e Bubsy hanno liberato Gli sporcelli (The Twits)?

Dopo essere tornati all’orfanotrofio, si chiesero cosa sarebbe successo ai Twits. Beesha e Bubsy pensarono che forse avrebbero subito il temuto restringimento: i loro corpi si sarebbero rimpiccioliti fino a scomparire del tutto. Mentre ridevano e festeggiavano la loro vittoria, Beesha e Bubsy si resero improvvisamente conto che non riuscivano più a capire cosa dicessero i Muggle-Wumps. Poiché non erano riusciti a mostrare empatia verso i Twits, avevano perso il potere di comunicare con gli animali. I bambini capirono che invece di cercare vendetta e vivere nell’odio, dovevano sempre scegliere il perdono, anche quando non era facile. Tornarono a casa dei Twits e li liberarono. Ma ovviamente il loro grande gesto non ebbe alcun effetto sui Twits. Non appena furono liberati, tentarono di attaccare Beesha e Bubsy!

Dove finirono il signor e la signora Twit?

Il signor Napkin riuscì a riportare l’orfanotrofio nella sua posizione originale; le occasionali leccate di dita di rospo contribuirono ad aumentare la sua fiducia. I Muggle-Wumps vendettero la loro formula per le lacrime a una multinazionale, ponendo fine alla dipendenza mondiale dai combustibili fossili. I Muggle-Wumps guadagnarono MOLTI soldi e ne usarono una parte per acquistare l’orfanotrofio e adottare Bessha, Bubsy e tutti gli altri bambini. Vissero insieme come una grande famiglia! Il signor Napkin fu anche assunto come au pair part-time.

Nel frattempo, Beesha fu premiata per i suoi sforzi nel liberare la città dai Twits, e la sua idea di riempire il lago Tripe con florbnorbles (i batuffoli di cotone che Marty Muggle-Wump rilasciava ogni volta che era ansioso) ebbe un grande successo, attirando turisti e rendendo Triperot nuovamente la capitale mondiale del divertimento! Ma i Twits non fecero alcun sforzo per cambiare; cercarono invece di trovare una soluzione per sbarazzarsi degli effetti collaterali dei Dreaded Shrinks.

Decisero di appendersi a un gruppo di palloncini e finirono per fluttuare in giro per il mondo e atterrare a Loompaland, dove furono immediatamente accolti da una varietà di bestie. Sembra che gli Gli sporcelli (The Twits) impareranno finalmente che bisogna pagare un prezzo pesante per aver causato problemi! Il finale conferma anche che Pippa e suo figlio vivevano nella barba del signor Twit e, nel momento in cui lui è partito con il pallone aerostatico, madre e figlio sono finalmente riusciti a fuggire!

Daredevil: Rinascita – Stagione 2: rivelata la data di uscita!

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Disney+ ha ufficialmente rivelato la data di uscita della seconda stagione di Daredevil: Rinascita. Daredevil: Rinascita ha segnato il trionfale ritorno in TV di Matt Murdock, interpretato da Charlie Cox, dopo l’ingiusta cancellazione di Daredevil e dei suoi compagni Defenders su Netflix nel 2018. Sebbene la serie rinnovata abbia incontrato alcuni ostacoli durante la produzione, la prima stagione di Daredevil: Rinascita si è rivelata una delle storie più sanguinose del Marvel Cinematic Universe.

Ora, Daredevil e i suoi alleati si preparano alla battaglia della loro vita contro le forze anti-vigilanti del sindaco Fisk (Vincent D’Onofrio), con la seconda stagione in anteprima su Disney+ il 4 marzo 2026, esattamente un anno dopo il debutto della prima stagione. Sebbene si vociferasse già da tempo di una data di uscita all’inizio di marzo, la notizia è stata ora pubblicata sul sito stampa Disney Daredevil: Rinascita.

La data di uscita ufficiale significa che Daredevil: Rinascita – stagione 2 sarà la seconda serie Disney+ MCU a debuttare il prossimo anno. Wonder Man di Yahya Abdul-Mateen II, originariamente previsto per dicembre, è stato posticipato al 27 gennaio. Anche VisionQuest di Paul Bettany è previsto per il 2026, anche se la data esatta di uscita non è ancora stata rivelata.

La seconda stagione di Daredevil: Rinascita sarà composta da otto episodi, con altri in arrivo nella terza stagione già confermata.

Cox sarà affiancato dalla collega Netflix Defender Jessica Jones, con Krysten Ritter che tornerà ufficialmente nei panni della detective privata lunatica e dai superpoteri. Torneranno anche Karen Page di Deborah Ann Woll, che avrà un ruolo più significativo in questa stagione, Punisher di Jon Bernthal, Fisk di Vincent D’Onofrio e persino Foggy Nelson di Elden Henson, ucciso a colpi di pistola nel traumatico episodio pilota di Daredevil: Rinascita.

Mentre la prima stagione di Daredevil: Rinascita è stata meticolosamente assemblata da diverse produzioni e sceneggiature – cosa particolarmente evidente nell’episodio divertente ma un po’ irrilevante in cui Matt incontra il padre di Ms. Marvel durante una rapina in banca – la prossima stagione è stata libera di costruire il suo arco narrativo da zero. Il produttore esecutivo Jesse Wigutow ha recentemente rivelato che la seconda stagione ha una “chiarezza di visione”, poiché la rabbia di Fisk minaccia l’intera città preferita di Matt Murdock.

“Penso che ciò che interessa alle persone siano questi due personaggi e il conflitto in cui sono coinvolti, quanto profondamente si odiano e quanto profondamente hanno bisogno l’uno dell’altro”, ha spiegato Wigutow.

Il potere e l’influenza di Fisk possono essere enormi, ma Matt Murdock può davvero perdere, con Jessica Jones e gli altri suoi alleati al suo fianco? (Ricordate, anche altri due Defenders potrebbero potenzialmente presentarsi per aiutare a salvare la situazione). Lo scopriremo presto, quando la seconda stagione di Daredevil: Born Again debutterà il prossimo anno.

Daredevil: Rinascita uscirà il 4 marzo 2026, in esclusiva su Disney+.

Anemone, la spiegazione del finale: il passato traumatico di Ray

Anemone è un ritorno straziante per Daniel Day-Lewis, con il dramma irlandese che culmina in un finale tranquillo ma potente. Diretto da Ronan Day-Lewis, Anemone segna il ritorno di Daniel Day-Lewis al mondo della recitazione dopo il suo ritiro dal campo nel 2017. È una performance impressionante che lo ha catapultato nella corsa alla stagione dei premi.

Anemone è un film prevalentemente meditativo, con pochi personaggi e un arco emotivo tragico. Con Ray che vive in isolamento da anni, gran parte del film è costruito sulla curiosità di Jem, la cupa accettazione di Nessa e la rabbia di Brian per la decisione di lasciare la sua famiglia. Il motivo per cui Ray se n’è andato è straziante e ripaga i temi e le immagini del film.

Perché Ray è rimasto solo per così tanto tempo

L’isolamento di Ray in Anemone è stato causato dal suo dolore e dal suo rimpianto, con il trauma delle sue azioni durante i Troubles in Irlanda che alla fine lo hanno spinto ai margini della società. Per gran parte di Anemone, non è chiaro esattamente perché Ray abbia abbandonato sua moglie Nessa e il loro figlio Brian.

Ray si scontra e si lega in egual misura a suo fratello Jem quando questi viene a cercarlo, sperando che Ray possa incontrare suo figlio per rimediare al suo comportamento dopo aver brutalmente picchiato un altro giovane. Per gran parte del film, Ray ignora le richieste di Jem e rifiuta di leggere la lettera che Nessa gli ha inviato, implorandolo di tornare.

Una notte, Ray rivela qualcosa in più su ciò che lo ha allontanato da Nessa e da tutti gli altri: raccontando il suo periodo come soldato durante i Troubles, Ray rivela che l’indagine del suo plotone su un fabbricante di bombe per l’IRA si è conclusa quando l’uomo e il suo apprendista sono rimasti feriti mortalmente in un’esplosione accidentale.

Esaminando le rovine dell’edificio, Ray ha trovato l’apprendista in fin di vita. Ritenendo che il giovane fosse ferito mortalmente e non avesse alcuna possibilità di essere evacuato in tempo in ospedale per salvarlo, Ray gli sparò per porre fine alle sue sofferenze. Tuttavia, poiché all’epoca era disarmato, questo è considerato un crimine di guerra.

Ray rimase incredibilmente scosso dall’esperienza, che fu solo esacerbata quando i suoi ufficiali superiori cercarono di aiutarlo a insabbiare l’incidente. Ray abbandonò la società, apparentemente avendo perso la fiducia nell’umanità. In particolare, Ray rivela che con il passare del tempo non riesce a ricordare la sua esatta motivazione per aver ucciso l’apprendista.

Mentre spiega in lacrime, Ray ricorda di aver guardato il ragazzo morente e di aver incrociato il suo sguardo pieno di odio. Tuttavia, non riesce a ricordare nello specifico il suo stato emotivo in quel momento. Sembra che, nel suo senso di colpa, Ray non riesca a ricordare se abbia sparato al giovane per pietà, necessità, crudeltà o semplicemente perché sì. Questo tormenta Ray e lo ha allontanato dalle altre persone.

Il vero significato di The Hail Storm

La notte dopo che Ray si è confidato con Jem riguardo al suo tumulto interiore, scoppia una grandinata davvero violenta. Questa grandinata, accennata sottilmente all’inizio del film attraverso indizi su una tempesta invernale in arrivo, rappresenta le sfide travolgenti che possono improvvisamente schiacciare le persone.

Enormi chicchi di grandine cadono sulla città vicina, lasciando i residenti locali come Nessa e Brian a guardare con stupore la portata del fenomeno. Dopo aver scoperto una misteriosa creatura che sembra fatta d’acqua (essa stessa apparentemente una metafora del mondo naturale di solitudine che si è creato), Ray attacca Jem.

Prima che Jem possa andarsene, la grandinata si intensifica e costringe i due uomini a rifugiarsi nella casa di Ray. È un momento improvviso che spazza via il conflitto che era esploso tra loro. Questo legame con la misteriosa bestia acquatica sembra confermato quando, la mattina seguente, Ray trova un enorme pesce che galleggia a valle dopo essere stato ucciso dalla tempesta.

Questo suggerisce che il significato della tempesta è quello di rafforzare l’importanza dei legami. Ray potrebbe aver trovato la bellezza solo nella natura selvaggia, lontano dall’umanità che ha scatenato un conflitto in cui ha perso la sua umanità. Tuttavia, senza di essa, un giorno sarebbe stato proprio come il pesce nel fiume.

Nonostante tutta la sua forza e indipendenza, Ray sarebbe stato solo un altro corpo che galleggiava. Non sarebbe stato altro che un mostro morto, la sua umanità ignorata da una città e da una famiglia che non lo conoscevano più. È un momento emotivamente intenso, che porta Ray ad accettare la richiesta di Jem e a tornare a casa con lui per incontrare Brian.

Il vero significato di Anemone

anemone film

Anemone è una storia dolorosamente incentrata sui personaggi che evidenzia quanto le relazioni umane siano cruciali per la sopravvivenza. Brian è sempre più furioso per la mancanza di legame con suo padre, anche se finisce per litigare per difenderlo. La sua amica Hattie gli tende la mano, creando uno dei pochi momenti di sincera empatia di Brian nel film.

Nessa può anche avere il cuore spezzato, ma continua a sperare che un giorno lui possa venire a conoscere loro figlio. È anche circondata da altre persone quando arriva la grandinata, triste ma tenace. La fede di Jem in Dio è una parte importante del suo carattere, soprattutto per come influisce sulle sue interazioni con qualcuno come Ray, che è profano. Tuttavia, Jem non perde mai la speranza per lui.

Per Ray, l’arco emotivo del film consiste nel riconoscere che la sua umanità non è stata abbandonata da lui. Potrà anche aver commesso un atto terribile che lo ha spinto ai margini della società, ma è ancora tormentato dal ricordo perché è ancora dolorosamente umano. Questa consapevolezza è ciò che lo porta finalmente a incontrare Brian.

Sebbene la loro prima conversazione non venga mostrata, è evidente che Ray mostra un momento di vulnerabilità quando vede Brian. È calmo come non lo era mai stato prima, quasi in pace, vedendo un nuovo giovane. Non è una coincidenza che Brian abbia più o meno l’età dell’adolescente ucciso da Ray e che anche lui stia valutando la possibilità di arruolarsi nell’esercito.

Per molti versi, Brian è sulla strada per diventare come Ray. Il ritorno di Ray promette almeno una possibilità di rafforzare l’umanità di entrambi. Anche se il pubblico potrebbe non sapere dove andrà a finire, Anemone parla dell’innegabile umanità che continua a vivere, anche dopo un trauma, un abbandono e un lutto.

Couture, recensione del film con Angelina Jolie – #RoFF20

Couture, diretto da Alice Winocour, racconta una storia al femminile ambientata nel mondo della moda parigina, dove la bellezza diventa pretesto per parlare di fragilità, sogni e resistenza.

Il titolo stesso suggerisce la chiave di lettura del film: secondo l’Oxford Dictionary, “couture” indica “l’arte della moda; ogni attività estetica e commerciale connessa con la moda femminile ad alto livello”. E proprio in questa definizione si inserisce la trama, in cui la moda è cornice e metafora di un racconto più profondo.

Tre donne guidano la narrazione: Maxine (Angelina Jolie), regista americana giunta a Parigi per dirigere un corto destinato a introdurre una sfilata; Ada (Anyier Anei), modella sud-sudanese scelta come protagonista del film e della passerella; e Angèle (Ella Rumpf), make-up artist che, dietro le quinte, si prende cura delle modelle e sogna di dare voce alle loro vite attraverso le pagine di un libro.

Le tre protagoniste si incontrano e intrecciano i loro destini durante la settimana della moda, dando vita a un mosaico di esperienze che esplora il confine tra finzione e realtà, immagine e identità.

Donne, lavoro e visioni: la costruzione del racconto in Couture

Il film si apre con Maxine, regista di fama, pronta a realizzare il suo progetto. Accanto a lei c’è Anton (Louis Garrel), videomaker francese che la aiuta nella realizzazione del corto, dove Maxine sceglie di rappresentare una donna vampira che fugge da creature che vogliono catturarla. La decisione suscita polemiche: perché una storia così cupa per introdurre una sfilata di moda?

Ma è proprio in questa scelta che si rivela il senso del film. Il vampiro diventa simbolo della condizione femminile contemporanea: un essere che deve nascondere la propria natura per sopravvivere in un mondo di sguardi predatori. Attraverso la moda e l’immagine, Couture mostra il peso delle aspettative e la difficoltà di conciliare successo, desiderio e identità.

Maxine, Ada e Angèle incarnano tre sfumature di questa tensione: la donna affermata che teme di perdere il controllo sulla propria vita; la giovane che si affaccia al mondo con entusiasmo e paura; la professionista silenziosa che osserva e raccoglie le storie degli altri, con la speranza di poter, un giorno, pubblicare un libro al riguardo. Tre percorsi diversi, uniti da una medesima ricerca: quella di essere viste per davvero.

Anyier Anei in Couture

Le storie personali dietro la finzione

La forza emotiva di Couture nasce anche dal legame con la realtà. Il personaggio di Maxine, rappresentato con sensibilità, riecheggia esperienze personali di Angelina Jolie, rendendo la sua interpretazione toccante e autentica. La paura di non avere abbastanza tempo, di dover lasciare ciò per cui si è lottato, attraversa le scene come una confessione velata. Magistrale l’interpretazione di Vincent Lindon, qui in un ruolo secondario ma di grande intensità, capace di restituire in poche scene un senso di presenza silenziosa e umanità profonda.

Anche la storia di Ada trova radici nel vissuto dell’attrice Anyier Anei, modella e attivista sud-sudanese. Come nel film, Anei ha lasciato il suo Paese dopo aver studiato farmacia, e il suo percorso di emancipazione è diventato un simbolo di riscatto femminile. La sua presenza in Couture aggiunge una dimensione geopolitica e sociale, ricordando le profonde disuguaglianze che ancora segnano il mondo della moda e non solo.

Una delle sequenze più significative è quella del dialogo tra Ada e una collega ucraina proveniente da Zaporija: due donne di paesi lacerati, due destini che si avvicinano solo quando riconoscono le proprie ferite. Qui il film abbandona la passerella e tocca corde universali, raccontando la solidarietà e la fatica di appartenere a un mondo che si muove troppo in fretta.

Couture e la verità nascosta dietro la bellezza

Girato anche negli spazi reali del salone Chanel di Parigi – primo film di finzione a ottenere tale permesso – Couture restituisce la magia e la precisione del lavoro sartoriale, svelandone il lato invisibile. Il vestito “Christine”, realizzato dall’omonima sarta (interpretata da Garance Marillier), diventa quasi simbolo di armonia e collaborazione: ogni perla cucita e ogni tessuto drappeggiato rappresentano un frammento di vita condivisa.

Winocour firma un racconto delicato e corale, in cui la moda non è superficie ma sostanza, e la bellezza si intreccia alla vulnerabilità. Le sue protagoniste non sono eroine né vittime: sono donne che cercano di esistere in uno spazio che spesso le ignora, trovando nella solidarietà reciproca una forma di salvezza.

Con interpretazioni intense e un racconto stratificato, Couture si rivela un film sulla resilienza e sulla verità nascosta dietro ogni sguardo. Un inno alla creatività, al coraggio e alla potenza della rappresentazione femminile.