Ok, facciamola. Facciamo la
classifica dei migliori film del 2017. Perché in
fondo è divertente, piace a tutti leggerle e criticarle
(soprattutto, altrimenti che gusto c’è?), ti costringe a fare una
specie di bilancio cinematografico dell’anno, così ti rendi conto
di quanto non hai visto e che per forza resta fuori lista (a
testimonianza della parzialità di questo tipo di operazioni), ma
anche di tutto quello che hai visto e che avresti voluto evitare di
vedere.
Insomma, che vi piaccia o no, che
vi interessi o meno, ecco i migliori film del 2017, la Top
Ten, dalla posizione numero 10 alla
numero 1, con qualche ex aequo, secondo
me (che sono Chiara Guida, Direttore Responsabile di
Cinefilos.it).
NB: la lista che segue
comprende esclusivamente film usciti in sala negli ultimi 12 mesi,
e quindi esclude pellicole meravigliose (come The Shape of Water o
I, Tonya) che arriveranno da noi nel 2018 e di cui probabilmente
parlerò, in questa stessa sede, tra altri 12 mesi.
Negli Stati Uniti è stato
il “caso” cinematografico dell’anno. Jordan Peele,
che esordisce così, ha raccontato non solo una storia di genere, ma
ha utilizzato quel genere per fare satira, tornando quindi alle
origini della tradizione horror in cui il “mostro”
non era mai soltanto una creatura da cui fuggire o un pazzo da
evitare. Il mostro di Peele è un tarlo, un’idea, un pregiudizio che
è l’esatto opposto rispetto a quello che lo spettatore immagina
all’inizio della storia.
Scappa – Get Out fa paura, certo, ma fa anche ridere.
Dall’inizio del film capisci che il povero Chris è finito in un
brutto guaio e dalla poltrona pensi “Scappa, povero fesso.
Scappa!”. Il grado di coinvolgimento che Peele riesce a
ottenere è elevato, raggiunto grazie a una regia che, per quanto
acerba, è frutto di un passato da spettatore. Jordan ha guardato
tanto cinema, non solo di genere, e questo giova immensamente al
ritmo della sua storia.
C’è chi dice che Napoli sia
una città difficile, chi la ama incondizionatamente e non ne vede i
difetti, chi la odia “perché a Napoli so’ tutt’ zuzzus’ e
mariuol’”. Chi la vive, o l’ha vissuta, conosce la verità:
Napoli è una città di sangue. Che profuma di mare e di pizza (no,
non è un luogo comune, sono gli ultimi profumi che ho sentito
scendendo dalla metropolitana a piazza Municipio), è una città
lurida di sporcizia e di tempo, affascinante come una donna sudata,
è una città luminosa di sole e di sorrisi, oscura e putrida di
delinquenza e cenere del Vesuvio. Via Marina, il Rettifilo, Via dei
Tribunali, San Biagio, Piazza Amedeo, Via Chiaia, San Gregorio, il
molo Beverello, Forcella, il San Carlo e la Galleria, il Vomero, il
Duomo, Piazza dei Martiri. No, non si può spiegare a parole, ma c’è
chi lo sa raccontare. Alessandro Rak lo ha fatto,
con
Gatta Cenerentola. Lui e la sua squadra di
splendidi animatori hanno portato sul grande schermo il colori, i
sapori, la sporcizia e i profumi raccontando una fiaba che
appartiene al passato letterario, glorioso e oscuro, di Napoli. E
provateci voi, con carta e matita.
Il primo ex aequo
vede protagonisti il cinema e la musica. Perché non mi andava di
escludere nessuno dei due film, perché se la classifica è mia, me
la gestisco io. E perché nella mia visione, faziosa e parziale,
questi due film dovrebbero andare a braccetto.
Il primo è praticamente la
pellicola che a furia di parlarne ha saturato l’attenzione degli
addetti ai lavori, ma anche degli appassionati. I sognatori, i
folli e tutti gli altri chiamati in causa dalla storia di
Damien Chazelle, anche loro, hanno detto basta a
un certo punto, dopo che la colonna sonora ha riempito la testa di
tutti per mesi e mesi, che sono cominciate a spuntare ragazze con
vestiti gialli (anche io ne ho uno, ma l’ho comprato prima di
vedere il film), ragazzi appassionati di jazz, esperti di
regia e di fotografia cinematografica. Del secondo invece, il
sospirato ritorno al cinema di Edgar Wright dopo
cinque anni, se n’è parlato troppo poco. E anche qui la musica è
padrona della scena e detta i tempi narrativi e di montaggio. Un
pentagramma per immagini e che ti lascia addosso una grande voglia
di riascoltare a palla Sheer Heart Attack.
Chazelle e
Wright mettono alla prova lo strumento della
regia, se ne impossessano, con tutto che ciò comporta, e diventano
davvero i padroni della scena, con buona pace di tutti gli
interpreti di entrambi i film (si pure di
Emma Stone e dei suoi occhi da personaggio dei
manga), dei compositori (che diventano accessori), di luci,
costumi, scenografia.
La fiaba colorata di Chazelle, la
truffa cinematografica più grande degli ultimi anni che si vende
per una storia d’amore, racconta in realtà dell’ambizione, della
volontà di affermarsi, contro tutto e tutti, anche contro chi
diciamo di “amare per sempre”. Sì,
La la Land è molto più realistico e pratico di
quello che si possa immaginare, molto più vicino al crudele e
magnifico
Whiplash (che gli è superiore) che al
romantico Moulin Rouge. Tuttavia la confezione di
Chazelle, la sua regia sopraffina (il ragazzo è
alla sua seconda opera), incantano gli innamorati della tecnica e
abbindolano i romanticoni superficiali. E piace un po’ a tutti
farsi prendere in giro dal cinema.
Dal canto suo, in misura ridotta e
meno ambiziosa, Wright realizza una storia di
crimine e riscatto, sempre all’insegna della musica e del ritmo,
che proprio in contrapposizione a
La la Land, è anche una romantica storia
d’amore quasi adolescenziale, tra due protagonisti belli e
coraggiosi, che dopo aver sofferto trovano la felicità, e si
allontanano insieme verso il tramonto. Insomma, un altro modo di
farsi prendere in giro, sempre da nostro signore, dal cinema.
Christopher
Nolan, non ho mai ben capito perché, è un regista che
divide, ma divide sul serio.
Christopher Nolan è il classico esempio di
personaggio di cui gli urlatori e saltimbanchi da social amano
parlare per estremi. Piccolo excursus: il vocabolario dei suddetti
frequentatori dei social si esaurisce in “merda” e “capolavoro”. Le
sfumature non piacciono a nessuno di questi soggetti, non sono
comprese né previste nel pantone di aggettivi che viene loro
fornito dall’impellente e NECESSARIA voglia di
dire la propria su tutto ciò che accade e, nello specifico, su
tutto ciò che arriva al cinema.
Dunque, Dunkirk.
Tutti ne hanno parlato, ne hanno scritto e hanno amato o odiato il
film. La (mia) verità è che con questo film, Nolan è
diventato grande. Ha messo da parte tutte le sue velleità
sentimentalistiche, che lo hanno portato alla deriva nelle
sovrapposizioni oniriche e nei buchi neri, e, senza rinunciare alla
sua ossessione per il tempo e lo spazio, è arrivato al nocciolo
della questione.
Dunkirk è l’apoteosi registocentrica
dell’autore britannico. Ogni singolo elemento del film è accessorio
alla sua idea di racconto; i dialoghi perdono importanza, la musica
si riduce all’osso, la scenografia e i suoni, persino i volti
intercambiabili dei giovani attori (ma questa cosa l’aveva fatta
già Terrence Malick con La Sottile Linea
Rossa), tutto è strumento nelle mani del regista
onnipotente.
Dunkirk è, per
Nolan, un’affermazione di sé, del suo
status di regista d’acciaio, che forse non sa ancora
lavorare bene con le emozioni (a volte scarse, a volte urlate), ma
che fa cantare la macchina da presa.
Per chi è cresciuto con gli
X-Men in tv, per chi da piccola voleva essere
Rogue e non una principessa
Disney, per chi ama il fantasy ma anche i conflitti
interiori e gli atti di eroismo, insomma, per me, il filone
cinematografico dedicato ai supereroi è “croce e delizia”. Fu
proprio X-Men, nel 2001, a farmi credere che il
cinema potesse essere davvero una vita, un lavoro (pensiero che ho
perfezionato e ridimensionato nel tempo), e quest’anno l’uscita in
sala di
Logan ha chiuso un percorso di formazione che
per molti versi ha coinciso anche con quello personale, ma questa è
una storia che non vi interessa.
Con
Logan non solo si conclude un’Era per i fan
del Wolverine di
Hugh Jackman, ma si offre allo spettatore un
altro modo di raccontare il supereroe, un modo che per forza
diventa crudo e brutale, ma che riesce ad essere più onesto della
patina di CGI che in genere ci propinano i personaggi dei fumetti
sullo schermo d’argento.
La parabola umana di Logan, che
cominciava con l’ammissione di dolore all’uscita dei suoi artigli
dalle nocche, si conclude con quegli stessi artigli che si
incastrano, che non riescono più a ritrarsi o a scattare fuori,
perché, nonostante l’adamantio e la lunga vita, anche
l’Arma X invecchia. Per lui, che tra esercito,
guerra, Canada, Giappone, amori tragici e X-Men, ha avuto una vita
lunga e dolorosa, il senso di appartenenza a un gruppo, a una
famiglia, a degli affetti, è stato sempre precario e
spaventoso.
James Mangold
riesce a confezionare un personaggio affranto, stanco e sconsolato,
dolente nell’animo e nel corpo, che per l’ultima volta, quando il
suo essere super viene meno, sceglie di essere soltanto eroe e di
non lasciare andare quel senso di appartenenza, di famiglia e di
eredità, che tanto lo ha fatto penare. Con Logan
muore un po’ anche l’infanzia, nasce la consapevolezza.

Come si prende una storia arcinota,
pubblica, fotografata e raccontata da tutto il mondo e la si
trasforma in un viaggio intimo dentro una donna famosa che nessuno
ha mai davvero conosciuto? Pablo Larraín, cantore
di viscere e passione, ha scelto di raccontare l’esperienza della
First Lady Jackie Kennedy a partire dal momento
esatto in cui smette di essere la First Lady, nell’istante in cui
la testa di John viene fatto saltare in aria a Dallas, il 22
Novembre del 1963.
Per farlo, Larraín si avvale di
Natalie Portman, che si spoglia della sua
identità per abbracciare quella di una Jackie, la donna che aveva
tutto e che in un attimo rumoroso e insanguinato perde ogni cosa,
le scivola tra le dite, come i pezzi di materia cerebrale che cerca
di rimettere a posto, in quei terribili momenti.
Le stanze vuote della Casa Bianca,
le lacrime, le sigarette, il privato, sovrapposto al pubblico,
raccontano una donna che Pablo non vuole spiegarci, ma che vuole
abbracciare, con tutto il suo mistero, la sua bellezza, la sua
determinazione. Come aveva già fatto con il “suo” Neruda, l’altro
Pablo.
Il rovente sangue cileno che scorre
nelle sue vene non si ferma di fronte all’icona, ma la penetra
senza spiegarla, regalandoci un ritratto in bianco e nero di una
donna che non conosceremo mai, ma che improvvisamente non possiamo
impedirci di amare.

La distanza tra schermo e
spettatore qualche volta è necessaria, per tenere il senso comune
dell’educazione e del buon gusto stretto a noi, che pure siamo
incuriositi da ciò che invece si mostra sgradevole. I due film in
questione esulano del concetto classicheggiante di “bello”. Non c’è
proporzione delle parti e nelle misure di questi due racconti
cinematografici, tuttavia c’è oscurità, torbida e affascinante,
un’oscurità che non tutti riescono a sostenere, perché “non sta
bene”.
Il cinema non serve a niente. Da un
punto di vista pratico è un passatempo più o meno artistico che
potrebbe essere giustificato con l’intrattenimento. Tuttavia c’è un
posto dove il cinema, l’arte in generale, riesce ad arrivare,
chiaramente se trova dei ricettori predisposti ad accoglierlo.
Elle e
Madre! pescano nel torbido, per usare
un’espressione abusata. Paul Verhoeven, per
cominciare, racconta la storia di una donna affascinante, con un
segreto, una donna con cui non riesci a entrare in connessione,
perché è respingente, è, secondo il senso comune, cattiva. Noi lo
sappiamo, lei lo sa, ma non lo sanno le persone che le stanno
intorno. Quello di
Isabelle Huppert è stato definito e
considerato un personaggio sgradevole, tuttavia può essere l’altra
faccia della medaglia, quella parte di noi che non riusciamo
nemmeno a guardare, per quanto ci fa paura. Tuttavia non possiamo
smettere di accarezzarla al buio, come un mostro in cantina. Una
parte di noi che temiamo, ma che siamo consapevoli di avere.
Aronofsky, con il
suo trip sotto acido che è Madre!, realizza
un’opera difficile, una metafora creazionista che alimenta l’ego
dello scrittore, dell’artista, in cui la donna si fa oggetto,
mortificato e usato, ma necessario, fertile; un’opera ambiziosa
dell’eco biblica e dalla portata universale. Tuttavia,
sgradevole.
Elle è stato
acclamato da tutti, con tanto di nomination all’Oscar per la
strepitosa interpretazione di
Isabelle Huppert, che, però, a ogni
intervista, si trovava a concordare con il giornalista:
“Michèle è una donna sgradevole”. Madre!
ha avuto vita difficilissima, dalla sua presentazione alla
Mostra di Venezia 74, fino all’uscita in sala; ha
fatto discutere e litigare, ha consentito ai citati saltimbanchi da
social di sfoderare ancora le paroline magiche (merda e
capolavoro, dicevamo), ma ha anche aperto a dibattito,
discussione, costruttiva divisione di pensiero.
Perché, è vero, il cinema non serve
a niente, ma qualche volta aiuta a fare luce su noi stessi, ad
aprire la mente, a dare spessore anche a un lavoro (quello che
voglio fare io da grande) che “ha meno anima dell’opera
mediocre che definisce tale” (semi-cit.).
Rabbia, pentimento, lutto e
dolore. Il film di Kenneth Lonergan prende queste
emozioni e le sbatte in faccia allo spettatore, con violenza
inaudita, con una veridicità assurda, con un consapevolezza che
genera un vero e proprio malessere nello spettatore che si lascia
trasportare in questo pozzo di dolore senza fondo: la vita di Lee
(Casey
Affleck). Il film azzera quella famosa distanza tra
pubblico e spettatore, e fa male da morire. Perché? Perché racconta
di perdita, e tutti noi esseri umani siamo costretti a fare i conti
con questa realtà. Volendo parlare in maniera figurata, è come se
Lonergan ci affondasse nel petto un cucchiaino da dessert e
cominciasse a scavare, lentamente, cavandoci le viscere da dentro,
con un’intensità spossante che probabilmente non tutti sono
disposti ad accogliere, o che semplicemente non sono interessati a
recepire.
Non parlo di pubblico che “non
è all’altezza” del film. Ognuno è libero di farsi coinvolgere
da ciò che sente più vicino al proprio gusto. Ma l’universalità
dell’elaborazione del lutto e del trauma rende
Manchester By the Sea un vero e proprio
tormento, una sofferenza fisica, l’ennesima dimostrazione che,
nella sua inutilità pratica, il cinema è capace di una bellezza
funesta e tremenda.
“Se potessi vedere la
tua vita dall’inizio alla fine, cambieresti qualcosa?” Avanti,
rispondete!
Se lo chiede Louise, la
protagonista di Denis Villeneuve, interpretata da
Amy Adams. È una domanda apparentemente
semplice, che mette in discussione profondamente chi ha abbastanza
onestà intellettuale da recepirla sul serio. Villeneuve utilizza lo
sci-fi come pretesto, gioca con il genere e con i piani temporali
per regalarci una storia dalla straordinaria intensità emotiva, che
nel momento finale ti frana addosso con potenza.
Arrival parla di linguaggio, di comunicazione,
dell’importanza di capirsi nonostante le differenze; ha quindi un
valore sociale. Come il miglior cinema però, il film di Villeneuve
ci pone delle domande così umane e personali che, al di là della
regia, della costruzione dell’immagine, della pregevole fattura
tecnica insomma, ne fanno un’opera poderosa e intima.
Arrival mette in discussione tutto, il
rapporto con l’altro, non solo l’alieno, il diverso, ma anche il
simile: l’uomo o la donna che amiamo, il figlio che abbiamo perso,
quello che non abbiamo mai avuto, noi stessi e la nostra capacità
di affrontare le eventualità della vita, che talvolta possono
essere tragiche.
“Se potessi vedere la tua vita
dall’inizio alla fine, cambieresti qualcosa?” Luoise ci dà la
sua risposta, che probabilmente nessuno di noi riuscirebbe
onestamente a condividere, perché è una risposta che sta in un
film, che sembra retorica. Eppure…
“Nonostante io conosca il
viaggio e dove porterà, lo accetto, dal primo all’ultimo
momento.”
1. Your Name
Quando parliamo di
animazione giapponese, in genere ci vengono sempre in mente,
nell’ordine: i robottoni, le fanciulle in minigonne scolastiche
ridottissime, i gattini e animaletti vari con variazioni sul tema.
Oppure si pensa a Hayao Miyazaki e al suo
Studio Ghibli.L’animazione giapponese in realtà è
un mondo composito ricco e soprattutto onesto, che considera
l’animazione stessa uno strumento, non un genere, come invece si fa
in genere in Occidente, e questa sana abitudine consente di
raccontare storie straordinarie proprio con i cartoni animati,
storie che hanno poco o niente a che fare con il mondo
dell’infanzia (età che secondo il senso comune è “adatta”
all’animazione. Non secondo me, ovviamente).
Così, un po’ per passione, un po’
per provocazione, in fondo alla mia lista e in cima alla mia
classifica c’è Your Name, scritto e diretto da
Makoto Shinkai; una storia d’amore a cavallo
del tempo, che mescola il genere fantasy con il dramma young
adult, ma che se ne frega degli stereotipi narrativi e fa
letteralmente trattenere il fiato fino all’ultimo istante,
all’ultima inquadratura, all’ultimo sorriso.
La storia di due anime gemelle che
si cercano in momenti storici diversi è senz’altro un espediente
narrativo già utilizzato dal cinema, il potere del caso, della
circostanza è già stato affrontato dal cinema. Tuttavia
Your Name consegna una potenza emotiva rara,
un’altalena che diverte e commuove, senza retorica, con onestà. Ah,
ovviamente ne stanno già producendo un rifacimento con attori in
carne e ossa, Oltreoceano. Ma che ci volete fare, a Hollywood
funziona così: vedono una cosa bella, lontana dalla loro cultura e
dal loro modo di fare, e cercano di mangiarsela, senza accoglierla
o imparare da essa. Poco importa. Nessun lavoro successivo o
“copiato” può togliere bellezza a qualcosa che è stato fatto e
amato (messaggio diretto a chi commenta con “mi hanno rovinato
l’infanzia” di fronte a remake e reboot di vario tipo di film di
successo del passato).
Your Name è una
storia onesta e coinvolgente, un racconto che tocca piani fisici e
metafisici, un’atto di fede nei confronti delle persone e delle
storie. Perché è di storie che siamo fatti, tutti noi, e il cinema,
in fin dei conti, serve a raccontarcele.