Ci sono storie piene di ferite,
sudore, lacrime amare e sangue. Storie di persone con dei sogni, il
cui futuro sembra fiorente, prima di diventare un incubo dentro al
quale si rischia di soffocare. E quando si è lì, in quel tunnel
buio in cui neppure un lembo di luce si intravede, si desidera solo
chiudere gli occhi e sperare che tutto finisca al più presto. Fin
quando qualcuno, con una forza indescrivibile, ti afferra e ti
riporta in superficie dove puoi, finalmente, respirare.
Questo è quello che accade in
Il caso Alex Schwazer, nuova docu-serie
Netflix
che sembra ricordare molto, all’inizio, il film Whiplash
di Damien Chazelle. Perché il racconto costruito da Massimo
Cappello, sotto un attenta scrittura di Marzia Maniscalco,
è pieno di sacrifici, lotte e dolori, tutti incanalati per poter
raggiungere un obiettivo: vivere della propria passione e forse, in
alcuni casi, diventare la propria passione. Il più delle volte,
come succede nella finzione ad Andrew e nella realtà ad Alex
Schwazer, il voler essere nel firmamento dei grandi nomi, il voler
diventare immortale, può spingerti oltre quel limite consentito
che, alla fine, ti farà o precipitare o bruciare per sempre.
Nel caso del marciatore italiano,
l’ambizione mista alla depressione che lo portò a farsi
un’iniezione di eritropoietina nel 2012, fu solo l’inizio di un
percorso tortuoso in cui, l’iniziale – eccessiva – fama di gloria
del campione olimpico, fu sostituita da un complotto (purtroppo mai
ammesso) ai suoi danni per opera di organi sportivi.
Il caso Alex Schwazer, la
trama

È il 2012 quando su tutti i
notiziari arriva, in diretta da Bolzano, una dichiarazione
dell’atleta Alex Schwazer, in cui afferma di essersi
volontariamente dopato. Una confessione che lo porta alla
squalifica per ben quattro anni e che, nel frattempo, lo fa
arrivare alla casa di Sandro Donati, allenatore nonché personaggio
attivo nella lotta contro il doping. Dopo un periodo di dolori e
depressione, Schwazer si rimette in sesto, pronto ad allenarsi più
e meglio di prima, in vista delle Olimpiadi di Rio che si terranno
quattro anni dopo.
Ma il 1 gennaio del 2016, un
controllo (ambiguo) antidoping lo sorprende a casa e qualche mese
dopo, poco prima dell’iscrizione alle gare, risulterà nuovamente
positivo. Fermo nella sua innocenza, il campione medaglia d’oro
delle Olimpiadi di Pechino del 2008, inizierà una battaglia con
Donati, in un’indagine che colpirà sia la WADA che la Federazione
internazionale di atletica leggera. Squalificato comunque fino al
2024, nel 2021 il giudice Pelino lo dichiara innocente, confermando
una manomissione nelle sue urine al fine di farlo risultare dopato.
Le Federazioni sportive, però, non hanno mai smesso di ritenerlo
colpevole.
Un racconto che funziona
Quello che è accaduto ad Alex
Schwazer è una storia che ben si adatta al linguaggio
seriale, coerente con le offerte del colosso streaming e
sapientemente inserita in un catalogo folto di prodotti
documentaristici dalla grande fascinazione. Il caso Alex
Schwazer non è da meno, in quanto presenta una struttura
che oscilla fra il legal drama e il thriller. Un giallo, quello che
ha avvolto il campione altoatesino, su cui si è voluto investire al
fine di gettare una nuova luce su quello che è avvenuto nel 2016 e
che, ad oggi, non ha trovato nessun colpevole.
In un’attenta operazione a incastro,
Massimo Cappello inizia a modellare un racconto che segue due
principali filoni narrativi: la storia di Schwazer e del suo
periodo d’oro, a cui è seguita la caduta nel baratro, e la storia
antidoping, nella quale è andata inserendosi l’indagine compiuta
sulla WADA (Agenzia mondiale antidoping) e la Federazione
internazionale di atletica leggera. La bellezza della docuserie, la
cui attenzione proprio per questo mai oscilla, è che nonostante il
suo pattern didascalico, riesce a formulare un racconto dinamico e
coinvolgente, pieno di plot twist, dando quasi
l’impressione di assistere a una fiction.
Seppur la storia del marciatore
abbia intasato letteralmente i notiziari nostrani per anni e anni,
non si può non rimanere esterrefatti per alcune scoperte inedite
che si raccolgono lungo le quattro puntate, a volte ritrovandosi ad
essere parte attiva della stessa narrazione. Merito di una mirata
scrittura di Maniscalco, supportata da una dosata ma accattivante
regia di Cappello, con un’esposizione degli eventi volta a
entusiasmare il pubblico che si sente chiamato a investigare
simultaneamente.
Un viaggio di dolore e
rinascita
Oltre alle scioccanti rivelazioni
emerse nelle quasi quattro ore di fruizione, in cui vengono
distribuite interviste, stralci televisivi e ricostruzioni con
alcuni brevi momenti recitativi, è dato un importante rilievo al
percorso personale e psicologico affrontato da Alex Schwazer, che
innesta un ponte empatico ed emotivo fra lui e il
pubblico. Il caso Alex Schwazer si apre
proprio con un suo piano medio, in cui l’atleta è posto di fronte
alla macchina da presa, come a voler instaurare subito un contatto
con lo spettatore, in una conversazione – o meglio confessione –
fra lui e l’altra persona, ossia noi.
Parole a cuore aperto, che fluiscono
spontanee e si incidono nelle sequenze delle Olimpiadi, dei duri
allenamenti, negli attimi di sconforto e in quelli in cui il
campione si è sentito talmente perso da voler porre fine alla sua
vita. Sono racconti duri, cicatrici che nei suoi occhi sempre
lucidi non sembrano poi così rimarginate ma anzi danno
l’impressione di sanguinare ancora. Quello a cui si assiste è un
viaggio dentro i suoi tumulti interiori, in cui per tutti questi
anni (giustamente) si è solo potuta vedere la punta dell’iceberg,
senza pensare alla restante massiccia roccia di ghiaccio tesa verso
un profondo abisso pieno di mostri, a cui nessuno aveva mai avuto
accesso fin’ora. Ma quello di Schwazer è anche un viaggio
di crescita personale, di consapevolezze e di rinascita,
un po’ come quello tipico dell’eroe descritto da Christopher
Vogler.
In questo caso un affrontare due
antagonisti: se stessi in primis e poi le istituzioni sportive, la
vera condanna dell’atleta. Istituzioni che imponevano un’etica e
delle regole, ma che poi si scoprivano i primi a non rispettarle.
Un campione, Alex Schwazer, ma prima di tutto un uomo nelle mani di
persone sbagliate che, arrivato a bussare alla porta del suo angelo
nonché allenatore Sandro Donati, è riuscito a riemergere da quelle
acque sporche che lo avevano inghiottito, seppur ancora oggi pesi
su di lui una squalifica, nonostante la conferma che nel 2016 non
si sia dopato di nuovo, ma anzi sia stato incastrato. Un leone lui,
come dirà il suo avvocato Gerhard Brandstaetter, a cui è stato
impedito di ruggire ma che, come ricorda, anche da morto sarebbe
rimasto tale. Gli sciacalli, invece, rimangono sciacalli.
Il caso Alex
Schwazer è un’ulteriore prova su schermo di quanto
accaduto anni fa a uno degli atleti migliori che l’Italia possa
vantare. Un riscatto personale di un grande marciatore, al quale è
stata data l’opportunità di rilasciare una sua personalissima e
intima testimonianza, trasformatasi anche in una lettera d’amore a
se stesso e allo sport, nonostante tutto. Ma anche un’indagine
dettagliata, decisa e puntuale, sciorinata da Cappello insieme al
comparto tecnico, che la enfatizza con un preciso montaggio e una
buona colonna sonora. Una dimostrazione, poi, di quanto possano
esserci a volte perfino comportamenti mafiosi dietro le istituzioni
sportive. Di quanto la competizione spesso non sia pulita e, se sei
troppo bravo, farti fuori è l’unica missione che conta. Il regista
porta a casa un lavoro complesso ma compiuto,
intricato ma narrativamente fluido, e nonostante la difficoltà
nell’assamble, derivante dal ricco e pesante materiale a
disposizione, non c’è proprio nessuna sbavatura.
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