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Six jours ce printemps-là: recensione del nuovo film di Joachim Lafosse – #RoFF20

Dopo A silence, Joachim Lafosse ritorna alla festa del cinema di Roma con Six Jours ce printemps-là, un dramma che affronta i temi delle disparità economiche e dei disagi familiari. Il film ha avuto la sua premiere alla 73esima edizione del San Sebastián Film Festival lo scorso settembre, dove ha vinto due premi come miglior regia e miglior sceneggiatura, per poi essere presentato all’Odesa International Film Festival e alla Festa del cinema di Roma. Il cast è formato principalmente da figure note prevalentemente nel panorama cinematografico nazionale: Eye Haïdara (Patriot) qui interpreta Sana, una madre divorziata che cerca di conciliare la propria vita privata con la necessità di crescere e mantenere al meglio i suoi due figli. Al suo fianco ritroviamo Jules Waring (Colonia) nei panni di Jules, nuovo compagno di Sana ed ex allenatore di calcio dei suoi due bambini.

Six jours ce printemps-là: delle vacanze felici

Il film ha inizio in un tetro e squallido appartamento di città: qui vivono Sana con i suoi due figli. Sana è una madre single, e fa due lavori per poter far quadrare tutto, un lavoro da ufficio durante il giorno e la cameriera la sera. Sono in arrivo però le vacanze e l’idea è proprio di riposarsi insieme a Jules, nuovo compagno ancora segreto di Sana.

Non potendosi permettere un albergo e non potendo stare da Jules, tutti e quattro si recano a Saint-Tropez: qui entrano in una magnifica villa, appartenente ai nonni dei due bambini, dal lato paterno. Sana, avendo divorziato dal marito, non potrebbe più recarsi in tale casa, ma lo fa ugualmente, pur rischiando una denuncia e soprattutto la perdita della custodia dei figli. Tutto pur di regalare dei meritati momenti di gioia e spensieratezza ai bambini e a sé stessa.

Sana e i suoi figli, insieme a Jules, trascorrono degli splendidi giorni al mare, ma, nonostante tutte le precauzioni prese da Sana, la loro presenza non passerà totalmente indisturbata.

Six jours ce printemps-là: le ingiustizie economiche

Tema focale di Six jours ce printemps-là è certamente la disparità economica che pone a confronto, da un lato, Sana, e dall’altro l’ex marito e la sua famiglia. Mentre Sana ha difficoltà a garantire il minimo indispensabile per sé stessa e i propri figli, i suoceri vivono nel lusso più sfrenato; ed è proprio perché anche lei sente propria questa ingiustizia, che è disposta a rischiare anche tanto pur di permettere ai bambini di avere le vacanze che meritano.

I motivi per cui la donna si addossa un tale rischio sono quindi principalmente per l’amore dei figli e, certamente, per un sentimento di risentimento nei confronti dei suoceri che l’hanno totalmente tagliata fuori dalla propria famiglia nel momento della separazione dall’ex marito.

Un divorzio silenzioso

Altro elemento interessante in Six jours ce printemps-là è proprio il fatto che non vengono spiegate in alcun modo le ragioni o le dinamiche della separazione tra Sana e l’ex marito. Anzi, è interessante notare come le informazioni sul legame tra la donna, i bambini e la lussuosa vita di Saint-Tropez si rivelino pian piano allo spettatore.

Molto però è lasciato in Six jours ce printemps-là alla libera interpretazione del pubblico: è probabile che l’unione tra Sana e l’ex marito sia stata osteggiata dalla famiglia di lui, proprio perché chiaramente la donna non proveniva da una condizione sociale ed economica agiata come la loro. È oltretutto possibile che la separazione sia stata burrascosa per motivi legati a tradimenti: Sana potrebbe aver intrapreso una relazione con Jules già prima di lasciare il marito. Tutto sembra poter essere possibile; ciò che però è chiaro nel finale è un forte classismo e risentimento che anima i suoceri, tanto da dare un finale drammatico e ingiusto a questa storia.

Non è neanche possibile se oltre all’elemento del classismo vi sia anche una forma di razzismo, in quanto l’ex marito e i suoceri non sono mai propriamente mostrati nel film: restano delle persistenti voci da fuori campo.

Six jours ce printemps-là è un dramma abbastanza potente, che sottolinea l’importanza per tutti di un po’ di meritata spensieratezza, nonostante le difficoltà della vita quotidiana.

Dreams: recensione del nuovo film con Jessica Chastain – #RoFF20

Amore, sesso e potere nelle relazioni talvolta si confondono, creando un intreccio poi difficile da districare. Dreams, nuova pellicola scritta e diretta da Michel Franco, porta sul grande schermo della Festa del cinema di Roma proprio questa tematica. Il film è stato presentato in anteprima mondiale al Festival internazionale del cinema di Berlino lo scorso febbraio, dove era in lizza per l’Orso d’oro. Il ruolo dei due protagonisti viene affidato a Jessica Chastain (Interstellar, The help), la quale aveva già collaborato con Franco in Memory nel 2023, e al ballerino messicano Isaac Hernandez (Qualcuno deve morire). Altre figure frequenti in Dreams sono interpretate da Rupert Friend (Orgoglio e pregiudizio, La trama fenicia) e Marshall Bell (Stand by me- Ricordo di un’estate, Nessuno di speciale).

Dreams: l’amore oltre i confini

Jennifer McCarthy proviene da una ricca famiglia filantropica di San Francisco: dedica la propria vita a gestire la McCarthy Foundation a nome del padre. Tra le attività intraprese dalla fondazione c’è un’accademia di danza in Messico: è qui che Jennifer incontra Fernando, un talentuoso e affascinante ballerino classico. I due intraprendono una relazione appassionata, contrastata dall’impossibilità di lui di potersi stabilire legalmente negli Stati Uniti.

Così, il giovane intraprende un’estenuante e pericoloso viaggio nascosto in un camion per oltrepassare il confine e poter tornare dalla propria amata. Jennifer, nella paura che lui possa essere nuovamente deportato e dell’opinione pubblica, tende a nascondere Fernando. Quando quest’ultimo cercherà di trovare da solo la propria strada, entrando in un’altra compagnia di ballo, gli equilibri di potere si romperanno tra i due e le verità nascoste non tarderanno a venire a galla. La passione così focosa tra i due non potrà che portarli ad un finale burrascoso e quasi sadico, denso di vendetta.

Dreams: un amore di sacrifici

Fin dalle prime scene del film, è visibile in Dreams come Fernando sia effettivamente disposto a sacrificare molto per poter vivere negli Stati Uniti con Jennifer: intraprende un pericoloso e sicuramente costoso viaggio per oltrepassare illegalmente la frontiera con il Messico, percorrendo lunghi tratti a piedi senza cibo ne acqua. Questo mostra certamente un certo attaccamento alla giovane americana: se lui è disposto a sacrificare così tanto, lo stesso non sembra valere per lei.

Crediti Teorema

Jennifer, infatti, sente da subito la difficoltà di mantenere la propria relazione con Fernando, la quale, pur regalandole tanti momenti felici e di passione, è comunque per lei motivo di vergogna, considerando la sua posizione sia economica che sociale. Anche quando Fernando fa ritorno in Messico, lei non riesce propriamente ad abbandonare tutto, o almeno qualcosa, per vivere li con lui.

Passione e potere

Tema focale di Dreams è certamente il rapporto di forte passione che lega Fernando e Jennifer. Sarebbe facile pensare che si tratti di amore: magari nella prima parte del film, osservando i sacrifici di uno e il forte attaccamento dell’altra, il sentimento che lega i due potrebbe essere considerato amore, ma chiaramente non lo è. Ciò è molto più chiaro col decorrere degli eventi: ciò che lega i due è certamente una forte passione, un’irresistibile tensione sessuale e forse qualcosa in più.

Quello che emerge nell’ultima parte del film è un rapporto di potere, dove Jennifer cerca di controllare le condizioni della sua relazione con Fernando, tenendolo all’oscuro delle sue azioni. Allo stesso modo Fernando cercherà, in una maniera quasi sadica, di imporsi su Jennifer, in un miscuglio di sete di potere e di vendetta nei confronti della donna.

A rimarcare maggiormente questi rapporti di potere, prima che questi vengano esplicitati nel finale, il regista colloca anche diverse scene con intensi e lunghi sguardi. Un esempio è la scena in cui Jennifer porta a Fernando i biglietti per un balletto: i due si incontrano pubblicamente nel bar in cui lui lavora e, non potendo propriamente interagire, si fissano per un lasso di tempo che sembra infinito, come se nessuno dei due volesse distogliere lo sguardo per primo.

Il balletto che unisce e divide

La danza è ciò che ha unito in prima battuta Jennifer e Fernando, portandoli a conoscersi e innamorarsi. Durante tutto Dreams il balletto sembra essere un personaggio latente, un qualcosa in più che crea la giusta atmosfera di passione, finendo però per non essere sviluppato magari a pieno.

Da elemento di unione, la danza diverrà poi nell’ultima scena proprio il definitivo elemento di frattura tra i due.

Dreams, pur mantenendo un intreccio semplice, racchiude in sé una perfetta rappresentazione di passione e mostra cosa l’essere umano è disposto a fare per essa.

Jennifer Lawrence incanta alla Festa di Roma con un look Dior da red-carpet

La star hollywoodiana Jennifer Lawrence ha illuminato il red carpet della Festa del Cinema di Roma 2025 lunedì 20 ottobre, in occasione della première di Die, My Love. Sul tappeto all’Auditorium Parco della Musica, l’attrice ha fatto un ingresso elegante e raffinato, conquistando l’attenzione tra i fotografi e la folla di fan in attesa.

Lawrence, ambasciatrice da lungo tempo della maison Dior, ha indossato un outfit della collezione Primavera/Estate 2026 firmata dal direttore creativo Jonathan Anderson: un mix sorprendente tra casual e couture, con un maglione color sabbia dal taglio rilassato abbinato a una maxi-gonna in tulle bianco a pois con volume balloon. Scarpe nere a punta, cinturino sottile e dettagli dallo stile aristocratico hanno completato il look perfettamente calibrato tra tradizione e modernità.

La scelta dell’abito segna anche un momento significativo nel percorso dell’attrice: uscita da un periodo di riflessione e attesa, Jennifer Lawrence torna sotto i riflettori in un contesto che unisce glamour, cinema d’autore e stile. La pellicola “Die, My Love” è stata presentata con grande attesa, e il red carpet di Roma è stato il palcoscenico perfetto per segnare questo ritorno in grande stile.

Look, atmosfera e messaggi

  • L’atmosfera dell’evento era elettrizzante: fan in fila ore prima, flash incessanti, e l’attrice che ha sorriso con disinvoltura affrontando l’attenzione mediatica.

  • Il contrasto nel suo outfit — maglione sportivo e gonna couture — è stato interpretato come una dichiarazione di stile, che riflette la dualità dell’attrice tra star globale e interprete impegnata.

  • Il film che presenta, “Die, My Love”, diretto da Lynne Ramsay e tratto da un romanzo di Ariana Harwicz, affronta temi complessi come la maternità e la perdita: una scelta di carriera che combina impegno e figura pubblica.

La presenza di Jennifer Lawrence alla Festa del Cinema di Roma non è stata solo un momento di promozione, ma una vera e propria celebrazione del suo stile e della sua evoluzione professionale. Tra glamour internazionale e cinema d’autore, l’attrice ha saputo trasformare un red carpet in una dichiarazione di intenti.

Re-Creation, recensione del film di Jim Sheridan -#RoFF20

Presentato in concorso nella sezione Progressive Cinema alla Festa del Cinema di Roma 2025, Re-Creation segna il ritorno di Jim Sheridan, sei volte candidato all’Oscar, autore di capolavori come Nel nome del padre e In America. Questa volta il regista irlandese, insieme al co-regista Merriman, si confronta con una storia vera – l’omicidio di Sophie Toscan du Plantier, avvenuto nel 1996 nella contea di Cork – e con l’enigma che per quasi trent’anni ha diviso l’opinione pubblica: la colpevolezza o l’innocenza del giornalista Ian Bailey, accusato in Francia ma mai estradato dall’Irlanda.

Sheridan e Merriman immaginano un processo che nella realtà non è mai avvenuto: dodici giurati si riuniscono per discutere il caso, riesaminando prove, testimonianze e contraddizioni. Sheridan stesso interpreta il giurato numero 1, trasformando la finzione giudiziaria in un esperimento morale, quasi teatrale, dove la verità si misura attraverso le coscienze dei personaggi più che con i documenti.

Re-Creation: la giuria come specchio dell’animo umano

Al centro del film si impone Vicky Krieps, giurato numero 8, unica voce dissonante nella prima votazione: quando tutti dichiarano Bailey colpevole, lei sussurra “I have a gut feeling”, un presentimento, una sensazione di pancia che incrina la certezza collettiva. È l’inizio di un percorso di confronto, in cui il dubbio diventa strumento di indagine e di empatia. Dall’altra parte del tavolo, il giurato numero 3, interpretato da John Connors, incarna la rigidità del pregiudizio: convinto della colpevolezza dell’imputato, si aggrappa ai fatti con ostinazione, incapace di separare il giudizio oggettivo dal proprio vissuto.

Attraverso il confronto tra i dodici, Sheridan e Merriman costruiscono una narrazione corale in cui ogni giurato, scavando nel caso, finisce per confrontarsi con i propri traumi, le proprie mancanze, le colpe irrisolte della propria vita. La ricostruzione del delitto si intreccia così con la ricostruzione dell’interiorità dei personaggi: giudicare Bailey diventa un modo per giudicare se stessi.

Crediti Rich Gilligan

Dalla cronaca alla riflessione etica

Re-Creation prende le mosse da un fatto di cronaca, ma la sua forza è nel trasformare il caso giudiziario in una riflessione sulla giustizia e sulla percezione della verità. Sheridan e Merriman mescolano linguaggio documentaristico e introspezione psicologica: le vere prove del caso – filmati, testimonianze, fotografie – vengono integrate nel racconto come materiale d’archivio, ma è l’umanità dei giurati a guidare la narrazione.

L’idea del “ricreare” non è solo un artificio narrativo, ma un atto di responsabilità civile: il tentativo di dare alla vittima, Sophie Toscan du Plantier, il processo che non ha mai avuto in Irlanda. In un’epoca in cui la giustizia sembra spesso piegata alle logiche mediatiche, Re-Creation riporta l’attenzione sul dubbio come fondamento della verità, mostrando come ogni sentenza sia anche un riflesso del nostro modo di vedere il mondo.

Co-regia e stile narrativo in Re-Creation

L’apporto di David Merriman come co-regista e co-sceneggiatore non è solo formale: insieme a Sheridan costruisce un linguaggio visivo che fonde teatro, cinema di camera e documentario. Lo spazio principale è la sala riunioni della giuria – poche scenografie, inquadrature concentrate sui volti, poca mobilità di macchina. Una claustrofobia controllata che restituisce il ritmo intenso delle deliberazioni. La scelta di co-direzione permette un equilibrio tra la voce autorale tradizionale di Sheridan e un tono più contemporaneo, quasi sperimentale, di Merriman: attori che portano la propria storia (come John Connors), momenti in cui la finzione si ferma e lascia posto alla testimonianza.

Questo mix si riflette anche nella struttura del film: la sequenza iniziale funge da “briefing” dei fatti, poi l’atto centrale è il dibattito – più teatrale che cinematografico – e finalizza con momenti di confessione, dubbi e decisioni che restano in sospeso. Il risultato è un film che più che raccontare mostra: mette lo spettatore al centro della stanza, lo invita a giudicare insieme ai giurati.

Crediti Rich Gilligan

Re-creation: una riflessione sulla colpa e sull’identità

Dietro l’apparato giudiziario, Re-Creation è un film profondamente umano. Ogni giurato porta con sé una ferita: la perdita, la violenza, il rimorso. Le discussioni diventano confessioni, e il processo si trasforma in un percorso di consapevolezza. Re-Creation suggerisce che la giustizia non è mai solo istituzionale, ma personale – un atto che richiede ascolto, empatia e il coraggio di cambiare idea.

Il personaggio di Ian Bailey (interpretato da Colm Meaney), mostrato poche volte e senza battute, rimane volutamente ambiguo. Era un giornalista ossessionato dal caso che lo rese celebre? Un manipolatore? O semplicemente un uomo travolto da un sistema incapace di distinguere la verità dal sospetto? Sheridan e Merriman lasciano la domanda aperta, ricordando che la giustizia, come il cinema, non è mai neutra.

Un ritorno maturo per Jim Sheridan

Con Re-Creation, Jim Sheridan firma uno dei suoi lavori più personali e ambiziosi. Dopo anni di silenzio, il regista torna alle sue radici: raccontare l’Irlanda, le sue ferite, le sue verità taciute. La presenza di Vicky Krieps aggiunge grazia e profondità a un film che vive di parole, di pause e di sguardi.

Re-Creation non è un film di certezze, ma di domande: sulla giustizia, sulla memoria, sull’essere umano. Sheridan e Merriman ricreano un processo, ma in realtà mettono sotto processo tutti noi – spettatori, giudici e testimoni di un mondo dove la verità, troppo spesso, resta un verdetto sospeso.

Michael Fassbender protagonista della serie Kennedy di Netflix

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Netflix e Chernin Entertainment hanno annunciato la nuova serie drammatica Kennedy, che esplorerà i trionfi e le tragedie della famiglia Kennedy. Michael Fassbender (The Agency, Black Bag) è stato scelto per interpretare il patriarca Joe Kennedy Sr.

Kennedy è basata sul libro di Fredrik Logevall JFK: Coming of Age in the American Century, 1917-1956, e sarà prodotta da Sam Shaw (Manhattan, Masters of Sex) e diretta da Thomas Vinterberg (Festen, Un altro giro), con tutti e tre nel ruolo di produttori esecutivi.

Secondo la trama ufficiale, la serie di otto episodi rivelerà “le vite intime, gli amori, le rivalità e le tragedie che hanno plasmato la dinastia più iconica della storia moderna e contribuito a creare il mondo in cui viviamo oggi. A partire dagli anni ’30, la prima stagione racconta l’improbabile ascesa di Joe e Rose Kennedy e dei loro nove figli, tra cui il ribelle secondogenito Jack, che lotta per sfuggire all’ombra del fratello maggiore, ragazzo d’oro”.

Kennedy Sr. guidò la dinastia politica dei Kennedy insieme alla moglie Rose, genitori del presidente John F. Kennedy, del senatore Robert F. Kennedy e del senatore Edward “Ted” Kennedy, tra un totale di nove figli. Pur essendo fortemente impegnati nel mondo della politica, la loro vita professionale e personale si intrecciò con quella di Hollywood per diverse generazioni. Prima di aiutare i suoi tre figli a lanciare la loro carriera politica, Joe Kennedy ebbe una carriera governativa di alto profilo. Fu nominato dal presidente Franklin D. Roosevelt primo presidente della SEC (1934-35), primo direttore della Commissione marittima degli Stati Uniti (1936-38) e ambasciatore degli Stati Uniti nel Regno Unito (1938-40) durante i primi anni della seconda guerra mondiale.

L’annuncio della serie sui Kennedy segue il successo di Netflix con la serie drammatica storica The Crown, l’acclamata serie in sei stagioni che racconta il regno della regina Elisabetta II. La serie ha ricevuto 24 Emmy Awards su un totale di 87 nomination, tra cui quello per la migliore serie drammatica per la stagione 4 nel 2021, e numerosi premi per la recitazione. Inoltre, la piattaforma di streaming ha esplorato la vita dell’imperatrice Elisabetta d’Austria nella serie tedesca The Empress nel 2022. Con Devrim Lingnau nel ruolo principale, il cast ha iniziato a lavorare alla terza stagione della serie all’inizio di questo autunno.

Oltre a Shaw, Vinterberg e Logevall, i produttori esecutivi sono Peter Chernin, Jenno Topping e Kaitlin Dahill per Chernin Entertainment, Eric Roth, Lila Byock, Anya Epstein, Dustin Thomason e Anna O’Malley. Fassbender è invece attualmente protagonista della serie Showtime The Agency nel ruolo di Brandon Colby. Prossimamente lo vedremo in Hope, il film scritto, diretto e prodotto da Na Hong-jin in cui recita al fianco della moglie Alicia Vikander, in uscita il prossimo anno.

Spider-Man: Brand New Day, prima immagine di Mark Ruffalo sul set

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Spider-Man: Brand New Day onora la tradizione della precedente trilogia Marvel Cinematic Universe di Tom Holland, poiché un Avenger prenderà parte al quarto capitolo. Dopo essere stato assente dalla timeline MCU dalla fine del 2021, l’Uomo Ragno è a meno di un anno dal suo ritorno sul grande schermo.

Con le riprese ancora in corso, @UnBoxPHD ha rivelato la prima immagine di Mark Ruffalo (la si può vedere qui) nei panni di Bruce Banner dal set di Spider-Man: Brand New Day. Durante una pausa delle riprese, il veterano dell’MCU è stato avvistato con indosso un cappotto verde, in piedi accanto a diversi membri della troupe.

Quello che sappiamo su Spider-Man: Brand New Day

Ad oggi, una sinossi generica di Spider-Man: Brand New Day è emersa all’inizio di quest’anno, anche se non è chiaro quanto sia accurata.

Dopo gli eventi di Doomsday, Peter Parker è determinato a condurre una vita normale e a concentrarsi sul college, allontanandosi dalle sue responsabilità di Spider-Man. Tuttavia, la pace è di breve durata quando emerge una nuova minaccia mortale, che mette in pericolo i suoi amici e costringe Peter a riconsiderare la sua promessa. Con la posta in gioco più alta che mai, Peter torna a malincuore alla sua identità di Spider-Man e si ritrova a dover collaborare con un improbabile alleato per proteggere coloro che ama.

L’improbabile alleato potrebbe dunque essere il The Punisher di Jon Bernthal recentemente annunciato come parte del film – in una situazione già vista in precedenti film Marvel dove gli eroi si vedono inizialmente come antagonisti l’uno dell’altro salvo poi allearsi contro la vera minaccia di turno.

Di certo c’è che il film condivide il titolo con un’epoca narrativa controversa, che ha visto la Marvel Comics dare all’arrampicamuri un nuovo inizio, ponendo però fine al suo matrimonio con Mary Jane Watson e rendendo di nuovo segreta la sua identità. In quel periodo ha dovuto affrontare molti nuovi sinistri nemici ed era circondato da un cast di supporto rinnovato, tra cui un resuscitato Harry Osborn.

Il film è stato recentemente posticipato di una settimana dal 24 luglio 2026 al 31 luglio 2026. Destin Daniel Cretton, regista di Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, dirigerà il film da una sceneggiatura di Chris McKenna ed Erik Sommers. Tom Holland guida un cast che include anche Zendaya, Jacob Batalon, Mark Ruffalo, Sadie Sink e Liza Colón-Zayas e Jon Bernthal. Michael Mando è stato confermato mentre per ora è solo un rumors il coinvolgimento di Charlie Cox.

Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

I Play Rocky: prima immagine di Anthony Ippolito nel ruolo di Sylvester Stallone

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Un’immagine tratta da I Play Rocky rivela per la prima volta ufficialmente l’incredibile attore che interpreta Sylvester Stallone in una scena iconica. Diretto da Peter Farrelly (Green Book), il film di prossima uscita racconta la tumultuosa realizzazione del classico film del 1976, Rocky, con Anthony Ippolito nel ruolo del giovane Stallone.

L’immagine (la si può vedere qui) mostra  Stallone, interpretato da Ippolito, che corre sulla spiaggia con il suo cane Butkus, il bull mastiff di Stallone che ha recitato in Rocky. L’immagine riprende una scena iconica di Rocky III (1982), in cui il pugile protagonista corre sulla spiaggia con il suo ex rivale diventato allenatore, Apollo Creed (Carl Weathers). Tuttavia, lo Stallone di Ippolito indossa la tuta da corsa grigia del personaggio dell’originale Rocky.

Su Instagram, la foto è stata accompagnata dalla didascalia: “È in corso la produzione di I PLAY ROCKY, con Anthony Ippolito. Il film racconta la vera storia di Sylvester Stallone e della sua incrollabile convinzione di non essere destinato solo a scrivere Rocky, ma di essere destinato a essere Rocky Balboa”.

Cosa c’è da sapere sul film I Play Rocky

La prima immagine ufficiale arriva pochi giorni dopo la pubblicazione online delle prime foto dal set di I Play Rocky, che mostrano la trasformazione di Anthony Ippolito in Sylvester Stallone. Oltre a Ippolito, il cast include Stephan James nel ruolo di Carl Weathers, AnnaSophia Robb nel ruolo della prima moglie di Stallone, Sasha Czack, e Matt Dillon nel ruolo del padre di Stallone, Frank Stallone Sr.

Nel cast figurano anche P.J. Byrne nel ruolo del produttore di Rocky Irwin Winkler, Toby Kebbell nel ruolo del produttore Robert Chartoff e Jay Duplass nel ruolo del regista John G. Avildsen. Sandy Letts interpreta anche un personaggio che riunisce le caratteristiche di diversi dirigenti degli studi hollywoodiani.

Con una sceneggiatura scritta da Peter Gamble, I Play Rocky esplorerà la storia di come Stallone, un attore ventinovenne in difficoltà, scrisse la sceneggiatura di Rocky in tre giorni e mezzo, ma si rifiutò di venderla a meno che non fosse stato scritturato anche come protagonista. Dopo aver rifiutato diverse offerte a sei cifre, riuscì a produrre il film con meno di un milione di dollari.

I Play Rocky esplorerà dunque la storia dell’outsider che è riuscito a diventare il film di maggior incasso dell’anno e ad essere nominato per 10 premi Oscar, tra cui quello per il miglior film. Il film ha avuto un impatto enorme su Hollywood e ha portato a cinque sequel e alla serie spin-off Creed, che hanno incassato un totale di 1,9 miliardi di dollari.

Black Phone 3 si farà solo a una condizione, rivela il regista della saga

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Dopo che Black Phone 2 ha conquistato il primo posto al botteghino nel weekend di apertura, ponendo fine al calo di incassi della Blumhouse, non sorprende che si stia già parlando di un terzo film della serie horror. Tuttavia, il regista della serie Scott Derrickson ha posto una condizione fondamentale per decidere se Black Phone 3 vedrà la luce.

In un’intervista con Variety avvenuta prima dell’uscita di Black Phone 2 nelle sale cinematografiche il 17 ottobre, a Derrickson è stato chiesto cosa potrebbe riservare il futuro al Grabber (interpretato da Ethan Hawke) in un terzo film. La chiave per Derrickson è che non vuole che un potenziale terzo film sia un “rifacimento” di ciò che la serie ha già fatto. Ha aggiunto:

Quello che posso dire è che il mio atteggiamento nei confronti di un sequel è che non c’è davvero alcuna giustificazione per realizzarne uno, a meno che non si stia sinceramente cercando di realizzare un film migliore del primo. Se si vuole realizzare un terzo film, questo deve essere migliore del secondo, che a sua volta deve essere migliore del primo. Pochissimi film riescono in questo intento.

L’originale The Black Phone, uscito nel 2022, seguiva un giovane adolescente di nome Finney (Mason Thames), rapito da un serial killer chiamato Grabber. Mentre è tenuto prigioniero, Finney scopre di poter sentire le voci delle vittime passate di Grabber attraverso un telefono scollegato. Con questo e l’aiuto di sua sorella, Gwen (Madeleine McGraw), Finney riesce a uccidere Grabber.

In Black Phone 2, tuttavia, Finney e Gwen continuano a essere tormentati dal Grabber, che torna dalla morte e ha una serie di nuovi poteri che lo rendono ancora più spaventoso.

Alcuni indicatori potrebbero mettere in dubbio che Derrickson abbia soddisfatto la sua stessa condizione con Black Phone 2: il sequel è “Certified Fresh” su Rotten Tomatoes, ma è inferiore a The Black Phone sia nella valutazione della critica che in quella del pubblico;.

Derrickson ammette quanto sia difficile realizzare con successo una trilogia che migliori progressivamente. Nell’intervista, afferma che la trilogia Evil Dead di Sam Raimi e la trilogia Night of the Living Dead di George Romero sono gli unici due esempi nella storia del cinema di trilogie in cui tutti e tre i film sono ottimi e migliorano progressivamente.

Resta da vedere se Black Phone 3 avrà la possibilità di entrare in quella lista. È ancora troppo presto per avere un quadro completo degli incassi al botteghino, ma Black Phone 2 ha superato il suo predecessore nel weekend di apertura, con 42,01 milioni di dollari contro i 35,89 milioni di dollari in tutto il mondo. Al momento, però, non c’è alcuna conferma che verrà realizzato un terzo film della serie Black Phone.

Tron: Ares, quanto denaro perderà Disney lo rivela in un nuovo rapporto

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Mentre il tanto atteso sequel continua a faticare a decollare nelle sue prime settimane, i guadagni finanziari di Tron: Ares sembrano molto più scarsi. Il franchise di fantascienza, incentrato sul conflitto tra l’umanità e i programmi simili a gladiatori in una realtà virtuale conosciuta come Grid, si è dimostrato uno dei più famigerati nella storia di Hollywood, sempre elogiato per i suoi effetti visivi, ma sempre criticato per la sua trama.

Lo sviluppo di Tron: Ares è stato anche uno dei più travagliati di Hollywood, con il flop al botteghino di Legacy e alcune altre delusioni della Disney, che hanno portato lo studio a ordinare numerose riscritture prima di essere finalmente messo in pausa e rimodellato per non essere un seguito diretto del sequel del 2010. Con Jared Leto come protagonista, Ares ha avuto un inizio difficile sia con la critica che al botteghino, rimanendo ben al di sotto delle previsioni iniziali.

Ora, secondo un nuovo rapporto di Deadline, Tron: Ares dovrebbe causare una perdita di circa 132,7 milioni di dollari alla Disney. Fonti indicano che il budget per il sequel di fantascienza è in realtà molto più alto dei 170 milioni di dollari precedentemente riportati, con un costo attuale pari a 220 milioni di dollari al netto dei costi. Tuttavia, si nota anche che la cifra della perdita deriva da un incasso finale previsto di 160 milioni di dollari in tutto il mondo per il film.

Per chi ha familiarità con il franchise di Tron, potrebbe non essere una grande sorpresa che Ares stia avendo così tante difficoltà al botteghino. Nessuno dei primi due film è stato tecnicamente un flop, ma sono stati considerati dalla Disney come deludenti in generale, soprattutto se abbinati alle recensioni. Invece, negli anni successivi alla loro uscita, l’originale e Legacy sono diventati più noti come classici di culto, accumulando una base di fan appassionati attraverso i media domestici.

Per quanto riguarda Tron: Ares, però, i problemi al botteghino erano già prevedibili prima dell’uscita del film. Tanto per cominciare, Jared Leto non ha dimostrato di essere più l’attrazione di un tempo, soprattutto quando si tratta di progetti di successo, dato che la sua partecipazione al DC Extended Universe e la sua famigerata interpretazione in Morbius lo hanno rapidamente reso più un meme che un attore amato.

Uno degli altri grandi ostacoli che Ares ha dovuto affrontare nella sua distribuzione nelle sale è stato il fatto che fosse completamente scollegato da Tron: Legacy. A parte il ritorno di Jeff Bridges nel ruolo del protagonista originale Kevin Flynn e le foto d’archivio di Sam (Garrett Hedlund) e Quorra (Olivia Wilde), il film è praticamente un’opera a sé stante, allontanando così i fan del film del 2010 che speravano di vedere il proseguimento della trama.

Dato che il film è solo alla sua terza settimana e attualmente deve competere solo con il già uscito Black Phone 2 e il prossimo Springsteen: Deliver Me from Nowhere, c’è ancora una possibilità che Tron: Ares possa ribaltare la situazione. Tuttavia, dato che sembra essere un’altra grande perdita per la Disney, il desiderio dello studio di tornare a produrre film di franchise potrebbe spingerlo a cercare una proprietà con una storia migliore.

Scarlett Johansson commenta le indiscrezioni sul casting del remake live-action di Rapunzel

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Qualche giorno dopo la diffusione della notizia secondo cui Scarlett Johansson era in trattative per entrare nel cast del remake live-action di Rapunzel, la star del cinema ha finalmente rotto il silenzio sulle speculazioni. Il remake ha incontrato notevoli ostacoli nel suo percorso verso il grande schermo.

Secondo quanto riferito, la Disney avrebbe messo in pausa Rapunzel dopo lo scarso successo al botteghino del live-action Biancaneve.

Tuttavia, il progetto è stato ripreso dopo che un altro remake, Lilo & Stitch, ha riscosso un grande successo tra il pubblico.

Durante un’intervista con ET, alla Johansson è stato chiesto se ci fossero buone possibilità che interpretasse Madre Gothel nel film live-action Rapunzel. Lei ha ammesso che “tutto è possibile”, aggiungendo che l’opportunità di lavorare con il regista Michael Gracey è ciò che la entusiasma di più.

La Johansson ha poi descritto Gracey come uno “straordinario visionario” e ha affermato che qualsiasi attore “adorerebbe” collaborare con lui a Rapunzel o a qualsiasi altro progetto.

C’è una possibilità concreta? Penso che tutto sia possibile. Ciò che mi entusiasma è l’opportunità di lavorare con Michael Gracey, che è stato scelto per dirigere il film, perché è assolutamente un visionario straordinario e qualsiasi attore vorrebbe collaborare con lui.

Gracey ha iniziato la sua carriera nell’industria dell’intrattenimento lavorando a video musicali ed effetti visivi. È noto soprattutto per aver diretto il film musicale di grande successo The Greatest Showman.

Gracey ha anche sfruttato la sua esperienza nei video musicali per dirigere il documentario di Pink All I Know So Far e il film biografico su Robbie Williams Better Man, oltre ad aver ricoperto il ruolo di produttore esecutivo nel film biografico su Elton John Rocket Man.

Se Johansson finisse per firmare il contratto per interpretare Madre Gothel, sarebbe la prima star ad unirsi al remake live-action di Rapunzel. Diverse voci online hanno indicato celebrità come Sabrina Carpenter, Florence Pugh e Gigi Hadid, tra le altre, per il progetto, ma finora non ci sono altri attori a bordo di Rapunzel.

La Johansson è nota soprattutto per aver interpretato Black Widow nei film del Marvel Cinematic Universe come The Avengers, Captain America: The Winter Soldier e Black Widow. Al di fuori dell’MCU, ha recitato in film come Lost in Translation, Vicky Cristina Barcelona e Her. Ha ottenuto nomination agli Oscar per i suoi ruoli in Marriage Story e Jojo Rabbit.

Scarlett Johansson
Scarlett Johansson al Festival di Cannes – Foto di Luigi De Pompeis © Cinefilos.it

Secondo quanto riferito, l’ingresso di Johannson nel cast di Tangled segna un importante passo avanti per il remake, basato sull’omonimo film d’animazione del 2010 con Mandy Moore nel ruolo di Rapunzel, Zachary Levi in quello di Flynn Rider e Donna Murphy in quello di Madre Gothel. Tra gli altri doppiatori figuravano Brad Garrett, Ron Perlman, Jeffrey Tambor, Richard Kiel, M. C. Gainey e Paul F. Tompkins.

Tangled è basato sulla classica fiaba Rapunzel, che era matura per un remake live-action dopo che la Disney aveva fatto lo stesso per diversi altri film, tra cui Cenerentola, Maleficent (basato su La bella addormentata nel bosco), Il libro della giungla, La bella e la bestia, Aladdin e La sirenetta. Tuttavia, alcuni dei più recenti film live-action Disney non sono stati accolti altrettanto bene, con Biancaneve che ha ottenuto risultati inferiori alle aspettative.

Il successo del live-action Lilo & Stitch ha invertito questa tendenza al ribasso, spingendo i dirigenti a riconsiderare Rapunzel, uno dei film d’animazione preferiti dai fan della Disney.

Eric Dane torna in tv con un nuovo ruolo che rispecchia la diagnosi nella vita reale

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L’ex attore di Grey’s Anatomy, Eric Dane, ottiene un ruolo da guest star in un’altra serie televisiva di argomento medico, Brilliant Minds della NBC. Il suo personaggio nella serie riceve la stessa diagnosi che ha ricevuto nella vita reale.

Dane ha rivelato nell’aprile 2025 di essere affetto da SLA (sclerosi laterale amiotrofica). Nella serie, interpreterà Matthew, un pompiere che non sa come dire alla sua famiglia della sua malattia e chiede aiuto al dottor Oliver Wolf (Zachary Quinto). L’attore apparirà nella seconda stagione di Brilliant Minds, nell’episodio 9, in onda il 24 novembre 2025.

Dane è stato molto aperto riguardo alla sua battaglia contro la SLA. Continua a esprimere la sua gratitudine per le risorse a cui ha accesso e che molti altri pazienti non hanno. In una precedente dichiarazione ha anche spiegato di sentirsi molto fortunato di poter ancora lavorare e di essere entusiasta di tornare per la prossima stagione di Euphoria.

Mi sento fortunato di poter continuare a lavorare e non vedo l’ora di tornare sul set di Euphoria la prossima settimana. Chiedo gentilmente di rispettare la privacy mia e della mia famiglia in questo momento.

L’attore è anche portavoce di un’organizzazione no profit chiamata I Am ALS, fondata da Brian Wallach, a cui è stata diagnosticata la malattia nel 2017, e da sua moglie, Sandra Abrevaya. Oltre al suo lavoro filantropico, ha anche parlato del suo desiderio di utilizzare la sua grande piattaforma per aiutare le persone.

In un’intervista al Washington Post, Dane ha spiegato quante persone lo hanno avvicinato e gli hanno parlato della perdita di familiari e amici a causa della SLA. Tuttavia, nonostante le tragiche circostanze che lui e innumerevoli altre persone stanno vivendo a causa della SLA, è ancora in grado di vedere le piccole gioie che la vita ha da offrire e come può trascorrere il resto della sua vita aiutando le persone ad affrontare la malattia. “Non per essere eccessivamente morboso, ma sapete, se devo andarmene, lo farò aiutando qualcuno“.

Brilliant Minds è una serie televisiva di genere medico basata su due libri dello scrittore Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello e Un antropologo su Marte, che segue le vicende del neurologo Dr. Wolf e del suo team. La serie si concentra sia sulla loro vita personale che su quella professionale.

Spider-Man: Brand New Day, Charlie Cox smentisce la sua presenza nel film

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Mentre vari eroi del Marvel Cinematic Universe stanno comparendo in Spider-Man: Brand New Day, ci sono state molte domande sul fatto che Daredevil, interpretato da Charlie Cox, apparirà o meno. Dopo aver fatto parte del cast di Spider-Man: No Way Home, c’è stato ancora più interesse nel vedere Matt Murdock collaborare pienamente con l’iconico uomo ragno.

In una nuova intervista al podcast Phase Hero, Cox ha ora affrontato le teorie secondo cui sarebbe pronto ad apparire in Spider-Man: Brand New Day, a causa del suo programma di riprese a Londra. Tuttavia, il veterano dell’MCU ha sottolineato: “So che tutti pensano che io sia in Spider-Man perché sto girando qualcosa a Londra, ma non è così, non sono in Spider-Man”.

In Spider-Man: No Way Home, Cox è apparso nei panni dell’iconico avvocato Marvel per aiutare Peter Parker, interpretato da Tom Holland, più di tre anni dopo che la terza stagione di Daredevil aveva portato alla fine della serie Netflix. Nello stesso anno, prima dell’uscita del film, il co-protagonista di Cox, Vincent D’Onofrio, è tornato nella timeline dell’MCU nei panni di Kingpin nella serie TV Hawkeye.

Quello che sappiamo su Spider-Man: Brand New Day

Ad oggi, una sinossi generica di Spider-Man: Brand New Day è emersa all’inizio di quest’anno, anche se non è chiaro quanto sia accurata.

Dopo gli eventi di Doomsday, Peter Parker è determinato a condurre una vita normale e a concentrarsi sul college, allontanandosi dalle sue responsabilità di Spider-Man. Tuttavia, la pace è di breve durata quando emerge una nuova minaccia mortale, che mette in pericolo i suoi amici e costringe Peter a riconsiderare la sua promessa. Con la posta in gioco più alta che mai, Peter torna a malincuore alla sua identità di Spider-Man e si ritrova a dover collaborare con un improbabile alleato per proteggere coloro che ama.

L’improbabile alleato potrebbe dunque essere il The Punisher di Jon Bernthal recentemente annunciato come parte del film – in una situazione già vista in precedenti film Marvel dove gli eroi si vedono inizialmente come antagonisti l’uno dell’altro salvo poi allearsi contro la vera minaccia di turno.

Di certo c’è che il film condivide il titolo con un’epoca narrativa controversa, che ha visto la Marvel Comics dare all’arrampicamuri un nuovo inizio, ponendo però fine al suo matrimonio con Mary Jane Watson e rendendo di nuovo segreta la sua identità. In quel periodo ha dovuto affrontare molti nuovi sinistri nemici ed era circondato da un cast di supporto rinnovato, tra cui un resuscitato Harry Osborn.

Il film è stato recentemente posticipato di una settimana dal 24 luglio 2026 al 31 luglio 2026. Destin Daniel Cretton, regista di Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, dirigerà il film da una sceneggiatura di Chris McKenna ed Erik Sommers. Tom Holland guida un cast che include anche Zendaya, Jacob Batalon, Mark Ruffalo, Sadie Sink e Liza Colón-Zayas e Jon Bernthal. Michael Mando è stato confermato mentre per ora è solo un rumors il coinvolgimento di Charlie Cox.

Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

Colman Domingo sarà il Leone Codardo in Wicked – Parte 2

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Colman Domingo è stato scelto per dare la voce al Leone Codardo in Wicked – Parte 2. L’annuncio è stato dato lunedì sull’account Instagram di “Wicked”, con Domingo che si è nascosto dietro un peluche a forma di leone prima di rivelarsi e dire: “Ci vediamo a Oz!“.

Il regista Jon M. Chu ha recentemente anticipato che i fan sarebbero stati entusiasti di scoprire di chi si trattasse. “Aspettate il red carpet, quando l’attore che ci ha dato la voce del Leone Codardo ci metterà piede. Sarà pazzesco”, ha detto.

Il Leone Codardo era uno dei personaggi principali del classico del 1939 “Il Mago di Oz”. In “Wicked”, è il giovane cucciolo che Elphaba (Cynthia Erivo) e Fiyero (Jonathan Bailey) salvano dopo che il Dottor Dillamond è stato portato via e un nuovo professore porta un leone in gabbia in classe. L’insegnante spiega che, essendo imprigionato, il cucciolo non imparerà mai a parlare. Mentre Elphaba si arrabbia, i suoi poteri creano un momento in cui lei e Fiyero possono afferrare il cucciolo e correre nella foresta per liberarlo.

In Wicked – Parte 2 il cucciolo è ormai adulto e si trasforma nel Leone Codardo, che incolpa Elphaba della sua situazione. Con il sequel che si sovrappone alle linee temporali de “Il Mago di Oz”, il leone viene visto con Dorothy, l’Uomo di Latta e lo Spaventapasseri mentre percorrono la Strada di Mattoni Gialli per incontrare il Mago (Jeff Goldblum). Lo si vede anche durante il numero musicale “La Marcia dei Cacciatori di Streghe”. Tuttavia, come nel musical di Broadway, il personaggio non ha una parte importante.

Wicked – Parte 2 The Soundtrack, annunciata la colonna sonora in uscita il 21 novembre

Il cast di Wicked – Parte Due comprende anche i candidati all’Emmy Bowen Yang e Bronwyn James nei panni degli assistenti di Glinda, Pfannee e ShenShen, e la candidata ai BAFTA e ai Grammy Sharon D. Clarke (Caroline, or Change) come voce della tata di Elphaba, Dulcibear.

Il film è prodotto da Marc Platt, già vincitore di Tony ed Emmy, e da David Stone, più volte vincitore di Tony. I produttori esecutivi sono Stephen Schwartz, David Nicksay, Jared LeBoff, Winnie Holzman e Dana Fox. Il primo film, Wicked, uscito nel novembre 2024, ha ottenuto 10 nomination agli Oscar®, tra cui quella per il miglior film, vincendo gli Oscar® per Migliori Costumi e per la Migliore Scenografia. Ad oggi, il film ha incassato 750 milioni di dollari in tutto il mondo.

Wicked – Parte Due è basato sul musical che ha segnato una generazione, con le musiche e i testi del leggendario compositore e paroliere Stephen Schwartz, vincitore di Grammy e Oscar®, e sul libro di Winnie Holzman, tratto dal romanzo bestseller di Gregory Maguire. La sceneggiatura è di Winnie Holzman e Winnie Holzman & Dana Fox. La colonna sonora del film è di John Powell & Stephen Schwartz, con musiche e testi di Stephen Schwartz.

Star Wars: Adam Driver rivela di un sequel mai realizzato su Kylo Ren

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Secondo Adam Driver, che ha interpretato Kylo Ren, alias Ben Solo, una volta ha proposto un sequel di Star Wars. Il potenziale film avrebbe seguito Solo, ma sfortunatamente la Disney ha rifiutato l’opportunità. In un’intervista con Jake Coyle dell’Associated Press, Driver ha spiegato di essere sempre stato interessato a lavorare ad altri film della saga. L’idea ha cominciato a prendere forma nel 2021 dopo che Kathleen Kennedy, presidente della Lucasfilm, lo ha contattato. L’attore ha rivelato che, purché ci sia un buon team creativo dietro al progetto, lui sarebbe stato pronto in un batter d’occhio.

“Era dal 2021 che parlavo di farne un altro. Kathleen (Kennedy) mi aveva contattato. Ho sempre detto: con un grande regista e una grande storia, sarei pronto in un secondo. Amavo quel personaggio e amavo interpretarlo”.

Driver ha spiegato che il film riprenderebbe dopo gli eventi di L’ascesa di Skywalker, l’ultimo film della trilogia sequel. Voleva che il film esplorasse ulteriormente l’arco di redenzione di Kylo. L’attore riteneva che la storia del suo personaggio fosse incompleta e voleva dare a Ren la conclusione che meritava. Driver ha ricordato di aver portato il suo film (che si sarebbe intitolato The Hunt for Ben Solo) al regista Steven Soderbergh e poi di averlo presentato a Kennedy, al vicepresidente della Lucasfilm Cary Beck e al direttore creativo Dave Filoni. A quanto pare, tutti e tre hanno apprezzato l’idea. Erano così entusiasti che hanno persino coinvolto Scott Z. Burns per scrivere la sceneggiatura.

Tuttavia, una volta presentata a Bob Iger (amministratore delegato della Walt Disney Company) e Alan Bergman (co-presidente della Disney Entertainment), l’idea è stata immediatamente bocciata. I due non riuscivano a superare la morte di Ren e hanno semplicemente affermato che il film non avrebbe avuto alcun senso.

Abbiamo presentato la sceneggiatura alla Lucasfilm. L’idea è piaciuta molto. Hanno capito perfettamente il nostro punto di vista e il motivo per cui lo stavamo facendo. L’abbiamo portata a Bob Iger e Alan Bergman e loro hanno detto di no. Non riuscivano a capire come Ben Solo potesse essere vivo. E così è finita lì.”, ha affermato Driver.

Anche Soderbergh ha rilasciato una dichiarazione. Il regista ha rivelato di essersi divertito molto a immaginare il film nella sua testa ed era deluso dal fatto che i fan di Star Wars non avrebbero mai potuto vederlo. Sebbene The Hunt for Ben Solo di Driver e Soderbergh non sia mai stato realizzato, ci sono molti altri progetti di Star Wars in uscita che i fan possono attendere con ansia. Tra questi ci sono The Mandalorian and Grogu (2026), Star Wars: Starfighter (2027) e un progetto senza titolo di Dave Filoni.

California Schemin’, recensione del film di James McAvoy – #RoFF20

Gavin Bain (Séamus McLean Ross) e Billy Boyd (Samuel Bottomley, visto anche in Anemone) sono due giovani rapper di Dundee con un talento indiscutibile, ma schiacciati da un pregiudizio culturale. Nel Regno Unito dei primi anni Duemila, il loro accento scozzese è motivo di derisione: nessuna etichetta vuole credere che possano avere successo. Così, per sopravvivere e farsi ascoltare, inventano un’altra vita – diventano Silibil N’ Brains, due musicisti californiani dal passato immaginario e dall’accento “perfettamente” costruito.

Da quel momento, la loro esistenza diventa una performance continua: tour, interviste, contratti discografici e puntate su MTV. Il film si apre con la scritta “A true story based on a lie” (Una storia vera basate sulle bugie), sintesi perfetta di una trama in cui la menzogna diventa atto di ribellione e desiderio di riconoscimento. James McAvoy, per la prima volta regista, invita lo spettatore a seguire i due protagonisti lungo il confine fragile tra sogno e inganno, successo e perdita di sé.

California Schemin’: l’industria musicale come specchio distorto

Sotto la superficie brillante della commedia musicale, California Schemin’ nasconde un’analisi affilata del sistema discografico. McAvoy racconta un mondo in cui l’immagine vale più del contenuto, e dove la provenienza geografica – più ancora del talento – decide chi merita di essere ascoltato.

Il cambio di accento diventa un gesto politico e psicologico insieme: fingendo di essere americani, Gavin e Billy riescono a realizzare i loro sogni, ma a costo di smarrire la propria identità. Il regista (anche lui attore, nel ruolo del discografico) ritrae l’industria come un teatro dell’assurdo, popolato da agenti, produttori e giornalisti che si muovono come caricature di un sistema malato di apparenza. L’ironia corrosiva ricorda i toni di The Social Network e Tonya, ma con una leggerezza tutta britannica, che trasforma la critica sociale in uno specchio amaro del mondo contemporaneo.

Tra commedia e malinconia

McAvoy dirige con equilibrio raro, alternando il ritmo elettrico delle sequenze musicali alla quiete fragile dei momenti più intimi. I concerti, le interviste, i party mondani esplodono di energia, ma dietro la frenesia si avverte la solitudine dei due protagonisti, costretti a vivere dentro una maschera. Il risultato è un film che vibra di sincerità, anche quando racconta la finzione.

La commedia non cancella la malinconia, ma la amplifica. Più i due ragazzi conquistano il successo, più la loro verità si sgretola e la bugia assume i tratti di un ricatto emotivo. 

Due volti della stessa illusione in California Schemin’

Le interpretazioni di Séamus McLean Ross e Samuel Bottomley sono il cuore emotivo del film. Ross restituisce la vulnerabilità di Gavin, il suo oscillare tra entusiasmo e colpa; Bottomley incarna l’energia impulsiva e autodistruttiva di Billy, la parte più selvaggia e incosciente del duo. Insieme creano un’alchimia autentica, fatta di amicizia, complicità e disillusione.

McAvoy, al suo esordio dietro la macchina da presa, dimostra una sensibilità notevole nel dirigere gli attori. Il suo sguardo è intimo e partecipe, osserva i personaggi cogliendone la complessità, il loro bisogno di essere “qualcuno” nel mondo musicale. La regia privilegia il dettaglio – un gesto, una pausa, un cambio di sguardo – più che la spettacolarità, e proprio in questa misura trova la sua forza.

Identità e metamorfosi

Uno dei temi più riusciti è la trasformazione linguistica come metafora esistenziale: cambiare accento significa cambiare pelle. Il film suggerisce che l’identità non è una condizione stabile, ma un processo continuo di adattamento – e che la menzogna, a volte, è solo una forma di sopravvivenza.

In questo senso, California Schemin’ è anche un film profondamente politico: racconta il razzismo culturale (o, come afferma il personaggio di Gavin, “scozzismo”) con leggerezza, denunciando la logica di un’industria che premia l’imitazione e punisce l’autenticità. Il talento viene sottoposto alla provenienza, facendo luce a un processo che, si immagina, prosegue tuttora.

California Schemin’: un esordio che convince

Basato sul memoir di Gavin Bain, California Schemin’ racchiude un tocco di verità: i filmati originali girati dai veri Silibil N’ Brains. È un gesto di restituzione, che dissolve la distanza tra finzione e realtà e lascia emergere tutta la malinconia della storia.

James McAvoy firma un debutto sorprendentemente solido: ironico ma mai superficiale, energico ma attraversato da una malinconia autentica. La sua regia è al servizio dei personaggi, non del virtuosismo; e nel racconto di due giovani che fingono per essere ascoltati, emerge un discorso più ampio sull’arte, l’identità e la società dell’immagine.

California Schemin’ è, in fondo, la storia di due bugiardi sinceri — e di un regista che, nel raccontarli, trova la sua verità.

Miss Carbon, recensione del film con Lux Pascal – #RoFF20

Ambientato nella Patagonia argentina, Miss Carbon porta sullo schermo la storia vera di Carla Antonella Rodriguez (interpretata da Lux Pascal, sorella di Pedro), una ragazza transgender cresciuta in un contesto tanto ostile quanto realistico. Nata Carlos, Carla affronta fin da giovanissima l’esclusione familiare e sociale: la famiglia non la accetta più in casa, la comunità la emargina, e il gelo della Patagonia diventa metafora del suo isolamento interiore.

Prima ancora di desiderare di essere donna, racconta alle amiche transgender, sognava di fare la “minera”, di lavorare in miniera come gli uomini della sua città. Ma una superstizione locale vieta alle donne di entrare in miniera, con l’eccezione del giorno in cui si festeggia la “Regina del Carbone”. È un divieto simbolico che disegna i confini di un mondo dove il genere stabilisce il posto che ti è concesso nella società.

L’identità come lavoro quotidiano

Miss Carbon segue Carla nel suo percorso di affermazione personale e di ricerca di un posto nel mondo. La regista Agustina Macri racconta la transizione non come un evento isolato, ma come un cammino complesso, fatto di ostacoli e piccoli gesti di resistenza quotidiana.

Il film attraversa gli anni che precedono il 2012, quando in Argentina viene approvata la legge che riconosce il diritto all’identità di genere. Per Carla questo momento rappresenta una svolta: può finalmente vedersi riconosciuta dallo Stato e, formalmente, essere ciò che è sempre stata.

Eppure, quella che sembra una conquista si trasforma in una nuova esclusione. Nel mondo del lavoro, dove aveva trovato un raro equilibrio, la sua trasformazione la relega dietro una scrivania, tra colleghe diffidenti. Prima, quando non era ancora legalmente donna, le era permesso lavorare in miniera perché formalmente ancora uomo. Dopo, quando finalmente la burocrazia la riconosce in qualità di entità femminile, viene allontanata.

Il paradosso è evidente e doloroso: prima non riconosciuta, ma accettata nel lavoro maschile; poi riconosciuta, ma esclusa da ciò che amava fare. È qui che si concentra il cuore politico e umano del film: il riconoscimento formale non basta, se la cultura e il pensiero collettivo restano fermi.

La forza del lavoro e il peso del genere

Macri costruisce un racconto sobrio e intenso, privo di retorica. La messa in scena si muove tra primi piani e silenzi sospesi, restituendo un realismo quasi documentaristico che valorizza il corpo e lo sguardo della protagonista. Le mani annerite dal carbone, i rumori della miniera, il contrasto tra luce e polvere creano una dimensione fisica e sensoriale che accompagna la metamorfosi di Carla.

Attraverso di lei, Miss Carbon racconta la doppia discriminazione di una donna transgender in un mondo che non sa accettare né la diversità né la femminilità come forza. L’amore con un ingegnere, breve e fragile, e la morte violenta di un’amica trans riportano la narrazione alla realtà più cruda, dove la normalità resta un privilegio negato.

Lux Pascal, con una prova misurata e profonda, dà vita a una protagonista complessa senza mai scivolare nel melodramma. La sua Carla è vulnerabile ma determinata, lucida e sognatrice. In lei convivono la dignità del lavoro e la dolcezza di chi ha imparato a vivere controvento. Non cerca privilegi, ma giustizia. Vuole solo poter amare, lavorare, esistere.

Miss Carbon e il diritto di essere accettati

Carla ottiene finalmente il riconoscimento legale del proprio nome, ma scopre che la vera battaglia è un’altra: essere accolta per ciò che è, non per ciò che rappresenta. La sua vittoria non apre le porte, le chiude: viene allontanata proprio da quel mestiere che le aveva dato forza e senso di sé.

È questa la contraddizione più potente del film, che si trasforma in una riflessione universale sul prezzo dell’autenticità. Quanto costa essere se stessi in un mondo che definisce i ruoli prima ancora delle persone? Miss Carbon non offre risposte, ma lascia emergere domande profonde sull’inclusione, sull’uguaglianza e sulla libertà di esistere senza dover giustificare la propria presenza.

Miss Carbon è un film che scava, come la sua protagonista, nella miniera più profonda: quella dell’animo umano. Un’opera necessaria, che parla di coraggio, dignità e del bisogno di essere parte di un mondo che, troppo spesso, non sa ancora accogliere.

Il Falsario: recensione del film di Stefano Lodovichi – #RoFF20

La storia italiana, specie quella degli anni ’70 e ’80, è un bacino colmo di misteri, criminalità e ideali. Un territorio segnato da lotte sociali, poteri occulti e grandi bugie. Sono gli anni di piombo e spesso, ciò che più scuote il Paese, arriva e confluisce in un’unica città: Roma. Dal caso Moro alla nascita della Banda della Magliana, quella stagione ha dato forma a un cinema gangster all’italiana che oggi, alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, torna in scena con Il Falsario, visto in anteprima al Giulio Cesare.

Diretto da Stefano Lodovichi, il film si ispira alla figura di Antonio Chichiarelli, uno dei più geniali falsari italiani, ma come ci viene detto fin da subito, questa è solo una delle possibili versioni della sua storia. Con una sceneggiatura firmata da Sandro Petraglia (in collaborazione con Lorenzo Bagnatori) e un protagonista come Pietro Castellitto, Il Falsario arriva su Netflix dal 23 gennaio, pronto ad arricchire il nostro immaginario criminale.

La trama de Il Falsario

Negli anni Sessanta, un ragazzo di provincia di nome Toni ha un’unica ossessione: diventare l’artista più famoso di Roma. Così lascia Lago della Duchessa e parte per la Capitale insieme ai suoi due inseparabili amici, Fabione e Vittorio. Ognuno con un sogno diverso in tasca: chi vuole scegliere da che parte stare finendo poi arruolato nelle Brigate Rosse, chi sogna una carriera nel mondo ecclesiastico. A Roma, però, la vita di Toni prende una piega inaspettata. L’incontro con Donata, una gallerista, gli stravolge il destino. Lei capisce subito ciò che gli altri non vedono: Toni non è un semplice artista, ma ha un dono particolare: sa copiare qualsiasi cosa alla perfezione, un quadro, una firma, persino un intero stile pittorico. Ed è lì che si apre la sua vera strada, perché i suoi dipinti, nel mercato, non li comprerebbe nessuno. Da quel momento, la scalata comincia. Toni entra nei giri della Roma criminale, dove il suo talento diventa qualcosa che tutti vogliono. Ma ogni nuovo incarico sembra sempre più pericoloso, fino a quando non si ritrova coinvolto persino nel caso Moro.

Il Falsario film

Una Roma pungente, pericolosa e piena di fascino

Il cinema italiano contemporaneo ama rileggere il passato, restituendolo sempre con un’estetica vintage che piace a coloro che amano il genere. Anche Lodovichi segue questa scia, scegliendo di ricostruire con cura ambientazioni e costumi di una Roma turbolenta ma piena di sogni, arte, idee e contraddizioni. A fare da teatro alle vicende di Toni e delle sue rocambolesche imprese è una Capitale agitata ma viva, in bilico tra il caos e la luce: non solo terrorismo e paura, ma anche conquiste sociali e nuovi orizzonti culturali.

Il Toni interpretato da Pietro Castellitto si muove proprio dentro questo equilibrio precario, tra brama di potere, conquista, e la voglia di trovare un posto nel mondo che lo faccia sentire bene con se stesso. Il regista e gli sceneggiatori restituiscono bene il contesto e il respiro politico e criminale in cui è immersa la narrazione, senza però spingersi a fondo nella complessità dei meccanismi che raccontano. Una fotografia calda e aranciata, cifra visiva ormai tipica di questo tipo di produzioni, ci accompagna in una Roma dove servizi segreti, mafia e Brigate Rosse si muovono come in uno spettacolo inquieto, su cui Marco Bellocchio ha costruito alcuni dei suoi capolavori migliori.

Il Toni di Pietro Castellitto

Ed è proprio la parte storica quella più riuscita e curata. Si apprezzano le location ricostruite con attenzione, così come l’energia dei personaggi, che restituiscono il fermento di una Capitale agitata ma determinata. Se questo è l’aspetto più riuscito, è anche vero che Il Falsario comincia a inclinarsi nel momento in cui deve ricamare attorno al suo protagonista, Toni. Pietro Castellitto – qui nella sua versione più vanesia e ironica – interpreta bene il suo falsario, donandogli quell’aria da “finto innocente” e, al tempo stesso, da “faccia da schiaffi.” Eppure questo non basta a farcelo amare fino in fondo.

Si capisce che Toni è uno di quelli furbi e intelligenti, che sanno sempre come girare la situazione a proprio favore, e lo fanno con quello sfacciato sarcasmo romanesco e quella veracità piacente che sa farsi seguire. Ma nell’atto pratico delle sue imprese, il film resta in superficie. Non entra mai davvero in profondità narrativa, non scava nelle sue crepe. Tutto resta un po’ generico, come se Il Falsario avesse paura di osare. Forse per restare dentro certi limiti commerciali, per offrire il “giusto” al pubblico, il materiale che può piacere senza sporcare troppo, senza mettere mai davvero in crisi lo spettatore. Per non appesantirlo.

Il Falsario

Un ottimo cast

Nonostante qualche debolezza in scrittura, è innegabile che la forza di Il Falsario sia il suo cast. Ogni attore sembra calato perfettamente nel proprio ruolo, capace di restituire tensioni e sfumature di un’epoca che ancora oggi ci ammalia. Oltre a Castellitto, spicca Claudio Santamaria, algido e impenetrabile, incarnazione perfetta dei cosiddetti “servizi deviati”. Edoardo Pesce è invece un Balbo credibile e magnetico. Funzionano anche i comprimari: Andrea Arcangeli nel ruolo del prete Vittorio e Pierluigi Gigante in quello del brigatista Fabione. I loro personaggi portano con sé crisi, segreti e ambizioni irrisolte, alimentando la ricchezza del racconto. Il Falsario si regge su di loro, su un cast affiatato, che restituisce tutte le ferite e il fascino del periodo, rendendolo un film nella sua totalità riuscito per il pubblico di riferimento.

Vie privée: recensione del nuovo film con Jodie Foster-#RoFF20

Jodie Foster ritorna sul grande schermo con una nuova intrigante commedia interamente in francese! Vie privée, diretto da Rebecca Zlotowski (I figli degli altri), segue le vicende di una psichiatra, interpretata proprio dalla Foster, che si lancia in una curiosa caccia all’uomo. Il film è stato presentato in anteprima fuori concorso al Festival di Cannes lo scorso maggio, per poi essere nuovamente proiettato al Norwegian International Film Festival, al Toronto Film Festival e alla Festa del cinema di Roma. Nel cast si ritrovano diverse figure già molto note nel panorama cinematografico internazionale: Daniel Auteuil (Sostiene Pereira, Le confessioni) qui interpreta l’ex marito della psichiatra Lilian, mentre Matthieu Amalric (The french dispatch, Sound of metal) è nel ruolo di Simon Cohen-Solal. Altri personaggi ricorrenti sono interpretati da Vincent Lacoste (Amanda) e da Luàna Bajrami (Ritratto della giovane in fiamme).

Vie privée: un delitto (quasi) perfetto

Lilian è una psichiatra, segue diversi pazienti, alcuni da diversi anni; una delle sue pazienti storiche, Paula, non si presenta alle ultime sedute. Così dopo poco Lilian viene a sapere che la donna è morta: sembra trattarsi di un suicidio.

La psichiatra non riesce ad accettare la sua dipartita per vari motivi. Prima Lilian non pensa di essere effettivamente influenzata emotivamente dalla morte della donna: dopo tutto, si trattava di una paziente, non di un’amica o di una parente. Ciononostante, dopo tanti anni di terapia, si era creato un rapporto speciale tra le due. Inoltre, non sembra credibile che Paula si sia suicidata: proprio perché la donna ha seguito un percorso di psicanalisi per tanti anni, sarebbe stato facile riscontrare ad un certo punto degli istinti suicidi, e Lilian non ha mai notato nulla di simile nella paziente.

Foto Credits George Lechaptois

L’unica soluzione che trova la psichiatra è quindi che non si tratti di un suicidio, bensì di un omicidio mascherato. Inizia così un’insaziabile caccia all’assassino: i primi indiziati sembrano essere proprio i familiari di Paula, per motivi psicologici o economici. Gabriel, ex marito di Lilian, la affiancherà nelle indagini, in un mix di prove, eventi confusi e visioni dall’ipnosi; il risultato sarà certamente imprevedibile.

La psicanalisi del dolore

Tema di partenza di Vie privée è proprio la psicoterapia e la sua efficacia: questo elemento in sé viene affrontato a tratti in chiave ironica, come si denota ad esempio all’inizio quando uno dei pazienti di Lilian le comunica bruscamente di non voler più proseguire con la terapia, asserendo che si sia trattato di una perdita di tempo e soldi.

Con il volgere verso il finale però, è chiaro come l’analisi della mente umana assuma una rilevanza sempre maggiore. Talvolta anche per chi è tenuto ad ascoltare per lavoro può essere difficile catturare al meglio tutte le informazioni ed emozioni che l’altro comunica e questo può avere delle conseguenze, anche gravi.

L’analisi psicanalitica in Vie privée non riguarda però solamente i pazienti, ma anche Lilian stessa. Nello scoprire della morte di Paula, si vede come lei accolga il proprio dolore e lutto con sorpresa, tanto da collegare il suo pianto continuo a un problema fisico più che emotivo. Ciò può essere collegato a un forte sentimento di negazione, che porta la psichiatra a voler trovare una vera spiegazione, giustificazione al gesto della sua paziente: Lilian non riesce ad accettare l’idea di non aver visto veramente ciò che aveva sotto gli occhi.

Foto Credits George Lechaptois

Il sogno nell’ipnosi

L’ipnosi diviene un altro fattore focale in Vie privée già nella prima parte del film: Lilian, non riuscendo a smettere di piangere, si rivolge a una donna che aveva già messo in atto tali pratiche per far smettere di fumare l’ex paziente della psichiatra. Quest’ultima, molto scettica inizialmente, inizia presto ad avere delle visioni molto particolari, a cui attribuisce un’importanza determinante per la risoluzione dell’assassinio di Paula.

Si tratta certamente di visioni, proiezioni arzigogolate che la mente di Lilian produce per trovare una giustificazione alla morte della sua amata paziente; ciononostante, la psichiatra gli attribuisce un’importanza tale da affidarsi completamente ad esse, trovandoci anche il motivo del difficile rapporto che Lilian ha con suo figlio. Il ragazzo, nel sogno ipnotico, è un soldato nazista, mentre lei è una musicista ebrea; quindi, i due si ritrovano in due fronti opposti.

Vie privée racchiude in se importanti riflessioni sulla difficoltà di affrontare le proprie emozioni, così anche l’importanza dell’ascolto; tutto questo lo fa però mantenendo una certa chiave ironica e un ritmo incalzante.

Nino, recensione del film con Théodore Pellerin – #RoFF20

Nino Clevel (Théodore Pellerin) festeggia il suo 29° compleanno quando riceve una diagnosi inaspettata: tumore alla gola causato dal papilloma virus. Il film, che prende il nome dal suo protagonista, Nino, si concentra su ciò che accade nei giorni successivi alla diagnosi – quelli di cui raramente si parla, in cui la vita continua come se nulla fosse ma tutto è già cambiato.

Inizialmente convinto di avere solo un’infiammazione, Nino va in ospedale per chiedere qualche giorno in più di malattia. Ne esce, invece, con la consapevolezza di una malattia seria e della necessità di prelevare e conservare il proprio sperma prima delle cure. Quando scopre che in ospedale non c’è una stanza disponibile per la procedura, decide di tentare nel bagno di un bar – un gesto tragicomico che sintetizza la surreale normalità del film. È lì che incontra per caso una vecchia compagna di scuola, e quell’incontro segna l’inizio di un’apertura emotiva, prima volutamente repressa.

Cortesia Roma Cinema Fest

Intanto, l’amico Sofian (William Lebghil) gli organizza una festa a sorpresa per il compleanno: tra musica, bicchieri e risate, Nino cerca di nascondere la sua paura. Non riesce a dirlo alla madre (Jeanne Balibar), che fraintende le sue esitazioni pensando stia per annunciarle una transizione di genere. La scena, comica e tenera allo stesso tempo, restituisce la confusione di chi non sa ancora dare un nome al proprio dolore.

Nino: diagnosi, azione e il coraggio di fingere

Loquès, al suo esordio, costruisce un film che non indulge nella tragedia, ma si sofferma sull’attesa, sul silenzio, su ciò che resta taciuto. C’è una battuta chiave, affidata a Sofian: “Il segreto dell’azione è cominciare”. Nino la fa sua, continuando però a “fingere che tutto vada bene” – accusa alla quale ribatte con disarmante semplicità: “Non è quello che fanno tutti?”.  In quei momenti, Nino sembra suggerire che vivere non significhi soltanto reagire, ma anche – e forse soprattutto – avere il coraggio di iniziare. Di riconoscere, accettare, parlare.

Il lavoro di Loquès mostra quanto quel weekend prima dell’inizio della cura sia pieno di quotidianità: pranzi con amici, telefonate, risate che nascondono un dolore, tutto prima di iniziare la terapia. È un film sui giorni invisibili, di quelli che rimangono a metà tra la quotidianità e l’orizzonte che cambia all’improvviso.

Cortesia Roma Cinema Fest

Tra fragilità e leggerezza – lo sguardo di Pauline Loquès

La regista evita qualsiasi pietismo. La sua macchina da presa osserva più che giudicare, alternando primi piani e campi lunghi che restituiscono il peso del tempo e la leggerezza dei gesti quotidiani. Nino vive di dettagli: la voce che cambia, le risate forzate, le telefonate non fatte, il tentativo di essere normale dentro un corpo che non lo è più.

Il tono resta costantemente in bilico tra dramma e commedia, tra accettazione e rifiuto. L’umorismo non alleggerisce il dolore, lo rende umano, tangibile. Théodore Pellerin regala un’interpretazione sfumata e sincera, capace di catturare la vulnerabilità di chi si scopre improvvisamente fragile e finito.

Nino e il coraggio di cominciare

Nino non parla di malattia, ma di vita – dei giorni in cui si impara a restare dentro la paura, a confidarsi, a smettere di fingere. È un film che invita a guardare il momento che precede la cura, quello in cui tutto è ancora possibile e tutto fa paura.

Dedicato a Romain, persona cara alla regista, la pellicola è un atto d’amore verso la fragilità umana e la forza del “cominciare”. Un invito a spostare lo sguardo dalla malattia alla vita che le ruota intorno; a chiedersi quanto tempo impieghiamo per dire ciò che conta; a scoprire che la libertà non è solo assenza di dolore, ma possibilità di mostrarsi per ciò che si è.

È un racconto di coraggio sommesso, di voci che tremano, di amicizia autentica. Una storia sull’inizio come atto vitale – e sulle farfalle che vogliono volare libere e senza costrizioni, come ricorda lo stesso protagonista.

Rental Family: recensione del film con Brendan Fraser – #RoFF20

Le agenzie che in Giappone offrono un servizio di interpreti chiamati ad impersonare parenti, amici o via dicendo per chi ne è privo sono oltre 300, come dichiarato dalla regista Hikari, che su questa realtà ha basato il suo film Rental Family – Nelle vite degli altri, presentato alla Festa del Cinema di Roma – dove lo abbiamo visto in anteprima – e che segna il ritorno di Brendan Fraser ad un ruolo da protagonista dopo quello che gli è valso l’Oscar, The Whale. Come si diceva, il film si basa dunque su una realtà ampiamente diffusa ormai da decenni e che dice molto su certe derive dell’umanità sviluppatesi in questo tempo.

Prende così forma, dopo lunghe ricerche condotte dalla regista – qui al suo secondo lungometraggio dopo 37 seconds – un racconto profondamente radicato nel nostro contemporaneo, che esplora una precisa realtà facendone lo spunto di partenza per una riflessione universale sui rapporti umani, sul loro valore e la loro fragilità. Il risultato è un film delicato e dal gran cuore, che permette inoltre a Fraser di aggiungere alla sua carriera un altro personaggio a cui è facile affezionarsi.

La trama di Rental Family

Phillip (Brendan Fraser), un attore americano a Tokyo, fatica a trovare la sua vocazione fino a quando, un bel giorno, si trova ad accettare un ruolo particolare, oltreché moralmente complicato: per un’agenzia di “parenti a noleggio”, interpretare questa o quell’altra controfigura familiare per degli sconosciuti. Man mano, addentrandosi nel piccolo mondo di ciascun cliente, sente in sé crescere sentimenti fin troppo genuini, che progressivamente confondono la finzione con la realtà.

Brendan Fraser in Rental Family
Brendan Fraser in Rental Family

Soli, ma insieme

Il Giappone, uno dei paesi nel quale le percentuali di persone che si dichiarano sole e/o alienate sono tra le più alte. Una realtà come quella dell’affitto di persone-surrogati non poteva dunque che svilupparsi qui (ma con i tempi che corrono non è difficile credere che in futuro possa essere esportata). Una solitudine percepita non solo da chi vi è nato e cresciuto ma anche da chi arriva dall’esterno. È il caso di Phillip, un personaggio che la regista descrive con grande precisione sin da subito come un uomo in un contesto in cui non riesce del tutto ad inserirsi.

È più alto della media, ingombrante, tagliato fuori e posto ai margini (della società e dell’inquadratura). Nel osservarlo muoversi con difficoltà tra le strade di Tokyo viene immediato accostarlo al Bob di Bill Murray protagonista di Lost in Translation. Le somiglianze tra i due personaggi sono molteplici: entrambi attori in declino, si trovano a Tokyo per girare uno spot di dubbio gusto (anche se Phillip ha scelto poi di rimanervi) e si ritrovano incastrati tra bilanci sulla loro vita e i sentimenti soffocati.

Attraverso gli occhi grandi e curiosi di Fraser, andiamo dunque alla scoperta di questa realtà tanto assurda quanto ormai radicata nel reale. Una realtà germogliata sul fertile terreno della crescente solitudine e fattasi largo tra un sempre crescente numero di persone che non riesce ad interesse veri legami umani o ad accettare il proprio posto nel mondo. Per fare un altro accostamento cinematografico, Phillip è ciò che l’OS1 Samantha è in Lei di Spike Jonze. Fortunatamente, qui il surrogato è ancora umano, cosa che permette la formazione di legami che si potrebbe ancora definire più autentici.

Brendan Fraser nel film Rental Family
Brendan Fraser in Rental Family

All’interno di Rental Family ritroviamo così un’umanità variegata, che porta in più occasioni a pensare come ogni personaggio meriterebbe un proprio film a parte (in particolare la collega di Phillip, interpretata dalla brava Mari Yakamoto), che ci racconti la sua storia e i legami con quelle degli altri. Uno spunto suggerito a più riprese dall’osservazione che il protagonista fa di ciò che accade negli appartamenti di fronte al suo. Un essere “soli ma insieme” che da sempre ci lega, anche se inconsapevolmente.

Rental Family è un delicato elogio ai rapporti umani

Didascalico? Forse. Ricattatorio? Il rischio c’era, ma non si verifica. Hikari riesce a portare avanti quella sobrietà e delicatezza di cui un film di questo genere hanno bisogno, trovando nella semplicità e nella sobrietà le chiavi vincenti. Ci riesce anche affidandosi pienamente a Brendan Fraser, che interpreta un ruolo per il quale – data la sua storia lavorativa – si rivela ideale. Come accennato, i suoi grandi occhi trasmettono tutta l’emotività di Phillip, uomo buono ma ferito, e l’attore offre un’altra dimostrazione della sua bravura.

Così facendo, tra il fingersi marito, amico e soprattutto padre della piccola Mia (uno dei due ruoli più importanti per lui), il protagonista e la regista dietro di lui ci conducono attraverso una storia che alterna momenti di grande umorismo (alcune scene suscitano autentiche risate) ad altri profondamente toccanti (impreziositi da alcune battute che restano impresse nel cuore), invitando e contribuendo alla riflessione sempre più urgente – in questo mondo iperconnesso ma solitario – sull’importanza di rapporti reali, anche quando costruiti su bugie bianche.

Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo – Stagione 2: dal 10 dicembre su Disney+

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La seconda stagione della serie originale Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo debutterà il 10 dicembre su Disney+. La nuova stagione di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo è basata su “Il mare dei mostri”, il secondo capitolo della serie di libri best-seller di Rick Riordan, pubblicata da Disney Hyperion ed edita in Italia da Mondadori.

Dopo che la barriera del Campo Mezzosangue viene infranta, Percy Jackson si imbarca in un’epica odissea nel Mare dei Mostri in cerca del suo migliore amico Grover e dell’unica cosa che potrebbe salvare il campo: il Vello d’Oro. Con l’aiuto di Annabeth, Clarisse e del suo nuovo fratellastro, il ciclope Tyson, la sopravvivenza di Percy è di vitale importanza nella lotta per fermare Luke, il Titano Crono e il loro piano imminente di abbattere il Campo Mezzosangue e, a seguire, anche l’Olimpo.

Creata da Rick Riordan e Jonathan E. Steinberg, la seconda stagione di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo vede nel ruolo di executive producer Steinberg e Dan Shotz insieme a Rick Riordan, Rebecca Riordan, Craig Silverstein, Ellen Goldsmith-Vein di Gotham Group, Bert Salke, Jeremy Bell di Gotham Group, D.J. Goldberg, James Bobin, Jim Rowe, Albert Kim, Jason Ensler e Sarah Watson.

La seconda stagione di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo è interpretata da Walker Scobell, Leah Sava Jeffries, Aryan Simhadri, Charlie Bushnell, Dior Goodjohn e Daniel Diemer. La prima stagione di Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo è disponibile su Disney+.

Good Boy, recensione del film di Jan Komasa – #RoFF20

Tommy (Anson Boon) è un giovane bullo perso tra droghe, alcool e autodistruzione. Dopo una notte di eccessi, si risveglia in una cantina, incatenato al collo. È stato rapito da una famiglia che sostiene di volerlo “rieducare”, correggere le sue devianze e offrirgli una nuova possibilità di vita. Sul televisore accanto a lui scorrono le immagini del suo passato: video di bravate, violenze e risse, alternati a filmati educativi su come comportarsi al meglio. È la prima fase del suo percorso di correzione, un rito di deumanizzazione e ricostruzione.

La casa in cui è prigioniero è abitata da Chris (Stephen Graham, visto recentemente nella serie Netflix Adolescence), il padre carismatico e autoritario; Kathryn (Andrea Riseborough), la madre dal sorriso calmo e lo sguardo glaciale; e il figlio Jonathan (Kit Rakusen). A completare la famiglia c’è Rina (Monika Frajczyk), domestica dell’Europa dell’Est, costretta a firmare un accordo di riservatezza.

Le origini di Good Boy: dalla Polonia allo Yorkshire

Il progetto nasce da un’idea del produttore Jerzy Skolimowski, che propose la sceneggiatura a Jan Komasa mentre il regista stava promuovendo Corpus Christi (2019). Il copione, inizialmente scritto in polacco e ambientato a Varsavia, è stato adattato in lingua inglese e trasferito nello Yorkshire per ampliare la portata internazionale del racconto.

Good Boy segna così il primo film in inglese di Komasa, che conserva però il suo stile riconoscibile: realismo morale, tensione psicologica e riflessione sulla responsabilità individuale.

La fiducia come prigionia

La famiglia rappresentata in Good Boy vive secondo un rigido codice “zero sprechi”: niente sperperi, niente eccessi, un ecosistema perfetto e inquietante dove anche l’educazione diventa un atto di controllo. “Trust isn’t black or white; trust is a process and it has to be built” (“La fiducia non è assoluta; la fiducia è un processo, che deve essere costruito pian piano”), afferma Kathryn, sintetizzando in questo modo il cuore del film.

La violenza non è mai gratuita, ma si insinua nella quotidianità, nella falsa dolcezza dei riti familiari. Il compleanno di Tommy, celebrato con affetto in un contesto assurdo, segna l’inizio del “processo di fiducia”: per la prima volta gli viene concesso di uscire all’aria aperta, pur restando incatenato.

Con il passare del tempo, la catena diventa più lunga, gli spazi più ampi. Il padre adottivo/guardia carceraria costruisce un sistema di anelli e lucchetti che permette a Tommy di muoversi per tutta la casa, “libero” ma sempre sorvegliato. Si tratta di un paradosso perfetto: la libertà concessa come strumento di controllo.

Qual è la vera prigione?

Good Boy interroga lo spettatore su un dilemma morale: è peggiore la prigionia imposta o quella che ci costruiamo da soli? Essere liberi può significare smarrirsi, diventare schiavi dei propri vizi e impulsi; essere limitati può voler dire, in un certo senso, essere salvati.

Komasa mette in scena questo dualismo con un equilibrio raro, muovendosi tra il dramma psicologico e la commedia nera. Il contrasto tra il mondo esterno – rumoroso, caotico – e la casa immobile, quasi sospesa nel tempo, diventa la metafora di una società che cerca la redenzione nel controllo.

Il cast di Good Boy e la catena dell’animo umano

Con Good Boy, Jan Komasa firma il suo film più spiazzante e maturo, un’opera che mette in crisi lo spettatore prima ancora del protagonista. L’interpretazione di Anson Boon dà corpo a un personaggio sospeso tra colpa e desiderio di redenzione, mentre Stephen Graham e Andrea Riseborough incarnano con inquietante naturalezza la banalità del male travestita da amore.

Komasa costruisce un racconto che oscilla tra ironia e orrore, ma trova la sua forza nella quiete disturbante dei dettagli: un gesto gentile, un sorriso, una catena che si allunga ma non si spezza mai.

Good Boy non è solo una storia di prigionia, ma una parabola sulla libertà come illusione collettiva — e sulla paura di vivere senza regole, né padroni. Un film interessante, lucido e disturbante, che lascia addosso il rumore del metallo: quello delle nostre stesse catene.

Gli occhi degli altri: recensione del film di Andrea De Sica – #RoFF20

Quando si parla di violenza, si cade spesso nell’errore di credere che l’amore del carnefice verso la vittima fosse solo un amore “malato”. Ma non è così. È la società stessa ad essere costruita su un regime patriarcale e maschilista mai davvero smantellato. E nel panorama cinematografico contemporaneo, molti registi provano ad affrontare questi temi, alcuni con più coraggio di altri.

Andrea De Sica lo fa con Gli occhi degli altri, costruendo un film che parte dal desiderio e dall’erotismo per trasformarli, gradualmente, in ossessione e dominio. Il riferimento è diretto e dichiarato: uno dei casi di cronaca nera più noti in Italia, quello del marchese Casati Stampa. Abbiamo visto il film in anteprima al Cinema Giulio Cesare, in occasione della 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma.

La trama di Gli occhi degli altri

Lelio è un marchese tutto d’un pezzo che vive in una villa a picco sul mare, su un’isola, insieme alla moglie, ed è solito organizzare feste e cene nel weekend con ospiti dell’alta borghesia. Durante una di queste incontra Elena, sposata con un suo amico, con cui inizia una relazione adultera. La stessa sera consumano un rapporto, osservati di nascosto da un domestico di Lelio, ma Elena non è turbata: quello scambio di sguardi sembra coinvolgerla. Su questa dinamica si costruisce la loro storia. Quando si separano dai rispettivi coniugi e si sposano, i due iniziano a filmare Elena mentre ha rapporti con altri uomini, sotto lo sguardo compiaciuto di Lelio. Un rituale voyeuristico che si rompe quando la donna attraversa un momento difficile che le cambia le priorità. Ma Lelio non ci sta: la vuole ancora “in forma”, esattamente com’era. E quando Elena si innamora davvero di un altro uomo, oltrepassando il confine del loro patto silenzioso, lui ne decreta la fine.

Gli occhi degli altri film

Tra potere, sguardo e possesso

Una fotografia dalla patina vintage ci proietta negli ultimi anni Sessanta, in un’atmosfera fredda e disturbante. Il sole che si riflette sulla villa a picco sul mare – spesso in tempesta – non basta a riscaldare ambienti segnati da un’inquietudine profonda, che cresce scena dopo scena. Lelio, interpretato da un impeccabile Filippo Timi, ha lo sguardo rigido, tagliente. Sin dai primi piani, il personaggio trasmette ambiguità e instabilità, che si amplificano nel momento in cui incontra Elena: da quel momento in poi, lei diventa il suo unico destino.

De Sica riesce a costruire tensione e apprensione attorno alla figura della nuova marchesa, e lo fa con una regia che lavora per progressione, puntando in primis sul concetto di voyeurismo fino ad arrivare alla violenza annunciata, dando una forma concreta a ciò che poteva essere il rapporto tra i due coniugi prima del celebre omicidio. Il punto di partenza è una dimensione erotica, dove desiderio e feticismo si intrecciano, dando vita a una relazione apparentemente libera, ma carica di presagi sinistri. Elena è inizialmente una donna avvenente, sicura del proprio corpo e del proprio desiderio, ma quella libertà si rivelerà presto una condanna letale.

Elena, da donna libera a oggetto

Elena rappresenta la libertà – mentale, sessuale, personale – di una donna che vuole essere se stessa senza dover pagare un prezzo. Ma, paradossalmente, proprio quella libertà diventa la miccia del suo annientamento. Nel momento in cui lei sceglie di cambiare, di non voler più essere protagonista dei video pornografici girati dal marito, di cercare un’altra via dopo aver affrontato un aborto, viene punita. Non ha più diritto di esistere come soggetto, ma solo come proiezione del desiderio altrui.

È qui che il film entra pienamente nella dimensione del thriller psicologico. Lelio diventa il suo carceriere emotivo. Un uomo solo, che si riempie di feste e registrazioni, che compra tutto: corpi, oggetti, attenzioni. Un despota sedotto dal proprio potere, che si arricchisce solo nel controllo, ma si impoverisce nella sua umanità. Elena, invece, prova a sottrarsi. Quando incontra un altro uomo, quando capisce cosa vuole davvero dalla vita, sceglie di chiudere con quella relazione. Ma non le è permesso. Perché è Lelio a tenere ancora in mano il copione.

Gli occhi degli altri

Un thriller d’autore

Gli occhi degli altri è un film che funziona proprio per la sua scelta di non affrettare nulla. Restituisce ogni dettaglio, ogni incrinatura, con una pazienza quasi angosciante, fino a un finale che – pur noto – arriva come l’unica conclusione possibile. De Sica lavora per sottrazione, senza retorica, e affida tutto alla forza dei due interpreti. Jasmine Trinca è, come sempre, superba.

Un’attrice solida, mai prevedibile, che non ha paura di esporsi e concedersi. La sua Elena è piena di chiaroscuri, imperfetta ma viva, disperatamente attaccata a un’idea di autodeterminazione che la società (e il marito) non le permettono. Ed è supportata da un partner di tutto rispetto, Filippo Timi, che sa trovare il perfetto equilibrio tra l’essere un uomo di potere con tutto il suo appeal e carsima, e un personaggio disturbato, che scivola nell’abisso del delirio. Tutto con una naturalezza sconvolgente. Ed è proprio per questo che riesce nel suo intento: scuotere chi guarda.

Ronan Day-Lewis: intervista al regista di Anemone

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Ronan Day-Lewis esordisce al cinema con Anemone, un dramma familiare con protagonisti Daniel Day-Lewis e Sean Bean. Lo abbiamo incontrato a Roma, in occasione della presentazione del film ad Alice nella Città 2025, ecco cosa ci ha raccontato del film. Anemone arriva nei cinema italiani dal 6 novembre, distribuito da Universal Pictures.

Leggi la nostra recensione di Anemone

Ambientato nel nord dell’Inghilterra, il film racconta di un uomo che si avventura nei boschi per confrontarsi con il fratello che da anni vive come un eremita, intrappolato in un passato di violenza politica e personale.

Diretto da Ronan Day-Lewis, al suo debutto come regista, da una sceneggiatura scritta insieme al padre Daniel Day-Lewis, che interpreta anche il ruolo principale. Coproduzione tra Regno Unito e Stati Uniti, il film segna il ritorno di Day-Lewis alla recitazione per la prima volta dopo Phantom Thread nel 2017, affiancato da Sean Bean e Samantha Morton nei ruoli secondari. Il film racconta la storia di un solitario tormentato, il cui fratello, da cui si era allontanato, arriva per convincerlo a tornare a casa e ricongiungersi con la sua famiglia.

Left-Handed Girl: recensione del film di Shih-Ching Tsou – #RoFF20

Produttrice di lungo corso per Sean Baker (Anora, Un sogno chiamato Florida) e co-regista di Take Out, Shih-Ching Tsou firma con Left-Handed Girl il suo primo lungometraggio da sola, pur restando in dialogo strettissimo con il sodale: Baker co-scrive e soprattutto monta, imprimendo quel ritmo spinto che conosciamo. Il risultato è un film che porta addosso i tratti “familiari” (sguardo sugli invisibili, precarietà luminosa, bambini come bussola morale) ma che prova a prendersi uno spazio personale, più legato a memorie, cultura e dinamiche di genere del contesto taiwanese. L’accoglienza festivaliera lo conferma: esordio alla Semaine de la Critique di Cannes e percorso internazionale, con l’ulteriore peso specifico della candidatura taiwanese agli Oscar.

Taipei come parco giochi (e campo minato)

Tsou immerge lo spettatore nel ventre dei mercati notturni di Taipei: scooter che sfrecciano, insegne acide, vapore delle cucine, contrattazioni, odori. È un dispositivo sensoriale che fa da habitat alla piccola I-Jing, alla sorella maggiore I-Ann e alla madre Sho-Fen, tornata in città per riaprire una minuscola cantina di street food e rimettere insieme la vita. La regia abbraccia la frenesia urbana e la traduce in messa in scena: macchina spesso in movimento, raccordi rapidi, ellissi che tengono il racconto in corsa. Ne nasce uno slalom tra commedia di sventura, osservazione sociale e melò familiare che, pur con qualche curva brusca, raramente perde aderenza.

La mano sinistra: stigma, gioco, gesto politico

Il titolo non è un vezzo: il nonno impone alla nipote di non usare la mano sinistra – “la mano del diavolo” – e quel rimprovero superstizioso diventa miccia narrativa e simbolica. La “mano che fa da sé” ruba cianfrusaglie, combina guai, a volte salva la situazione; soprattutto, materializza un doppio movimento: il controllo patriarcale che disciplina i corpi femminili fin dall’infanzia e, in risposta, la ribellione capricciosa ma vitalissima di chi rifiuta di farsi correggere. È un’idea semplice e potente, che Tsou declina con umorismo fisico e tenera crudeltà quotidiana, senza tesi martellanti.

Una scena di Left-Handed Girl

Tre generazioni, tre traiettorie

La regista intreccia le linee narrative di tre figure femminile: la nonna con zone d’ombra legate all’immigrazione e ai debiti, la madre Sho-Fen schiacciata dai conti del banco al mercato, la figlia maggiore I-Ann che cerca autonomia in equilibrio precario, e la piccola I-Jing, magnete del racconto. Per 108 minuti l’idea di “romanzo familiare al presente” funziona: i segreti filtrano per indizi, il quartiere diventa rete di sostegno e di conflitto, la città è personaggio. Qualche snodo corre via in fretta, ma l’insieme resta coeso grazie a un disegno chiaro degli archi emotivi e alla costanza di tono tra leggerezza e ferita.

Vitalismo vs. scorciatoie

Quando Left-Handed Girl si affida al gesto e allo spazio – gli inseguimenti in scooter, i corridoi del mercato come labirinto, l’intimità compressa dell’appartamento – trova un respiro suo: il movimento racconta la lotta, la topografia urbana rispecchia gli ostacoli. In pochi passaggi affiora il rischio “facile”: il cute factor della bambina è spinto al massimo e certe catarsi arrivano un attimo prima di quanto sarebbe necessario per farle maturare. Sono scivolate episodiche più che un’impostazione ruffiana: si percepisce il desiderio di Tsou di tenere il pubblico vicino senza tradire i personaggi.

Interpretazioni, sguardo e consistenza visiva

Il trio femminile regge e trascina il racconto: Janel Tsai dà a Sho-Fen una concretezza stanca e combattiva; Shih-Yuan Ma costruisce un’adolescenza non apologetica; la piccola Nina Ye calamita lo sguardo ma, quando la regia le concede tempo, resta personaggio e non mascotte trascinante. Intorno, comprimari affettuosamente tratteggiati (il venditore “angelo custode”, i nonni contraddittori) rendono credibile la micro-comunità del mercato. Sul piano visivo, la fotografia abbraccia un colorismo saturo che potrebbe stancare altrove, qui coerente con l’idea di un mondo “troppo pieno” in cui farsi strada. Il soundscape – clacson, sfrigolii, chiacchiericcio – non è semplice cornice: è drammaturgia.

Il film mette a fuoco il patriarcato per accumulo di gesti: il giudizio sull’essere mancini, i debiti “ereditati”, la sessualizzazione precoce dell’adolescente, i piccoli ricatti economici e affettivi. Tsou preferisce la frizione del quotidiano alla lezione espositiva e, proprio lì, si sente la sua voce distinta dal “marchio Baker”. Quando serve, sa anche colpire con nettezza – una carezza negata, un pasto saltato, uno sguardo del nonno – senza bisogno di sottolineature.

Left-Handed Girl, una scena dal film

Left-Handed Girl è un’opera prima vibrante e generosa: il vitalismo è autentico, la cornice urbana è viva, la metafora della mano sinistra è spina dorsale e bussola. L’editing a caleidoscopio e qualche scorciatoia sentimentale ogni tanto erodono profondità, ma non intaccano la sensazione di un mondo pieno, osservato con empatia e senso del dettaglio. Si esce da questa visione con immagini appiccicate addosso – mercati, scooter, piccole disobbedienze – e con la certezza che Tsou abbia già un tono (o meglio, una mano) chiaramente riconoscibile.

Il Falsario: teaser trailer del nuovo film con Pietro Castellitto in anteprima alla Festa del Cinema di Roma

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Il Falsario, il nuovo film diretto da Stefano Lodovichi con protagonista Pietro Castellitto, verrà presentato questa sera in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, fuori concorso nella sezione Grand Public. Contestualmente all’anteprima, Netflix ha diffuso il teaser trailer del film, che sarà disponibile in streaming dal 23 gennaio 2026.

Prodotto da Cattleya, parte di ITV Studios, Il Falsario è scritto da Sandro Petraglia con la collaborazione di Lorenzo Bagnatori, e tratto dal libro Il Falsario di Stato di Nicola Biondo e Massimo Veneziani. Nel cast, accanto a Pietro Castellitto, troviamo Giulia Michelini, Andrea Arcangeli, Pierluigi Gigante, Aurora Giovinazzo, con Edoardo Pesce e Claudio Santamaria.

Una storia di talento, inganno e destino

Ambientato nella Roma degli anni ’70, Il Falsario racconta la storia di Toni, un giovane pittore che arriva nella Capitale con il sogno di diventare un grande artista. Dotato di un talento naturale e di una fame di vita che lo spinge oltre i limiti, Toni finisce però risucchiato in un mondo di trame oscure, menzogne e segreti di Stato. Il suo dono per la pittura lo porterà a diventare il più grande falsario italiano, figura chiave in alcuni dei misteri più oscuri della storia del Paese.

I crediti del film

Un film Netflix prodotto da Cattleya – parte di ITV Studios. Soggetto di Sandro Petraglia e Lorenzo Bagnatori, sceneggiatura di Sandro Petraglia con la collaborazione di Lorenzo Bagnatori, diretto da Stefano Lodovichi (La stanza, Christian).

Spider-Man: Brand New Day foto dal set rivelano il primo sguardo a Sadie Sink nell’MCU

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Spider-Man: Brand New Day riporterà finalmente Tom Holland nell’universo cinematografico Marvel. Sebbene ci siano solo pochi film MCU in uscita nel 2026, uno dei più attesi del prossimo anno è il quarto film da solista dell’attore, dopo essere stato assente dal franchise dal 2021.

Con le riprese principali ancora in corso, @UnBoxPHD ha dato una prima occhiata a Sadie Sink, mentre è sul set insieme al regista di Spider-Man: Brand New Day, Destin Daniel Cretton. L’immagine mostra la star di Stranger Things avvolta in una felpa beige con cappuccio mentre chiacchiera con il regista.


Holland, che ha ripreso le riprese dopo aver subito una lieve commozione cerebrale il 21 settembre 2025, è stato avvistato mentre girava una scena in costume mentre era sospeso su dei cavi. Sink è entrata a far parte del progetto il 12 marzo 2025.

Sebbene le foto dal set abbiano rivelato la sua prima apparizione sul set, non è chiaro quale ruolo interpreterà l’attrice 23enne nel film, dato che la Marvel Studios e la Sony Pictures hanno mantenuto il riserbo sui dettagli. Ci sono state varie voci su chi potrebbe interpretare, tra cui Jean Grey degli X-Men, dato che è in programma un reboot dei mutanti per la timeline dell’MCU.

In un’intervista con Deadline il 23 maggio 2025, Sink ha mantenuto il riserbo quando le è stato chiesto dei rumors sul personaggio per la Fase 6. Ha dichiarato: “Anch’io vedo molti rumors. È stato davvero bello leggerli. Adoro l’universo Marvel. Insomma, sono rumors fantastici”.

Il cast di Spider-Man: Brand New Day ha aggiunto anche Liza Colón-Zayas e Tramell Tillman in ruoli misteriosi. Marvin Jones III darà vita a Tombstone della Marvel nel film del 2026, dopo aver doppiato il cattivo dei fumetti in Spider-Man: Into the Spider-Verse.

Jon Bernthal farà finalmente il suo debutto cinematografico nell’MCU, riprendendo il ruolo di Frank Castle, alias Punisher, dopo averlo interpretato per anni in Daredevil, Daredevil: Born Again e nella sua serie per Netflix. L’attore avrà anche una presentazione speciale nell’MCU in arrivo nel 2026, anche se Disney+ non ha ancora fissato una data di uscita.

Il film di Holland sarà l’ultimo della Fase 6 prima di Avengers: Doomsday e Avengers: Secret Wars, con il film del 2027 che concluderà The Multiverse Saga, anche se non è chiaro se la star britannica sarà presente in entrambi i progetti. Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

Blood Diamond – Diamanti di sangue, la spiegazione del finale del film con Leonardo DiCaprio

Uscito nel 2006 e diretto da Edward Zwick, Blood Diamond – Diamanti di sangue è un film che unisce l’azione al dramma politico, raccontando le atrocità della guerra civile in Sierra Leone negli anni ’90 e il traffico dei cosiddetti “diamanti insanguinati”, pietre preziose vendute per finanziare i conflitti armati in Africa. Interpretato da Leonardo DiCaprio, Djimon Hounsou e Jennifer Connelly, il film non è solo un thriller avvincente, ma anche una riflessione sulla colpa, sulla redenzione e sul prezzo dell’avidità.

Il finale di Blood Diamond – Diamanti di sangue rappresenta la conclusione emotiva e morale di questo percorso: un momento in cui i personaggi principali si confrontano con la verità delle proprie scelte e con la possibilità – o impossibilità – di salvarsi.

La corsa verso la libertà e la morte di Danny Archer

Nell’atto finale, Danny Archer (Leonardo DiCaprio) e Solomon Vandy (Djimon Hounsou) riescono a recuperare il diamante rosa nascosto dal minatore africano durante la prigionia nei campi dei ribelli. La fuga attraverso le montagne è una delle sequenze più tese del film: i due uomini, un tempo separati da interessi opposti, sono ora uniti da un obiettivo comune – la libertà del figlio di Solomon e la possibilità di un futuro migliore.

Quando Archer viene colpito dai ribelli, comprende che non potrà sopravvivere. In uno dei momenti più iconici del film, consegna il diamante a Solomon e lo aiuta a fuggire in elicottero, accettando di rimanere indietro. Sanguinante, si arrampica su una collina, accende una sigaretta e osserva il paesaggio africano al tramonto. È un addio silenzioso, ma anche una confessione visiva: per la prima volta nella sua vita, Danny Archer agisce per qualcun altro, non per profitto.

Il suo sacrificio rappresenta il compimento di un arco morale complesso. Ex mercenario e trafficante di diamanti, Archer aveva visto l’Africa solo come una fonte di guadagno. Nel finale, invece, trova una forma di redenzione attraverso la solidarietà e la consapevolezza.
La morte, per lui, diventa una liberazione: smette di essere un predatore e si riconcilia con la terra che aveva sfruttato.

Il significato del diamante e il tema della redenzione

Djimon Hounsou in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Il diamante rosa non è soltanto un oggetto di valore, ma un simbolo di corruzione e potere. Tutto il film ruota attorno a esso: è la causa della guerra, del dolore di Solomon e della vita cinica di Archer. Ma nel momento in cui Archer lo consegna all’amico, la pietra cambia significato: non è più un mezzo di sfruttamento, ma di libertà. Quel gesto trasforma il “diamante di sangue” in un diamante di speranza, segno che anche nel cuore della violenza può nascere un atto di giustizia.

L’elemento visivo – il sangue di Archer che macchia la terra – rafforza il messaggio del film: il prezzo della ricchezza è sempre umano. Zwick costruisce questo momento con un linguaggio epico e intimo insieme, alternando il respiro ampio del paesaggio africano e il dettaglio degli occhi di DiCaprio, che per la prima volta esprimono pace.

Il finale e la denuncia del sistema

Jennifer Connelly e Leonardo DiCaprio in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Dopo la morte di Archer, il film mostra Solomon Vandy arrivare a Londra per testimoniare davanti a una commissione internazionale. Porta con sé il diamante, ora prova tangibile dei traffici illegali che finanziano le guerre africane. L’aula è piena di giornalisti, politici e rappresentanti del settore minerario: il suo discorso, semplice ma incisivo, denuncia l’indifferenza dell’Occidente verso le tragedie africane.

Questa sequenza chiude il film su un doppio livello: individuale e collettivo. Sul piano personale, Solomon ottiene giustizia e riabbraccia il figlio, riscattando la propria umanità. Sul piano politico, Blood Diamond – Diamanti di sangue invita lo spettatore a riflettere sul costo etico del lusso. Il diamante, oggetto di desiderio universale, diventa simbolo di complicità globale: chi lo compra senza sapere da dove proviene partecipa, indirettamente, al ciclo di violenza che lo ha generato.

Un epilogo di speranza e consapevolezza

Jennifer Connelly e Djimon Hounsou in Blood Diamond - Diamanti di sangue (2006)
Foto di Jaap Buitendijk – © 2006 Warner Bros. Entertainment Inc.& Virtual Studios

Il film si chiude con un applauso della sala dopo la testimonianza di Solomon. È un momento di catarsi collettiva, ma anche una domanda aperta: cosa cambierà davvero? Zwick non offre risposte consolatorie. L’applauso non cancella il sistema di sfruttamento, ma segna un punto di svolta simbolico. Il sacrificio di Archer e il coraggio di Solomon rappresentano due forme di resistenza: una personale, l’altra civile.

Il titolo stesso, Blood Diamond – Diamanti di sangue, rimane un monito: dietro ogni oggetto di bellezza può nascondersi una storia di sangue. Il finale, dunque, non è un lieto fine ma un invito alla consapevolezza – quella che trasforma la denuncia in memoria e la memoria in responsabilità.

Nel suo ultimo sguardo sull’Africa, Danny Archer ritrova ciò che aveva dimenticato: un legame umano. E in quell’istante di quiete, mentre la terra assorbe il suo sangue, Blood Diamond trova la sua verità più semplice e universale: la redenzione non cancella il passato, ma gli dà finalmente un senso.

Hood Witch – Roqya, la spiegazione del finale del film di Saïd Belktibia

Nel finale di Hood Witch – Roqya di Saïd Belktibia, la tensione spirituale e sociale che attraversa tutto il film raggiunge il suo culmine. Dopo aver tentato di riscattarsi grazie alla sua app Baraka, creata per connettere i guaritori spirituali con chi cerca aiuto, Nour si ritrova intrappolata in un meccanismo che non controlla più. La promessa di redenzione e di equilibrio che aveva motivato la sua impresa si trasforma in un incubo morale.

La pellicola, interpretata magistralmente da Golshifteh Farahani, non si conclude con una vittoria o una sconfitta, ma con una presa di coscienza: la protagonista scopre che il potere della roqya — la pratica di esorcismo e guarigione coranica — non è solo un atto spirituale, ma un riflesso delle paure, delle fragilità e delle contraddizioni di chi vi si affida.

Come abbiamo raccontato nell’approfondimento dedicato alla storia vera di Hood Witch – Roqya, il film non si basa su fatti realmente accaduti, ma affonda le sue radici nella realtà sociale delle periferie francesi e nell’uso contemporaneo della spiritualità come via di sopravvivenza. È proprio questo legame con la realtà a rendere il finale così potente: anche se fittizia, la storia di Nour parla di vite autentiche e di dilemmi universali.

La discesa di Nour: dal desiderio di salvezza all’illusione del potere

Nel corso del film, Nour passa dall’essere una piccola contrabbandiera a una sorta di “intermediaria spirituale” digitale. L’app Baraka, nata con buone intenzioni, diventa presto un mercato ambiguo dove fede e profitto si confondono. Il suo successo attira attenzione, denaro, ma anche oscurità. Nour inizia a perdere il controllo del progetto e di sé stessa, mentre intorno a lei cresce un clima di sospetto e paura.

Il finale mostra questa trasformazione come una discesa interiore. Nour non è più soltanto un’imprenditrice o una truffatrice: è una donna che, cercando la guarigione per sé e per gli altri, finisce per diventare vittima del sistema che ha creato. La roqya, che nel film rappresenta la speranza di purificazione, si ribalta nel suo contrario: un rituale di potere e dominio che consuma chi lo pratica.

Belktibia costruisce la scena conclusiva come un rito speculare al titolo: Hood Witch — la “strega della periferia” – non è una figura demoniaca, ma un simbolo della distorsione contemporanea della spiritualità. Nour, che voleva solo riscattarsi, finisce prigioniera della stessa logica che aveva voluto combattere: quella che trasforma la fede in merce e la sofferenza in occasione di guadagno.

Il significato simbolico della “guarigione”

Nell’ultima parte del film, la roqya diventa un concetto ambivalente. Da un lato, è il rito di liberazione dal male, dall’altro rappresenta la tentazione di controllare la fede per trarne vantaggio. Nour comprende troppo tardi che nessuna formula o applicazione può davvero curare l’anima se alla base non c’è empatia.

Quando la vediamo affrontare il fallimento e la perdita, il film suggerisce che la vera roqya non è quella recitata con parole sacre, ma quella che nasce dal riconoscere i propri errori e accettare la vulnerabilità. La protagonista, svuotata e lucida allo stesso tempo, guarda il proprio riflesso: non c’è più magia, solo umanità. È una guarigione simbolica, ottenuta attraverso il dolore e la presa di coscienza.

Un finale aperto, sospeso tra fede e disillusione

Il film si chiude con un’immagine ambigua e potente: Nour si allontana, lasciandosi alle spalle l’app, i guaritori e il mondo che aveva costruito. Non c’è redenzione completa, ma neppure condanna. Belktibia sceglie un finale aperto, dove la protagonista resta sospesa tra due mondi – quello della spiritualità che promette salvezza e quello della realtà che chiede responsabilità.

La luce fioca, i colori freddi e il ritmo lento dell’ultima sequenza rimandano a una sensazione di sospensione, come se la roqya non fosse finita ma avesse cambiato forma. Nour ha perso tutto, ma ha anche ritrovato se stessa: non più mediatrice di miracoli, ma donna consapevole del proprio limite.

Il messaggio del film: fede, potere e sopravvivenza

Il finale di Hood Witch – Roqya riassume la visione del regista: la spiritualità non è mai neutra, ma riflette le tensioni del mondo moderno. In una società dove la religione si mescola con la tecnologia, la fede rischia di diventare uno strumento di potere anziché una via di liberazione.

Belktibia non giudica, ma invita lo spettatore a porsi una domanda: dove finisce la fede autentica e dove inizia l’illusione del controllo? Attraverso il destino di Nour, il film mostra che la vera magia non è quella della roqya, ma quella — più fragile e reale — di chi riesce a perdonare sé stesso e a ricominciare.

Hood Witch – Roqya: il film è tratto da una storia vera?

Uscito in Francia nel 2023, Hood Witch – Roqya è un film d’azione e dramma diretto da Saïd Belktibia con protagonista Golshifteh Farahani, affiancata da Amine Zariouhi e Jérémy Ferrari. La pellicola, della durata di 95 minuti, racconta una vicenda ambientata nella periferia parigina contemporanea, dove il desiderio di riscatto e le credenze spirituali si intrecciano in modo inedito. Ma la storia di Hood Witch è realmente accaduta o è frutto della fantasia del suo autore?

Un racconto di finzione radicato nella realtà sociale

Hood Witch – Roqya non è basato su una storia vera, ma trae ispirazione da un contesto autentico e riconoscibile: quello delle comunità immigrate francesi e del crescente interesse per la roqya, una pratica di guarigione spirituale di origine islamica. Il film racconta la storia di Nour, una giovane contrabbandiera che cerca di dare una svolta alla propria vita creando un’app, Baraka, pensata per mettere in contatto chi cerca aiuto spirituale con guaritori tradizionali. L’idea di fondo — la mercificazione della fede e il business della spiritualità — nasce da fenomeni reali osservati in Europa e nel Maghreb, dove le pratiche di esorcismo e guarigione religiosa convivono con la modernità digitale.

Saïd Belktibia, regista e sceneggiatore, costruisce una storia di finzione ma profondamente ancorata al presente, in cui il linguaggio tecnologico incontra la superstizione, e la ricerca di salvezza diventa metafora del disagio urbano e identitario.

Cosa significa “Roqya” e perché è centrale nel film

Il termine roqya (in arabo “recitazione” o “incantesimo”) si riferisce a un rito di purificazione spirituale praticato in molte comunità musulmane, in cui si recitano versetti del Corano per allontanare influssi negativi, tra cui il malocchio o la possessione.
Nel film, questa pratica assume una dimensione narrativa e simbolica: Roqya diventa il punto di contatto tra fede e business, tra desiderio di autenticità e sfruttamento economico del sacro.

Attraverso la figura di Nour, interpretata da Golshifteh Farahani con grande intensità, Belktibia esplora il confine sottile tra guarigione e manipolazione, spiritualità e potere. L’app “Baraka”, che all’inizio sembra un mezzo per aiutare le persone, finisce per trasformarsi in una rete di interessi e rischi che mette in crisi l’etica della protagonista, spingendola a interrogarsi su cosa significhi davvero “aiutare gli altri”.

Il contesto culturale e la critica sociale

Anche se non racconta un fatto realmente accaduto, Hood Witch – Roqya rispecchia dinamiche molto attuali della società francese contemporanea. Belktibia ambienta il film in una banlieue multiculturale, dove la precarietà economica e la perdita di punti di riferimento generano nuove forme di spiritualità “ibrida”. Il regista osserva senza giudicare, mostrando come la fede, la tecnologia e la disperazione possano intrecciarsi fino a creare nuove forme di dipendenza o di salvezza collettiva.

L’uso dell’azione e del ritmo da thriller non serve solo a intrattenere, ma a esprimere la tensione costante tra modernità e tradizione, tra laicità e credenze religiose.
In questo senso, Hood Witch – Roqya è una storia di finzione, ma anche un ritratto sociologico realistico, capace di far emergere le contraddizioni della Francia post-coloniale e delle sue periferie invisibili.

Finzione e verità emotiva

Pur non essendo tratto da una vicenda vera, il film di Saïd Belktibia si fonda su una verità emotiva e collettiva: quella di chi cerca redenzione, riscatto o semplicemente un senso di appartenenza. Come ha dichiarato il regista in più interviste, il personaggio di Nour nasce dall’osservazione di persone reali che vivono ai margini del sistema, costrette a reinventarsi tra spiritualità, truffa e sopravvivenza.

Hood Witch – Roqya non documenta un fatto di cronaca, ma fotografa una condizione umana contemporanea: quella di chi, in un mondo frammentato, tenta di ricomporre la propria identità tra fede, tecnologia e desiderio di salvezza. Ed è proprio in questa tensione tra realtà e invenzione che il film trova la sua forza più autentica.