Dopo Eternity’s
Gate di Schnabel, a Venezia si riflette ancora sul
concetto di arte ne film di Florian Henckel von
Donnersmarck Werk ohne Autor (Opere senza autore),
presentato in concorso.
È la storia di Kurt, dalla sua
infanzia, durante la Seconda Guerra mondiale, fino alla metà degli
anni Sessanta. Trent’anni di vita, di traversie e di ricerca
interiore ed espressiva, passando per i vari cambiamenti epocali
che hanno caratterizzato quell’intenso e burrascoso periodo della
storia del ventesimo secolo. Vengono attraversate tre epoche
distinte della storia tedesca: il nazismo, l’occupazione sovietica
post-guerra e la divisione tra le due Germanie.
Kurt,fin da bambino appassionato al
disegno e alla pittura, diviene uno studente all’Accademia di Belle
arti, dove si innamora di Ellie, studentessa del corso di moda. Il
severo padre della ragazza, il professor Seeband, rinomato medico,
specializzato in ginecologia e ostetricia, disapprova però l’amore
sbocciato tra i due ragazzi e ordisce un orribile sistema per
mettere fine alla loro relazione. Ma Kurt ed Ellie non possono
minimamente immaginare quale terribile passato giace sepolto e
minaccia nell’ombra la loro ricerca di serenità, ovvero un orrendo
crimine di guerra compiuto dal professor Seeband, durante la messa
in atto delle deliranti politiche di Hitler.
Parallelamente alla storia di Kurt
e attraverso i suoi occhi si assiste al faticoso cammino dell’arte
del ventesimo secolo, imbrigliata dalla politica, dall’ideologia e
dalla follia della guerra; dalle avanguardie storiche del
novecento, in particolare l’espressionismo tedesco, passando poi
per le arti al servizio dei regimi, fino ad arrivare alla catartica
liberazione delle idee e dell’espressività esplosa negli anni
Sessanta.
Florian Henckel von
Donnersmarck realizza un affresco potente, intrigante,
velato di mistero e portatore di un messaggio crudele, raccontando
tre decenni della storia tedesca attraverso personaggi chiave,
costretti continuamente a adattarsi e a trasformarsi per
sopravvivere agli ineluttabili cambiamenti imposti dalla guerra e
dalla successiva occupazione da parte dei vincitori. Il regista
aveva già sapientemente affrontato un periodo della sua Germania,
con lo struggente e indimenticabile Le vite degli altri (2006),
ambientato durante gli anni del Muro di Berlino, ma qui va ancora
più indietro, addentrandosi nella oscura ascesa del nazismo, pur
mantenendo un’ampia parte della vicenda il quel contesto storico a
lui caro e congeniale narrativamente.
Von Donnersmarck affronta il tema
del controllo genetico della razza ariana, mostrando in maniera
spietata come anche sui cittadini tedeschi fosse operata una
spietata selezione, in base allo stato di salute, mentale o alle
tare genetiche. Ed è agghiacciante vedere come una giovane ragazza
ritenuta schizofrenica viene prima sterilizzata e poi soppressa,
per impedire alla razza perfetta di acquisire eventuali eredità
sgradite. Il film si muove attorno a questo doloroso abominio,
caricando le spalle del giovane protagonista, il bravissimo Tom
Schilling, di un pesante fardello e di un intricato enigma che
dovrà sbrogliare dolorosamente, al fianco della sua compagna,
interpretata dalla convincente Paula Beer, parallelamente alla sua
spasmodica e dolorosa ricerca come artista. Per spiegare il
tormentato percorso di Karl, Florian Henckel von
Donnersmarck si appropria di una frase di Elia Kazan:
“Il talento dei geni è la crosta sulle ferite ricevute nella
loro infanzia. Ciò significa che gli esseri umani hanno una
capacità quasi alchemica di trasformare un trauma in qualcosa di
glorioso.”
Il discorso operato attorno
all’arte e alle sue trasformazioni è forse l’elemento più originale
dell’opera di Florian Henckel von Donnersmarck. Si
inizia con un’esposizione a Dresda sulla pittura degenerata, dove
sono esposti e derisi i capolavori di Grotz, Dix, Kandisky, Picasso
e tanti altri, passando poi per la pittura utilizzata a mero
consumo dell’ideologia, prima nazista e poi comunista, che diviene
così freddo mestiere, per arrivare alla necessaria rottura
liberatoria e alla ricerca libera, istintiva, lontana dalla tecnica
e da qualsiasi finalizzazione. Si giunge fino a quell’opera senza
autore che darà una risposta e un punto di arrivo al cammino
faticoso e irto di insidie percorso dal protagonista.
Opera senza autore
è una storia potente, struggente, crudele, a tratti scabrosa, che
costringe a ricordare un passato apparentemente lontano, ma
purtroppo ancora così attuale. Costringe a riflettere profondamente
sul concetto di arte, di come questa dovrebbe essere totalmente
libera, ma invece continuamente soggiogata dall’ottusità di chi ha
l’ardire di imporsi sugli altri.