In Un giorno devi
andare Augusta è una donna di trent’anni a cui il destino
scompagina le carte della vita. Fugge dal Trentino per allontanarsi
da un dolore che non sa gestire e decide di perdersi, o forse anche
ritrovarsi, nell’Amazzonia, terreno accogliente e ostile allo
stesso tempo. Inizia seguendo la strada con suor Franca, ma non
trovando nulla di ciò che stava cercando nel percorso con lei,
decide di prendere un’altra strada, verso altri incontri.
Un giorno devi andare,
Pro
Un giorno devi
andare è una frase che spesso ci si dice, riferendosi
a luoghi da vedere ma forse anche riferendosi a ciò che da quei
luoghi ci si aspetta di provare. Questo è il percorso di Augusta,
che non sa come affrontare il dolore che l’ha sommersa in Italia,
nel rigore della neve del Trentino, ma che forse il Brasile
dell’entroterra, delle comunità indios, genuine e spontanee, che,
nonostante anni, secoli di missioni cattoliche, riescono ancora a
tenersi legate alle proprie tradizioni e soprattutto non perdono la
semplicità delle relazioni.
Le piccole comunità sono ancora una
volta al centro del racconto del film di Giorgio
Diritti che esordì alcuni anni fa con Il vento
fa il suo giro storia di una comunità alpina
piemontese che parla ancora la lingua occitana che veniva “invasa”
da una famiglia di francesi, poi ha confermato il suo talento con
“L’uomo che verrà” sulla guerra vista da un piccolo paese della
provincia italiana. La difficoltà della comunicazione data dalla
lingua diversa impone un linguaggio diverso, gestuale o emozionale,
che possa scavalcare i confini della linguistica.
La spinta ad andare in Brasile
risale a molti anni fa, quando il regista andò negli stessi luoghi
in cui è ambientata la storia per realizzare un documentario,
spinto da un dolore che lo aveva appena colpito, così come accade
alla protagonista; e la struttura del film si basa a grandi linee
sulla storia di un missionario gesuita, Augusto.
La cura per le inquadrature,
magnifiche, anche facilmente data l’imponenza del luogo sono anche
piene di significato, la natura è suprema rispetto all’uomo e alle
sue avventure quotidiane, la pienezza dei colori che caratterizzano
le scene girate in Brasile contrasta con il grigiore, invernale, ma
anche imposto dalla fotografia di Roberto Cimatti,
che amplifica il contrasto tra la vita trattenuta che sembrano
condurre la madre e la nonna, obbligate tra messe e preghiere, con
la spontaneità e normalità della vita nelle palafitte.
Un ruolo importante per
Jasmine Trinca che interpreta una madre che è
tale anche senza figli, una ricerca di sé al di fuori degli schemi
e delle linee guida che ci vengono comunicate dalla nascita dalla
nostra società di partenza.
Il film esce nelle sale il prossimo
27 Marzo in 100 copie, anticipato da una diretta via satellite da
Milano in cui Gianni Canova intervisterà regista e protagonisti
prima della proiezione del film.
di Alice Vivona
Un giorno devi andare,
Contro

Un giorno devi andare
è l’ultimo film di Giorgio Diritti, in sala a
partire dal 28 marzo. Il titolo è già tutto un programma e si
presta, dopo solo un terzo di visione, a fungere da proposizione
principale di un quesito: “Un giorno devi andare, ma a parare
dove?”.
Perché con tutta la buona volontà e
il rispetto per il lavoro altrui, si stenta a comprendere ed
afferrare il senso di questa operazione, spacciata per
antropologica e sociale, nonché ad alto livello emozionale; quando
siamo di fronte a un collage, peraltro fabbricato male, di
dialoghi, luoghi, persone e storie, che trovano ragion d’essere
unicamente come soggetti naturalistici, incorniciati in splendide
fotografie.
Per tutta la durata non si crea
alcun tipo di connessione motivata -figurarsi empatica – tra la
protagonista della vicenda, Augusta (Jasmine Trinca), e i personaggi che
incontra nel corso di un presunto viaggio spirituale, tra le terre
selvagge dell’Amazzonia, e che necessita della presenza di una
suora missionaria per descrivercelo come tale.
Provata da una dolorosa esperienza
sentimentale, terminata con la scoperta di non poter avere figli,
Augusta decide di abbandonare le sue deboli certezze e di partire:
non tanto per affrontare le sue pene o ritrovare un legame biblico
con la natura ma, come ci tiene a precisare su un diario (non si sa
mai lo spettatore fraintendesse il tutto con il mito-cliché del
buon selvaggio), in cerca di valori nuovi di cui -non ci si illuda-
non troveremo traccia in alcun dove e in alcun chi.
Non perché i villaggi indios siano
minacciati dall’imperialismo occidentale; né tantomeno perché
(anche lì) la povertà inneschi reazioni atroci e immorali come
vendere un bambino altrui. Semplicemente per la scelta narrativa
(inspiegabile) del regista, di disperdere il fulcro del racconto
-Augusta, la sua crisi e il suo percorso- fra inserti
dedicati alla madre e alla nonna che, tra le loro mura domestiche
in Trentino, aspettano con ansia e nervosismo un cenno di vita
dalla “fuggitiva”, che tarda (sempre inspiegabilmente) ad
arrivare.
Così ogni qual volta si
materializza nelle attese dello spettatore un’immagine, uno spunto
potenzialmente interessante e meritevole di essere trattato, sia
esso il tema religioso, l’integrazione in una comunità altra,
l’amore con un nativo, o il rapporto mancato con la maternità,
interviene puntuale un brusco stacco di montaggio che, al di fuori
di qualsiasi logica consequenziale o concettuale, sposta lo sguardo
in Italia, sul circolo ricreativo di suore, a base di biscotti e di
cucito; oppure sui residui familiari: concentrato di tristezza e di
passività.
Tocca quasi rimpiangere un
Mangia, Prega, Ama quando almeno, fra uno
stereotipo ed un altro (onestamente dichiarato nell’intitolazione),
il personaggio di
Julia Roberts persegue il cambiamento: se non altro
quello della taglia, a furia di mangiare spaghetti al pomodoro e
bere Chianti. Qui invece “il vento non fa il suo giro”, e tutto
resta uguale, fermo, tanto nello schermo quanto nella mente di chi
vede.
di Maria Gentile