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Crime 101 – La Strada del Crimine: il trailer del nuovo film con Chris Hemsworth

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L’avvincente ed elegante thriller Crime 101 – La Strada del Crimine racconta la storia di Davis (Chris Hemsworth), un ladro sfuggente le cui rapine magistralmente pianificate hanno da tempo lasciato la polizia senza indizi.

Davis sta organizzando il colpo più ambizioso della sua carriera — quello che spera possa essere l’ultimo — quando il suo cammino si incrocia con quello di Sharon (Halle Berry), una disillusa assicuratrice con cui è costretto a collaborare, e di Orman (Barry Keoghan), un rivale dai metodi molto più pericolosi.

Con l’avvicinarsi del furto multimilionario, l’inarrestabile tenente Lubesnik (Mark Ruffalo) si avvicina alla verità, facendo crescere la tensione e rendendo sempre più sottile il confine tra cacciatore e preda. Ognuno dei protagonisti dovrà confrontarsi con il prezzo delle proprie scelte — e con la consapevolezza di essere ormai oltre il punto di non ritorno.

Crime 101 – La Strada del Crimine è scritto e diretto da Bart Layton (American Animals, L’impostore – The Imposter). Arriva al cinema il 12 febbraio distribuito da Universal Pictures.

Il poster di Crime 101 – La Strada del Crimine

Carolina Crescentini presenta Mrs. Playmen sul red carpet della Festa del Cinema di Roma

Carolina Crescentini protagonista del red carpet della Festa del Cinema di Roma 2025 per portare al festival Mrs. Playmen, la serie Netflix che è ispirata alla storia vera di Adelina Tattilo, editrice della più nota rivista erotica italiana, Playmen. I primi due episodi della serie, che sarà disponibile solo su Netflix dal 12 novembre

Leggi la nostra recensione dei primi episodi di Mrs. Playmen

A interpretare la protagonista è Carolina Crescentini, nei panni di Adelina Tattilo, una donna che negli anni ’70 seppe trasformare la provocazione in cultura e la sensualità in un atto politico. Accanto a lei un cast corale composto da Filippo Nigro (Chartroux), Giuseppe Maggio (Luigi Poggi), Francesca Colucci (Elsa), Domenico Diele (Andrea De Cesari), Francesco Colella (Saro Balsamo), Lidia Vitale (Lella) e Giampiero Judica (Don Rocco).

La serie è diretta da Riccardo Donna e scritta da Mario Ruggeri, head writer, insieme agli autori Eleonora Cimpanelli, Chiara Laudani, Sergio Leszczynski e Alessandro Sermoneta.

Mrs Playmen racconta la storia di una donna straordinaria, cattolica e anticonformista, capace di sfidare la morale e il maschilismo della Roma conservatrice degli anni ’70. Adelina Tattilo, direttrice della prima rivista erotica italiana, fu una forza rivoluzionaria in un Paese ancora ancorato ai tabù. Mentre l’Italia discuteva di divorzio, aborto e libertà sessuale, lei guidava un impero editoriale al femminile, trasformando Playmen in un laboratorio di modernità, stile e provocazione.

Quando il marito Saro Balsamo la abbandona, lasciandola sola e sommersa dai debiti, Adelina decide di non arrendersi. Reinventa la rivista, la rende sofisticata e internazionale, e costruisce attorno a sé un gruppo di intellettuali e creativi visionari. Numero dopo numero, Mrs Playmen racconta la nascita di un nuovo immaginario e di una rivoluzione culturale e di costume destinata a cambiare per sempre la società italiana.

Prodotta da Aurora TV per Netflix, la serie mescola dramma biografico, costume e ironia, restituendo il ritratto di una donna che seppe incarnare le contraddizioni del suo tempo: credente e ribelle, madre e imprenditrice, icona e bersaglio dello scandalo.

Con il suo sguardo elegante e provocatorio, Mrs Playmen non celebra solo la nascita di una rivista, ma il coraggio di una generazione di donne che, come Adelina Tattilo, hanno avuto la forza di dire: “siamo qui, e non abbiamo più intenzione di stare zitte.”

Paternal Leave approda su SKY e NOW

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Paternal Leave approda su SKY e NOW

Sky Cinema presenta in prima TV PATERNAL LEAVE, il film scritto e diretto da Alissa Jung con Luca Marinelli, in arrivo domani, venerdì 24 ottobre, alle 21:15 su Sky Cinema Uno, in streaming su NOW e disponibile on demand.

Realizzato da The Match Factory e Wildside (società del gruppo Fremantle), in collaborazione con Vision Distribution, Rai Cinema e Sky, PATERNAL LEAVE segna il debutto nel lungometraggio della regista e sceneggiatrice tedesca Alissa Jung, capace di raccontare con delicatezza e profondità il tema della genitorialità e dei legami familiari.

Al centro del film, l’incontro tra un padre e una figlia che non si sono mai conosciuti: due vite lontane che si ritrovano per caso — o per destino — e che, nel tempo sospeso di una spiaggia invernale, imparano a riconoscersi e a fare spazio l’uno all’altra.

Nel ruolo di Paolo, Luca Marinelli offre un’interpretazione intensa e misurata, confermando la sua straordinaria sensibilità nel dare voce alle fragilità umane, accanto alla sorprendente Juli Grabenhenrich, nel suo primo ruolo da protagonista.

La trama del film

Leo ha 15 anni ed è cresciuta in Germania senza mai conoscere suo padre. Quando scopre la sua identità, decide di mettersi in viaggio per trovarlo e arriva su una spiaggia deserta della costa italiana, in un chiosco chiuso per l’inverno. Lì incontra Paolo, che resta spiazzato dal suo arrivo improvviso.

L’incontro lo destabilizza, riaprendo ferite sopite e mettendo in discussione il fragile equilibrio della sua nuova famiglia. In un primo momento, Leo cerca solo risposte, ma presto il desiderio di appartenenza prende il sopravvento. Nei giorni che seguono, tra padre e figlia si crea un legame fatto di esitazioni e piccoli passi, ma la loro connessione, ancora fragile, viene presto messa alla prova. Di fronte alle ombre del passato e alle incertezze del presente, entrambi saranno costretti a ridefinire ciò che significa davvero essere parte della vita dell’altro.

The Toxic Avenger: il cult Troma torna in versione moderna con Peter Dinklage e Kevin Bacon

Per la sezione Grand Public della 20ª Festa del Cinema di Roma sarà presentato questa sera alle 21:45 presso la Sala Petrassi The Toxic Avenger, il nuovo film di Macon Blair che riporta sul grande schermo uno dei personaggi più iconici e assurdi del cinema underground americano.

Negli anni ’80, il nome “Troma” era sinonimo di film esagerati, politicamente scorretti e orgogliosamente low budget. Fondata a New York nel 1974 da Lloyd Kaufman e Michael Herz, la compagnia indipendente rivoluzionò la cultura pop dell’epoca realizzando pellicole talmente folli e violente da diventare oggetto di culto. Il titolo che consacrò definitivamente la casa di produzione fu proprio The Toxic Avenger del 1985, una parodia sanguinolenta e irriverente dei film di supereroi che trasformava un timido bidello in un mostro radioattivo pronto a vendicarsi della corruzione e dell’inquinamento della sua città.

Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, il Vendicatore Tossico è tornato in una nuova veste. Diretto da Macon Blair, attore e regista noto per I Don’t Feel at Home in This World Anymore e collaboratore di Jeremy Saulnier, il film conserva l’ironia corrosiva e il gusto per l’eccesso tipici della Troma, ma li combina con una produzione di più alto profilo. Nel cast spiccano Peter Dinklage, protagonista nei panni del mostruoso ma eroico Toxie, e due antagonisti d’eccezione: Kevin Bacon ed Elijah Wood, che interpretano con gusto grottesco i villain del film.

The Toxic Avenger si presenta come un omaggio al cinema exploitation e al tempo stesso una riflessione satirica sulla società contemporanea, aggiornata ai linguaggi del blockbuster moderno ma fedele allo spirito anarchico dell’originale. Sangue, umorismo nero e critica ambientale si fondono in un film che promette di divertire gli appassionati e incuriosire le nuove generazioni di spettatori, confermando che — anche nel 2025 — il cinema più “sporco” può ancora dire la sua.

I Love Lucca Comics & Games: recensione della lettera d’amore di Manlio Castagna alla comunità nerd – #RoFF20

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Con I Love Lucca Comics & Games, il regista e scrittore Manlio Castagna firma un documentario che è, prima di tutto, una dichiarazione d’amore. Un film che non si limita a raccontare una manifestazione, ma che si fa voce di una comunità viva, pulsante, innamorata del proprio mondo e del modo in cui, ogni anno, lo celebra nella città toscana. Presentato alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione FreeStyle Arts, dove abbiamo avuto modo di vederlo in anteprima, e destinato a un’uscita evento nelle sale italiane il 10, 11 e 12 novembre 2025, il documentario prodotto da I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection non è un semplice dietro le quinte: è un viaggio nell’anima di uno dei più grandi eventi dedicati alla cultura pop al mondo.

Con oltre 300.000 visitatori, 900 ospiti e 600 espositori, Lucca Comics & Games è ormai da decenni un punto di riferimento per chi ama fumetti, videogiochi, cinema, cosplay e narrazione in tutte le sue forme. Ma il film di Castagna riesce nell’impresa più difficile: mostrare la magia dietro i numeri, raccontare cosa rende davvero speciale quell’esperienza condivisa che ogni autunno trasforma Lucca in un palcoscenico a cielo aperto. Non è la cronaca di un evento: è il racconto corale di un’appartenenza.

I Love Lucca Comics & Games è un viaggio nel cuore della fiera

Cortesia I Wonder Pictures

Castagna costruisce la narrazione come un mandala cinematografico (ma anche reale), un disegno composto da frammenti diversi che, una volta completato, viene distrutto per rivelare la sua natura effimera. Così è Lucca, e così è il suo film. Ogni intervista, ogni volto, ogni storia contribuisce a delineare un universo che vive nell’incontro e nella condivisione, ma che, come il mandala, si ricrea ogni anno da capo, sempre diverso, sempre uguale a se stesso.

Nel documentario si alternano le voci di autori, editori, musicisti e fumettisti che hanno segnato la storia della cultura pop: da Gabriele Mainetti a R.L. Stine, da Licia Troisi a Frankie hi-nrg mc, fino ai talenti del fumetto come Pera Toons, Sio, Fumettibrutti e Yoshitaka Amano. Ma la vera anima del film sono i fan, i visitatori che ogni anno percorrono chilometri per essere lì, travestiti, sorridenti, emozionati.

Attraverso di loro, I Love Lucca Comics & Games trova la propria verità più autentica. Le loro testimonianze, raccolte con uno sguardo empatico e mai invadente, diventano il cuore pulsante del racconto: la dimostrazione che, dietro ogni costume, ogni maschera, si nasconde un desiderio di appartenenza, di espressione, di libertà. Castagna li osserva con delicatezza, come se volesse proteggerli dal rumore del mondo, ricordandoci che dietro il fenomeno culturale c’è sempre l’essere umano, con la sua fragilità e la sua forza.

La costruzione di un mondo: estetica, ritmo e simboli

Dal punto di vista formale, Castagna firma un’opera che alterna energia e intimità, colore e introspezione. Le immagini di Lucca invasa dai cosplayer, dalle parate e dai padiglioni gremiti si mescolano a momenti più quieti, dove la macchina da presa indugia sui dettagli: una mano che sistema una maschera, uno sguardo che si incrocia, un sorriso che esplode improvviso. La fotografia, vivida e dinamica, restituisce il senso di meraviglia che accompagna chi varca le mura della città nei giorni della fiera.

L’uso della musica — calibrato ma coinvolgente — accompagna le testimonianze in modo quasi sinfonico, mentre il montaggio costruisce un ritmo emotivo che alterna l’entusiasmo collettivo alla riflessione personale. Tutto concorre a creare un’esperienza che non vuole spiegare Lucca, ma farla sentire.

La metafora del mandala, esplicitata nella parte finale del film, si rivela la chiave interpretativa più potente. Quando il disegno, pazientemente composto, viene infine distrutto, Castagna ci ricorda che la bellezza di Lucca Comics & Games risiede proprio nella sua impermanenza: nel fatto che ogni anno muore per rinascere, ogni volta diversa, ogni volta attesa e cercata. È un gesto poetico che trasforma il documentario in un atto di fede collettiva, un rito di passaggio che celebra la fine solo per annunciare un nuovo inizio.

Cortesia I Wonder Pictures

Tra nostalgia e cambiamento: un atto d’amore (forse) fuori tempo

Eppure, dietro l’entusiasmo e la meraviglia, I Love Lucca Comics & Games nasconde anche una riflessione più sottile e malinconica. Il film si interroga, forse senza volerlo, su come sia cambiata la percezione della cultura nerd nel tempo. C’è stato un periodo in cui chi amava fumetti, giochi di ruolo o manga era considerato un outsider, un emarginato. Oggi, invece, il nerd è diventato mainstream, cool, celebrato.

Castagna accenna a questa trasformazione, ma lo fa con pudore, quasi senza voler incrinare la purezza del suo racconto. Eppure il dubbio rimane: se la fiera di Lucca continua a essere fedele a se stessa, è cambiato l’occhio di chi la osserva? Forse sì. E in questo, il documentario potrebbe sembrare leggermente “in ritardo” sui tempi, una celebrazione che arriva quando ormai la battaglia per la legittimazione della cultura pop è stata vinta. Ma anche questo fa parte del suo fascino: la sincerità con cui guarda a un mondo che ha amato per decenni e che ora, inevitabilmente, deve fare i conti con la propria maturità.

Nel suo insieme, I Love Lucca Comics & Games è un film di luce e memoria, un racconto che emoziona e che invita lo spettatore a riscoprire l’importanza della gentilezza, dell’accoglienza, della creatività condivisa. È un inno all’immaginazione come collante sociale, ma anche un promemoria sul valore della comunità in un tempo in cui tutto sembra frammentato.

Emanuele Vietina, I Love Lucca Comics & Games – Cortesia di I Wonder Pictures

Quando, sullo schermo, l’ultimo granello del mandala viene spazzato via, resta una sensazione dolce e potente: quella di aver partecipato, anche solo per un’ora e mezza, a qualcosa di irripetibile. E come Lucca stessa, che ogni anno muore e rinasce tra le mura e i sorrisi dei suoi visitatori, anche il film di Castagna lascia dietro di sé un segno luminoso. Non solo un documentario, ma un atto di gratitudine verso chi, in un mondo che spesso non comprende, continua a credere nella magia delle storie.

Pirati dei Caraibi: Bill Nighy aperto al ritorno di Devy Jones

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Pirati dei Caraibi: Bill Nighy aperto al ritorno di Devy Jones

Mentre il franchise da 4,5 miliardi di dollari di Pirati dei Caraibi sembra lentamente tornare alla ribalta, Bill Nighy si dice pronto a tornare nei panni di Davy Jones. Introdotto nel sequel del 2006, La maledizione del forziere fantasma, Nighy ha interpretato il famigerato pirata diventato entità soprannaturale per due film, agendo come antagonista principale mentre dava la caccia a Jack Sparrow, interpretato da Johnny Depp, per concludere un accordo che avrebbe reso Sparrow parte dell’equipaggio ultraterreno dell’Olandese Volante.

Lo sviluppo del sesto film della serie Pirati dei Caraibi ha poi subito diverse modifiche dal 2017, anno di uscita di La vendetta di Salazar, passando da uno spin-off con Margot Robbie a un vero e proprio sequel incentrato sul personaggio di Depp. Quest’ultimo si è rivelato più difficile da realizzare a causa della famigerata battaglia legale dell’attore con l’ex moglie Amber Heard, anche se il produttore Jerry Bruckheimer ha recentemente indicato che il prossimo film della serie principale sarà una sorta di soft reboot, con volti nuovi e familiari, lasciando la porta aperta a un ritorno di Jack Sparrow.

In un’intervista con Ash Crossan di ScreenRant per la nuova serie di Lazarus, a Nighy è dunque stato chiesto della possibilità di riprendere il ruolo di Davy Jones nella serie Pirati dei Caraibi. La star candidata all’Oscar ha affermato che “gli piacerebbe tornare” e dare vita al suo iconico personaggio, rivelando che una volta si era persino parlato di farlo continuare nella serie: “Pensavo che ci potesse essere altro. In effetti, a un certo punto uno dei produttori mi ha detto: “Ti piacerebbe tornare? Ti piacerebbe tornare senza i tentacoli?”. E io ho risposto: “Beh, sì, sarebbe fantastico”.

Nighy ha poi riflettuto sulla breve apparizione umana nella sequenza flashback di Ai confini del mondo, in cui ha potuto essere “il pirata scozzese che ero prima di diventare un calamaro”. Ha poi elogiato il reparto costumi e trucco di Pirati dei Caraibi per aver “davvero dato il massimo”, poiché si sentiva “sempre il ragazzo triste in pigiama computerizzato” per l’aspetto in motion capture di Davy Jones. “Hanno davvero dato il massimo e mi hanno fatto la barba, la parrucca e il costume più belli che ci fossero. Per un po’ è stato molto soddisfacente”.

Potremmo rivedere Davy Jones in Pirati dei Caraibi?

Affinché Nighy torni nella serie Pirati dei Caraibi, il prossimo film dovrebbe concentrarsi almeno in parte su Will Turner, interpretato da Orlando Bloom. Dopo aver scambiato il proprio posto con Jones pugnalandolo al cuore maledetto nel climax di Ai confini del mondo, l’ultimo film, La vendetta di Salazar, ha visto Will tornare da Elizabeth dopo essere stato liberato dalla maledizione dell’Olandese Volante. Tuttavia, la scena dopo i titoli di coda ha indicato che Jones potrebbe non solo essere ancora vivo, ma anche tornare alla sua forma simile a un polipo.

Mentre i fan dell’attore continuano a fare una campagna per il suo ritorno, con la storia di Davy Jones che cerca vendetta su Will e la sua famiglia, questo potrebbe anche essere un modo più morbido per andare oltre il Jack Sparrow di Depp. Non solo potrebbe aprire la porta al ritorno di altri personaggi, ma darebbe anche a Will ed Elizabeth un addio più appropriato e mirato, introducendo potenziali archi narrativi per altri nuovi personaggi.

Fortunatamente per Bruckheimer, Bloom ha spesso espresso il suo interesse a tornare per il prossimo Pirati dei Caraibi, e con Nighy ora aperto a questa possibilità, potrebbe benissimo essere in grado di lavorare con i suoi sceneggiatori per dare più slancio al film. Oppure, se lo spin-off di Robbie dovesse avere più legami con i film principali del previsto, Jones potrebbe persino trovare il modo di terrorizzare un nuovo angolo dei mari aperti.

Harry Potter: foto dal set anticipano una nuova scena assente nei film

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È stato ampiamente riportato che ogni stagione del reboot di Harry Potter sarà composta da 8 episodi, il che significa che HBO potrà espandere il mondo magico in un modo che i film non hanno potuto fare. Molte scene e personaggi che erano stati necessariamente tagliati possono ora essere adattati, e uno di questi sembra essere stato avvistato dopo che la produzione si è trasferita a Skipton, nel North Yorkshire, in Inghilterra (le immagini si possono vedere qui e qui).

Un mago è stato avvistato sul tetto della sua casa, mentre agitava la bacchetta in segno di festa. Per capire cosa sta succedendo, possiamo ancora una volta cercare le risposte nei libri, in questo caso Harry Potter e la Pietra Filosofale. “La professoressa McGranit sbuffò con rabbia. ‘Oh sì, stanno festeggiando tutti, va bene’, disse con impazienza. ‘Si potrebbe pensare che dovrebbero stare un po’ più attenti, ma no, anche i Babbani hanno notato che sta succedendo qualcosa. Era al telegiornale’.

Girò bruscamente la testa verso la finestra buia del soggiorno dei Dursley. ‘L’ho sentito. Stormi di gufi… stelle cadenti… Beh, non sono completamente stupidi. Era inevitabile che notassero qualcosa. Stelle cadenti nel Kent… scommetto che era Dedalus Diggle. Non ha mai avuto molto buon senso’.”

Potrebbe essere questa la nostra prima visione di Dedalus Diggle? Scommetteremmo che si tratti solo di un mago a caso che si sta divertendo un po’ troppo a festeggiare l’apparente morte di Lord Voldemort, ma c’è un altro grande argomento di discussione in queste ultime foto dal set. La bacchetta che questo mago sta usando sembra un ramoscello; è un design molto meno elaborato rispetto a molte delle bacchette che abbiamo visto nei film di Harry Potter.

Potrebbe essere il nostro primo assaggio di un altro modo significativo in cui questa serie differirà dai lungometraggi. Alcuni fan hanno suggerito che questo, apparentemente, essendo un mago della “classe operaia”, potrebbe spiegare perché la sua bacchetta è un po’ più semplice. Se così fosse, aggiungerebbe un interessante colpo di scena al franchise e dimostrerebbe che è stata dedicata molta attenzione ai diversi tipi di streghe e maghi esistenti.

Cosa sappiamo della serie HBO su Harry Potter

La prima stagione sarà tratta dal romanzo La pietra filosofale e abbiamo già visto alcuni altri momenti chiave del romanzo d’esordio di J.K. Rowling essere trasposti sullo schermo. La prima stagione di Harry Potter dovrebbe essere girata fino alla primavera del 2026, mentre la seconda stagione entrerà in produzione pochi mesi dopo. Ogni libro dovrebbe costituire una singola stagione, il che significa che avremo sette stagioni nell’arco di quasi un decennio.

HBO descrive la serie come un “adattamento fedele” della serie di libri della Rowling. “Esplorando ogni angolo del mondo magico, ogni stagione porterà ‘Harry Potter’ e le sue incredibili avventure a un pubblico nuovo ed esistente”, secondo la descrizione ufficiale. Le riprese dovrebbero avere inizio nel corso dell’estate 2025, per una messa in onda prevista per il 2026.

La serie è scritta e prodotta da Francesca Gardiner, che ricopre anche il ruolo di showrunner. Mark Mylod sarà il produttore esecutivo e dirigerà diversi episodi della serie per HBO in collaborazione con Brontë Film and TV e Warner Bros. Television. La serie è prodotta da Rowling, Neil Blair e Ruth Kenley-Letts di Brontë Film and TV, e David Heyman di Heyday Films.

Come già annunciato, Dominic McLaughlin interpreterà Harry, Arabella Stanton sarà Hermione e Alastair Stout sarà Ron. Il cast principale include John Lithgow nel ruolo di Albus Silente, Janet McTeer nel ruolo di Minerva McGranitt, Paapa Essiedu nel ruolo di Severus Piton, Nick Frost nel ruolo di Rubeus Hagrid, Katherine Parkinson nel ruolo di Molly Weasley, Lox Pratt nel ruolo di Draco Malfoy, Johnny Flynn nel ruolo di Lucius Malfoy, Leo Earley nel ruolo di Seamus Finnigan, Alessia Leoni nel ruolo di Parvati Patil, Sienna Moosah nel ruolo di Lavender Brown, Bertie Carvel nel ruolo di Cornelius Fudge, Bel Powley nel ruolo di Petunia Dursley e Daniel Rigby nel ruolo di Vernon Dursley.

Si avranno poi Rory Wilmot nel ruolo di Neville Paciock, Amos Kitson nel ruolo di Dudley Dursley, Louise Brealey nel ruolo di Madama Rolanda Hooch e Anton Lesser nel ruolo di Garrick Ollivander. Ci sono poi i fratelli di Ron: Tristan Harland interpreterà Fred Weasley, Gabriel Harland George Weasley, Ruari Spooner Percy Weasley e Gracie Cochrane Ginny Weasley.

La serie debutterà nel 2027 su HBO e HBO Max (ove disponibile) ed è guidata dalla showrunner e sceneggiatrice Francesca Gardiner (“Queste oscure materie”, “Killing Eve”) e dal regista Mark Mylod (“Succession”). Gardiner e Mylod sono produttori esecutivi insieme all’autrice della serie J.K. Rowling, Neil Blair e Ruth Kenley-Letts di Brontë Film and TV, e David Heyman di Heyday Films. La serie di “Harry Potter” è prodotta da HBO in collaborazione con Brontë Film and TV e Warner Bros. Television.

IT: Welcome to Derry, recensione della serie horror che ci porta alle origini di Pennywise

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C’è qualcosa di profondamente disturbante nel tornare a Derry. Non è solo una città: è un organismo vivo, che respira attraverso le sue fogne, che assorbe la paura e la restituisce sotto forma di mostri. Con IT: Welcome to Derry, la nuova serie targata HBO e Sky Exclusive, Andy Muschietti, Barbara Muschietti e Jason Fuchs ci riportano nel cuore oscuro del Maine, espandendo l’universo creato da Stephen King e approfondendo le radici di quel terrore che, da decenni, si insinua nell’immaginario collettivo.

Ambientata negli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda, la serie si propone come prequel dei film “IT” e “IT – Capitolo Due, e racconta la genesi dell’orrore che avvolge Derry molto prima che i “Perdenti” si uniscano per combattere Pennywise. Ma, come spesso accade nelle opere più riuscite ispirate a King, ciò che fa davvero paura non è solo il soprannaturale: è il modo in cui il male si manifesta nei rapporti umani, nelle disuguaglianze, nel silenzio complice degli adulti.

Il racconto si apre con una scena glaciale: un bambino di dodici anni, solo e spaventato, cerca di fuggire da un cinema, in cui si era infilato senza pagare il biglietto (per l’ennesima volta), ma finisce per salire sull’auto sbagliata. È un inizio che non risparmia nulla, un piccolo film nel film che condensa perfettamente l’essenza della serie — la paura dell’infanzia, il terrore dell’ignoto e il trauma che diventa eredità. Da quel momento in poi, IT: Welcome to Derry costruisce con lentezza ma precisione un mosaico di storie destinate a intrecciarsi, tutte collegate da un’unica, inesorabile domanda: da dove nasce il male?

IT: Welcome to Derry – courtesy of HBO

IT: Welcome to Derry e i simboli di un incubo

Il cuore narrativo della serie ruota attorno a Leroy Hanlon (Jovan Adepo), maggiore dell’aeronautica americana appena trasferito con la famiglia nella cittadina di Derry. Sua moglie Charlotte (Taylour Paige) e il loro figlio Will sono pronti a iniziare una nuova vita, ma qualcosa, fin da subito, sembra fuori posto. La base militare in cui Leroy lavora è attraversata da segreti, zone interdette e rituali taciuti. Le stesse fondamenta su cui poggia la città sembrano costruite su un terreno contaminato — non solo in senso fisico, ma soprattutto morale.

Parallelamente, la serie segue Lilly (Clara Stack), una ragazza appena dimessa dal manicomio di Juniper Hill, che tenta di reinserirsi nella vita quotidiana della scuola. Al suo fianco, Ronnie (Amanda Christine), giovane studentessa nera che lotta contro i pregiudizi della comunità e contro l’ingiusta accusa rivolta al padre, proiezionista del cinema cittadino, sospettato della scomparsa del bambino visto nel prologo. Insieme a un gruppo di coetanei — Phil, Teddy, Pauly e, più avanti, Will e Rich — intraprendono una sorta di viaggio iniziatico, nel quale la paura diventa strumento di scoperta e resistenza.

Muschietti e Fuchs costruiscono un intreccio corale, in cui ogni personaggio incarna una forma diversa di vulnerabilità. Il male non è solo Pennywise (che ritorna con il volto inquietante di Bill Skarsgård), ma tutto ciò che permette alla sua presenza di proliferare: il razzismo, il dolore taciuto, la vergogna, l’abuso. L’horror diventa così linguaggio per raccontare la società, e Derry si trasforma nel simbolo perfetto di un’America spezzata tra la modernità e le sue colpe storiche.

IT: Welcome to Derry – courtesy of HBO

Atmosfere e orrori quotidiani: la forza simbolica della serie

Visivamente, IT: Welcome to Derry è un piccolo gioiello di coerenza estetica. La fotografia richiama la luce lattiginosa e inquieta dei film di Muschietti, mentre la regia si concede tempi più dilatati, privilegiando l’attesa al jump scare. Il terrore non esplode, ma si insinua: nei corridoi umidi, nei sussurri dei tubi, negli sguardi sospesi degli adulti che fingono di non vedere.

A differenza dei film, qui l’orrore è anche politico. La serie riprende il tropo del “Magical Negro” solo per ribaltarlo, mostrando come i personaggi neri non siano più strumenti narrativi al servizio del destino dei bianchi, ma protagonisti consapevoli di un sistema corrotto. Derry diventa così una micro-America, una città-simbolo che riflette le sue contraddizioni: la segregazione, la paura del diverso, la violenza sistemica e il bisogno disperato di nascondere ciò che è scomodo.

Il rapporto fra adulti e bambini rimane il centro tematico del racconto, come nel romanzo di King: gli adulti di Derry vivono nell’autoinganno, incapaci di accettare l’esistenza del male, mentre i bambini — con la loro sensibilità e il loro coraggio — diventano gli unici a poterlo percepire e combattere. È una dinamica che la serie esplora con delicatezza, alternando momenti di tenerezza e di puro terrore. Lilly, in particolare, rappresenta il cuore emotivo della narrazione: fragile ma determinata, è l’eco più autentica di quella “innocenza perduta” che attraversa tutta la mitologia di IT.

Non mancano riferimenti alle origini mitiche di Pennywise, che qui assumono contorni più mistici e ancestrali. Le radici del male sembrano intrecciarsi con la violazione di terre sacre e con rituali antichi dimenticati: una lettura quasi spirituale dell’orrore, che amplia la mitologia di Derry e conferisce alla serie una dimensione più ampia e complessa rispetto ai film, riportando a schermo la vera natura di questo male così come l’aveva pensata e scritta King nel suo romanzo capolavoro.

IT: Welcome to Derry – courtesy of HBO

Oltre l’horror: il significato di un prequel necessario

Arrivati al termine degli otto episodi, IT: Welcome to Derry è una riflessione profonda sul concetto stesso di paura — personale, collettiva, storica. Se nei film di Muschietti la paura era un nemico da affrontare, qui diventa un’eredità: qualcosa che si tramanda, che plasma le generazioni e che solo la consapevolezza può disinnescare.

Il ritmo non è sempre uniforme: alcuni episodi centrali si concedono deviazioni forse troppo lente, ma nel complesso la serie mantiene una tensione costante, bilanciando il dramma umano e il soprannaturale. Il cast è straordinario nella coralità: Adepo e Paige regalano interpretazioni intense e credibili, mentre Clara Stack si impone come autentica rivelazione, capace di restituire tutta la vulnerabilità e la forza della sua giovane protagonista.

La regia di Muschietti, affiancata da quella di registi emergenti per gli altri episodi, mantiene una visione coerente e potente, attenta tanto al dettaglio visivo quanto alla psicologia dei personaggi. La colonna sonora, fatta di silenzi e dissonanze, accompagna perfettamente il viaggio nel buio, amplificando ogni fremito e invadendo con prepotenza la scena nelle molte sequenze spaventose e tremendamente divertenti.

IT: Welcome to Derry non si limita a spiegare l’origine di Pennywise, ma esplora quella parte di noi che gli ha permesso di esistere. È un racconto che parla di paura e di colpa, di innocenza e di rifiuto, di società e memoria. Non tutto funziona alla perfezione — qualche eccesso di didascalismo e un montaggio a tratti frammentato — ma la serie riesce comunque a catturare l’essenza del mondo kinghiano: quell’equilibrio instabile tra orrore e umanità, tra soprannaturale e realtà quotidiana.

Oltre ad essere sorprendentemente divertente, con la sua densità tematica e la capacità di fondere tensione, critica sociale e sentimento, Welcome to Derry si impone come uno dei progetti televisivi più ambiziosi dell’anno, e come un tassello indispensabile per comprendere non solo il mito di Pennywise, ma anche le ombre che continuano a nascondersi dentro di noi.

Mrs Playmen: recensione dei primi due episodi della serie Netflix – #RoFF20

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Ispirato a un’interessante storia vera, Mrs. Playmen racconta uno spaccato di una realtà a cavallo tra l’austerità del passato e la sete di cambiamento verso il futuro. Diretta da Riccardo Donna e scritta da Mario Ruggeri, questa prima stagione della serie sarà composta da sette episodi, di circa 45 minuti ciascuno. Nel cast ritroviamo figure molto note nel panorama cinematografico italiano: l’attrice Carolina Crescentini (Tutto chiede salvezza, Mine vaganti) qui interpreta la protagonista Adelina Tattilo, da sposata Balsamo, la quale gestisce la rivista erotica Playmen. Al suo fianco ritroviamo Filippo Nigro (La dea fortuna) e Giuseppe Maggio (Baby) rispettivamente nei panni di Chartreux e del fotografo Luigi Poggi.

Mrs. Playmen: l’arrivo dell’erotismo in Italia

Cortesia di Netflix/Camilla Cattabriga

Italia, anni 70: è in corso una potente rivoluzione sociale che cerca di contrastare l’austerità e l’eccessiva moralità dell’epoca. A contribuire a questo processo c’è Playmen: rivista nata sulla falsariga del Playboy americano, proibito in Italia, da al pubblico l’erotismo che tanto brama. Saro e Adelina Balsamo gestiscono la rivista, con tutti i problemi che ne conseguono: essendo considerata dalle autorità come materiale osceno, viene ripetutamente sequestrato e il direttore in capo arrestato.

Ma ben presto ai problemi morali si aggiungono i problemi economici, e Saro non si farà problemi a far quadrare i conti a tutti i costi, pur di mantenere il giornale in piedi. Così, quando Saro uscirà di scena, tutte le responsabilità ricadranno su Adelina, nuova direttrice responsabile, così avrà inizio la rivoluzione. Uscita di galera, la donna riprenderà in mano le sorti di Playmen e, con un po’ di arguzia e un piccolo tocco femminile, regalerà alla rivista un volto nuovo.

I taboo di ieri e di oggi

Mrs. Playmen dimostra da subito di essere molto più di una serie su una vecchia rivista erotica: Mrs. Playmen racconta un conflitto morale che continua ad essere drammaticamente attuale. E ciò si denota da tante frasi, tanti gesti che ci sono ancora vicini: la colpevolizzazione della donna in caso di stupro, lo sfruttamento del colpo femminile e il giudizio da parte degli uomini di cosa le donne possano o non possano fare, del decidere il loro posto nel mondo.

Sicuramente tutte queste tematiche verranno articolate anche meglio con i successivi episodi, in particolare con la crescita del personaggio di Adelina. Ma già in queste prime due puntate sono presenti esempi di sessismo: Elsa viene giudicata per aver posato per delle foto nuda, poi pubblicate a sua insaputa, viene violentata per questo, e poi nuovamente violata in commissariato con le velenose insinuazioni del poliziotto che raccoglie la sua denuncia. Adelina viene da subito mal vista da tutti gli uomini che lavorano nella rivista: Playmen non sembra essere un posto adatto a una donna. E così lei lotta ancora di più per affermarsi in un ambiente in cui non è riconosciuta come capo e non è ben voluta.

Cortesia di Netflix/Camilla Cattabriga

Una società in evoluzione

Se da un lato si sentono gli echi di un patriarcato ancora fortemente radicato, dall’altro si iniziano a udire le prime note del cambiamento: viene spesso nominato spesso in questi due episodi proprio il progetto di una legge sul divorzio, arrivata poi con la legge n.898/1970.

Emblema della nuova società nascente sono certamente il figlio di Adelina e la nuova fidanzata che, nell’innocenza delle prime volte, scoprono sé stessi e si ritrovano a combattere per delle cause che magari ancora non comprendono neanche a pieno. I due giovani si inquadrano in un periodo caratterizzato da fervidi movimenti studenteschi in Italia come nel resto del mondo occidentale (l’Autunno caldo, i movimenti contro la guerra in Vietnam). Quella che per loro è la semplice occupazione del loro liceo, è in realtà un tassello che si inserisce in un quadro molto più grande.

Il sesso e l’omosessualità nascosta

“Noi italiani qualche problemino col sesso ce l’abbiamo: più che rilassarci, ci fa incazzare” Adelina Tattilo

PLAYMEN
Photo Credit: Camilla Cattabriga/Netflix

Nella realtà di Mrs. Playmen non si ha ancora solamente una figura retrograda della donna, ma in generale tutto ciò che riguarda il sesso viene considerato sconveniente. Nel momento in cui Adelina si ritrova a parlare con una neo-sposina di come rapportarsi col marito dal punto di vista sessuale, questa resta sconvolta dal linguaggio usato dall’altra donna.

Proprio per via di questa visione così chiusa sulla sfera sessuale, Adelina sembra voler dare un nuovo indirizzo a Playmen, aggiungendo dei contenuti che aiutino le donne a rapportarsi al sesso e a viverlo al meglio coi propri mariti.

Altra tematica che emerge da questi primi due episodi di Mrs. Playmen è proprio il contegno o, meglio, la segretezza che viene riservata all’omosessualità. Ben presto viene reso chiaro allo spettatore l’orientamento sessuale di Chartreux: questo è solito frequentare i locali gay clandestini, e lo fa con una certa riservatezza proprio perché, in un’epoca del genere, questo ancora era un altro taboo.

Mrs. Playmen si presenta già da questi primi due episodi come una serie accattivante, capace di attirare il grande pubblico: non resta che attendere la sua uscita su Netflix per i restanti episodi!

Le Montagne della follia: Guillermo Del Toro conferma il film è stato definitivamente cancellato dopo 15 anni

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Dopo un decennio di speculazioni, sembra che uno dei progetti cinematografici più attesi di Guillermo del Toro sia finalmente e ufficialmente morto. Il regista premio Oscar ha appena pubblicato il suo adattamento cinematografico di Frankenstein, un altro progetto che aveva in mente da molto tempo. Tuttavia, sembra che il suo film Le Montagne della follia non vedrà mai la luce.

Del Toro ha annunciato ufficialmente il suo film At the Mountains of Madness nel 2010, riferendo di aver lavorato alla sceneggiatura per anni prima di allora. Il romanzo horror fantascientifico di H.P. Lovecraft racconta una spedizione in Antartide e la scoperta di una civiltà antecedente alla razza umana, con lo scopo di mettere in guardia gli altri dal tentare la stessa missione.

Tuttavia, Le Montagne della follia di Del Toro è stato apparentemente rifiutato o è fallito più volte, principalmente a causa dell’insistenza del regista nel voler ottenere una classificazione R, tra gli altri fattori. Sembra che abbia iniziato a considerare di abbassare il livello a PG-13 dopo essersi trasferito alla Legendary Pictures e aver realizzato Pacific Rim nel 2013, che ha riscosso un enorme successo.

Ma anche dopo questo, Le Montagne della folli non è mai decollato. Sebbene del Toro ne abbia parlato di nuovo, suggerendo che potrebbe riprenderlo dopo il suo Pinocchio (2022), ha appena fornito l’aggiornamento più definitivo finora, affermando che non crede che il progetto verrà realizzato. Del Toro ha dichiarato a Inverse riguardo all’approvazione di At the Mountains of Madness:

Non credo, ma lo spero. Dipende, è un film importante. È un film complicato da girare. È vietato ai minori. Quindi non credo che ci sia la fila per farlo.

Questa notizia sarà una delusione per molti fan di del Toro che ancora nutrivano la speranza che il regista di Il labirinto del fauno potesse finalmente realizzare il suo progetto a lungo accantonato. Sarebbe stato persino appropriato che affrontasse At the Mountains of Madness dopo Frankenstein, un altro classico della letteratura su cui del Toro ha riflettuto per anni.

Frankenstein potrebbe essere il culmine della carriera di del Toro, dato che Mary Shelley ha chiaramente influenzato altri film sui mostri nel corso della sua carriera. Il film è persino vietato ai minori, il che suggerisce che il regista sarebbe in grado di assicurarsi le risorse necessarie per produrre un altro horror vietato ai minori a sua discrezione. Tuttavia, la trama più nebulosa e meno famosa potrebbe essere ancora troppo rischiosa per gli studi cinematografici.

Le cose potrebbero ancora cambiare per At the Mountains of Madness, ma è rimasto in fase di sviluppo per così tanto tempo che molti hanno semplicemente voltato pagina. Ci vorrebbe l’impegno totale di Guillermo del Toro per realizzarlo ora, e il regista ha molti altri progetti in cantiere che potrebbero costringere At the Mountains of Madness a rimanere un sogno irrealizzato.

Come il finale della seconda stagione di Gen V prepara il terreno per la quinta stagione di The Boys, spiegato da Eric Kripke

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Il produttore esecutivo di The Boys, Eric Kripke, ha spiegato come il finale della seconda stagione di Gen V getti le basi per la quinta stagione della serie sui supereroi. La seconda stagione di Gen V si è conclusa con Marie e i suoi amici che incontrano nuovamente Starlight, la quale chiede loro se vogliono unirsi alla sua resistenza contro Homelander e Vought. Questo include A-Train e forse anche altri supereroi.

Parlando con The Hollywood Reporter, Kripke, che è anche produttore esecutivo di Gen V, ha spiegato come la seconda stagione dello spin-off prepari il terreno per la quinta stagione di The Boys. Ha rivelato che Marie e i suoi amici della Godolkin University saranno coinvolti nello svolgimento della stagione finale di The Boys. Tuttavia, ha detto che non sarà necessario guardare lo spin-off:

Svolgono un ruolo importante. Parte del divertimento nel concludere la seconda stagione in questo modo è che possiamo davvero preparare il terreno per la quinta stagione, dove ora c’è questa resistenza attiva e in crescita guidata da Starlight, di cui A-Train è una parte importante. Stanno davvero cercando di riportare la lotta contro Homelander e questo tipo di governo fascista. Allo stesso modo, continuiamo a lavorare sodo per cercare di mantenere l’equilibrio: The Boys riguarda The Boys e Gen V riguarda Gen V. I personaggi forniscono un aiuto fondamentale, ma si tratta comunque di The Boys, e si può guardare senza aver visto Gen V e viceversa. Ma guardare entrambi è comunque un’esperienza molto più divertente.

Per quanto riguarda il futuro della seconda serie, Kripke ha ribadito i piani per la Gen V stagione 3. Ha spiegato come nella stagione finale di The Boys verrà lasciata aperta la porta per il ritorno di Marie e dei suoi amici, con il rinnovo della serie che dipenderà dal numero di spettatori su Prime Video:

Nella quinta stagione di The Boys non facciamo capire che questa è la fine di Gen V. Lasciamo il finale aperto perché in realtà abbiamo ancora altre storie da raccontare su Gen V e ci piacerebbe raccontarle. Dipende dagli ascolti e da quante persone finiranno per sintonizzarsi. Dobbiamo fare in modo che Amazon ci rinnovi per un’altra stagione.

Il produttore esecutivo ha anche anticipato quante persone Homelander dovrà affrontare nella stagione finale della serie, spiegando quanto sarà difficile il loro compito nonostante il numero di persone che hanno dalla loro parte:

Ci sono un sacco di persone in fila che vogliono dargli uno schiaffo. (Ride) Ovviamente, Butcher è in prima fila. Ma ci sono anche Stan Edgar, Marie, Annie, Huey. Stanno cercando di organizzare una vera e propria offensiva, ma sono anche in inferiorità numerica e di mezzi. Ti trovi in un Paese intero che ha bevuto il Kool-Aid di Homelander. Sono in inferiorità numerica rispetto alle centinaia di supereroi presenti in ogni città del Paese, a cui è stata data autorità sulla polizia. Quindi si tratta davvero di una vera resistenza clandestina contro un governo fascista, che sicuramente non ha paragoni né paralleli con nulla di ciò che sta accadendo in qualsiasi altra parte del mondo.

Sulla base delle dichiarazioni di Kirpke, sembra che il cast di Gen V avrà un ruolo fondamentale negli episodi finali di The Boys, anche se non avrà ruoli di primo piano. Ciò è in linea con il modo in cui le due serie hanno interagito tra loro, come ad esempio il virus Supe dello spin-off che è stato un elemento centrale della stagione 4 di The Boys.

Tuttavia, ciò significa che The Boys – stagione 5 dovrà aggiornare il pubblico su ciò che Sam e Cate hanno passato dall’ultima volta che sono apparsi nella serie principale. Anche se alla fine della stagione 2 di Gen V sono stati riformati, l’ultima volta che sono apparsi nella serie principale hanno rapito Frenchie e Kimiko, una questione che deve essere risolta.

I commenti di Kripke sollevano anche la questione di quanto la storia di Gen V sarà intrinseca alla stagione 5 di The Boys. Dato il coinvolgimento di Sage con Godolkin prima della sua morte, ciò potrebbe causare una frattura tra lei e Homelander, a seconda di quanto profondamente le due serie saranno collegate. Questo, tuttavia, potrebbe rivelarsi troppo confuso per il pubblico che non ha visto entrambe le serie.

Nonostante ciò, sembra che la quinta stagione di The Boys sarà un finale trionfale per la serie principale, lasciando però aperta la porta a ulteriori storie con i protagonisti di Gen V. Anche se la terza stagione non è stata ancora confermata, è confortante sapere che il finale sospeso della seconda stagione avrà una risoluzione, indipendentemente dal destino dello spin-off.

The Boys stagione 5 arriverà su Prime Video nel 2026.

Gen V – Stagione 3 si farà? tutto quello che sappiamo

Gen V – Stagione 3 si farà? tutto quello che sappiamo

L’incredibile popolarità di The Boys ha reso inevitabile la creazione di spin-off e, sebbene Gen V sia stata un’ottima aggiunta al franchise, il suo futuro rimane incerto dopo il finale della seconda stagione. Dopo tre stagioni della serie principale e una serie antologica animata, The Boys si è ulteriormente ampliato con la prima stagione di Gen V, e la risposta del pubblico non avrebbe potuto essere migliore.

Con un punteggio del 97% da parte dei critici su Rotten Tomatoes, la serie è stata un enorme successo, quindi non sorprende che sia stata rinnovata per una seconda stagione. Tuttavia, ora che il finale della seconda stagione di Gen V ha concluso la storia principale e ha aperto la strada alla quinta stagione di The Boys, è difficile prevedere se lo show continuerà o meno.

Il legame di Marie con il Progetto Odessa l’ha resa la supereroina più forte dopo Homelander, il che significa che apparirà sicuramente nella quinta e ultima stagione di The Boys insieme agli altri personaggi centrali dello spin-off. Sfortunatamente, questo non garantisce che il cast tornerà alla Godolkin University, ma ci sono stati alcuni aggiornamenti significativi riguardo alla possibilità di una terza stagione di Gen V.

La terza stagione di Gen V non è stata confermata

Al momento della stesura di questo articolo, la terza stagione di Gen V non è stata confermata, ma non ci sono nemmeno notizie sulla sua cancellazione. Il finale della seconda stagione ha concluso bene la storia e, sebbene sia chiaro che le vicende di questi personaggi non siano ancora finite, il cast tornerà probabilmente nella quinta stagione di The Boys, il che suggerisce che una terza stagione dello spin-off potrebbe non essere necessaria.

Dato che il franchise non ha ucciso troppi eroi principali, è anche possibile che diversi personaggi di Gen V muoiano nella stagione 5 di The Boys, il che potrebbe rendere molto difficile continuare lo show gemello. Detto questo, la popolarità dello show rende plausibile il suo rinnovo, e ci sono alcune prove chiave che suggeriscono che la stagione 3 potrebbe ancora realizzarsi.

Ultime notizie sulla terza stagione di Gen V

Nonostante il futuro dello show rimanga incerto, Eric Kripke ha annunciato i suoi piani per l’universo di The Boys dopo la quinta stagione, e sono buone notizie per Gen V. Ha affermato che ci sono piani per la terza stagione che entusiasmano molto il team. Tuttavia, affinché il progetto venga approvato, gli ascolti della seconda stagione devono essere alti.

È lo stesso motivo per cui ha indicato che The Boys: Diabolical difficilmente tornerà per un’altra stagione, dati i numeri deludenti, ma con la stagione 2 di Gen V spesso nella top 10 dei programmi di Prime Video, le possibilità che continui sono elevate. Inoltre, con The Boys: Mexico ancora in fase di sviluppo insieme a Vought Rising, il franchise non sembra andare da nessuna parte.

La premiere della seconda stagione di Gen V è diventata l’episodio più visto dello spin-off, con 424 milioni di minuti visualizzati nella prima settimana di uscita.

Pertanto, con la conclusione della serie principale il prossimo anno, avrebbe senso che Gen V prendesse il posto di serie di punta, dato che il pubblico è già interessato, mentre gli altri spin-off rimangono investimenti rischiosi. Si spera che questo renda la terza stagione ancora più probabile, indipendentemente da come andrà a finire la quinta stagione di The Boys.

Dettagli sul cast della terza stagione di Gen V

Prevedere il possibile cast della terza stagione di Gen V è estremamente difficile, considerando che non sappiamo chi sopravviverà alla quinta stagione di The Boys. Al momento, il cast principale è composto da Marie (Jaz Sinclair), Jordan (London Thor/Derek Luh), Emma (Lizze Broadway), Cate (Maddie Phillips), Sam (Asa Germann) e Annabeth (Keeya King), tutti reclutati da Starlight.

Coloro che sopravvivranno alla guerra imminente faranno quasi certamente parte della terza stagione, se ci sarà, così come Polarity (Sean Patrick Thomas), che potrebbe anche apparire nella quinta stagione di The Boys. Anche personaggi più specifici di Gen V, come Greg, Justine, Rufus, Harper e Ally, hanno buone possibilità di tornare se la Godolkin University rimarrà la location principale.

Purtroppo, sembra improbabile che Doug/Cipher di Hamish Linklater sia coinvolto in una potenziale terza stagione, così come Thomas Godolkin di Ethan Slater, dopo che entrambi i personaggi sono stati uccisi. Tuttavia, nel mondo di The Boys, tutto è possibile, e ulteriori cameo dalla serie originale sembrano inevitabili se lo spin-off verrà rinnovato per un’altra stagione.

Dettagli sulla trama della terza stagione di Gen V – Cosa prepara la seconda stagione

Mentre possiamo almeno ipotizzare quali personaggi torneranno nella terza stagione in base a come si svolgerà la quinta stagione di The Boys, la trama di Gen V rimarrà probabilmente un mistero fino alla pubblicazione dei trailer. Alla fine della seconda stagione, i protagonisti hanno affrontato il più grande cattivo della serie e nella prossima stagione i Sette e Vought potrebbero potenzialmente scomparire.

Pertanto, affinché si creino le premesse per il ritorno dello spin-off, sarebbe necessario che uno dei membri della banda tradisse gli altri o che un cattivo di livello inferiore sopravvivesse a The Boys. Sebbene la The Boys abbia influenzato la trama di Gen V in entrambe le stagioni, dopo la stagione 5 non sarà più così, lasciando più spazio a nuove storie.

Che si tratti di introdurre una minaccia in qualche modo ancora più grande di Homelander, di rivelare nuovi segreti su God U o semplicemente di far affrontare a questi eroi nuovi nemici, non mancano certo le possibilità per una potenziale terza stagione. Purtroppo, è impossibile prevedere i dettagli esatti, soprattutto senza sapere con certezza se Gen V verrà rinnovato o meno.

Chinatown: la spiegazione del finale del film di Roman Polanski

Chinatown: la spiegazione del finale del film di Roman Polanski

Il film Chinatown ha spiegato che a volte il mondo reale ha finali incredibilmente cupi che hanno ancora il potere di scioccare. Diretto da Roman Polanski e scritto da Robert Towne, Chinatown offre una visione unica dei romanzi gialli degli anni ’40, dando loro una svolta molto più cupa di quanto i film di quell’epoca consentissero tipicamente. Chinatown è stato riconosciuto per la sua grandezza e ha ricevuto una serie di riconoscimenti, tra cui 11 nomination agli Oscar, una per il miglior film, ed è stato inserito nella lista dei 100 migliori film dell’AFI sia nel 1998 che nel 2007.

Ambientato nel 1937, Chinatown segue le vicende del detective privato Jake Gittes (Jack Nicholson) mentre indaga su una serie di morti legate a traffici di acqua e terreni nella regione della valle di Los Angeles, allora non ancora incorporata. Chinatown è stato ispirato da una storia vera, anche se la trama principale e il finale cupo sono stati inventati per esigenze cinematografiche. Il film riesce egregiamente a concludere la trama con un finale tragico, ma non usa mezzi termini (e lascia alcune note ambigue). Chinatown è una tragedia nel profondo, e questo è uno dei motivi per cui ha avuto un enorme successo.

Cosa succede nel finale di Chinatown?

Chinatown (1974)

Risolvere il caso non porta pace a Jake Gittes

Il finale di Chinatown vede Jake Gittes ricostruire la rete di cospirazioni tessuta da Noah Cross (John Huston). Jake scopre che è stato Cross ad uccidere Hollis Mulwray (Darrell Zwerling) e che è anche responsabile della morte di Ida Sessions. Verso uno dei finali più scioccanti del cinema noir di tutti i tempi, Jake cerca di aiutare la moglie di Hollis, Evelyn Mulwray (Faye Dunaway), a fuggire in Messico con la figlia Kathrine (Belinda Palmer). Tuttavia, il suo piano viene sventato quando viene catturato da Cross, che gli rivela il suo piano e lo costringe a incontrare Evelyn a Chinatown.

Una volta nel quartiere di Chinatown a Los Angeles, Jake viene immediatamente arrestato dalla polizia locale, che è ovviamente in combutta con Cross, e il magnate immobiliare cerca di prendere il controllo di Katherine ed Evelyn per sistemare le ultime questioni in sospeso. In un impeto di disperazione, Evelyn spara a Cross al braccio e cerca di scappare con sua figlia, solo per essere immediatamente uccisa dagli agenti di polizia presenti sulla scena. Cross riesce quindi a scappare, ottenendo la custodia di Katherine dopo aver affermato di essere suo nonno, mentre Jake può solo guardare con orrore.

Cross ha ucciso Mulwray e Ida Sessions per metterli a tacere

Roman Polanski in Chinatown

Gli omicidi a Chinatown sono avvenuti per facilitare loschi affari aziendali

La morte di Hollis Mulwray è essenzialmente l’incidente scatenante di Chinatown e porta Jake Gittes su un sentiero oscuro che alla fine lo condurrà al finale. I legami di Mulwray con il Dipartimento dell’Acqua e dell’Energia di Los Angeles lo rendevano il perfetto socio in affari per Noah Cross, ma il loro disaccordo si rivela fatale. Con il rifiuto di Mulwray di costruire un’altra diga, Cross lo uccide per toglierlo di mezzo. Il matrimonio di Mulwray con la figlia di Cross, Evelyn, non aveva alcuna importanza per l’avido uomo d’affari, che ha approfittato dell’occasione per ottenere la custodia della figlia minore, Katherine.

In tipico stile noir, Ida Sessions viene assunta da Cross per fingersi Evelyn e screditare Mulwray. Il piano è quello di far passare Mulwray per un traditore, con l’obiettivo finale di far sembrare la sua morte un suicidio. Tuttavia, Ida diventa inutile a Cross quando rivela a Jake il suo piano della casa di riposo, quindi Cross la fa uccidere. Chinatown ha successo grazie alla brillante sceneggiatura e regia, ma il modo in cui Ida è venuta a conoscenza del piano della casa di riposo è un buco nella trama che non viene mai affrontato nel film.

Evelyn era la madre e la sorella di Katherine

Il colpo di scena incestuoso di Chinatown spiegato

Omicidi e intrighi sono comuni nei film noir, ma il colpo di scena più oscuro di Chinatown rappresenta l’atteggiamento cupo dei migliori film degli anni ’70. Katherine è un personaggio che esiste ai margini della storia, e Jake crede addirittura che sia tenuta in ostaggio da Evelyn prima di scoprire la terribile verità. Evelyn cambia la sua versione dei fatti, passando dall’affermare che Katherine è sua sorella al dire che Katherine è in realtà sua figlia.

Cosa significa l’ultima battuta di Chinatown?

Dopo aver assistito all’omicidio a sangue freddo di Evelyn e aver visto Katherine portata via da Cross, a Jake viene detto di “dimenticare… è Chinatown”, al che lui può solo sbattere le palpebre inorridito. Una delle migliori scene finali della storia del cinema, la sua citazione iconica spiega anche il finale del film. In precedenza, Jake dice che quando lavorava per il procuratore distrettuale a Chinatown, gli era stato detto di fare “il meno possibile”, sottintendendo che gli era stato consigliato di chiudere un occhio per evitare guai. Jake si rende conto che la sua visione lassista della corruzione porta alla presa di potere di Cross e alle morti nel film.

Ambientando Chinatown negli anni ’30, la storia è diventata un commento sulle somiglianze politiche tra quel decennio e gli anni ’70, quando è stato distribuito, oltre a rendere omaggio alle grandi storie di investigatori privati del passato. Chinatown è il quartiere in cui vive il maggiordomo di Evelyn, che pensava che l’anonimato del quartiere l’avrebbe protetta, ma in realtà era il luogo perfetto per Cross per mettere in atto il suo violento piano. È Chinatown” è figurativo e letterale, poiché nessuno presterebbe attenzione alla brutalità della polizia in un quartiere pieno di persone non bianche.

Il vero significato del finale di Chinatown

Il finale di Chinatown non è particolarmente confuso, ma la sua schiettezza è di per sé una dichiarazione artistica. Il film è rappresentativo dell’atmosfera degli anni ’70 ed era simile ai suoi contemporanei nel lasciare al pubblico una visione negativa del mondo. I film noir erano sempre stati cupi e malinconici, ma Chinatown ha portato questi principi a nuovi livelli, pur rimanendo simbolico.

CorrelatiPerché Jack Nicholson si è ritirato dalla recitazione dopo il 2010Jack Nicholson è un attore hollywoodiano leggendario e un’icona della cultura pop, ma dal 2010 si è ritirato dalle scene. Ecco perché.

In linea con la tradizione del movimento della New Wave americana, il finale cupo di Chinatown è un’ampia dichiarazione sulla futilità della lotta contro le istituzioni corrotte e rifletteva il panorama politico degli anni ’70. Nonostante fosse ambientato negli anni ’30, il finale di Chinatown riguardava questioni moderne.

Come è stato accolto il finale del film Chinatown

Chinatown rimane uno dei film più apprezzati di tutti i tempi. Su Rotten Tomatoes, ha ottenuto un punteggio del 98% da parte della critica e del 93% da parte del pubblico. Un recensore del pubblico lo ha visto solo di recente e ritiene che sia ancora attuale, scrivendo: “È una trama contorta, ma in modo ricco, non confuso, piuttosto intricata e intrecciata…

È una storia tragica, a volte può risultare un po’ lenta, ma non c’è dubbio che sia un film che ogni appassionato di cinema dovrebbe vedere.”

Tuttavia, non tutti gli spettatori hanno apprezzato il finale scioccante e il modo in cui il film si conclude dopo la rivelazione. Un utente di Reddit ha espresso la sua opinione sul film, affermando che non è possibile cambiare il sistema e definendolo pericoloso. Ha scritto: “A volte un finale triste è giustificato, ma a volte mi capita di vedere un film il cui messaggio sottinteso sembra essere ”Non puoi migliorare le cose, quindi non preoccuparti di provarci“. Sono quei film che mi danno davvero fastidio.

Tuttavia, un altro utente di Reddit ha risposto spiegando come il finale di Chinatown fosse il finale perfetto per un film noir: “Personalmente, non interpreto il finale di Chinatown come un invito a non provarci. È più un avvertimento sul fatto che non dovremmo lasciare che la corruzione arrivi al punto in cui è arrivata. Mi sembra che se si vende sempre una “positività tossica”, si dia al pubblico una serie di strumenti inadeguati per combattere la corruzione sistemica. Per combatterla, bisogna prima affrontare il realismo. Inoltre, in molte situazioni è necessario più di un uomo per cambiare le cose.

Chinatown: la vera storia che ha ispirato il film

Chinatown: la vera storia che ha ispirato il film

Il film del 1974 con Jack Nicholson Chinatown è uno dei grandi neo-noir sbiaditi dal sole, ma vi siete mai chiesti cosa abbia ispirato questo classico degli anni Settanta? Il cupo e brutale Chinatown di Roman Polanski è famoso per il suo finale tetro e senza speranza. Il film è uscito insieme ad altri classici neo-noir come Il lungo addio e Night Moves, ma anche tra questi titoli illustri, l’interpretazione di Jack Nicholson nel ruolo dell’investigatore privato Jake Gittes spicca come un pezzo unico e crudele della storia del cinema poliziesco.

Come molti successi degli anni Settanta, la trama di Chinatown è una storia contorta e, in definitiva, profondamente cinica di tradimenti e inganni tra autorità corrotte, politici squallidi e padroni aziendali senza scrupoli. Nonostante si concentri su un argomento potenzialmente noioso come i diritti sull’acqua, la sceneggiatura impeccabile di Chinatown garantisce che il film sia un mistero sempre coinvolgente e intenso, che ha influenzato tutto, da Blade Runner di Ridley Scott al sottovalutato Inherent Vice di Paul Thomas Anderson. Ma la trama tragica e complessa del film ha un’origine sorprendente nella vita reale.

La trama misteriosa e contorta del film deve molto ai classici noir come Il grande sonno e Il falcone maltese, il che non dovrebbe sorprendere gli appassionati di cinema, dato che il regista di quest’ultimo, John Huston, interpreta Noah Cross, il riprovevole antagonista di Chinatown. La cospirazione del film segue alcuni uomini d’affari senza scrupoli che corrompono i politici per rubare l’approvvigionamento idrico di una piccola città, al fine di fornire alla città di Los Angeles un accesso più economico a maggiori risorse. E a differenza di molti altri film che lo pretendono, la storia di questo film noir acclamato dalla critica è quasi interamente vera. La trama nella vita reale era una storia di intrighi e inganni degna del film che ha ispirato, anche se fortunatamente nella realtà delle “guerre dell’acqua” unilaterali della California c’è meno incesto.

Semmai, Chinatown ha minimizzato la portata della corruzione coinvolta nelle guerre dell’acqua, con la cospirazione nella vita reale che coinvolgeva tutti, dai filantropi locali fino al presidente stesso. L’indimenticabile e malvagio ideatore della cospirazione del film, Noah Cross, è basato su una combinazione (per evitare possibili contenziosi) di personaggi reali come Frederick Eaton e l’ingegnere civile William Mullholland.

Chinatown (1974)

Sì, proprio quel Mulholland. Il personaggio di Los Angeles così famoso che l’iconica Mulholland Drive è stata chiamata in suo onore (per non parlare del misterioso e sconvolgente film di David Lynch Mulholland Drive). Eaton e Mulholland hanno ideato un piano per costruire un acquedotto che deviasse l’approvvigionamento idrico della vicina Owens Valley verso Los Angeles.

Quindi sicuramente la valle era una distesa di terra disabitata e inutilizzata, giusto? In realtà, la Owens Valley era piena di agricoltori locali furiosi che avevano bisogno di quell’acqua per i loro raccolti (oltre che, beh, per la sopravvivenza di base). Ma Eaton e Mulholland misero in atto numerose manovre non proprio legali per assicurarsi i diritti sull’acqua, tra cui esagerare la carenza idrica di Los Angeles per ottenere il sostegno dell’opinione pubblica, acquistare i terreni necessari per l’acquedotto come privati cittadini e rivenderli alla città con un profitto, e persino incontrare di persona l’allora presidente Theodore Roosevelt per assicurarsi il suo sostegno alla loro impresa (nel migliore dei casi immorale, probabilmente illegale). Quindi forse non sorprende che film noir successivi come Blade Runner abbiano immaginato la Los Angeles del 2019 come una landa desolata e piovosa, dopo tutti i danni che i funzionari della città hanno causato all’ecosistema della zona per il proprio profitto personale.

The Legend of Tarzan: la spiegazione del finale del film con Alexander Skarsgård

Diretto da David Yates e interpretato da Alexander Skarsgård, Margot Robbie e Christoph Waltz, The Legend of Tarzan (2016) rilegge in chiave moderna il mito creato da Edgar Rice Burroughs. Ambientato dopo gli eventi classici, il film inizia quando John Clayton, ormai integrato nella società inglese e noto come Lord Greystoke, riceve l’invito a tornare in Africa come emissario del Parlamento britannico. Ma dietro la missione diplomatica si nasconde un piano oscuro: l’uomo d’affari Léon Rom, interpretato da Waltz, intende sfruttare le risorse del Congo e ottenere il controllo della regione tramite la schiavitù e la violenza coloniale. Il ritorno di Tarzan nella giungla segna quindi un viaggio al contrario — non verso la civiltà, ma verso la riscoperta della propria natura istintiva e morale, in un contesto che oppone il progresso occidentale al rispetto per il mondo naturale.

Il significato della lotta finale tra Tarzan e Rom

Nel climax del film, la tensione tra i due mondi raggiunge il culmine. Léon Rom riesce a catturare Jane (Margot Robbie) e la usa come esca per attirare Tarzan in una trappola. La sequenza della battaglia finale, ambientata lungo il fiume e tra le liane della giungla, non è solo un momento di spettacolo visivo ma anche la rappresentazione simbolica di una resa dei conti tra corruzione e integrità. Tarzan, tornato pienamente alla sua identità selvaggia, affronta Rom con la forza di chi difende non solo la donna amata ma anche il proprio mondo. La vittoria del protagonista non è soltanto fisica: è il rifiuto definitivo del modello coloniale che vede la natura come una risorsa da sfruttare. Il film, pur costruito come blockbuster d’avventura, utilizza il linguaggio dell’azione per denunciare le radici violente della conquista europea e riaffermare l’equilibrio tra l’uomo e l’ambiente.

Il gesto di Jane e la riscrittura del mito

The Legend of Tarzan cast
Foto di Courtesy of Warner Bros. Picture – © 2016 Warner Bros. Entertainment Inc., WV Films IV LLC and Ratpac-Dune Entertainment LLC-U.S., Canada, Bahamas & Bermuda20

Nel finale, Jane non è una semplice “dama in pericolo”, ma parte attiva della risoluzione. È lei, infatti, a ribellarsi a Rom, sabotando il suo piano e contribuendo alla sconfitta del nemico. Questa scelta narrativa rilegge il personaggio femminile con uno sguardo contemporaneo, restituendole autonomia e coraggio. Jane diventa simbolo del nuovo equilibrio tra uomo e donna, civiltà e natura, ragione e istinto. La sua alleanza con Tarzan non è solo sentimentale, ma ideologica: rappresenta la possibilità di un mondo in cui la compassione e il rispetto sostituiscono la logica del dominio. Quando, nel finale, Tarzan la salva e la riporta nella loro casa nella giungla, l’immagine non è quella di una regressione primitiva, ma di una riconciliazione tra gli opposti — la modernità che si piega di fronte alla forza dell’armonia naturale.

Il significato della scena conclusiva e la rinascita di Tarzan

The Legend of Tarzan film

La scena finale mostra John Clayton che ha ormai rinunciato alla sua vita londinese e scelto di restare definitivamente in Africa con Jane. In un’ultima inquadratura, li vediamo mentre accolgono la nascita del loro bambino, simbolo di un futuro in cui due mondi un tempo inconciliabili possono coesistere. Tarzan non è più diviso tra uomo e animale, tra istinto e cultura: li ha integrati entrambi. La sua trasformazione rappresenta la riconquista di un’identità completa, liberata dalle catene della vergogna coloniale e dall’illusione di una superiorità occidentale. Il gesto di rinascita — la nascita del figlio — suggella il percorso di riconciliazione e rinnova la leggenda come mito della consapevolezza ecologica e morale.

Un finale che trasforma la leggenda in riflessione contemporanea

The Legend of Tarzan cast

Il finale di The Legend of Tarzan chiude il cerchio del mito, ma lo fa ribaltandone il significato. Là dove la letteratura di Burroughs celebrava l’avventura e la supremazia dell’uomo bianco, il film di Yates sposta lo sguardo sulla colpa storica del colonialismo e sulla possibilità di una redenzione attraverso la responsabilità. La vittoria di Tarzan non è più la conquista di un territorio, ma la liberazione da un sistema di sfruttamento. È una conclusione che riconosce i limiti della civiltà occidentale e riscopre la spiritualità della natura, restituendo al personaggio un senso etico e universale. In questo senso, The Legend of Tarzan è meno un film d’azione e più un racconto di resistenza morale, dove l’eroe non conquista ma si riconcilia, e il mito diventa specchio delle contraddizioni del presente.

L’ultimo dei Templari: è basato su una storia vera?

L’ultimo dei Templari: è basato su una storia vera?

L’ultimo dei Templari (Season of the Witch, 2011), diretto da Dominic Sena e interpretato da Nicolas Cage, è ambientato in un’Europa medievale devastata dalla peste e attraversata dal fanatismo religioso. Il film, però, non racconta una vicenda realmente accaduta, ma utilizza la Storia come cornice simbolica per un racconto di fantasia. La missione dei cavalieri Teutonici Behmen e Felson, incaricati di scortare una giovane accusata di stregoneria, non deriva da un evento documentato, bensì da un intreccio originale che combina suggestioni storiche, leggenda popolare e immaginario gotico.

Le discrepanze tra storia e finzione

Pur richiamando periodi e luoghi reali, il film introduce una serie di anacronismi e licenze narrative che lo allontanano dal terreno storico. Le Crociate, ad esempio, si erano concluse secoli prima del contesto in cui la trama sembra collocarsi, e la grande ondata di processi per stregoneria sarebbe esplosa solo nel XV e XVI secolo, non durante la peste nera. Anche la figura dei Templari è usata liberamente: l’ordine era già stato sciolto dal papato nel 1312, ma nel film viene evocato come simbolo della fede armata, incarnazione di un ideale religioso ormai in crisi. Tutto ciò conferma che L’ultimo dei Templari non intende ricostruire fedelmente un’epoca, ma evocare un Medioevo mitico e allegorico, dove la superstizione diventa il motore della narrazione.

Perché inserisce elementi reali?

Nicolas Cage e Ron Perlman in L'ultimo dei Templari (2011)
Foto di Egon Endrenyi – © 2010 Season of the Witch Distributions, LLC All Rights Reserved.

L’inclusione di riferimenti storici – come la peste, le crociate o la Chiesa corrotta – serve a dare al film un tono di realismo morale, più che documentario. Dominic Sena costruisce un mondo dove la fede cieca e la paura dell’ignoto convivono, e i cavalieri protagonisti si muovono in bilico tra redenzione e colpa. L’ambientazione storica diventa così una metafora del conflitto interiore dei personaggi, costretti a confrontarsi con un male che non è solo demoniaco, ma profondamente umano. In questo senso, la realtà storica viene reinterpretata come scenografia del peccato e della paura, una proiezione delle ansie collettive dell’epoca – e, per estensione, delle nostre.

Come abbiamo analizzato nella spiegazione del finale de L’ultimo dei Templari, il cuore del film non risiede nei fatti storici, ma nel significato simbolico della lotta tra fede e male. La battaglia contro il demone, lungi dall’essere una semplice sequenza d’azione, diventa la rappresentazione della crisi spirituale di un mondo che ha perso il contatto con i propri valori originari. In questa chiave, il film usa il contesto storico non come testimonianza del passato, ma come campo di battaglia interiore, dove i protagonisti cercano una redenzione personale in mezzo alla distruzione.

Nicolas Cage e Claire Foy in L'ultimo dei Templari (2011)
Foto di Egon Endrenyi – © 2010 Season of the Witch Distributions, LLC All Rights Reserved.

La conclusione: finzione, ma con un’anima storica

In definitiva, L’ultimo dei Templari non è basato su una storia vera, ma attinge con libertà e consapevolezza a fatti e miti medievali per costruire una parabola morale sulla fede, la colpa e la paura. Il Medioevo del film è un luogo mentale, non geografico: un crocevia tra storia e leggenda, dove la peste diventa metafora della corruzione spirituale e la stregoneria un modo per rappresentare il bisogno umano di dare un volto al male. La verità storica cede dunque il passo alla verità emotiva – quella di un racconto che, pur non autentico, sa evocare con forza i dilemmi eterni dell’uomo davanti alla propria ombra.

L’ultimo dei Templari: la spiegazione del finale del film con Nicolas Cage

Diretto da Dominic Sena e interpretato da Nicolas Cage e Ron Perlman, L’ultimo dei Templari (Season of the Witch, 2011) è un film che fonde elementi di avventura medievale e horror sovrannaturale con una riflessione più ampia sulla fede e sulla colpa. Ambientato in un’Europa devastata dalla peste, segue due cavalieri crociati, Behmen e Felson, che tornano a casa dopo anni di guerre combattute in nome di Dio.

Ma il loro ritorno è segnato dal disincanto e dal senso di colpa per le atrocità commesse durante le Crociate. Incaricati di scortare una giovane donna accusata di stregoneria fino a un monastero dove i monaci dovranno esorcizzarla, i due uomini intraprendono un viaggio che diventa una parabola morale sulla redenzione e sulla perdita della fede. Il film, sotto la superficie avventurosa, è una riflessione sul male umano, sul fanatismo e sulla possibilità di ritrovare un senso di spiritualità dopo averne abusato.

La rivelazione di Anna e la vera natura del male

Quando Behmen e Felson raggiungono finalmente il monastero e consegnano la giovane Anna (interpretata da Claire Foy), la narrazione ribalta le sue premesse. Ciò che sembrava una missione per liberare il mondo da un male terreno si rivela una lotta contro un male ancestrale. Anna non è infatti una strega, ma una vittima posseduta da un demone millenario che ha seminato morte e pestilenza per secoli. Questa rivelazione trasforma radicalmente la prospettiva del film: la superstizione e la paura che avevano guidato le azioni dei cavalieri si scontrano con una realtà più profonda, in cui il male non è prodotto dall’eresia o dal peccato, ma dalla corruzione spirituale dell’uomo. Il monastero, luogo simbolo della purezza e della preghiera, si tramuta nel teatro dell’ultima battaglia tra fede e oscurità, mostrando come persino i luoghi sacri possano diventare terreno fertile per la perdizione. Il demone, una figura che rappresenta il potere della menzogna e della manipolazione, svela il lato più oscuro dell’animo umano: la paura del diverso e il desiderio di dominio mascherati da zelo religioso.

Il significato simbolico della battaglia finale e della morte di Behmen

Nicolas Cage e Ron Perlman in L'ultimo dei Templari (2011)
Foto di Egon Endrenyi – © 2010 Season of the Witch Distributions, LLC All Rights Reserved.

Lo scontro finale tra Behmen e il demone è costruito come una lotta di espiazione più che di sopravvivenza. Il cavaliere, che aveva abbandonato la fede perché disgustato dalla violenza della Chiesa, si ritrova di fronte a una scelta estrema: sacrificare sé stesso per salvare Anna e, con lei, il mondo. In questa sequenza, l’azione assume un valore metaforico. Ogni colpo di spada diventa un atto di purificazione, un tentativo di liberarsi dalla colpa accumulata nel corso di anni di guerre “sante”. Quando Behmen riesce a distruggere la creatura demoniaca, non compie un gesto eroico, ma un atto di restituzione morale. La sua morte è una forma di redenzione, un ritorno a una fede autentica che non si fonda sull’obbedienza cieca, ma sulla compassione e sul sacrificio personale. Felson, testimone e custode del suo sacrificio, sopravvive come rappresentante della memoria di quella fede rinnovata, che non appartiene più alla Chiesa istituzionale ma all’uomo libero e consapevole.

Il male come eredità dell’uomo e non del demonio

Nicolas Cage e Claire Foy in L'ultimo dei Templari (2011)
Foto di Egon Endrenyi – © 2010 Season of the Witch Distributions, LLC All Rights Reserved.

Il finale di L’ultimo dei Templari rifiuta ogni visione manichea. Dopo la sconfitta del demone, non c’è una vera vittoria: il male non scompare, ma si trasforma. La peste, la guerra, la superstizione restano come eredità del mondo che i protagonisti hanno contribuito a corrompere. Il film suggerisce che la vera origine del male non risiede nel soprannaturale, ma nella natura stessa dell’uomo, nella sua incapacità di distinguere la fede dalla violenza, la giustizia dal fanatismo. In questo senso, il demone diventa il riflesso delle colpe umane: un simbolo dell’ipocrisia religiosa e della sete di controllo che, attraverso i secoli, ha giustificato guerre, persecuzioni e roghi. La morte di Behmen segna una rinascita spirituale, ma non una salvezza collettiva: il mondo rimane contaminato, e i sopravvissuti si aggirano tra le rovine del monastero come testimoni di un equilibrio fragile. La fede, ora, è un cammino solitario fatto di consapevolezza, non di dogmi.

Il lascito del film e la sua rilettura nel percorso di Nicolas Cage

Christopher Lee e Stephen Campbell Moore in L'ultimo dei Templari (2011)
Foto di Egon Endrenyi – © 2010 Season of the Witch Distributions, LLC All Rights Reserved.

Nel contesto della filmografia di Nicolas Cage, L’ultimo dei Templari assume un significato particolare. Uscito in un periodo in cui l’attore alternava ruoli spettacolari a interpretazioni più introspettive, il film si colloca come un ponte tra il cinema d’intrattenimento e la ricerca di un senso più esistenziale. Behmen è un personaggio tipicamente cageano: un uomo in bilico tra colpa e redenzione, tra follia e spiritualità. Attraverso di lui, il film si trasforma in una riflessione sul potere della fede come esperienza individuale e non come imposizione collettiva. Nonostante le sue imperfezioni narrative e visive, L’ultimo dei Templari trova nel suo finale una forza simbolica che lo rende più interessante di quanto appaia in superficie. La morte del protagonista, immersa in un’atmosfera di silenzio e luce, non è una sconfitta, ma una dichiarazione di speranza: il male può essere contenuto solo quando viene riconosciuto come parte di noi stessi. È questa la lezione ultima del film — che la vera vittoria non è nella guerra contro il demone, ma nella riconciliazione dell’uomo con la propria coscienza.

Il Clown di Kettle Spring: recensione del film horror di Eli Craig

Con Il Clown di Kettle Spring, disponibile dal 23 ottobre su Prime Video, giusto in tempo per la notte di Halloween, Eli Craig torna a dirigere un film horror a distanza di otto anni da Little Evil. L’opera è tratta dal romanzo omonimo di Adam Cesare, acclamato per aver rivitalizzato la narrativa slasher contemporanea. Fin dalle prime scene, il film abbraccia le coordinate classiche del genere: una cittadina isolata del Midwest, un gruppo di adolescenti in cerca di libertà, un trauma collettivo mai davvero risolto e un assassino mascherato pronto a colpire.

Sangue tra i filari e vecchi rancori di provincia

Protagonista è Quinn Maybrook (Katie Douglas), una ragazza costretta a trasferirsi con il padre, il dottor Glenn (Aaron Abrams), a Kettle Spring, Missouri, dopo la morte della madre. Il paese, devastato dall’incendio della vecchia fabbrica di sciroppo di mais Baypen, vive una tensione costante tra generazioni: gli adulti accusano i giovani di essere la causa del degrado, i ragazzi si rifugiano in un cinismo digitale che esaspera il conflitto. Tutto precipita quando qualcuno indossa il costume di Frendo, la mascotte clown della fabbrica, e inizia a uccidere chiunque rappresenti il volto “decadente” della nuova generazione.

Eli Craig e il ritorno allo slasher “puro”

Craig, già autore del cult Tucker & Dale vs Evil (2010), affronta questa volta un racconto più lineare e meno parodico, spostando l’attenzione sull’essenza stessa del cinema slasher: ritmo, ambientazione, creatività nelle uccisioni e una tensione costruita più sull’attesa che sul jump scare. Il regista conserva il gusto per l’ironia, ma la dosa con cautela, scegliendo un tono più cupo e un’ambientazione che restituisce al genere la sua dimensione rurale e isolata.

Il film si apre con un prologo folgorante, che richiama in modo evidente Lo squalo di Spielberg: una scena secca, ben coreografata, che stabilisce da subito le regole del gioco. Da quel momento, Il Clown di Kettle Spring alterna momenti di violenza esplicita a pause più ironiche, dove emerge la consapevolezza del regista nel maneggiare cliché e aspettative. Nonostante un budget limitato, Craig gestisce gli spazi con intelligenza: i campi di mais diventano un labirinto naturale e claustrofobico, perfetto per nascondere e sorprendere, mentre il suono – risate distorte, fruscii, urla lontane – amplifica la percezione del pericolo.

Una scena dallo slasher il Clown di Kettle Spring © SHUDDER

Satira sociale e nostalgia anni Ottanta

Come nel romanzo di Cesare, il film si muove su un doppio binario: da un lato l’intrattenimento sanguinoso, dall’altro una satira sullo scontro generazionale. Gli adulti del paese incarnano una moralità ipocrita e repressiva, incapace di accettare il cambiamento; i ragazzi reagiscono con rabbia e sarcasmo, esprimendo un disagio che il film traduce in immagini di caos e ribellione. La figura del clown, ex simbolo pubblicitario di un’America produttiva e ottimista, diventa così la maschera di una società che ha perso ogni innocenza.

Craig non si limita a evocare gli anni Ottanta – citando Halloween, Scream e persino Grano rosso sangue – ma li riattualizza attraverso un’estetica che alterna il colore acido dei neon al buio profondo dei campi notturni. L’effetto è quello di un horror “ibrido”: nostalgico ma consapevole del proprio tempo, con un ritmo veloce e una struttura pensata per un pubblico abituato alla brevità dello streaming.

Pregi e limiti di un adattamento semplificato

Se l’atmosfera funziona e il ritmo tiene, la sceneggiatura – scritta da Craig con Carter Blanchard – paga la scelta di semplificare il romanzo di Cesare. Il mistero si riduce, i conflitti morali si appiattiscono e alcune svolte narrative diventano prevedibili. L’identità del killer si intuisce troppo presto, e il film non tenta mai di sviare realmente lo spettatore. Anche il terzo atto soffre un eccesso di spiegazioni: il lungo monologo dell’antagonista, pur utile a chiarire le motivazioni, rallenta l’azione e smorza la tensione.

Nonostante ciò, Il Clown di Kettle Spring resta un slasher ben costruito, con una regia attenta alla coerenza visiva e un montaggio che non lascia tempi morti. Le scene di morte, girate con effetti pratici, sono tra gli elementi più riusciti: creative, sanguinose, ma sempre leggibili. L’uso minimo della CGI conferisce al film un sapore artigianale che ricorda il cinema horror di un tempo, privo di eccessi digitali e capace di sfruttare la fisicità degli attori.

Frame dallo slasher il Clown di Kettle Spring © SHUDDER

Katie Douglas e il volto del nuovo slasher

Nel ruolo di Quinn, Katie Douglas (già vista in Ginny & Georgia) offre una final girl moderna e convincente: intelligente, vulnerabile, ma lontana dagli stereotipi di vittima passiva. Il suo personaggio incarna la giovane donna contemporanea, combattuta tra la memoria del lutto e il desiderio di autodeterminazione. Intorno a lei, i co-protagonisti – Carson MacCormac, Cassandra Potenza e Kevin Durand – disegnano un microcosmo di figure riconoscibili: il bullo, l’amico leale, il genitore incapace.

Eli Craig non cerca di rivoluzionare lo slasher, ma di ricordarne la potenza originaria: quella di un genere capace di intrattenere e al tempo stesso raccontare le ansie collettive. In Il Clown di Kettle Spring l’orrore non nasce solo dalle uccisioni, ma dal senso di impotenza di una generazione schiacciata tra aspettative e repressione. Quando il film lascia parlare le immagini – i corpi tra i filari, il rosso che sporca l’oro del mais, la risata del clown che riecheggia nel vuoto – riesce a essere più incisivo di quanto non dica a parole. Il nuovo slasher di Craig, dunque, diverte, spaventa e a tratti riflette sul bisogno di trovare un nemico visibile in un mondo ormai privo di punti fermi. Forse non riesce a raggiungere l’irriverenza del suo esordio, ma conferma il suo talento nel trasformare la paura in intrattenimento popolare.

La lezione, recensione del film con Stefano Accorsi e Matilda de Angelis – #RoFF20

La lezione, diretto da Stefano Mordini e scritto da Luca Infascelli e dallo stesso Mordini, è un thriller psicologico ispirato al romanzo di Marco Franzoso. Distribuito da Vision Italia, arriverà in sala il 5 marzo 2026. Nel cast spiccano Matilda De Angelis, Stefano Accorsi e Eugenio Franceschini. Ambientato in una Trieste elegante e ambigua, il film racconta il meccanismo sottile dello stalking, la manipolazione e il fragile confine tra verità, percezione e potere emotivo.

Il caso Walder e l’avvocata Elisabetta

Elisabetta (Matilda De Angelis) è un’avvocata affermata di Trieste. All’inizio del film la vediamo celebrare una vittoria: la donna che accusava di violenza sessuale il suo assistito, il professor Angelo Walder (Stefano Accorsi), ha ritrattato le accuse. Ma dietro quel successo professionale si nasconde un vuoto. La lezione ci introduce gradualmente nella vita privata dell’avvocata, dove riaffiorano le memorie di un passato segnato da uno stalking ossessivo e da una paura che sembra tornare.

Il film non procede mai per scontati colpi di scena: il thriller si costruisce su uno sguardo interno, psicologico, in cui la tensione nasce dal dubbio e non dalla rivelazione. Chi manipola chi? Chi detiene davvero il potere in questa relazione ambigua? La lezione esplora questi interrogativi con un tono sobrio ma inquietante, lasciando che siano i silenzi e gli sguardi a parlare.

Crediti Camilla Cattabriga

Trieste, città dell’anima

Nel romanzo di Franzoso la storia si svolgeva tra le colline romagnole, ma Mordini sceglie Trieste come scenario per la sua “lezione”. Una scelta tutt’altro che casuale. “Serviva un’Italia che si proiettasse verso l’esterno,” ha spiegato il regista, “una città mitteleuropea, elegante e cortese nei rapporti, ma capace di nascondere altro.”

La fotografia sfrutta la luce tagliente del nord-est, il vento che soffia come elemento di disturbo e le architetture razionali che diventano metafora del controllo. Trieste, con il suo fascino freddo e le sue prospettive oblique, diventa un personaggio a sé, specchio dell’animo della protagonista: lucida, razionale, ma attraversata da correnti invisibili di inquietudine.

La lezione: amore, possesso e sesto senso

Il titolo non è solo metaforico. Nel film, una delle lezioni è quella che Elisabetta deve imparare — e che lo spettatore è invitato a condividere: l’amore non è possesso, ma azione, relazione, scelta. Mordini costruisce una tensione costante tra verità e interpretazione, mostrando come la manipolazione possa insinuarsi nei rapporti più intimi fino a deformarli.

Il film suggerisce che riconoscere il meccanismo della manipolazione e del narcisismo, affidarsi al proprio sesto senso, sia già di per sé un atto di libertà, una lezione da imparare per evitare che si ripeta.

Crediti Camilla Cattabriga

Gli attori e il lavoro sui personaggi

Matilda De Angelis offre un’interpretazione intensa: costruisce un personaggio forte ma vulnerabile, capace di restituire la complessità della vittima senza cadere in cliché. Come lei stessa ha spiegato in conferenza stampa, era importante “togliere il preconcetto che la vittima debba avere un determinato tipo di caratteristiche per essere creduta”.

Accanto a lei, Stefano Accorsi sorprende per misura e profondità: il suo Walder è un uomo ambiguo, professore di Storia all’università, affascinante e inquietante, che non cerca giustificazioni ma mostra la fragilità di chi confonde l’amore con il controllo. “Il cinema,” ha detto Accorsi, “ha ancora la forza di raccontare storie complesse, al di là dei facili giudizi.” De Angelis e Accorsi sono tornati a recitare insieme dopo Veloce come il vento, film di esordio della giovane attrice.

Completa il trio Eugenio Franceschini, in un ruolo più contenuto (l’ispettore di polizia) ma essenziale per ancorare la vicenda a una realtà emotiva concreta.

Crediti Camilla Cattabriga

La lezione: una riflessione contemporanea

Lo stalking e la violenza di genere non vengono trattati in termini moralistici, ma come dinamiche sistemiche, frutto di una cultura che ancora oggi fatica a riconoscere la responsabilità collettiva. Mordini non cerca ambiguità morali, ma invita al dubbio, alla riflessione.

La lezione del film è che la verità – come suggeriva Foucault con il concetto (citato nella pellicola) di parhesia – è qualcosa che richiede coraggio: la capacità di parlare, ascoltare e riconoscere il dolore altrui. E proprio questa capacità sembra mancare alla società che circonda Elisabetta, incapace di vedere la sua solitudine e la sua paura.

Un thriller che dà voce ai colpevoli

Con La lezione, Stefano Mordini firma un progetto lontano da ogni spettacolarizzazione, sceglie la via della sobrietà e del turbamento interiore, offrendo un film che parla non solo di stalking e di violenza psicologica, ma anche del bisogno universale di essere riconosciuti e rispettati. La tensione è costruita con eleganza e la sceneggiatura di Infascelli e Mordini riesce a fondere introspezione e ritmo narrativo in modo naturale.

The Conjuring – Per ordine del Diavolo: la spiegazione del finale del film

Il finale di The Conjuring – Per ordine del Diavolo (qui la recensione) ha lasciato gli spettatori con alcune domande, soprattutto per quanto riguarda la spiegazione dell’origine del demone. Realizzare sequel è un compito arduo perché le aspettative sono alte e, per una serie horror di successo come l’universo di The Conjuring, la pressione è ancora più forte. In questo terzo capitolo loro dedicato, i Warren tornano per indagare sulla possessione di David Glatzel e scoprono una maledizione e un occultista dietro lo strano comportamento del ragazzo. Il cattivo di questo film è diverso dai casi precedenti.

Mentre tutti i film di Conjuring sono basati sui casi di Ed e Lorraine Warren, The Conjuring – Per ordine del Diavolo si ispira al processo per omicidio di Arne Johnson, che uccise il suo padrone di casa e invocò la difesa della possessione demoniaca nel 1981. Il caso di Johnson è uno dei due su cui indagano i Warren, entrambi collegati all’occultista e ai suoi piani caotici, al legame del cattivo con il demone e al modo in cui questo si sviluppa nel finale del film, che ha reso questo uno dei finali più esplosivi della serie fino ad ora.

Il cattivo di The Conjuring – Per ordine del Diavolo e la spiegazione del suo piano

The Conjuring – Per ordine del Diavolo è unico rispetto ai suoi predecessori in quanto si allontana completamente dal concetto di casa infestata. Il sequel si concentra piuttosto su un’unica cattiva, un’occultista di nome Isla, figlia di padre Kastner. Mentre Ed e Lorraine inizialmente credevano che David e Arne fossero posseduti da un demone, scoprono che Isla li ha in realtà maledetti mettendo un totem di strega sotto la casa dei Glatzel.

Ciò che i Warren scoprono alla fine è che lei aveva bisogno di tre persone – la bambina (Jessica), l’amante (Arne) e l’uomo di Dio, il che spiega perché ha perseguitato Ed, che ha tentato di uccidere Lorraine mentre era sotto l’effetto della maledizione – per commettere omicidi prima che morissero suicidandosi. Isla aveva bisogno di reclamare le vite delle vittime perché aveva stretto un patto con il demone e doveva mantenere la sua parte dell’accordo; la sua anima dipendeva letteralmente da questo. L’occultista aveva già avuto successo con una delle tre: Jessica, che aveva portato con sé il totem dal college.

Uccidere la sua amica Kate prima di gettarsi dalla scogliera ha funzionato, prima che Isla passasse alla persona successiva. L’Occultista ha perseguitato le tre ragazze per vicinanza, non necessariamente perché avesse un forte legame con loro. Tutto ciò che voleva era causare il caos. Tuttavia, i Warren sono riusciti a distruggere l’altare e a spezzare la maledizione prima che Isla portasse a termine ciò che aveva iniziato.

In che modo il demone di questo film è diverso dagli altri mostri della serie

A differenza dei precedenti film dell’universo di The Conjuring, The Conjuring – Per ordine del Diavolo non trattava di spiriti maligni che possedevano bambole, persone o fantasmi tradizionali. Sebbene i demoni siano sempre esistiti nella serie, il film cambia un po’ le cose rinunciando al solito tipo di possessione, ovvero non si tratta affatto di una possessione. Sebbene Isla abbia stretto un patto demoniaco, è stata la sua ossessione per l’occulto a guidare le sue azioni. Arne, Jessica, David ed Ed sono maledetti, e questo rappresenta un cambiamento unico perché è Isla a controllarli tutti dietro le quinte.

Non è che un demone o uno spirito sia specificamente legato a una persona o a una cosa. Gran parte di ciò che rende The Conjuring – Per ordine del Diavolo così sinistro è che dietro gli eventi strazianti c’è un essere umano normale, qualcuno che è ancora vivo e non morto, come Bathsheba di L’evocazione – The Conjuring, per esempio. Il demone è semplicemente un’estensione dell’occultista piuttosto che un essere che agisce da solo.

Inoltre, il pubblico non vede mai il demone vero e proprio, ma solo le conseguenze fisiche di ciò che accade quando non si rispetta un patto. Anche la totale assenza di una casa infestata che i Warren devono indagare è una novità rispetto ai film precedenti. L’azione in The Conjuring 3 si svolge in gran parte all’esterno della casa e la possessione non è limitata alle sue mura.

Come The Conjuring – Per ordine del Diavolo si confronta con la storia vera

Il film attinge molto dai casi reali dei Warren, così come dal processo per omicidio di Arne Cheyenne Johnson. L’esorcismo di David si svolge, almeno secondo i ricordi dei Warren, in modo simile a come è descritto nel film. Johnson pugnala comunque il suo padrone di casa, sostenendo di non ricordare cosa sia successo, e i Warren sono presenti per tutto il tempo, interagendo con i Glatzel, Johnson e la polizia.

La sua dichiarazione di non colpevolezza con la difesa della possessione demoniaca è accurata, così come lo è il rapporto di Johnson con Debbie e la loro convivenza, prima nella casa dei Glatzel dove David era presumibilmente posseduto e poi nella proprietà dove Debbie e Arne hanno vissuto insieme in seguito. Tuttavia, il film si prende molte libertà creative con la storia, andando oltre i limiti imposti dai fatti reali relativi al processo. L’aggiunta più rilevante alla storia è l’occultista Isla, che in realtà non è mai esistita e non ha mai avuto nulla a che fare con il caso Johnson, sebbene sia stata la principale antagonista del sequel.

The Conjuring – Per ordine del Diavolo si discosta notevolmente dagli eventi reali dopo che Johnson accoltella Bruno (il cui vero nome era Alan Bono), aggiungendo le visite a Kastner e il suo legame con l’occultista, così come il suo misterioso passato e come lei sia stata coinvolta nella stregoneria demoniaca. A tal fine, The Devil Made Me Do It seleziona quali aspetti della vita reale inserire nel film, affidandosi anche alla finzione per tessere la sua storia horror.

LEGGI ANCHE: The Conjuring – Per Ordine del Diavolo: la vera storia dietro il film

The Conjuring - Per Ordine del Diavolo
Patrick Wilson in The Conjuring – Per Ordine del Diavolo. Foto di © 2021 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved

Jessica Louise Strong era una persona reale (e il caso era reale)?

In The Conjuring – Per ordine del Diavolo, ricco di easter egg, Jessica Louise Strong è un’adolescente scomparsa poco dopo l’omicidio della sua migliore amica Katie. A quanto pare, Jessica, sotto la maledizione dell’Occultista, era stata lei ad uccidere la sua amica, pugnalandola 22 volte prima che la maledizione la costringesse a porre fine alla propria vita.

La natura specifica del caso che coinvolge Jessica è fittizia e inventata appositamente per The Conjuring – Per ordine del Diavolo; non è una persona reale scomparsa né ha ucciso nessuno. Tuttavia, ciò non significa che non esistano casi simili. Escludendo la parte occulta della storia, la sottotrama di Jessica nel film può essere paragonata alla scomparsa di Skylar Neese, un’adolescente uccisa da due suoi compagni di liceo dopo averla portata in un luogo isolato dove l’hanno pugnalata a morte.

I Discepoli di Ram erano reali (e collegati ad Annabelle)?

Per ottenere maggiori informazioni sul totem della strega che trovano sotto la casa del posseduto David Glatzels, Ed e Lorraine visitano padre Kastner, che ha dedicato la sua vita alla ricerca dell’occulto. Si scopre che Kastner aveva effettivamente avuto a che fare con i Disciples of Ram, una setta satanica che voleva portare più demoni nel mondo e di cui Annabelle Higgins era membro. Questo è un riferimento diretto al film spin-off di The Conjuring, Annabelle, in cui nella colonna sonora è presente anche un brano intitolato “Disciples of the Ram”, e ad Annabelle 2: Creation.

Tuttavia, non si tratta di una vera setta satanica. I film della serie The Conjuring si sono a lungo concentrati sui casi affrontati dai Warren, ma ogni film della serie presenta un’enorme quantità di aggiunte fittizie che hanno lo scopo di aumentare l’orrore più di ogni altra cosa. L’aspetto più importante della menzione dei Disciples of the Ram è il legame che continua a tessere all’interno dell’universo, indipendentemente dal film.

The Conjuring - Per Ordine del Diavolo
Ruairi O’Connor in The Conjuring – Per ordine del diavolo

Il vero significato del finale di The Conjuring – Per ordine del Diavolo

The Conjuring – Per ordine del Diavolo ha una profondità tematica sorprendente per quanto riguarda i film della serie The Conjuring. Concentrandosi sul processo ad Arne Cheyenne Johnson, il finale di questo film esplora il legame tra la credenza nel soprannaturale, in particolare gli esorcismi, e la salute mentale. Il caso è stato uno dei più intriganti nella storia degli Stati Uniti e Per ordine del diavolo gli ha dato una sua interpretazione unica, senza però minimizzare il ruolo che il trauma ha avuto nelle azioni di Arne.

Tuttavia, grazie all’introduzione dell’Occultista, The Conjuring – Per ordine del Diavolo è riuscito anche ad aggiungere profondità tematica con elementi che non erano collegati al caso originale, dato che il personaggio è fittizio. L’Occultista, Isla, ha stretto un patto demoniaco che ha poi dovuto onorare per salvare la sua anima: una chiara allegoria dei pericoli dell’avidità e della brama di potere.

Anche la fede è, come in tutti i film di The Conjuring, un tema chiave. Questa volta, il fatto che la fede spirituale e l’amore per la propria famiglia possano a volte essere in contrasto. Ciò è chiaramente dimostrato da Kastner e dal fatto che ha dovuto crescere Isla in segreto, e dal suo amore per lei che lo ha portato a rinunciare completamente alla sua fede in Dio e a chiudere un occhio mentre lei entrava in contatto con entità malvagie.

L’ira di Becky: la spiegazione del finale del film

L’ira di Becky: la spiegazione del finale del film

L’ira di Becky di Matt Angel e , sequel del film Becky del 2020, è una commedia d’azione incentrata su una trama di vendetta. Seguendo Becky, una ragazza orfana con un talento per la violenza vendicativa, il film racconta il suo viaggio mentre fugge dal sistema di affidamento con il suo fedele cane, Diego. Dopo aver trovato un posto dove stare con una gentile signora anziana, Elena, la vita di Becky ricomincia da capo fino a quando alcuni uomini di un’organizzazione fascista attaccano la loro casa e rapiscono Diego.

Armata della sua ferocia, Becky deve affrontare i suoi aguzzini, che si fanno chiamare i “Nobili Uomini” e recuperare il suo amato Diego. Se siete curiosi di sapere dove porterà la letale protagonista questa nuova avventura pericolosa e sanguinosa e cosa lei scoprirà sui Nobili Uomini, ecco tutto quello che c’è da sapere sul finale di L’ira di Becky.

La trama di L’ira di Becky

Sono passati tre anni dagli eventi del primo film; Becky ora ha 16 anni. È stata in tre case famiglia e non è rimasta a lungo in nessuna di esse. Nel prologo del film, lei e Diego vengono mandati a vivere con una coppia di religiosi eccessivamente gentili. Anche se all’inizio Becky decide di stare al gioco e di dire alla coppia esattamente quello che vogliono sentirsi dire, quando loro si addormentano decide di scappare. Viene mandata in altre due famiglie affidatarie, ma non rimane nemmeno con loro.

Lulu Wilson in L'ira di Becky
Lulu Wilson in L’ira di Becky

Poco prima dell’inizio del film, Becky incontra una donna mentre fa l’autostop. Questa donna è Elena, che accoglie Becky nella sua casa. All’inizio del film, Becky vive con Elena e lavora in una tavola calda locale. La sua vita idilliaca viene interrotta dall’arrivo in città dei membri dei Nobili Uomini, con uno scopo che diventerà chiaro in seguito. A quanto pare, il gruppo vuole dare inizio a una rivolta e ha scelto questa città come epicentro. Odiano più di ogni altra cosa una politica liberale, la senatrice Hernandez, e le sue politiche, e hanno organizzato manifestazioni contro di lei.

Ritenendole inefficaci, alcuni membri hanno deciso di adottare un approccio più violento. Quando Sean arriva in città con DJ e Anthony, ha l’impressione che si tratti di un’altra manifestazione. Solo più tardi capisce la verità. Capendo correttamente che tipo di persone sono questi tre, Becky lascia trasparire il suo lato conflittuale “rovesciando” una tazza di caffè bollente sulle gambe di Anthony. Tuttavia, i tre uomini capiscono che ha agito intenzionalmente e la seguono segretamente fino a casa di Elena. Anthony attacca per primo Becky, che chiama Diego in aiuto.

Ma prima che lui possa raggiungere Becky e Anthony, DJ lo colpisce con una mazza da baseball. Quando Elena cerca di intervenire, Anthony le spara. Becky, infuriata, cerca di attaccare uno degli uomini, ma viene messa fuori combattimento. La mattina seguente, si sveglia e scopre che Elena è morta e Diego è scomparso. Facendo del suo meglio per non farsi prendere dal panico, Becky seppellisce Elena prima di partire per vendicarsi. Avendo sentito che gli uomini sono in città per incontrare un certo Darryl, Becky decide che è un buon punto di partenza. Ci sono due Darryl in città.

Il primo è una donna anziana che fuma come un turco mentre cammina con una bombola di ossigeno. Con un Darryl apparentemente fuori discussione, Becky si concentra sull’altro. A casa del secondo Darryl, Anthony minaccia i suoi amici di terribili conseguenze se racconteranno a qualcuno ciò che è successo la notte prima. Ma il loro comportamento attira presto l’interesse di Darryl, che scopre la verità dai tre giovani. All’insaputa di tutti loro, Becky è proprio fuori, li osserva e si prepara ad attaccare.

Michael Sirow, Matt Angel e Aaron Dalla Villa in L'ira di Becky
Michael Sirow, Matt Angel e Aaron Dalla Villa in L’ira di Becky

Il finale del film: Becky ottiene la sua vendetta

Sebbene entrambi i film di Becky esplorino altri temi, trattano principalmente di vendetta. Le azioni di Becky in entrambi i film sono scatenate da un torto subito. In L’ira di Becky, lei prende di mira alcuni membri dei Nobili Uomini dopo che questi irrompono nella casa dove ha trovato una nuova dimora e uccidono Elena. Veniamo a sapere che Anthony e DJ sono in città per mettere in atto l’attacco al senatore Hernandez, che sta per tenere un discorso al municipio. Sean non ne sapeva nulla.

È semplicemente un razzista e un sessista, ma non è ancora radicalizzato al punto da commettere atti di violenza contro il governo degli Stati Uniti. Nel frattempo, mentre Becky valuta la situazione, scopre che Darryl è un ex Ranger dell’esercito che ha prestato servizio più volte in Iraq. Racconta quasi con naturalezza a Sean una storia di quei giorni per fargli capire cosa lui e i suoi compagni fanno ai traditori. Fino a quel punto della narrazione, non eravamo esattamente sicuri del tipo di mostro che fosse, ma quella storia chiarisce tutto.

Il primo a morire in questo gruppo è Anthony. Darryl lo manda a negoziare con Becky per restituirle il cane. Ma Anthony non ha alcuna intenzione di farlo e cerca di uccidere Becky. Cade però nella trappola che lei aveva preparato in precedenza e viene poi mandato alla porta d’ingresso della casa di Darryl. Quando Darryl apre la porta, la testa di Anthony esplode. Il secondo a morire è Sean. Darryl lo uccide dopo che lui ha cercato di andarsene e ha insultato i Nobili Uomini. Becky spara poi un dardo con la balestra attraverso la bocca di Twig, un membro dei Nobili Uomini.

In seguito lo uccide prima di essere messa fuori combattimento con un dardo tranquillante. Darryl però non uccide immediatamente Becky perché lei ha la lista di tutti i membri dei Nobili Uomini in tutto il paese. Sa che sarebbe un disastro se le autorità venissero a conoscenza della lista e tiene Becky in vita per estorcerle le informazioni. Ma l’arrivo del capo del gruppo non risolve il problema, e Becky riesce a uccidere Darryl attirandolo nella trappola che aveva preparato in precedenza. Con il suo ultimo respiro, lui si complimenta con lei.

Sean William Scott in L'ira di Becky
Sean William Scott in L’ira di Becky

Chi è il leader dei Noble Men?

In un esempio di ironia contorta, a capo dei Nobili Uomini c’è una donna. Si tratta di una persona che sia il protagonista che il pubblico hanno già incontrato in precedenza: l’altro Darryl della città. A quanto pare, è la madre di Darryl Jr. e gli ha dato il suo nome. Dopo che suo figlio ha catturato Becky, Darryl Sr. si presenta per interrogarla, usando Diego per costringerla a rivelare dove si trova la chiavetta USB.

Becky usa però le sue conoscenze da girl scout per liberarsi, colpisce Darryl Jr. con il gas di una bomboletta per costringerlo a lasciare momentaneamente la stanza e lancia un coltello contro Darryl Sr. Torna a prendere Diego e scopre che Darryl Sr. è ancora vivo. La donna anziana cerca di spararle, ma con un coltello conficcato nel cervello, il colpo manca il bersaglio. Per vendicarsi delle sue azioni precedenti, Becky ordina a Diego di sbranare e mangiare Darryl Sr.

Qual è il segreto della chiavetta?

La chiavetta è ciò che il neonazista cercava nel primo film e per cui ha ucciso il padre di Becky. Nel sequel, Becky scopre con l’aiuto involontario di Darryl Jr. che la chiave può essere aperta e contiene delle coordinate. Verso la fine dell’episodio, un agente della CIA pone a Becky due domande, con la condizione che se lei risponde affermativamente alla prima domanda, le verrà posta una seconda domanda. Becky risponde di sì quando le viene chiesto se sarà la recluta più giovane nella storia della CIA.

Poiché la seconda domanda riguarda il segreto della chiave, possiamo presumere che Becky ora conosca la verità, che probabilmente verrà esplorata nel potenziale terzo film già annunciato, in cui il gruppo dei Nobili Uomini verrà ulteriormente approfondito e messo sotto tiro da Becky, ormai evidentemente intenzionata a smantellare del tutto quest’organizzazione razzista e violenta. L’ira di Becky si conclude poi con Becky che dà la caccia a DJ e lo uccide con un lanciarazzi.

The Life of David Gale: il film è ispirato ad una storia vera?

The Life of David Gale: il film è ispirato ad una storia vera?

Diretto da Alan Parker, The Life of David Gale (2003) è un thriller drammatico in cui il personaggio omonimo (Kevin Spacey) è il capo del dipartimento di filosofia dell’Università di Austin e un importante attivista nel movimento contro la pena di morte. Il suo mondo crolla quando viene falsamente accusato di aver violentato una sua ex studentessa. Perde il lavoro all’università e sua moglie lo lascia, portando con sé il figlio. Con l’aiuto dell’ex collega e compagna attivista Constance Harraway (Laura Linney), Gale riesce a riportare un po’ di controllo nella sua vita per il bene di suo figlio.

Tuttavia, viene poi arrestato con l’accusa di aver violentato e ucciso proprio Constance e viene successivamente condannato a morte. Poco prima dell’esecuzione, l’avvocato di Gale accetta che lui conceda un’intervista a Bitsey Bloom (Kate Winslet) di News Magazine in cambio di 500.000 dollari. Bitsey ha la possibilità di parlargli per due ore al giorno per tre giorni, cercando di capire cosa sia successo davvero. Se a visione conclusa questo film sulla pena di morte e l’attivismo che la circonda vi ha fatto chiedere se sia basato su eventi reali, ecco cosa dovete sapere.

The Life of David Gale storia vera

 

The Life of David Gale è basato su una storia vera?

No, The Life of David Gale non è basato su una storia vera. Tuttavia, il progetto sviluppato dalla prima sceneggiatura cinematografica di Charles Randolph prende in prestito alcuni elementi dalla vita reale per raccontare una storia convincente. Al centro del film c’è il tema altamente controverso della pena di morte. Negli Stati Uniti, la Corte Suprema ha brevemente annullato la pena capitale in seguito al caso Furman contro Georgia nel 1972. A tutti i detenuti nel braccio della morte all’epoca fu commutata la pena in ergastolo.

Tuttavia, la pena capitale fu reintrodotta dai singoli Stati. Nel 1976, la precedente decisione di sospendere temporaneamente la pena capitale fu revocata nel caso Gregg contro Georgia. Secondo quanto riportato, alla fine di giugno 2021 erano state giustiziate oltre 1.500 persone nel Paese. In Texas, dove è ambientato il film, tale numero sarebbe superiore a 500. Gli ideali sostenuti da Gale e Constance affondano le loro radici nel concetto di non violenza. Bisogna ammettere che il film rende in qualche modo un disservizio ai personaggi e alle loro convinzioni, mostrando ciò che alla fine scelgono nel loro disperato tentativo di abolire la pena di morte.

Kate Winslet in The Life of David Gale

 

Nel mondo reale, molte organizzazioni religiose e laiche sono emerse come feroci sostenitrici del movimento contro la pena di morte. La Texas Coalition to Abolish the Death Penalty, un’organizzazione senza scopo di lucro, è in prima linea in questa lotta sin dalla sua fondazione nel 1998. Nel 2016, la multinazionale farmaceutica Pfizer ha deciso di non consentire l’uso dei suoi prodotti nella pena capitale e anche altre importanti case farmaceutiche hanno preso la stessa decisione. Secondo quanto riferito, ciò ha costretto gli Stati ad acquistare i farmaci necessari per somministrare le iniezioni letali da fonti dubbie.

Il film drammatico del 1995 di Tim Robbins Dead Man Walking – Condannato a morte è una versione più toccante dello stesso argomento. A differenza di The Life of David Gale, quel film è ispirato a fatti realmente accaduti. È basato sull’omonimo libro di saggistica di suor Helen Prejean. Susan Sarandon ha vinto un Oscar per la sua interpretazione di Prejean. Altri film con tematiche simili sono “Clemency” (2019), “Monster Ball” (2001) e “Last Light” (1993). Evidentemente, dunque, The Life of David Gale non è basato su una storia vera. Ma è perfettamente comprensibile perché si possa pensare il contrario.

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Avatar: Fuoco e Cenere, Miley Cyrus ha inciso una nuova canzone per il film

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L’artista pop vincitrice di un GRAMMY Award® Miley Cyrus ha inciso una nuova canzone per Avatar: Fuoco e Cenere, il terzo film del fenomenale franchise di successo Avatar del regista premio Oscar® James Cameron, in arrivo nelle sale italiane il 17 dicembre. “Dream as One” interpretata da Miley Cyrus, con musica e testi di Cyrus, Andrew Wyatt, Mark Ronson e Simon Franglen, apparirà nei titoli di coda e sarà inclusa nella colonna sonora originale del film.

La colonna sonora originale di Avatar: Fuoco e Cenere, con musiche composte da Simon Franglen, vincitore del GRAMMY® “Record of the Year” nel 1997 per My Heart Will Go On da Titanic, uscirà il 12 dicembre. Il singolo “Dream as One” di Columbia Records / Sony Music uscirà il 14 novembre.

Con Avatar: Fuoco e Cenere, James Cameron riporta il pubblico a Pandora in una nuova e coinvolgente avventura con il marine diventato leader Na’vi Jake Sully (Sam Worthington), la guerriera Na’vi Neytiri (Zoe Saldaña) e la famiglia Sully. Il film, che ha una sceneggiatura di James Cameron & Rick Jaffa & Amanda Silver e una storia di James Cameron & Rick Jaffa & Amanda Silver & Josh Friedman & Shane Salerno, è interpretato anche da Sigourney Weaver, Stephen Lang, Oona Chaplin, Cliff Curtis, Joel David Moore, CCH Pounder, Edie Falco, David Thewlis, Jemaine Clement, Giovanni Ribisi, Britain Dalton, Jamie Flatters, Trinity Jo-Li Bliss, Jack Champion, Brendan Cowell, Bailey Bass, Filip Geljo, Duane Evans, Jr. e Kate Winslet.

L’ombra dello scorpione: Josh Boone commenta il nuovo adattamento di Doug Liman.

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Mentre i romanzi di Stephen King sono stati spesso trasposti sul grande schermo, il suo iconico capolavoro The Stand (in Italia noto come L’ombra dello scorpione) sta per ottenere il suo terzo adattamento, e uno dei creatori precedenti sta ora valutando la prossima versione. Il romanzo di King del 1978 è ambientato in un mondo post-apocalittico in cui una pandemia mortale ha spazzato via il 99% della popolazione, lasciando i sopravvissuti a cavarsela da soli, mentre il misterioso Randall Flagg accumula un potente seguito a Las Vegas.

Dopo oltre un decennio di tentativi e rinvii, L’ombra dello scorpione è finalmente arrivato sul grande schermo con un adattamento in miniserie nel 1994, scritto dallo stesso King, che ha vinto due Emmy e ha ricevuto sei nomination in totale. I tentativi di realizzare un film negli anni 2010 si sono nuovamente trasformati in una miniserie, questa volta sviluppata da Josh Boone e Benjamin Cavell, quest’ultimo in qualità di showrunner. Cinque anni dopo le reazioni contrastanti, è stato rivelato che la Paramount starebbe collaborando con Doug Liman di Road House per realizzare una versione cinematografica.

In una recente intervista con Joe Deckelmeier per ScreenRant per discutere del suo adattamento di Colleen HooverRegretting You, Josh Boone è stato interrogato sulle sue opinioni riguardo alla nuova versione in lavorazione. Il regista ha esordito sottolineando che “è riuscito a realizzare solo il primo e l’ultimo episodio” dell’adattamento in miniserie del 2020, il quale è stato “qualcosa che ho supplicato” King di scrivere dopo una precedente storia in cui l’autore aveva “un’idea per una coda” per dare una conclusione extra al romanzo che coinvolgeva Frannie bloccata in un pozzo.

Ho pensato: “Ma che cavolo significa?”. Così gli ho scritto dicendogli: “Ho sentito che ne hai parlato. Perché non lo scrivi per noi?”. Ricordo ancora il giorno in cui ho ricevuto la bozza finale e ho pensato: “Sono il primo a leggere quello che ha scritto!”. Sono stato un suo fan per tutta la vita e ha avuto un grande impatto su di me quando ero bambino. Gli ho mandato alcuni libri e lui mi ha scritto una lettera quando ero più giovane, e l’ho inserito in Stuck in Love, dove fa un cameo interpretando se stesso.

Boone ha poi spiegato che uno dei motivi per cui amava i libri di King quando era più giovane non era solo perché era “la voce che volevo sentire di più quando aprivo un libro”, ma anche perché i romanzi dell’autore “hanno così tanti personaggi bambini”, cosa che riteneva rara quando era un ragazzino che cresceva negli anni ’90.

I bambini leggono i libri di Stephen King, quindi lui è stato la persona che ha avuto la maggiore influenza sulla mia crescita e sulla mia vita da adulto. Era semplicemente la persona più gentile e migliore che si potesse incontrare. Si dice: “Non incontrare i tuoi eroi”, ma non si riferivano a Stephen King”.

Il creatore ha anche riflettuto su come il suo adattamento di L’ombra dello scorpione fosse nato originariamente come un lungometraggio, proprio come la miniserie che l’ha preceduto, in cui “molti membri del cast del film mi hanno seguito”, tra cui Nat Wolff e Greg Kinnear, descrivendo la lista come “amici che avrei voluto inserire in qualcosa ma non avevo potuto”. Quella lista comprendeva anche talenti dietro la telecamera, tra cui i montatori della serie e il compositore Nate Walcott.

Ho lavorato molto alla colonna sonora, ad esempio inserendo i Black Sabbath nel primo episodio e facendo fischiare ad Alex Skarsgard l’introduzione di “The Stranger” di Billy Joel. Questi sono i miei tocchi personali, ma ho potuto inserirne così pochi che ho sempre desiderato realizzare un film di tre ore, come JFK o qualcosa del genere, con quel cast numeroso e variegato, quel cast numeroso e variegato.

Boone riteneva che fosse “impossibile” trasformare in un film il libro di oltre 800 pagine, e lui e Cavell volevano “fare qualcosa di diverso” con la struttura del materiale originale rispetto alla miniserie del 1994. Il loro approccio, come ha spiegato, era quello di “mescolare la cronologia in modo da renderla più sorprendente” per i fan del libro, anche se la raccontavano in modo diretto.

Tornando a parlare del nuovo adattamento cinematografico, Boone ha espresso la sua “impazienza” di vederlo, elogiando in particolare Liman con un “Adoro Doug Liman” e definendo il regista sia ‘fantastico’ che “un pazzo”. Pur ammettendo di essere curioso di “vedere cosa ne farà qualcuno” del romanzo di King, è particolarmente intrigato di vedere “come sarà come lungometraggio”.

Cosa aspettarsi dal nuovo adattamento di L’ombra dello scorpione

In linea con quanto detto da Boone, il punto di maggiore curiosità riguardo al nuovo adattamento è come funzionerà come lungometraggio. In entrambi i precedenti adattamenti, il problema principale che ne ha ritardato lo sviluppo è sempre derivato dalla vastità del romanzo di King, poiché tutti, da George A. Romero ai veterani di Harry Potter David Yates e Steve Kloves, hanno cercato di trovare il modo migliore per ridurlo a una durata ragionevole per il cinema.

Sebbene sia ancora nelle prime fasi di sviluppo, L’ombra dello scorpione di Liman potrebbe trarre il massimo vantaggio dai precedenti piani di Boone per il romanzo, che prevedevano di trasformarlo in quattro lungometraggi prima che diventasse una miniserie di nove episodi. Una cosa che i fan di King si aspettano costantemente dagli adattamenti delle sue opere è una traduzione fedele delle storie e dei personaggi, che un solo film rischierebbe di tradire.

Inoltre, ci sono alcuni esempi significativi di adattamenti cinematografici suddivisi in più parti che hanno riscosso un grande successo. La prima parte di Wicked è stata un successo sia di critica che di pubblico, mentre gli ultimi due film di Twilight hanno superato il giudizio negativo della critica diventando dei successi al botteghino. I film Dune di Denis Villeneuve sono probabilmente il paragone più calzante per come Liman e la Paramount potrebbero adattare L’ombra dello scorpione, dato che i primi due hanno diviso a metà il romanzo di Frank Herbert e hanno incassato cifre importanti al botteghino.

Indipendentemente dall’approccio che Liman adotterà alla fine, il fattore decisivo per determinare se potrà essere realizzato in un formato lungometraggio è ottenere l’approvazione di King. Ci sono certamente adattamenti che hanno suscitato critiche anche dopo l’approvazione di King, ma essendo spesso considerato il suo capolavoro, questo e La Torre Nera sono i due adattamenti che, senza l’approvazione dell’autore, avranno difficoltà ad avere successo.

Springsteen – Liberami dal Nulla: recensione del film della nascita di Nebraska, capolavoro del Boss

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C’è una linea sottile tra il racconto del mito e quello dell’uomo, e Springsteen: Liberami dal Nulla di Scott Cooper prova a camminarci sopra con passo incerto ma sincero. Il film, prodotto da 20th Century Studios e tratto dal libro di Warren Zanes, si concentra su un momento preciso della carriera del “Boss”: la creazione di Nebraska, album spartano e dolente inciso nel 1982 con un registratore a quattro piste nella camera da letto del cantante nel New Jersey. È il momento in cui Bruce Springsteen (interpretato da un sorprendente Jeremy Allen White) si allontana dalla grandezza scenica di The River e si immerge nel silenzio, in un dialogo con i propri demoni e con la solitudine.

Scott Cooper, regista da sempre attratto dai crepacci dell’animo umano (Crazy Heart, Hostiles), sceglie di raccontare il Bruce più fragile, più introverso, più spaventato. La musica, in questa storia, non è mai puro intrattenimento: è confessione, è terapia, è il modo in cui un uomo tenta di liberarsi dal nulla che lo divora dentro. Tuttavia, proprio quando il film sembra trovare il suo centro emotivo, inciampa nel suo stesso desiderio di spiegare troppo. Il racconto del processo creativo — affascinante ma sfuggente — si trasforma in un lungo “dietro le quinte” che toglie un po’ di magia alla leggenda.

Springsteen – Liberami dal nulla – Odessa Young e Jeremy Allen White – Cortesia The Walt Disney Company Italia

Springsteen: Liberami dal Nulla e la fatica di rappresentare la scintilla creativa

Raccontare la nascita di un capolavoro è un rischio, e Springsteen: Liberami dal Nulla ne è consapevole. Cooper tenta di mettere in scena la genesi di Nebraska come un atto quasi mistico, un’urgenza interiore più che un processo razionale. Ma, nel tentativo di decifrare l’indecifrabile, il film scivola nella trappola del “come è fatto”: osserviamo Springsteen provare, registrare, cancellare, riprovare, mentre la regia insiste sui dettagli tecnici e sul rituale della creazione, dimenticando a tratti la vertigine del mistero che accompagna ogni atto artistico autentico.

È un peccato, perché quando Liberami dal Nulla smette di voler spiegare e comincia a mostrare — con sguardi, silenzi, esitazioni — allora diventa un film intenso, persino poetico. Cooper e il direttore della fotografia Masanobu Takayanagi costruiscono un’immagine che rispecchia la natura del disco: luci fredde, interni spogli, paesaggi invernali del New Jersey che sembrano usciti direttamente dai brani di Nebraska. La colonna sonora di Jeremiah Fraites accompagna il tutto con discrezione, alternando momenti di sospensione a improvvisi scoppi emotivi, in perfetta sintonia con l’anima dell’opera.

Il limite, però, resta concettuale: la volontà di rendere “visibile” la creazione artistica, di tradurre in immagini ciò che nasce nell’invisibile. E in questo, come molti biopic dedicati ai musicisti, Springsteen: Liberami dal Nulla rischia di fare un passo indietro rispetto al suo stesso soggetto. Bruce Springsteen, dopotutto, ha sempre raccontato l’America e se stesso attraverso le sue canzoni, lasciando che la musica fosse la vera biografia. Il film, invece, sembra non fidarsi del potere evocativo dell’arte, e cerca di spiegarla, incasellarla, razionalizzarla — e così facendo, la priva di parte della sua potenza.

Springsteen – Liberami dal nulla – Stephen Graham – Cortesia The Walt Disney Company Italia

Padri, figli e fantasmi: il peso dell’eredità emotiva

Tra i fili narrativi più riusciti del film c’è quello familiare. Springsteen: Liberami dal Nulla racconta con grande sensibilità il rapporto tra il piccolo Bruce e il padre Doug (interpretato da uno straordinario Stephen Graham), figura problematica e distante, segnata dalla malattia mentale e da un dolore che si trasmette come un’eredità silenziosa. Cooper tratteggia la loro relazione con un realismo che non cerca mai la lacrima facile: il giovane Bruce cresce nell’ombra di un uomo irrisolto, imparando troppo presto che la malinconia può diventare un linguaggio.

La riconciliazione tra i due avviene solo da adulti, in una delle sequenze più emozionanti del film: un dialogo scarno, quasi mormorato, dove non servono grandi dichiarazioni perché bastano gli sguardi. È in quel momento che il film trova un equilibrio perfetto tra intimità e verità. La regia di Cooper, asciutta e rispettosa, lascia spazio agli attori, e Jeremy Allen White mostra tutta la vulnerabilità di un uomo che capisce, finalmente, di essere diventato ciò che temeva: una versione riflessa del padre.

Il film suggerisce che le ferite di Doug non si spengono con lui, ma continuano a pulsare dentro Bruce, influenzando anche il suo modo di amare. Lo vediamo nel rapporto con Faye (una magnetica Odessa Young), personaggio immaginario ma ispirato alle figure femminili che attraversarono la vita del musicista in quegli anni. Faye rappresenta la possibilità di guarire, ma anche il rischio di replicare gli stessi schemi di distanza e dolore. È in lei che Bruce cerca di spezzare l’eredità paterna, senza sapere se sia davvero possibile. Questo filo psicologico, tratteggiato con delicatezza, è forse la parte più umana e riuscita del film, capace di unire biografia, introspezione e racconto universale della fragilità maschile.

Il confine tra mito e mistero: cosa resta dopo la visione

Alla fine, Springsteen: Liberami dal Nulla lascia lo spettatore diviso tra l’ammirazione per l’ambizione del progetto e una certa malinconia per ciò che avrebbe potuto essere. Cooper costruisce un ritratto rispettoso e intenso, ma anche troppo controllato, quasi timoroso di lasciarsi andare alla spontaneità che pure fu l’essenza di Nebraska. Il film funziona quando si fa intimo e vulnerabile, quando guarda all’uomo più che al musicista; ma perde forza quando tenta di raccontare la genesi del capolavoro come se fosse un processo analitico e non, com’è davvero, un atto di grazia.

C’è un momento, verso la fine, in cui il film sembra dirci ciò che conta davvero: non capire come nascono le canzoni, ma sentire perché nascono. È lì che Liberami dal Nulla trova la sua verità più pura — nel non detto, nell’ombra, nella consapevolezza che la creazione artistica resta, per fortuna, un mistero. E forse è questo il limite ma anche la bellezza del film: la sua incapacità di svelare fino in fondo il segreto di Springsteen diventa, paradossalmente, il suo modo più sincero di onorarlo. Perché raccontare un artista come Bruce Springsteen significa accettare che la sua voce, la sua rabbia, la sua dolcezza appartengano a un altrove che il cinema può solo sfiorare.

Anna: recensione del film di Monica Guerritore – #RoFF20

Anna: recensione del film di Monica Guerritore – #RoFF20

La Roma degli anni d’oro del cinema italiano è sempre stata avvolta da un fascino e una magia senza eguali. Era la città dei sogni, al pari di Hollywood: crocevia di eventi mondani, star, produzioni cinematografiche. Una città impregnata di quella bellezza sublime, quasi evanescente, che tutti sognavano di vivere almeno una volta nella vita. Quel cinema, che fu rivoluzionario, poteva vantare alcune delle stelle più brillanti che l’Italia abbia mai avuto – desiderate anche oltre oceano.

E una di queste era Anna Magnani. Monica Guerritore, che evidentemente ha molto amato l’attrice, ha scelto di immergersi nel cuore della sua esistenza: un percorso artistico e umano costellato di successi e tormenti. Lo fa in Anna, film presentato alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, in cui ricopre un triplice ruolo: regista, sceneggiatrice e interprete.

La trama di Anna

È il 21 marzo 1956. Anna Magnani non riesce a prendere sonno. Si alza, si veste, ed esce per una passeggiata notturna nel cuore di Roma, attraversando la città deserta fino a raggiungere il Lungotevere. È la notte degli Oscar, e a Los Angeles si sta celebrando la cerimonia che potrebbe consacrarla come miglior attrice protagonista per La rosa tatuata. Nel silenzio più profondo, Roma si fa specchio della sua memoria: Anna ripercorre i frammenti della sua vita – l’amore turbolento con Roberto Rossellini, la malattia del figlio Luca, le battaglie sul set e i suoi successi più acclamati. Ad accompagnarla, una galleria di personaggi che rappresentano ogni ceto sociale: dal popolo romano agli uomini dell’industria cinematografica, fino agli agenti e produttori. Un viaggio dentro la fragilità e la forza di un’attrice diventata leggenda. Fino al momento che rimarrà nella storia: il momento in cui viene annunciata come la prima italiana a vincere un Oscar.

Anna Magnani: una donna oltre le regole

Anna Magnani non era un’attrice qualunque. Certo, tutte le dive – in quanto tali – si sottraggono alle definizioni standard. Ma Magnani aveva qualcosa in più. In quegli anni, dove a dominare era il Neorealismo, Magnani era quella più spudoratamente vera. Profondamente reale. Sul grande schermo portava donne popolane, autentiche, senza filtri né imbellettamenti. Donne in cui il pubblico – e soprattutto le donne – potevano riconoscersi. Perché venivano rappresentate.

È stata la sua veracità, la sua schiettezza, il suo andare controcorrente a renderla l’attrice che nessuno dimenticherà. Quella che sembrava più vicina di tutte, proprio perché imperfetta, sfacciata, viva. Monica Guerritore si dà anima e corpo per restituire questa versione concreta e sfaccettata di Magnani. La interpreta con forza e tensione, danzando tra i fantasmi e le cicatrici di una donna rimasta sempre in bilico tra felicità e dolore. L’interpretazione è sopra le righe – come il personaggio richiede – ma mai fuori controllo. Guerritore non inciampa mai nel ruolo che ha scelto di far rivivere, nonostante Anna avesse un temperamento difficile e una personalità complessa da replicare. Porta in scena, con foga, quella libertà che Magnani urlava, e di cui si faceva portavoce.

Quando l’omaggio non basta

Se lo sforzo attoriale di Monica Guerritore funziona, è sul piano registico e contenutistico che il film si incrina. L’attrice sceglie di raccontare solo una parentesi: l’ultima parte della vita di Magnani, partendo dalla notte dell’Oscar per La rosa tatuata. Da lì si immerge in quella Roma incantata dell’epoca, restituendoci con affetto le sue atmosfere, la lingua, i riflessi e la sua oscurità. Su questa linea temporale principale, vengono innestati flashback, ricordi, episodi personali: momenti che restituiscono fragilità, rabbia, lucidità, ma sempre in forma accennata. Mai scavata.

La sceneggiatura si addobba di suggestioni, ma non ne affronta nessuna. Il risultato è che non si perde la trama, ma si sfuma il messaggio finale, perché non è chiaro che cosa si voglia davvero raccontare della Magnani. Il registro cambia spesso, balzando dal dramma alla commedia, e l’uso insistito dello slow motion, inserito in modo casuale, rompe la fluidità del racconto e stona con il tono generale.

Anna diventa così un film che si divide a metà: tra la bellezza sincera di voler raccontare chi fosse davvero Anna Magnani, e la mancata occasione di portarci fino in fondo dentro la sua zona d’ombra, dentro quello che non sappiamo ancora. Un tributo che dunque non è mai vivido. Come se fosse costantemente appannato.

Our hero, Balthazar: recensione del film con Asa Butterfield – #RoFF20

Our Hero, Balthazar, scritto e diretto da Oscar Boyson insieme a Ricky Camilleri, è un film che si muove con sorprendente equilibrio tra commedia giovanile e dramma sociale. Interpretato da Jaeden Martell, Asa Butterfield, Noah Centineo, Jennifer Ehle e Pippa Knowles, il film racconta l’adolescenza nell’era dei social network, dove l’autenticità è un concetto fragile e la solitudine trova un surrogato nella connessione digitale.

Con uno stile a metà tra il cinema indie americano e il dramma psicologico, Boyson costruisce una riflessione lucida e toccante sulla fame di visibilità e sulla perdita di contatto umano in un mondo ossessionato dall’immagine.

Il vuoto di Balthazar

Balthazar (Jaeden Martell) è un adolescente ricchissimo di New York, ma completamente solo. Il padre è assente, la madre (Jennifer Ehle) preferisce trascorrere il compleanno del figlio in viaggio col nuovo compagno, e l’unica figura stabile nella sua vita è Anthony (Noah Centineo), un life coach ben pagato che cerca, senza successo, di riempire il vuoto esistenziale del ragazzo con frasi motivazionali e retorica da self-help.

Incapace di trovare un’autentica connessione, Balthazar decide di “crearsi” una comunità online. Apre un profilo social dove, tra lacrime vere e confessioni filtrate, ammette la sua solitudine. La sua vulnerabilità, confezionata come contenuto virale, attira follower in cerca della stessa empatia simulata. È il paradosso di una generazione che comunica tantissimo, ma si ascolta pochissimo.

Eleanor e la realtà che bussa

Durante una simulazione d’emergenza per una sparatoria scolastica – routine ormai tristemente comune negli istituti americani – Balthazar conosce Eleanor (Pippa Knowles), una ragazza intelligente e idealista, impegnata nella lotta contro la violenza armata. Colpito dal suo carisma e dalla lucidità con cui analizza la “violenza che inseguiamo mentre la creiamo”, Balthazar tenta di avvicinarla, partecipando a un rally contro le armi, ma la manifestazione fallisce per mancanza di partecipazione: un gesto politico svuotato, specchio di una società incapace di mobilitarsi davvero.

Quando Balthazar le mostra un video inquietante ricevuto da un follower, un certo death_dealer (letteralmente: portatore di morte), che minaccia di compiere una sparatoria in una scuola, Eleanor lo accusa di cinismo: più interessato ad apparire come un eroe che a capire la gravità del problema. È un momento di rottura, ma anche la scintilla che spinge il protagonista verso un viaggio che cambierà la sua visione del mondo.

Our hero, Balthazar: un viaggio nell’America invisibile

Determinato a “fare qualcosa”, Balthazar parte per il Texas per incontrare di persona l’autore delle minacce, scoprendo che dietro l’account “death_dealer” si nasconde Solomon (Asa Butterfield), un ragazzo povero, senza madre e con un futuro sospeso. Vive con la nonna, lavora vendendo integratori (“Thrush Supplements”) e sogna, senza crederci troppo, di cambiare vita.

Solomon è il contraltare perfetto di Balthazar: due ragazzi diversissimi per contesto ma uguali nella loro fame di attenzione, due volti dello stesso isolamento. Dopo l’iniziale rabbia per essere stato ingannato – Balthazar si era finto una ragazza per entrare in contatto con lui – Solomon finisce per accogliere l’estraneo come un amico.

Qui brilla in modo straordinario Asa Butterfield, che dà al personaggio una profondità inaspettata. Il suo Solomon è fragile e impulsivo, ma anche teneramente umano, un ragazzo che vorrebbe solo essere visto senza essere giudicato. Butterfield riesce a far convivere rabbia, ironia e vulnerabilità, trasformando Solomon in un cuore pulsante del film: il simbolo di un’America dimenticata, ma ancora viva e capace di empatia.

Martell in Our Hero Balthazar 2025
Cortesia di IMDB

Our hero, Balthazar: l’interno della ferita

Il grande merito di Boyson è quello di raccontare il tema della violenza armata non dall’esterno, ma dall’interno: attraverso la vita, i sogni e la paura dei ragazzi che potrebbero diventarne vittime o carnefici. Non c’è retorica, non c’è morale imposta: il regista osserva, accompagna, lascia che siano i suoi personaggi a parlare.

La questione delle armi emerge così non come un problema astratto o politico, ma come un sintomo di un dolore più profondo, di una società che ha perso la capacità di ascoltare. “We are just fighting for our lives” (“Stiamo solo lottando per le nostre vite”) – afferma Balthazar dopo aver letto la frase su un articolo di cronaca relativo a uno school shooting – e il film segue le orme di questa consapevolezza dolorosa ma sincera: sopravvivere oggi significa trovare un modo per sentirsi parte di qualcosa di reale.

Comunità e identità in Our hero, Balthazar

Nel percorso che lega Balthazar e Solomon, il film riflette sulla necessità di una comunità autentica. I social media, con le loro promesse di connessione, diventano lo specchio deformante di un desiderio vero ma frainteso. “Nice to be part of a community” (“Bello far parte di una comunità”), dice Balthazar, ma la frase suona ironica, quasi disperata. Solo nel rapporto con Solomon, nella condivisione silenziosa delle loro fragilità, quella comunità si fa finalmente concreta.

La regia accompagna questo processo con un linguaggio visivo preciso: la fotografia pulita e asettica di New York si sporca di colori terrosi e luci naturali nel Texas, come se la realtà, finalmente, potesse filtrare attraverso lo schermo.

Un film potente

Our Hero, Balthazar è un film intenso e sorprendentemente empatico. Non giudica, non predica, ma ascolta. Boyson riesce a restituire la complessità di una generazione sospesa tra la connessione digitale e l’assenza di legami veri, firmando un’opera che parla di dolore, amicizia e speranza con una sincerità rara.

Grazie alle interpretazioni di Martell e di Butterfield – qui in una delle prove più mature della loro carriera – il film trova un equilibrio perfetto tra intimità e riflessione sociale, guardando dentro la ferita dell’America e trasformandola in un racconto di umanità, solitudine e ricerca di redenzione.

Mrs Playmen: il trailer della serie con Carolina Crescentini

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Mrs Playmen: il trailer della serie con Carolina Crescentini

Netflix ha diffuso il trailer ufficiale di Mrs Playmen, la nuova serie italiana in 7 episodi prodotta da Aurora TV e ispirata alla storia vera di Adelina Tattilo, editrice della più nota rivista erotica italiana, Playmen. I primi due episodi della serie, che sarà disponibile solo su Netflix dal 12 novembre, saranno presentati oggi in anteprima alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, fuori concorso nella sezione Freestyle.

Carolina Crescentini è Adelina Tattilo

A interpretare la protagonista è Carolina Crescentini, nei panni di Adelina Tattilo, una donna che negli anni ’70 seppe trasformare la provocazione in cultura e la sensualità in un atto politico. Accanto a lei un cast corale composto da Filippo Nigro (Chartroux), Giuseppe Maggio (Luigi Poggi), Francesca Colucci (Elsa), Domenico Diele (Andrea De Cesari), Francesco Colella (Saro Balsamo), Lidia Vitale (Lella) e Giampiero Judica (Don Rocco).

La serie è diretta da Riccardo Donna e scritta da Mario Ruggeri, head writer, insieme agli autori Eleonora Cimpanelli, Chiara Laudani, Sergio Leszczynski e Alessandro Sermoneta.

Mrs Playmen racconta la storia di una donna straordinaria, cattolica e anticonformista, capace di sfidare la morale e il maschilismo della Roma conservatrice degli anni ’70. Adelina Tattilo, direttrice della prima rivista erotica italiana, fu una forza rivoluzionaria in un Paese ancora ancorato ai tabù. Mentre l’Italia discuteva di divorzio, aborto e libertà sessuale, lei guidava un impero editoriale al femminile, trasformando Playmen in un laboratorio di modernità, stile e provocazione.

Quando il marito Saro Balsamo la abbandona, lasciandola sola e sommersa dai debiti, Adelina decide di non arrendersi. Reinventa la rivista, la rende sofisticata e internazionale, e costruisce attorno a sé un gruppo di intellettuali e creativi visionari. Numero dopo numero, Mrs Playmen racconta la nascita di un nuovo immaginario e di una rivoluzione culturale e di costume destinata a cambiare per sempre la società italiana.

Prodotta da Aurora TV per Netflix, la serie mescola dramma biografico, costume e ironia, restituendo il ritratto di una donna che seppe incarnare le contraddizioni del suo tempo: credente e ribelle, madre e imprenditrice, icona e bersaglio dello scandalo.

Con il suo sguardo elegante e provocatorio, Mrs Playmen non celebra solo la nascita di una rivista, ma il coraggio di una generazione di donne che, come Adelina Tattilo, hanno avuto la forza di dire: “siamo qui, e non abbiamo più intenzione di stare zitte.”

Adelina Tattilo è Mrs. Playmen, direttrice della prima rivista erotica italiana e una forza rivoluzionaria nella Roma conservatrice e moralista degli anni ’70. Un’imprenditrice pionieristica in un’epoca in cui le donne erano relegate al ruolo di madri e casalinghe; una cattolica devota, ma anche un’audace anticonformista, in prima linea nelle battaglie per il divorzio, il diritto all’aborto e l’emancipazione femminile. Quando il marito, Saro Balsamo, la abbandona lasciandola sola ad affrontare i creditori come unica proprietaria di un impero sull’orlo del collasso, Adelina non si arrende. Reinventa Playmen trasformandola in una pubblicazione sofisticata e all’avanguardia e, sfidando il maschilismo radicato dell’epoca, riunisce attorno a sé un team di intellettuali brillanti, creativi audaci e fotografi visionari. Insieme, abbattono tabù, provocano l’establishment e accendono una rivoluzione culturale, numero dopo numero, scandalo dopo scandalo.

Mrs Playmen: la storia di una rivista che ha riscritto le regole della società italiana.

Emily in Paris – Stagione 5: il teaser e le nuove immagini della serie

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Sono da oggi disponibili il teaser trailer e le nuove immagini dell’attesissima Emily in Paris – Stagione 5. In questa nuova avventura, Emily intraprende la dolce vita a Venezia e affronta ogni svolta che la vita le presenta. Il nuovo capitolo della serie di successo creata da Darren Star e con protagonista Lily Collins debutterà solo su Netflix con dieci episodi il 18 dicembre.

La trama di Emily in Paris – Stagione 5

Ora a capo dell’Agence Grateau a Roma, Emily affronta sfide professionali e sentimentali mentre si adatta alla vita in una nuova città. Ma proprio quando tutto sembra andare per il verso giusto, un’idea lavorativa si rivela un fallimento, con conseguenti delusioni amorose e ostacoli alla carriera. In cerca di stabilità, Emily si rifugia nel suo stile di vita francese, finché un grande segreto non minaccia uno dei suoi rapporti più stretti. Affrontando i conflitti con sincerità, Emily ne esce con legami più profondi, una rinnovata consapevolezza e la voglia di abbracciare nuove possibilità.

  • Creatore / Produttore Esecutivo / Autore: Darren Star

  • Produttori Esecutivi: Tony Hernandez, Lilly Burns, Andrew Fleming, Stephen Brown, Alison Brown, Robin Schiff, Grant Sloss, Joe Murphy

  • Cast: Lily Collins (Emily Cooper), Philippine Leroy-Beaulieu (Sylvie Grateau), Ashley Park (Mindy Chen), Lucas Bravo (Gabriel), Samuel Arnold (Julien), Bruno Gouery (Luc), William Abadie (Antoine Lambert), Lucien Laviscount (Alfie), Thalia Besson (Genevieve), Eugenio Franceschini (Marcello)

  • Prodotta da: MTV Entertainment Studios, Darren Star Productions e Jax Media

Stephen Graham diventa il padre di Bruce Springsteen: “Quella tra padre e figlio è una delle relazioni più antiche e profonde che esistano”

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Ci sono attori che non recitano soltanto: vivono i ruoli fino a trasformarli in un pezzo della propria vita. Stephen Graham è uno di questi. Nel nuovo film di Scott Cooper, Springsteen – Liberami dal nulla, interpreta Douglas Springsteen, il padre del giovane Bruce — un uomo severo, schivo, combattuto, la cui ombra si proietta su tutta la vita del figlio. Eppure, dietro la figura rigida e distante, Graham scorge qualcosa di molto più universale: il difficile amore tra padri e figli.

“Non lo definirei un ritratto di mascolinità tossica,” esordisce con calma. “È più un film sulla consapevolezza. Ho 52 anni, sono padre da vent’anni, e sono in quella fase della vita in cui inizi a riflettere. Mi piace dire che sono sulle ‘seconde nove’, come nel golf: mi sono fatto un mazzo così per arrivarci, e ora voglio godermi il percorso, cercando di capire che cosa posso ancora cambiare, migliorare, trasmettere.”

Negli ultimi anni Graham si è impegnato in diversi progetti dedicati proprio al rapporto tra padri e figli, esplorando l’eredità emotiva che passa, spesso in silenzio, da una generazione all’altra. Springsteen – Liberami dal nulla gli è sembrato un’estensione naturale di quel percorso.

“È una delle relazioni più antiche e profonde che esistano, quella tra un padre e suo figlio. Shakespeare, pensa a Re Lear, ci ha costruito interi mondi sopra. È un tema eterno. E quando Scott Cooper mi ha chiamato per dirmi che aveva scritto il ruolo del padre di Bruce pensando a me, è stato un onore incredibile. Poi mi ha detto che Bruce, saputo il mio nome, aveva commentato: ‘Lui è fantastico’. Non potevo crederci. Bruce Springsteen sapeva chi ero. Ho letto la sceneggiatura e ho detto subito: sì, ci sto.”

Springsteen – Liberami dal nulla – Stephen Graham – Cortesia The Walt Disney Company Italia

Stephen Graham, la voce del padre

Per prepararsi al ruolo, Graham ha deciso di partire proprio dalla voce di Bruce. “Ho ascoltato l’audiolibro della sua autobiografia,” racconta. “È stato fondamentale. Quando Bruce racconta la storia di suo padre, cambia leggermente il tono, quasi senza accorgersene. Gli ho chiesto se lo facesse apposta, e mi ha detto di no, che era del tutto inconscio. Ma in quel modo, inconsciamente, aveva già creato una visione di suo padre. E io ho semplicemente… rubato quella visione. Come una gazza, l’ho presa e l’ho fatta mia. Da lì ho costruito la voce, il corpo, la presenza di Douglas.”

Padri, figli e redenzione

Il film segue il rapporto tra Bruce e suo padre dagli anni giovanili fino all’età adulta, quando il musicista, ormai famoso, ritrova quell’uomo fragile e spezzato che un tempo temeva.

“Con Jeremy Allen White ho girato due scene fondamentali,” dice Graham. “Nel momento in cui Bruce lo rincontra, il padre è ormai stanco, segnato dall’alcol, dalla depressione, dalla perdita di lucidità. Forse anche dall’Alzheimer. C’è una gravità in quella scena, un silenzio pieno di tutto ciò che non è mai stato detto. E Jeremy è stato straordinario nel restituire quell’empatia, quella comprensione che nasce solo quando hai fatto pace con te stesso.”

Si ferma un momento, poi aggiunge piano: “All’inizio Bruce mi aveva detto una frase che mi è rimasta dentro: ‘Sapevo che mio padre mi amava, ma non ho mai sentito il suo amore fino a quel momento’. E noi abbiamo cercato di catturare esattamente quell’istante. È stato speciale. In quella stanza, durante le riprese, c’era un’energia palpabile. Non abbiamo forzato niente. Abbiamo lasciato che accadesse.”

Stephen Graham sul red carpet della Festa del Cinema di Roma 2025 – Foto di Luigi De Pompeis © Cinefilos.it

Scoprire Springsteen per la prima volta

Sorprendentemente, Stephen Graham non era un fan di Bruce prima di questo film. “Devo essere onesto: non lo avevo mai ascoltato davvero,” confessa ridendo. “A casa mia si sentivano Otis Redding, Bob Marley, Beethoven, Sly & The Family Stone… era un mix eclettico. Ma lavorando a questo film, ho scoperto Nebraska, e l’ho ascoltato con orecchie nuove. Sapere dove si trovava Bruce nella vita quando lo ha scritto, sentire quella sua ricerca di autenticità, mi ha colpito profondamente. È come vedere per la prima volta il David di Michelangelo e pensare: come diavolo ha fatto a tirarlo fuori da un blocco di marmo?”

Da allora, racconta, ha iniziato a esplorare tutto il catalogo di Springsteen. “La sua musica è piena di speranza. Parla di dolore, sì, ma anche di redenzione, di resilienza. E lui è un uomo incredibilmente umile, gentile. È impossibile non volergli bene.”

L’arte che nutre l’anima

Alla domanda su cosa lo ispiri, Graham non esita: “Di solito ho una playlist per ogni personaggio, ma questa volta no. L’audiolibro di Bruce è stato la mia colonna sonora. Era la mia Bibbia. Mi teneva ancorato alla realtà del personaggio. E poi c’era Scott Cooper, che ha un intuito formidabile, e lo stesso Bruce, che è stato la nostra fonte di verità. Bastava ‘calare il secchio nel pozzo’, come dico io, e tirare su tutta quella ricchezza umana.”

Per lui, l’arte è — sempre — una questione di nutrimento. “L’arte, la musica, la cultura… sono ciò che nutre l’anima. Quando sei dentro un processo creativo, è l’unica cosa che ti tiene vivo. E questo film, per me, è stato proprio questo: un modo per guardare dentro, per capire cosa significhi amare, perdonare e, forse, diventare finalmente un padre migliore.”

Springsteen – Liberami dal nulla è nelle sale italiane dal 23 ottobre distribuito da The Walt Disney Company Italia.