E’ un piccolo villaggio
della Transilvania quello scelto da Cristian
Mungiu come teatro del suo nuovo
Animali Selvatici (in originale R.M.N.,
proprio come la Risonanza Magnetica che normalmente indica la
sigla), un film presentato al Festival di
Cannes, dove il regista rumeno ha già vinto diversi premi,
compresa la Palma d’Oro per il 4 mesi, 3 settimane, 2
giorni del 2007. Un luogo apparentemente idilliaco, dove
piano emergono dinamiche alle quali siamo tristemente abituati nel
nostro quotidiano, fatte di intolleranza e pregiudizio, a conferma
dell’attenzione del cineasta a temi sociali importanti e della sua
capacità di intrecciare situazioni universali con conflitti umani e
crisi familiari.
Una storia, ispirata da
accadimenti reali, che Bim Distribuzione porta nei nostri
cinema a partire dal 6 luglio e della quale lo stesso
regista ha approfondito origine e temi, spiegando al pubblico
italiano il suo pensiero e il suo modo di fare cinema, sempre
fortemente legato alla realtà, ma che non disdegna distaccarsene
per metterne in evidenza le fragilità, i paradossi o le zone
d’ombra.
Che non mancano nella
storia di Matthias, impiegato in Germania che per Natale torna al
suo villaggio in Transilvania per stare più tempo con il figlio
piccolo e il padre malato. Ma il rapporto con la sua compagna è
ormai compromesso, anche per la relazione adulterina con la
ex-amante Csilla,
ormai diventata responsabile del locale panificio, al centro di una
accesa contestazione da parte di molti abitanti del luogo per aver
assunto alcuni lavoratori cingalesi.
Una storia nella quale
convivono molti elementi, una storia vera?
La storia nasce da un
fatto realmente accaduto in un piccola cittadina della
Transilvania, abitata soprattutto da ungheresi, giusto prima che
esplodesse la pandemia nel 2020. Tutto si è svolto più o meno come
nel film: c’è stata una partecipata riunione nel municipio,
qualcuno l’ha registrata, è finita su internet e ha provocato un
grande scandalo, inizialmente in Romania e poi nel resto del mondo.
Il punto di partenza per me è stato il fatto che normalmente mi
sarei aspettato che una comunità abitata da una minoranza di un
alto paese mostrassero maggiore empatia verso chi fa parte di
minoranze ancora più piccole, soprattutto in un paese come il
nostro dove la tendenza è quella di lasciare il Paese e andare a
Ovest in cerca di una vita migliore. Ma qui accade l’esatto
contrario.
Un fatto che in
Romania ha sollevato molte discussioni
Inizialmente si è cercato
di non dare grande importanza all’accadimento, ma la stampa l’ha
resa una notizia tale che il governo ha dovuto rispondere,
insistendo che a questi lavoratori dovesse essere consentito di
continuare a lavorare, come è avvenuto. Il problema che si è
cercato di evitare era quello di una discriminazione nei confronti
della popolazione Rom locale.
Un altro tema che
emerge dal film
Dopo aver scritto la
sceneggiatura ho voluto andare in loco per sincerarmi della
situazione di persona e documentarmi, e ho potuto parlare sia con
la proprietaria della fabbrica sia con i lavoratori stranieri. La
comunità non era aperta al cambiamento, ma non lo percepivano come
una discriminazione contro qualcuno, solo volevano conservare il
proprio stile di vita, le proprie tradizioni. Qualcosa che succede
in tutti quei piccoli centri da dove non è facile capire cosa sia
davvero l’Unione Europea e adattarsi.
C’è la società al
centro, ma soprattutto le persone
Quando faccio un film non
mi piace raccontare quello che è effettivamente successo, non lo
trovo interessante. Cerco di parlare di situazioni a livello
globale, per parlare di noi come persone, come esseri umani, come
siamo e perché agiamo come agiamo. L’affrontare e discutere le
grandi differenze tra ciò che diciamo e quello che effettivamente
pensiamo. Per me questo film parla di ipocrisia, di verità, delle
grandi differenze tra l’essere politicamente corretto insegna a
dire pubblicamente e quello che davvero pensiamo. Parla di
populismo e della fine della democrazia come la conosciamo, che può
essere davvero meravigliosa, ma se non si investe nell’educazione
delle persone alla democrazia, e si chiede loro ugualmente una
opinione, si ottengono risultati come quelli che vediamo oggi, un
mondo fatto di populismo e ipocrisia.
Cosa le interessava
rappresentare sul piano allegorico?
Ho cercato di costruire
l’ambientazione come fosse una sorta di villaggio fantasma, perché
era importante che rappresentasse ed esprimesse quello che è il
nostro subconscio. E’ circondato da una foresta buia, scura, perché
al di là di un primo livello nel nostro cervello c’è anche un lato
belluino. Qualcosa che tende a lottare per sopravvivere, soffocando
la nostra empatia. Qualcosa di cui dobbiamo prendere coscienza e
consapevolezza perché tendiamo a pensare che il male al di fuori di
noi, ma spesso non è così. Dobbiamo prendere coscienza di questo
lato animale e tentare di addomesticarlo.
Siamo noi, dunque, gli
animali selvatici del titolo italiano?
Non è facile accettare
questo lato animale, e quanto questo sia più presente di quel che
ci piaccia. Ci piace vederci come creature superiori, ma appena
inizia una guerra anche le persone migliori si trasformano in
assassini, stupratori e torturatori nei confronti del vicino, di
persone che parlano la tua lingua o hanno la tua religione. Ho
pensato alla natura umana, e a cosa ci sia sotto la superficie. A
questa aggressività. Il titolo originale è R.M.N. (sigla della
Risonanza Magnetica, ndr) perché nel film c’è questa analisi, di
quello che non funzione all’interno del cervello. E poi mi piaceva
l’idea di mostrare le radiografie del cranio, anche perché in
genere quello che continua a crescere è il lobo frontale, dove
risiede l’empatia. Se consentissimo a questa parte di svilupparsi
ancora, potremmo ottenere davvero risultati positivi.