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L’ombra dello scorpione: Josh Boone commenta il nuovo adattamento di Doug Liman.

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Mentre i romanzi di Stephen King sono stati spesso trasposti sul grande schermo, il suo iconico capolavoro The Stand (in Italia noto come L’ombra dello scorpione) sta per ottenere il suo terzo adattamento, e uno dei creatori precedenti sta ora valutando la prossima versione. Il romanzo di King del 1978 è ambientato in un mondo post-apocalittico in cui una pandemia mortale ha spazzato via il 99% della popolazione, lasciando i sopravvissuti a cavarsela da soli, mentre il misterioso Randall Flagg accumula un potente seguito a Las Vegas.

Dopo oltre un decennio di tentativi e rinvii, L’ombra dello scorpione è finalmente arrivato sul grande schermo con un adattamento in miniserie nel 1994, scritto dallo stesso King, che ha vinto due Emmy e ha ricevuto sei nomination in totale. I tentativi di realizzare un film negli anni 2010 si sono nuovamente trasformati in una miniserie, questa volta sviluppata da Josh Boone e Benjamin Cavell, quest’ultimo in qualità di showrunner. Cinque anni dopo le reazioni contrastanti, è stato rivelato che la Paramount starebbe collaborando con Doug Liman di Road House per realizzare una versione cinematografica.

In una recente intervista con Joe Deckelmeier per ScreenRant per discutere del suo adattamento di Colleen HooverRegretting You, Josh Boone è stato interrogato sulle sue opinioni riguardo alla nuova versione in lavorazione. Il regista ha esordito sottolineando che “è riuscito a realizzare solo il primo e l’ultimo episodio” dell’adattamento in miniserie del 2020, il quale è stato “qualcosa che ho supplicato” King di scrivere dopo una precedente storia in cui l’autore aveva “un’idea per una coda” per dare una conclusione extra al romanzo che coinvolgeva Frannie bloccata in un pozzo.

Ho pensato: “Ma che cavolo significa?”. Così gli ho scritto dicendogli: “Ho sentito che ne hai parlato. Perché non lo scrivi per noi?”. Ricordo ancora il giorno in cui ho ricevuto la bozza finale e ho pensato: “Sono il primo a leggere quello che ha scritto!”. Sono stato un suo fan per tutta la vita e ha avuto un grande impatto su di me quando ero bambino. Gli ho mandato alcuni libri e lui mi ha scritto una lettera quando ero più giovane, e l’ho inserito in Stuck in Love, dove fa un cameo interpretando se stesso.

Boone ha poi spiegato che uno dei motivi per cui amava i libri di King quando era più giovane non era solo perché era “la voce che volevo sentire di più quando aprivo un libro”, ma anche perché i romanzi dell’autore “hanno così tanti personaggi bambini”, cosa che riteneva rara quando era un ragazzino che cresceva negli anni ’90.

I bambini leggono i libri di Stephen King, quindi lui è stato la persona che ha avuto la maggiore influenza sulla mia crescita e sulla mia vita da adulto. Era semplicemente la persona più gentile e migliore che si potesse incontrare. Si dice: “Non incontrare i tuoi eroi”, ma non si riferivano a Stephen King”.

Il creatore ha anche riflettuto su come il suo adattamento di L’ombra dello scorpione fosse nato originariamente come un lungometraggio, proprio come la miniserie che l’ha preceduto, in cui “molti membri del cast del film mi hanno seguito”, tra cui Nat Wolff e Greg Kinnear, descrivendo la lista come “amici che avrei voluto inserire in qualcosa ma non avevo potuto”. Quella lista comprendeva anche talenti dietro la telecamera, tra cui i montatori della serie e il compositore Nate Walcott.

Ho lavorato molto alla colonna sonora, ad esempio inserendo i Black Sabbath nel primo episodio e facendo fischiare ad Alex Skarsgard l’introduzione di “The Stranger” di Billy Joel. Questi sono i miei tocchi personali, ma ho potuto inserirne così pochi che ho sempre desiderato realizzare un film di tre ore, come JFK o qualcosa del genere, con quel cast numeroso e variegato, quel cast numeroso e variegato.

Boone riteneva che fosse “impossibile” trasformare in un film il libro di oltre 800 pagine, e lui e Cavell volevano “fare qualcosa di diverso” con la struttura del materiale originale rispetto alla miniserie del 1994. Il loro approccio, come ha spiegato, era quello di “mescolare la cronologia in modo da renderla più sorprendente” per i fan del libro, anche se la raccontavano in modo diretto.

Tornando a parlare del nuovo adattamento cinematografico, Boone ha espresso la sua “impazienza” di vederlo, elogiando in particolare Liman con un “Adoro Doug Liman” e definendo il regista sia ‘fantastico’ che “un pazzo”. Pur ammettendo di essere curioso di “vedere cosa ne farà qualcuno” del romanzo di King, è particolarmente intrigato di vedere “come sarà come lungometraggio”.

Cosa aspettarsi dal nuovo adattamento di L’ombra dello scorpione

In linea con quanto detto da Boone, il punto di maggiore curiosità riguardo al nuovo adattamento è come funzionerà come lungometraggio. In entrambi i precedenti adattamenti, il problema principale che ne ha ritardato lo sviluppo è sempre derivato dalla vastità del romanzo di King, poiché tutti, da George A. Romero ai veterani di Harry Potter David Yates e Steve Kloves, hanno cercato di trovare il modo migliore per ridurlo a una durata ragionevole per il cinema.

Sebbene sia ancora nelle prime fasi di sviluppo, L’ombra dello scorpione di Liman potrebbe trarre il massimo vantaggio dai precedenti piani di Boone per il romanzo, che prevedevano di trasformarlo in quattro lungometraggi prima che diventasse una miniserie di nove episodi. Una cosa che i fan di King si aspettano costantemente dagli adattamenti delle sue opere è una traduzione fedele delle storie e dei personaggi, che un solo film rischierebbe di tradire.

Inoltre, ci sono alcuni esempi significativi di adattamenti cinematografici suddivisi in più parti che hanno riscosso un grande successo. La prima parte di Wicked è stata un successo sia di critica che di pubblico, mentre gli ultimi due film di Twilight hanno superato il giudizio negativo della critica diventando dei successi al botteghino. I film Dune di Denis Villeneuve sono probabilmente il paragone più calzante per come Liman e la Paramount potrebbero adattare L’ombra dello scorpione, dato che i primi due hanno diviso a metà il romanzo di Frank Herbert e hanno incassato cifre importanti al botteghino.

Indipendentemente dall’approccio che Liman adotterà alla fine, il fattore decisivo per determinare se potrà essere realizzato in un formato lungometraggio è ottenere l’approvazione di King. Ci sono certamente adattamenti che hanno suscitato critiche anche dopo l’approvazione di King, ma essendo spesso considerato il suo capolavoro, questo e La Torre Nera sono i due adattamenti che, senza l’approvazione dell’autore, avranno difficoltà ad avere successo.

Springsteen – Liberami dal Nulla: recensione del film della nascita di Nebraska, capolavoro del Boss

C’è una linea sottile tra il racconto del mito e quello dell’uomo, e Springsteen: Liberami dal Nulla di Scott Cooper prova a camminarci sopra con passo incerto ma sincero. Il film, prodotto da 20th Century Studios e tratto dal libro di Warren Zanes, si concentra su un momento preciso della carriera del “Boss”: la creazione di Nebraska, album spartano e dolente inciso nel 1982 con un registratore a quattro piste nella camera da letto del cantante nel New Jersey. È il momento in cui Bruce Springsteen (interpretato da un sorprendente Jeremy Allen White) si allontana dalla grandezza scenica di The River e si immerge nel silenzio, in un dialogo con i propri demoni e con la solitudine.

Scott Cooper, regista da sempre attratto dai crepacci dell’animo umano (Crazy Heart, Hostiles), sceglie di raccontare il Bruce più fragile, più introverso, più spaventato. La musica, in questa storia, non è mai puro intrattenimento: è confessione, è terapia, è il modo in cui un uomo tenta di liberarsi dal nulla che lo divora dentro. Tuttavia, proprio quando il film sembra trovare il suo centro emotivo, inciampa nel suo stesso desiderio di spiegare troppo. Il racconto del processo creativo — affascinante ma sfuggente — si trasforma in un lungo “dietro le quinte” che toglie un po’ di magia alla leggenda.

Springsteen – Liberami dal nulla – Odessa Young e Jeremy Allen White – Cortesia The Walt Disney Company Italia

Springsteen: Liberami dal Nulla e la fatica di rappresentare la scintilla creativa

Raccontare la nascita di un capolavoro è un rischio, e Springsteen: Liberami dal Nulla ne è consapevole. Cooper tenta di mettere in scena la genesi di Nebraska come un atto quasi mistico, un’urgenza interiore più che un processo razionale. Ma, nel tentativo di decifrare l’indecifrabile, il film scivola nella trappola del “come è fatto”: osserviamo Springsteen provare, registrare, cancellare, riprovare, mentre la regia insiste sui dettagli tecnici e sul rituale della creazione, dimenticando a tratti la vertigine del mistero che accompagna ogni atto artistico autentico.

È un peccato, perché quando Liberami dal Nulla smette di voler spiegare e comincia a mostrare — con sguardi, silenzi, esitazioni — allora diventa un film intenso, persino poetico. Cooper e il direttore della fotografia Masanobu Takayanagi costruiscono un’immagine che rispecchia la natura del disco: luci fredde, interni spogli, paesaggi invernali del New Jersey che sembrano usciti direttamente dai brani di Nebraska. La colonna sonora di Jeremiah Fraites accompagna il tutto con discrezione, alternando momenti di sospensione a improvvisi scoppi emotivi, in perfetta sintonia con l’anima dell’opera.

Il limite, però, resta concettuale: la volontà di rendere “visibile” la creazione artistica, di tradurre in immagini ciò che nasce nell’invisibile. E in questo, come molti biopic dedicati ai musicisti, Springsteen: Liberami dal Nulla rischia di fare un passo indietro rispetto al suo stesso soggetto. Bruce Springsteen, dopotutto, ha sempre raccontato l’America e se stesso attraverso le sue canzoni, lasciando che la musica fosse la vera biografia. Il film, invece, sembra non fidarsi del potere evocativo dell’arte, e cerca di spiegarla, incasellarla, razionalizzarla — e così facendo, la priva di parte della sua potenza.

Springsteen – Liberami dal nulla – Stephen Graham – Cortesia The Walt Disney Company Italia

Padri, figli e fantasmi: il peso dell’eredità emotiva

Tra i fili narrativi più riusciti del film c’è quello familiare. Springsteen: Liberami dal Nulla racconta con grande sensibilità il rapporto tra il piccolo Bruce e il padre Doug (interpretato da uno straordinario Stephen Graham), figura problematica e distante, segnata dalla malattia mentale e da un dolore che si trasmette come un’eredità silenziosa. Cooper tratteggia la loro relazione con un realismo che non cerca mai la lacrima facile: il giovane Bruce cresce nell’ombra di un uomo irrisolto, imparando troppo presto che la malinconia può diventare un linguaggio.

La riconciliazione tra i due avviene solo da adulti, in una delle sequenze più emozionanti del film: un dialogo scarno, quasi mormorato, dove non servono grandi dichiarazioni perché bastano gli sguardi. È in quel momento che il film trova un equilibrio perfetto tra intimità e verità. La regia di Cooper, asciutta e rispettosa, lascia spazio agli attori, e Jeremy Allen White mostra tutta la vulnerabilità di un uomo che capisce, finalmente, di essere diventato ciò che temeva: una versione riflessa del padre.

Il film suggerisce che le ferite di Doug non si spengono con lui, ma continuano a pulsare dentro Bruce, influenzando anche il suo modo di amare. Lo vediamo nel rapporto con Faye (una magnetica Odessa Young), personaggio immaginario ma ispirato alle figure femminili che attraversarono la vita del musicista in quegli anni. Faye rappresenta la possibilità di guarire, ma anche il rischio di replicare gli stessi schemi di distanza e dolore. È in lei che Bruce cerca di spezzare l’eredità paterna, senza sapere se sia davvero possibile. Questo filo psicologico, tratteggiato con delicatezza, è forse la parte più umana e riuscita del film, capace di unire biografia, introspezione e racconto universale della fragilità maschile.

Il confine tra mito e mistero: cosa resta dopo la visione

Alla fine, Springsteen: Liberami dal Nulla lascia lo spettatore diviso tra l’ammirazione per l’ambizione del progetto e una certa malinconia per ciò che avrebbe potuto essere. Cooper costruisce un ritratto rispettoso e intenso, ma anche troppo controllato, quasi timoroso di lasciarsi andare alla spontaneità che pure fu l’essenza di Nebraska. Il film funziona quando si fa intimo e vulnerabile, quando guarda all’uomo più che al musicista; ma perde forza quando tenta di raccontare la genesi del capolavoro come se fosse un processo analitico e non, com’è davvero, un atto di grazia.

C’è un momento, verso la fine, in cui il film sembra dirci ciò che conta davvero: non capire come nascono le canzoni, ma sentire perché nascono. È lì che Liberami dal Nulla trova la sua verità più pura — nel non detto, nell’ombra, nella consapevolezza che la creazione artistica resta, per fortuna, un mistero. E forse è questo il limite ma anche la bellezza del film: la sua incapacità di svelare fino in fondo il segreto di Springsteen diventa, paradossalmente, il suo modo più sincero di onorarlo. Perché raccontare un artista come Bruce Springsteen significa accettare che la sua voce, la sua rabbia, la sua dolcezza appartengano a un altrove che il cinema può solo sfiorare.

Anna: recensione del film di Monica Guerritore – #RoFF20

La Roma degli anni d’oro del cinema italiano è sempre stata avvolta da un fascino e una magia senza eguali. Era la città dei sogni, al pari di Hollywood: crocevia di eventi mondani, star, produzioni cinematografiche. Una città impregnata di quella bellezza sublime, quasi evanescente, che tutti sognavano di vivere almeno una volta nella vita. Quel cinema, che fu rivoluzionario, poteva vantare alcune delle stelle più brillanti che l’Italia abbia mai avuto – desiderate anche oltre oceano.

E una di queste era Anna Magnani. Monica Guerritore, che evidentemente ha molto amato l’attrice, ha scelto di immergersi nel cuore della sua esistenza: un percorso artistico e umano costellato di successi e tormenti. Lo fa in Anna, film presentato alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, in cui ricopre un triplice ruolo: regista, sceneggiatrice e interprete.

La trama di Anna

È il 21 marzo 1956. Anna Magnani non riesce a prendere sonno. Si alza, si veste, ed esce per una passeggiata notturna nel cuore di Roma, attraversando la città deserta fino a raggiungere il Lungotevere. È la notte degli Oscar, e a Los Angeles si sta celebrando la cerimonia che potrebbe consacrarla come miglior attrice protagonista per La rosa tatuata. Nel silenzio più profondo, Roma si fa specchio della sua memoria: Anna ripercorre i frammenti della sua vita – l’amore turbolento con Roberto Rossellini, la malattia del figlio Luca, le battaglie sul set e i suoi successi più acclamati. Ad accompagnarla, una galleria di personaggi che rappresentano ogni ceto sociale: dal popolo romano agli uomini dell’industria cinematografica, fino agli agenti e produttori. Un viaggio dentro la fragilità e la forza di un’attrice diventata leggenda. Fino al momento che rimarrà nella storia: il momento in cui viene annunciata come la prima italiana a vincere un Oscar.

Anna Magnani: una donna oltre le regole

Anna Magnani non era un’attrice qualunque. Certo, tutte le dive – in quanto tali – si sottraggono alle definizioni standard. Ma Magnani aveva qualcosa in più. In quegli anni, dove a dominare era il Neorealismo, Magnani era quella più spudoratamente vera. Profondamente reale. Sul grande schermo portava donne popolane, autentiche, senza filtri né imbellettamenti. Donne in cui il pubblico – e soprattutto le donne – potevano riconoscersi. Perché venivano rappresentate.

È stata la sua veracità, la sua schiettezza, il suo andare controcorrente a renderla l’attrice che nessuno dimenticherà. Quella che sembrava più vicina di tutte, proprio perché imperfetta, sfacciata, viva. Monica Guerritore si dà anima e corpo per restituire questa versione concreta e sfaccettata di Magnani. La interpreta con forza e tensione, danzando tra i fantasmi e le cicatrici di una donna rimasta sempre in bilico tra felicità e dolore. L’interpretazione è sopra le righe – come il personaggio richiede – ma mai fuori controllo. Guerritore non inciampa mai nel ruolo che ha scelto di far rivivere, nonostante Anna avesse un temperamento difficile e una personalità complessa da replicare. Porta in scena, con foga, quella libertà che Magnani urlava, e di cui si faceva portavoce.

Quando l’omaggio non basta

Se lo sforzo attoriale di Monica Guerritore funziona, è sul piano registico e contenutistico che il film si incrina. L’attrice sceglie di raccontare solo una parentesi: l’ultima parte della vita di Magnani, partendo dalla notte dell’Oscar per La rosa tatuata. Da lì si immerge in quella Roma incantata dell’epoca, restituendoci con affetto le sue atmosfere, la lingua, i riflessi e la sua oscurità. Su questa linea temporale principale, vengono innestati flashback, ricordi, episodi personali: momenti che restituiscono fragilità, rabbia, lucidità, ma sempre in forma accennata. Mai scavata.

La sceneggiatura si addobba di suggestioni, ma non ne affronta nessuna. Il risultato è che non si perde la trama, ma si sfuma il messaggio finale, perché non è chiaro che cosa si voglia davvero raccontare della Magnani. Il registro cambia spesso, balzando dal dramma alla commedia, e l’uso insistito dello slow motion, inserito in modo casuale, rompe la fluidità del racconto e stona con il tono generale.

Anna diventa così un film che si divide a metà: tra la bellezza sincera di voler raccontare chi fosse davvero Anna Magnani, e la mancata occasione di portarci fino in fondo dentro la sua zona d’ombra, dentro quello che non sappiamo ancora. Un tributo che dunque non è mai vivido. Come se fosse costantemente appannato.

Our hero, Balthazar: recensione del film con Asa Butterfield – #RoFF20

Our Hero, Balthazar, scritto e diretto da Oscar Boyson insieme a Ricky Camilleri, è un film che si muove con sorprendente equilibrio tra commedia giovanile e dramma sociale. Interpretato da Jaeden Martell, Asa Butterfield, Noah Centineo, Jennifer Ehle e Pippa Knowles, il film racconta l’adolescenza nell’era dei social network, dove l’autenticità è un concetto fragile e la solitudine trova un surrogato nella connessione digitale.

Con uno stile a metà tra il cinema indie americano e il dramma psicologico, Boyson costruisce una riflessione lucida e toccante sulla fame di visibilità e sulla perdita di contatto umano in un mondo ossessionato dall’immagine.

Il vuoto di Balthazar

Balthazar (Jaeden Martell) è un adolescente ricchissimo di New York, ma completamente solo. Il padre è assente, la madre (Jennifer Ehle) preferisce trascorrere il compleanno del figlio in viaggio col nuovo compagno, e l’unica figura stabile nella sua vita è Anthony (Noah Centineo), un life coach ben pagato che cerca, senza successo, di riempire il vuoto esistenziale del ragazzo con frasi motivazionali e retorica da self-help.

Incapace di trovare un’autentica connessione, Balthazar decide di “crearsi” una comunità online. Apre un profilo social dove, tra lacrime vere e confessioni filtrate, ammette la sua solitudine. La sua vulnerabilità, confezionata come contenuto virale, attira follower in cerca della stessa empatia simulata. È il paradosso di una generazione che comunica tantissimo, ma si ascolta pochissimo.

Eleanor e la realtà che bussa

Durante una simulazione d’emergenza per una sparatoria scolastica – routine ormai tristemente comune negli istituti americani – Balthazar conosce Eleanor (Pippa Knowles), una ragazza intelligente e idealista, impegnata nella lotta contro la violenza armata. Colpito dal suo carisma e dalla lucidità con cui analizza la “violenza che inseguiamo mentre la creiamo”, Balthazar tenta di avvicinarla, partecipando a un rally contro le armi, ma la manifestazione fallisce per mancanza di partecipazione: un gesto politico svuotato, specchio di una società incapace di mobilitarsi davvero.

Quando Balthazar le mostra un video inquietante ricevuto da un follower, un certo death_dealer (letteralmente: portatore di morte), che minaccia di compiere una sparatoria in una scuola, Eleanor lo accusa di cinismo: più interessato ad apparire come un eroe che a capire la gravità del problema. È un momento di rottura, ma anche la scintilla che spinge il protagonista verso un viaggio che cambierà la sua visione del mondo.

Our hero, Balthazar: un viaggio nell’America invisibile

Determinato a “fare qualcosa”, Balthazar parte per il Texas per incontrare di persona l’autore delle minacce, scoprendo che dietro l’account “death_dealer” si nasconde Solomon (Asa Butterfield), un ragazzo povero, senza madre e con un futuro sospeso. Vive con la nonna, lavora vendendo integratori (“Thrush Supplements”) e sogna, senza crederci troppo, di cambiare vita.

Solomon è il contraltare perfetto di Balthazar: due ragazzi diversissimi per contesto ma uguali nella loro fame di attenzione, due volti dello stesso isolamento. Dopo l’iniziale rabbia per essere stato ingannato – Balthazar si era finto una ragazza per entrare in contatto con lui – Solomon finisce per accogliere l’estraneo come un amico.

Qui brilla in modo straordinario Asa Butterfield, che dà al personaggio una profondità inaspettata. Il suo Solomon è fragile e impulsivo, ma anche teneramente umano, un ragazzo che vorrebbe solo essere visto senza essere giudicato. Butterfield riesce a far convivere rabbia, ironia e vulnerabilità, trasformando Solomon in un cuore pulsante del film: il simbolo di un’America dimenticata, ma ancora viva e capace di empatia.

Martell in Our Hero Balthazar 2025
Cortesia di IMDB

Our hero, Balthazar: l’interno della ferita

Il grande merito di Boyson è quello di raccontare il tema della violenza armata non dall’esterno, ma dall’interno: attraverso la vita, i sogni e la paura dei ragazzi che potrebbero diventarne vittime o carnefici. Non c’è retorica, non c’è morale imposta: il regista osserva, accompagna, lascia che siano i suoi personaggi a parlare.

La questione delle armi emerge così non come un problema astratto o politico, ma come un sintomo di un dolore più profondo, di una società che ha perso la capacità di ascoltare. “We are just fighting for our lives” (“Stiamo solo lottando per le nostre vite”) – afferma Balthazar dopo aver letto la frase su un articolo di cronaca relativo a uno school shooting – e il film segue le orme di questa consapevolezza dolorosa ma sincera: sopravvivere oggi significa trovare un modo per sentirsi parte di qualcosa di reale.

Comunità e identità in Our hero, Balthazar

Nel percorso che lega Balthazar e Solomon, il film riflette sulla necessità di una comunità autentica. I social media, con le loro promesse di connessione, diventano lo specchio deformante di un desiderio vero ma frainteso. “Nice to be part of a community” (“Bello far parte di una comunità”), dice Balthazar, ma la frase suona ironica, quasi disperata. Solo nel rapporto con Solomon, nella condivisione silenziosa delle loro fragilità, quella comunità si fa finalmente concreta.

La regia accompagna questo processo con un linguaggio visivo preciso: la fotografia pulita e asettica di New York si sporca di colori terrosi e luci naturali nel Texas, come se la realtà, finalmente, potesse filtrare attraverso lo schermo.

Un film potente

Our Hero, Balthazar è un film intenso e sorprendentemente empatico. Non giudica, non predica, ma ascolta. Boyson riesce a restituire la complessità di una generazione sospesa tra la connessione digitale e l’assenza di legami veri, firmando un’opera che parla di dolore, amicizia e speranza con una sincerità rara.

Grazie alle interpretazioni di Martell e di Butterfield – qui in una delle prove più mature della loro carriera – il film trova un equilibrio perfetto tra intimità e riflessione sociale, guardando dentro la ferita dell’America e trasformandola in un racconto di umanità, solitudine e ricerca di redenzione.

Mrs Playmen: il trailer della serie con Carolina Crescentini

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Netflix ha diffuso il trailer ufficiale di Mrs Playmen, la nuova serie italiana in 7 episodi prodotta da Aurora TV e ispirata alla storia vera di Adelina Tattilo, editrice della più nota rivista erotica italiana, Playmen. I primi due episodi della serie, che sarà disponibile solo su Netflix dal 12 novembre, saranno presentati oggi in anteprima alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, fuori concorso nella sezione Freestyle.

Carolina Crescentini è Adelina Tattilo

A interpretare la protagonista è Carolina Crescentini, nei panni di Adelina Tattilo, una donna che negli anni ’70 seppe trasformare la provocazione in cultura e la sensualità in un atto politico. Accanto a lei un cast corale composto da Filippo Nigro (Chartroux), Giuseppe Maggio (Luigi Poggi), Francesca Colucci (Elsa), Domenico Diele (Andrea De Cesari), Francesco Colella (Saro Balsamo), Lidia Vitale (Lella) e Giampiero Judica (Don Rocco).

La serie è diretta da Riccardo Donna e scritta da Mario Ruggeri, head writer, insieme agli autori Eleonora Cimpanelli, Chiara Laudani, Sergio Leszczynski e Alessandro Sermoneta.

Mrs Playmen racconta la storia di una donna straordinaria, cattolica e anticonformista, capace di sfidare la morale e il maschilismo della Roma conservatrice degli anni ’70. Adelina Tattilo, direttrice della prima rivista erotica italiana, fu una forza rivoluzionaria in un Paese ancora ancorato ai tabù. Mentre l’Italia discuteva di divorzio, aborto e libertà sessuale, lei guidava un impero editoriale al femminile, trasformando Playmen in un laboratorio di modernità, stile e provocazione.

Quando il marito Saro Balsamo la abbandona, lasciandola sola e sommersa dai debiti, Adelina decide di non arrendersi. Reinventa la rivista, la rende sofisticata e internazionale, e costruisce attorno a sé un gruppo di intellettuali e creativi visionari. Numero dopo numero, Mrs Playmen racconta la nascita di un nuovo immaginario e di una rivoluzione culturale e di costume destinata a cambiare per sempre la società italiana.

Prodotta da Aurora TV per Netflix, la serie mescola dramma biografico, costume e ironia, restituendo il ritratto di una donna che seppe incarnare le contraddizioni del suo tempo: credente e ribelle, madre e imprenditrice, icona e bersaglio dello scandalo.

Con il suo sguardo elegante e provocatorio, Mrs Playmen non celebra solo la nascita di una rivista, ma il coraggio di una generazione di donne che, come Adelina Tattilo, hanno avuto la forza di dire: “siamo qui, e non abbiamo più intenzione di stare zitte.”

Adelina Tattilo è Mrs. Playmen, direttrice della prima rivista erotica italiana e una forza rivoluzionaria nella Roma conservatrice e moralista degli anni ’70. Un’imprenditrice pionieristica in un’epoca in cui le donne erano relegate al ruolo di madri e casalinghe; una cattolica devota, ma anche un’audace anticonformista, in prima linea nelle battaglie per il divorzio, il diritto all’aborto e l’emancipazione femminile. Quando il marito, Saro Balsamo, la abbandona lasciandola sola ad affrontare i creditori come unica proprietaria di un impero sull’orlo del collasso, Adelina non si arrende. Reinventa Playmen trasformandola in una pubblicazione sofisticata e all’avanguardia e, sfidando il maschilismo radicato dell’epoca, riunisce attorno a sé un team di intellettuali brillanti, creativi audaci e fotografi visionari. Insieme, abbattono tabù, provocano l’establishment e accendono una rivoluzione culturale, numero dopo numero, scandalo dopo scandalo.

Mrs Playmen: la storia di una rivista che ha riscritto le regole della società italiana.

Emily in Paris – Stagione 5: il teaser e le nuove immagini della serie

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Sono da oggi disponibili il teaser trailer e le nuove immagini dell’attesissima Emily in Paris – Stagione 5. In questa nuova avventura, Emily intraprende la dolce vita a Venezia e affronta ogni svolta che la vita le presenta. Il nuovo capitolo della serie di successo creata da Darren Star e con protagonista Lily Collins debutterà solo su Netflix con dieci episodi il 18 dicembre.

La trama di Emily in Paris – Stagione 5

Ora a capo dell’Agence Grateau a Roma, Emily affronta sfide professionali e sentimentali mentre si adatta alla vita in una nuova città. Ma proprio quando tutto sembra andare per il verso giusto, un’idea lavorativa si rivela un fallimento, con conseguenti delusioni amorose e ostacoli alla carriera. In cerca di stabilità, Emily si rifugia nel suo stile di vita francese, finché un grande segreto non minaccia uno dei suoi rapporti più stretti. Affrontando i conflitti con sincerità, Emily ne esce con legami più profondi, una rinnovata consapevolezza e la voglia di abbracciare nuove possibilità.

  • Creatore / Produttore Esecutivo / Autore: Darren Star

  • Produttori Esecutivi: Tony Hernandez, Lilly Burns, Andrew Fleming, Stephen Brown, Alison Brown, Robin Schiff, Grant Sloss, Joe Murphy

  • Cast: Lily Collins (Emily Cooper), Philippine Leroy-Beaulieu (Sylvie Grateau), Ashley Park (Mindy Chen), Lucas Bravo (Gabriel), Samuel Arnold (Julien), Bruno Gouery (Luc), William Abadie (Antoine Lambert), Lucien Laviscount (Alfie), Thalia Besson (Genevieve), Eugenio Franceschini (Marcello)

  • Prodotta da: MTV Entertainment Studios, Darren Star Productions e Jax Media

Stephen Graham diventa il padre di Bruce Springsteen: “Quella tra padre e figlio è una delle relazioni più antiche e profonde che esistano”

Ci sono attori che non recitano soltanto: vivono i ruoli fino a trasformarli in un pezzo della propria vita. Stephen Graham è uno di questi. Nel nuovo film di Scott Cooper, Springsteen – Liberami dal nulla, interpreta Douglas Springsteen, il padre del giovane Bruce — un uomo severo, schivo, combattuto, la cui ombra si proietta su tutta la vita del figlio. Eppure, dietro la figura rigida e distante, Graham scorge qualcosa di molto più universale: il difficile amore tra padri e figli.

“Non lo definirei un ritratto di mascolinità tossica,” esordisce con calma. “È più un film sulla consapevolezza. Ho 52 anni, sono padre da vent’anni, e sono in quella fase della vita in cui inizi a riflettere. Mi piace dire che sono sulle ‘seconde nove’, come nel golf: mi sono fatto un mazzo così per arrivarci, e ora voglio godermi il percorso, cercando di capire che cosa posso ancora cambiare, migliorare, trasmettere.”

Negli ultimi anni Graham si è impegnato in diversi progetti dedicati proprio al rapporto tra padri e figli, esplorando l’eredità emotiva che passa, spesso in silenzio, da una generazione all’altra. Springsteen – Liberami dal nulla gli è sembrato un’estensione naturale di quel percorso.

“È una delle relazioni più antiche e profonde che esistano, quella tra un padre e suo figlio. Shakespeare, pensa a Re Lear, ci ha costruito interi mondi sopra. È un tema eterno. E quando Scott Cooper mi ha chiamato per dirmi che aveva scritto il ruolo del padre di Bruce pensando a me, è stato un onore incredibile. Poi mi ha detto che Bruce, saputo il mio nome, aveva commentato: ‘Lui è fantastico’. Non potevo crederci. Bruce Springsteen sapeva chi ero. Ho letto la sceneggiatura e ho detto subito: sì, ci sto.”

Springsteen – Liberami dal nulla – Stephen Graham – Cortesia The Walt Disney Company Italia

Stephen Graham, la voce del padre

Per prepararsi al ruolo, Graham ha deciso di partire proprio dalla voce di Bruce. “Ho ascoltato l’audiolibro della sua autobiografia,” racconta. “È stato fondamentale. Quando Bruce racconta la storia di suo padre, cambia leggermente il tono, quasi senza accorgersene. Gli ho chiesto se lo facesse apposta, e mi ha detto di no, che era del tutto inconscio. Ma in quel modo, inconsciamente, aveva già creato una visione di suo padre. E io ho semplicemente… rubato quella visione. Come una gazza, l’ho presa e l’ho fatta mia. Da lì ho costruito la voce, il corpo, la presenza di Douglas.”

Padri, figli e redenzione

Il film segue il rapporto tra Bruce e suo padre dagli anni giovanili fino all’età adulta, quando il musicista, ormai famoso, ritrova quell’uomo fragile e spezzato che un tempo temeva.

“Con Jeremy Allen White ho girato due scene fondamentali,” dice Graham. “Nel momento in cui Bruce lo rincontra, il padre è ormai stanco, segnato dall’alcol, dalla depressione, dalla perdita di lucidità. Forse anche dall’Alzheimer. C’è una gravità in quella scena, un silenzio pieno di tutto ciò che non è mai stato detto. E Jeremy è stato straordinario nel restituire quell’empatia, quella comprensione che nasce solo quando hai fatto pace con te stesso.”

Si ferma un momento, poi aggiunge piano: “All’inizio Bruce mi aveva detto una frase che mi è rimasta dentro: ‘Sapevo che mio padre mi amava, ma non ho mai sentito il suo amore fino a quel momento’. E noi abbiamo cercato di catturare esattamente quell’istante. È stato speciale. In quella stanza, durante le riprese, c’era un’energia palpabile. Non abbiamo forzato niente. Abbiamo lasciato che accadesse.”

Stephen Graham sul red carpet della Festa del Cinema di Roma 2025 – Foto di Luigi De Pompeis © Cinefilos.it

Scoprire Springsteen per la prima volta

Sorprendentemente, Stephen Graham non era un fan di Bruce prima di questo film. “Devo essere onesto: non lo avevo mai ascoltato davvero,” confessa ridendo. “A casa mia si sentivano Otis Redding, Bob Marley, Beethoven, Sly & The Family Stone… era un mix eclettico. Ma lavorando a questo film, ho scoperto Nebraska, e l’ho ascoltato con orecchie nuove. Sapere dove si trovava Bruce nella vita quando lo ha scritto, sentire quella sua ricerca di autenticità, mi ha colpito profondamente. È come vedere per la prima volta il David di Michelangelo e pensare: come diavolo ha fatto a tirarlo fuori da un blocco di marmo?”

Da allora, racconta, ha iniziato a esplorare tutto il catalogo di Springsteen. “La sua musica è piena di speranza. Parla di dolore, sì, ma anche di redenzione, di resilienza. E lui è un uomo incredibilmente umile, gentile. È impossibile non volergli bene.”

L’arte che nutre l’anima

Alla domanda su cosa lo ispiri, Graham non esita: “Di solito ho una playlist per ogni personaggio, ma questa volta no. L’audiolibro di Bruce è stato la mia colonna sonora. Era la mia Bibbia. Mi teneva ancorato alla realtà del personaggio. E poi c’era Scott Cooper, che ha un intuito formidabile, e lo stesso Bruce, che è stato la nostra fonte di verità. Bastava ‘calare il secchio nel pozzo’, come dico io, e tirare su tutta quella ricchezza umana.”

Per lui, l’arte è — sempre — una questione di nutrimento. “L’arte, la musica, la cultura… sono ciò che nutre l’anima. Quando sei dentro un processo creativo, è l’unica cosa che ti tiene vivo. E questo film, per me, è stato proprio questo: un modo per guardare dentro, per capire cosa significhi amare, perdonare e, forse, diventare finalmente un padre migliore.”

Springsteen – Liberami dal nulla è nelle sale italiane dal 23 ottobre distribuito da The Walt Disney Company Italia.

Odessa Young: “Con Springsteen – Liberami dal nulla ho scoperto la magia dietro la musica che amavo da sempre”

C’è un’energia quieta ma luminosa in Odessa Young, quella di chi porta sullo schermo personaggi che vivono nel limbo fra realtà e finzione. In Springsteen – Liberami dal nulla, il nuovo film di Scott Cooper che esplora un periodo cruciale nella vita del giovane Bruce Springsteen, l’attrice australiana interpreta Faye, una figura non realmente esistita ma ispirata alle diverse donne che, negli anni Settanta, ruotavano intorno al musicista. Un personaggio “inventato” e proprio per questo profondamente vero.

Leggi la nostra recensione di Springsteen: Liberami dal Nulla

“Mi sono preparata come per qualsiasi altro ruolo di finzione,” racconta Odessa sorridendo. “Scott aveva già scritto Faye con una precisione straordinaria. Era tutta lì, sulla pagina. Non avevo bisogno di rincorrere modelli reali o di fare ricerche esterne: potevo semplicemente fidarmi della sceneggiatura e lasciarla respirare. È stato liberatorio.”

Liberatorio, ma anche delicato. Perché, se Bruce è ormai un’icona, le persone della sua vita privata restano avvolte nel pudore e nella discrezione. “Sapevo che Bruce è molto protettivo verso chi non ha mai cercato i riflettori,” spiega. “E non volevo oltrepassare quel confine. Il personaggio era già completo così: bastava ascoltarla.”

Odessa Young è il contrappunto di Jeremy Allen White

Accanto a lei, Jeremy Allen White interpreta un giovane Bruce, fragile e introverso, in lotta con i propri demoni interiori. L’alchimia tra i due è palpabile, fatta di silenzi e sguardi più che di parole.

“Con Jeremy è stato tutto naturale. Lui porta una concentrazione quasi ipnotica sul set, io invece arrivo con un’energia più solare, entusiasta, felice di esserci. Quel contrasto si è trasformato nella dinamica perfetta fra i nostri personaggi: lui trattenuto, io più diretta e spontanea. Il film parla proprio di questo — di imparare a dire le cose che per anni hai tenuto dentro.”

Uno dei momenti più intensi del film, racconta, è una scena apparentemente minima: Bruce accompagna Faye a casa dopo un concerto all’Stone Pony, e tra i due rimane un silenzio pieno di tutto ciò che non si può dire. “Scott è un maestro nel far accadere le cose proprio mentre ‘non succedono’,” dice Odessa. “Ci ha chiesto di prenderci tempo, di lasciare che il cuore si spezzasse davanti alla macchina da presa. È un regista che sa ascoltare il non detto.”

Springsteen – Liberami dal nulla – Odessa Young e Jeremy Allen White – Cortesia The Walt Disney Company Italia

Il rispetto e la luce di Bruce

Fan dichiarata di Bruce Springsteen fin dai tempi del liceo (“Era parte della mia identità”), Odessa Young confessa che lavorare a questo film ha trasformato il suo rapporto con la musica del Boss. “Ora lo amo ancora di più,” sorride. “Ho visto come si costruisce un mito, ma invece di perdere la magia, ne ho guadagnata. Bruce è gentile, generoso, presente ma mai invadente. Sul set era una presenza quasi spirituale, rispettosa dei nostri processi. Sapere che la ‘ragione’ per cui stai facendo tutto questo è lì davanti a te… è potentissimo.”

C’è stato, poi, un momento di pura emozione che le è rimasto nel cuore: il ricordo del primo concerto di Springsteen visto da adolescente, a Sydney. “Avevo quindici anni, tour di Wrecking Ball. Durante 10th Avenue Freeze-Out Bruce si avvicinò al pubblico per omaggiare Clarence Clemons. Mio padre mi spinse verso le transenne e… gli toccai la spalla! Non l’ho ancora raccontato a lui, ma un giorno lo farò.”

L’arte come mistero

Quando le viene chiesto da dove trae ispirazione per i suoi ruoli, Odessa cita un nome inaspettato: l’illustratore australiano Shaun Tan“Le sue opere surrealiste mi parlano sempre. Ogni volta che inizio un nuovo progetto, trovo in lui qualcosa che risuona con il personaggio. Cattura l’essenza misteriosa dell’animo umano.”

E a proposito di mistero, non stupisce che sia affascinata dai biopic musicali, un genere sempre più amato dal pubblico. “I musicisti vivono gran parte del processo creativo in solitudine. È questo che ci incuriosisce: poter sbirciare dietro la tenda. Io sono affascinata da chiunque crei con passione — che si tratti di musica, cinema o pittura. Per questo amo questi film.”

Un film che onora e rinnova

Springsteen – Liberami dal nulla non è solo un film su un artista, ma sul momento in cui un ragazzo impara a dare forma alle proprie emozioni. Per Odessa Young, interpretare Faye è stato come attraversare un frammento di quel processo. “Il film è un’estensione del suo lavoro,” conclude. “Un atto d’amore verso la musica, ma anche verso le persone che lo hanno aiutato a diventare ciò che è. Essere parte di tutto questo è stato… speciale.”

Springsteen – Liberami dal nulla è nelle sale italiane dal 23 ottobre distribuito da The Walt Disney Company Italia.

Rian Johnson anticipa il suo prossimo progetto: “Un thriller paranoico con elementi di fantascienza”

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Dopo aver diretto, prodotto e scritto tre film della serie Knives Out con Daniel Craig, Rian Johnson è pronto per il suo prossimo progetto, che sarà un thriller fantascientifico, tornando così ad un genere a suo modo già esplorato con Star Wars: Gli ultimi Jedi e Looper. Durante un’intervista con Empire, il regista ha infatti rivelato che il suo prossimo progetto è ispirato ai “thriller paranoici degli anni ’70” con un elemento di “fantascienza leggera”.

La cosa più eccitante in questo momento è l’idea che ho in mente per il prossimo progetto, e penso che alla fine sia l’unica cosa che si possa fare, seguire il proprio istinto. Se dovessi definirlo in termini di genere, direi che si rifà ai thriller paranoici degli anni ’70. Ha un leggero elemento di fantascienza”.

Johnson intende seguire il suo istinto nel concretizzare l’idea in una storia completa e, infine, in un film. Ha esperienza con Star Wars, una delle proprietà intellettuali più iconiche mai esistite. Anche se Star Wars non è un franchise fantascientifico in senso stretto, con i fan che preferiscono etichettarlo come fantascienza o space opera, le storie hanno elementi fantascientifici.

Il regista ha inoltre ammesso che gli piacerebbe tornare a Star Wars se avesse senso sia per lui che per la Disney. “Quel meccanismo continuerà a girare per il resto della mia vita. Adoro Star Wars. E se un giorno avesse senso tornarci, per entrambi, sarebbe la cosa più bella del mondo“. Looper, d’altra parte, è a tutti gli effetti un thriller fantascientifico, quindi Johnson potrà sicuramente fare affidamento sulla sua esperienza con quel progetto per la sua idea attuale, che è un thriller con elementi fantascientifici.

Uscito nel 2012, Looper è incentrato su assassini che uccidono i loro bersagli mandandoli indietro nel tempo. Il film vedeva come protagonisti Bruce Willis, Joseph Gordon-Levitt ed Emily Blunt. Al momento non è chiaro se il prossimo film di Johnson uscirà nelle sale o sarà un’esclusiva in streaming. Glass Onion, il secondo capitolo della serie mistery, ha avuto una distribuzione limitata nelle sale prima di debuttare su Netflix. Nel frattempo, il terzo capitolo Wake Up Dead Man avrà un lancio simile, con una distribuzione limitata nelle sale prevista per il 26 novembre e una data di uscita su Netflix fissata per il 12 dicembre.

Johnson ha già un ottimo rapporto di lavoro con Netflix, quindi è possibile che firmi un accordo con la piattaforma di streaming per la sua nuova idea. Tuttavia, ama ancora l’esperienza cinematografica nelle sale. L’esperienza di Johnson in diversi generi, tra cui il mistero con Knives Out e la fantascienza con Looper, dimostra che il suo prossimo film sarà facilmente un altro successo, indipendentemente dal fatto che venga distribuito nelle sale o direttamente su una piattaforma di streaming.

DJ Ahmet: recensione del film di Georgi M. Unkovski

DJ Ahmet è stato presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival 2025 nel concorso World Cinema Dramatic. Questo primo film diretto dal regista macedone Georgi M. Unkovski ha segnato il suo ritorno a Park City, dopo la sua partecipazione con il cortometraggio Sticker del 2020 e anche la conferma del suo talento. Il suo lungometraggio infatti si è aggiudicato al Sundance ben due premi: il Premio del pubblico World Cinema Dramatic e il Premio speciale della giuria per la visione creativa World Cinema Dramatic.

La trama di DJ Ahmet

Ahmet, l’esordiente Arif Jakup, è un quindicenne contemporaneo ma di un remoto villaggio nella Macedonia del Nord, che trova rifugio nelle canzoni mentre si occupa del gregge di pecore di suo padre, Aksel Mehmet, un uomo duro, semplice e tradizionalista. Nel loro mondo rurale di religione musulmana, fatto di pastori e coltivatori di tabacco, il ragazzo viene ritirato da scuola per aiutare il papà e prendersi cura del fratello minore Naim, Agush Agushev, diventato silenzioso e che non parla più dopo la morte della madre. Il protagonista Ahmet è il tipico adolescente dal cuore d’oro, un fratello maggiore che tutti vorrebbero, si preoccupa profondamente della sua famiglia, imparando valori, impegno e come diventare adulto. La sua musica è l’unico modo di connettersi alla vita, una pecora nera anzi rosa come quella che perde durante il film, perché capisce sia la tecnologia ma anche le persone della sua comunità, una minoranza turca degli Yuruk. 

Un notte scopre, nel bosco dietro casa, un rave di musica elettronica e almeno per alcuni minuti, il tempo di qualche canzone, finalmente si trova nel mondo che gli appartiene. La magia viene spezzata quando le sue venti pecore, scappate dal recinto, arrivano alla festa. Il suo destino durante il party segreto s’incrocia con quello di Aya, l’attrice Dora Akan Zlatanova, una diciasettenne e vicina di casa ma promessa sposa con un gastarbeiter, un turco proveniente dalla Germania. Ahmet e Aya uniti dall’amore per la musica o forse più per quella d’essere se stessi iniziano a frequentarsi e il giovane riuscirà anche a far scappare la ragazza dal matrimonio combinato che lei ovviamente vuole ad ogni costo evitare.

Cortesia Movie Inspired

Un coming of age tra tradizione e TikTok

Questo film riesce a fondere tradizione e vita moderna, connettendo le persone attraverso valori umani condivisi. La visione creativa e la narrazione del regista e sceneggiatore Georgi M. Unkovski sono l’aspetto più interessante di questo coming of age, che è anche una  commedia drammatica e leggermente ironica su un piccolo mondo conservatore della Macedonia del Nord. Unkovski intreccia un senso del tempo e del luogo, catturando l’armonia e lo squilibrio della vita attraverso il dialogo, le persone, la tecnologia e la sua cultura apparentemente isolata al pubblico come un narratore che si connette con tutti senza giudizio, aggiungendo anche un tocco di comicità. Quello che sorprende è come i giovani protagonisti siano connessi con il nostro mondo, anche se indossano, soprattutto le donne, gli abiti tipici colorati degli Yuruk, hanno internet, possiedono smartphone e usano TikTok ricreando anche loro balletti virali. 

Lavorando con un cast per lo più dilettantistico, Unkovski riesce a far sì che tutti offrano solide interpretazioni naturalistiche, in particolare il simpatico protagonista esordiente Arif Jakup, che interpreta  un adolescente con il viso scottato dal sole per aver lavorato tutto il giorno all’aperto e che indossa la stessa tuta infangata in quasi ogni scena. Per concludere DJ Ahmet traccia paralleli significativi con il film Footloose, anche qui troviamo una comunità che bandisce il ballo e che vede dei protagonisti e si ribella al ritmo della musica. Quella che sembra una storia tradizionale proveniente da una terra lontana racchiude in sé un valore e una profondità più contemporanea di molte altre.

Ritorno al futuro, Micheal J. Fox e Christopher Lloyd sul perché è amato ancora oggi: “Viviamo in una cultura del bullismo”

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Sono passati 40 anni dall’uscita di Ritorno al futuro, e in qualche modo le persone continuano a identificarsi con i temi trattati dal film. Riflettendo sull’impatto duraturo del film, le star Michael J. Fox e Christopher Lloyd hanno recentemente rivelato perché credono che il film continui a coinvolgere il pubblico dopo quattro decenni.

Viviamo in una cultura del bullismo. Ci sono bulli ovunque, non c’è bisogno che io indichi chi, ma ci sono tutti questi bulli”, ha detto Fox in un’intervista con Empire. “In questo film, Biff è un bullo. Il tempo è un bullo”. Fox ha poi continuato: “Per me personalmente, il Parkinson è un bullo. E tutto sta nel modo in cui gli si tiene testa e nella determinazione con cui si affronta la lotta contro di lui. È una questione di resilienza e coraggio”.

L’attore ha osservato che “c‘è molto di questo al momento, nel presente”, aggiungendo: “Penso che molte persone stiano reagendo al film perché tocca corde che altrimenti non riconoscerebbero”. Lloyd, che ha interpretato Doc Brown nella trilogia di film, ha detto: “Continua a stupirmi quanto profondamente i film di Ritorno al futuro abbiano influenzato i giovani. Se ne parla ancora continuamente”.

Ritorno al futuro è uscito negli Stati Uniti il 3 luglio 1985, mentre in Italia arrivò il 18 ottobre dello stesso anno. Come noto, però, la data significativa del film è quella del 21 ottobre, ovvero la quella in cui i protagonisti arrivano nel futuro in Ritorno al futuro – Parte II. Diretto da Robert Zemeckis, il film è ambientato nel 1985 e segue Marty McFly, interpretato da Michael J. Fox, un adolescente che viene accidentalmente catapultato nel 1955, dove inavvertitamente impedisce ai suoi futuri genitori di innamorarsi, minacciando così la sua stessa esistenza.

Lazarus, la spiegazione del finale della serie di Harlan Coben

La nuova serie Prime Video di Harlan Coben, Lazarus, approfondisce le menti di psicologi, criminali e semplici spettatori. È la serie perfetta per chi ama i drammi polizieschi, ma non le serie basate su crimini reali, con un pizzico di soprannaturale per rendere il tutto più interessante. Sam Claflin interpreta Laz, uno psicologo forense che ha recentemente perso suo padre, lo psichiatra Dr. L, suicidatosi. La tragedia riporta alla luce l’omicidio della sorella gemella di Laz, Sutton, avvenuto 25 anni fa, e la morte di alcuni pazienti del dottor L.

Incapace di affrontare la morte del padre, Laz parla con i fantasmi dei pazienti di suo padre per mettere insieme i pezzi del puzzle. Alla fine della serie, Lazarus rivela che probabilmente il soprannaturale non ha mai avuto nulla a che fare con queste conversazioni. Laz aveva ascoltato le registrazioni delle sedute di suo padre mentre sprofondava sempre più in uno stato di malessere mentale. È possibile che queste persone fossero davvero dei fantasmi? Nelle storie di Harlan Coben, tutto ha una minima possibilità di accadere. Parte del fascino sta nel fatto che alcune cose non vengono mai veramente risolte, permettendo al pubblico di usare la propria immaginazione su ciò che accade dopo, quando lo schermo diventa nero e la telecamera smette di girare.

Il dottor L è morto con le mani sporche di sangue

Tutto culmina nel finale della serie Lazarus, dove Laz scopre la verità sulla morte di suo padre e sulle persone coinvolte nelle circostanze che l’hanno determinata. Laz affronta un suo ex paziente, lo stupratore e assassino seriale Arlo Jones, che scopre aver parlato con il dottor L poco prima della sua morte. Arlo rivela la sua ipotesi secondo cui sarebbe stato incastrato per l’omicidio di Imogen Carswood dall’ispettore capo Alison Brown. Laz indaga ulteriormente e scopre che Alison è collegata a tutte le morti sospette dei fantasmi con cui ha parlato nell’ufficio di suo padre: Imogen Carswood, Cassandra Rhodes e Harry Nash.

Laz conclude che Alison ha usato lo studio del dottor L per uccidere pazienti problematici che riteneva non appartenessero alla società. Ma le cose vanno male quando lui e il suo migliore amico Seth la affrontano. Con un’aria colpevole come sempre, lei attacca i due uomini e scappa, ma viene uccisa quando viene investita da un autobus durante l’inseguimento. Prima di morire, ha dato a Laz una registrazione di lei e del dottor L, pochi minuti prima della sua morte. All’insaputa della maggior parte delle persone, compreso Laz, il dottor L registrava tutte le conversazioni nel suo studio, sia quelle programmate che quelle improvvisate. La sua ultima conversazione da vivo era una di queste. Il dottor L e Alison avevano lavorato insieme per anni per mettere in prigione criminali, come stupratori, assassini e pedofili, incastrandoli per omicidi facili da risolvere che non avevano commesso. Gli omicidi erano stati commessi in realtà dallo stesso Dr. L, che aveva ucciso i pazienti sopra citati perché pensava che avrebbero fatto qualcosa di orribile agli altri o a se stessi.

Alison credeva sinceramente che il Dr. L le stesse fornendo informazioni corrette. Quando scoprì la verità, gli disse di togliersi la vita, in modo che il suo segreto morisse con lui. Il dottor L morì suicidandosi, come era sempre stato riportato, ma con un altro aiuto. Laz rimprovera suo padre per i suoi peccati, respingendo la scusa che il dottor L lo facesse per liberare le sue vittime dal loro dolore e il resto del mondo dal potenziale pericolo che causavano. L’ironia è che il dottor L fece a se stesso ciò che aveva fatto agli altri, come se fosse la punizione che si era creato.

Laz scopre la verità dietro la morte di sua sorella

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© Prime Video

Tornando indietro al penultimo episodio, Laz ha diviso il suo tempo durante la serie tra la risoluzione della morte di suo padre, delle morti dei pazienti di suo padre e dell’omicidio di sua sorella gemella, Sutton. Venticinque anni fa, Sutton è stata trovata morta nella sua camera da letto dopo un ballo scolastico a cui hanno partecipato tutti e tre i bambini, ma Sutton è tornata a casa da sola. Al momento della sua morte, un uomo di nome Olsen era considerato il principale sospettato, ma fu rilasciato per mancanza di prove concrete, anche se fu emarginato dalla comunità e Laz continuò a incolparlo per la morte di Sutton. Ma dopo una discussione tra i due in un episodio precedente, Laz ascoltò Olsen e abbandonò i suoi sospetti su di lui.

La clemenza di Laz si rivelò una mossa sbagliata da parte sua. Un nuovo sviluppo nel caso colloca Olsen nella camera da letto di Sutton la notte in cui è stata uccisa. Olsen aveva precedentemente detto a Laz che Sutton gli aveva dato un suo giocattolo che lui aveva conservato per tutti questi anni, ma Laz trova le prove che il giocattolo era nella sua stanza il giorno del ballo. Proprio mentre Laz si reca alla polizia, che è tutt’altro che collaborativa con lui a causa della sua ossessione per la morte del padre, Aidan scompare. Laz e la polizia cercano Aidan e scoprono poco dopo che è stato visto con Olsen.

Laz trova Olsen e Aidan insieme vicino a un lago, dove affronta il primo una volta per tutte. Olsen ammette di aver ucciso Sutton, ma ha un ricordo distorto di ciò che è realmente accaduto quella notte. Dopo aver perseguitato Sutton ed essere entrato illegalmente nella sua camera da letto per anni, Olsen ha fatto la stessa cosa la notte del ballo.

Tuttavia, lei è tornata a casa prima del previsto e ha sorpreso Olsen. Mentre lui sostiene che lei gli abbia fatto delle avance che lui ha ricambiato, la realtà mostra che lui ha tentato di aggredirla sessualmente e lei ha reagito. Quando ha sentito Laz tornare a casa, ha ucciso Sutton per impedirle di rivelare i suoi crimini. Olsen era quello che metteva le lucine intorno alla tomba di Sutton ai giorni nostri, credendo di “prendersi cura di lei” quando Laz era lontano dalla famiglia. Olsen viene messo in prigione per sempre, concludendo solo una parte del mistero.

Emerge un altro assassino nella famiglia Lazarus

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© Prime Video

Olsen ha confessato l’omicidio di cui era stato a lungo ritenuto responsabile, ed è stato dimostrato che il dottor L si è tolto la vita, ma questo non spiega ancora le circostanze che circondano la morte improvvisa di Margot, la fedele dipendente del dottor L. Laz aveva precedentemente ipotizzato che se Olsen aveva ucciso Sutton, doveva aver ucciso anche Margot, perché si trovava nel parco la notte in cui il suo corpo è stato trovato. Ma a quanto pare, c’è stato un altro assassino che è sfuggito alle indagini e ha agito nell’ombra mentre Laz puntava il dito contro tutti gli altri. Il nuovo assassino è in realtà più vicino a Laz di quanto pensasse e potrebbe aver dimostrato che le ultime parole del dottor L a Laz non erano poi così false.

Parlando con il medico legale, Seth scopre che l’arma del delitto dietro la morte di Margot non era altro che una lama a forma di falce importata illegalmente dal Brasile. Lo stesso tipo di arma è stato usato da una banda londinese nel 2016 per uccidere i propri rivali, e una partita di queste armi è stata sequestrata sei mesi prima dell’inizio della serie. Ma la persona che impugna l’arma nell’ultima scena della serie non è né un membro di una banda né aveva accesso a quella stessa spedizione. Era Aidan. Il ragazzo gentile con cui Laz stringe amicizia nel corso della serie è lo stesso che ha massacrato Margot e aggredito Laura. Il colpo di scena è alla pari con quello di Sharp Objects, che termina in modo molto simile. La madre di Aidan e la sorella di Laz gli avevano confidato in precedenza che Aidan aveva visto il dottor L per alcune sedute, sostenendo che aveva alcuni gravi problemi sconosciuti legati al fatto di sentirsi un outsider tra i suoi coetanei. Aidan ha probabilmente scelto Margot e Laura come sue vittime perché ha rivelato loro i suoi sentimenti oscuri, ma non voleva che lo dicessero alle autorità.

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© Prime Video

La serie si interrompe con un cliffhanger prima che Aidan possa spiegarsi, terminando con l’immagine sinistra di lui in piedi sulla soglia con l’arma insanguinata, che rivolge freddamente delle scuse vuote a Laz. L’immagine del padre che guarda il figlio assassino richiama una conversazione illuminante tra Laz e il fantasma del dottor L: “Il tempo non è lineare”, dice il dottor L al figlio. “È ciclico. I figli diventano come i loro padri, Joel. È nel loro sangue”. All’epoca, Laz non riusciva a credere alla filosofia pessimistica di suo padre sulla violenza ereditaria. Ma ora non può fare a meno di chiedersi se sia vera. Si trova di fronte alla prova delle ultime parole di suo padre, e il pubblico è lasciato a chiedersi cosa ne sarà di Laz e del rapporto che sperava di costruire con suo figlio.

Frankenstein, spiegazione del finale: come Guillermo Del Toro aggiorna il classico dell’horror per l’era moderna

Sebbene l’adattamento cinematografico del romanzo di Mary Shelley realizzato da Guillermo del Toro sia piuttosto fedele all’opera originale, Frankenstein si prende alcune interessanti libertà rispetto al materiale di partenza. Opera fondamentale della letteratura fantascientifica e horror, Frankenstein ha ispirato innumerevoli adattamenti nel corso degli anni. Quello di Del Toro è uno dei più spettacolari dal punto di vista visivo, grazie al suo approccio all’art design.

Nel processo di adattamento, tuttavia, del Toro modifica alcuni momenti e relazioni dei personaggi per sottolineare temi specifici del romanzo. Nel farlo, Guillermo del Toro introduce anche un tocco molto moderno alla storia, reinventando parti della storia originale e adattandole più strettamente al suo tipico approccio artistico.

Frankenstein rende Victor il cattivo della sua stessa storia

Frankenstein (la nostra recensione) gioca con il materiale originale in modi interessanti, tra cui l’enfasi sugli aspetti più oscuri di Victor Frankenstein. Anche nei ricordi di Victor sulla sua storia, egli non è mai necessariamente ritratto in una luce lusinghiera. Al contrario, Victor è descritto come inutilmente severo, casualmente crudele e irascibile, con un senso di arroganza che guida i suoi disperati esperimenti.

Si tratta di una divergenza oscura dal modo in cui Victor è stato ritratto nei film precedenti, che ricorda più il cupo eroe byroniano del materiale originale. La sua attenzione egocentrica e la sua incapacità di accettare i propri difetti sono amplificate, influenzando il suo rapporto travagliato con la fidanzata di suo fratello, le sue lotte con la sua famiglia e, in ultima analisi, il suo conflitto con la sua creazione.

Victor scarica sempre la colpa sugli altri, mentendo spudoratamente per convincere le persone che non è lui il responsabile della morte di Henrich ed Elizabeth. Ci vogliono la morte di suo fratello e le sue ultime parole, che condannano Victor come il “vero mostro”, per far finalmente capire a Victor i propri errori.

Anche allora, Victor cerca di vendicarsi dell’auto-riflessione, dando vita a una caccia sanguinosa e dolorosa. È solo nelle sue ultime ore di vita che Victor sembra riconoscere pienamente ciò che è diventato, ammettendo sinceramente i suoi rimpianti e implorando il perdono della creatura. Il fatto che lo ottenga sottolinea l’umanità della creatura, che lascia Victor morire in pace.

La tragica storia d’amore del mostro con Elizabeth è la chiave emotiva del Frankenstein di Del Toro

Frankenstein Film 2025
© Cortesia di Netflix

Uno degli elementi più emotivi di Frankenstein è il legame che si sviluppa tra Elizabeth e la creatura. Al loro primo incontro, tra i due scatta immediatamente una scintilla. In contrapposizione alle crudeli lezioni di Victor, Elizabeth offre empatia. È in questo momento che la creatura mostra per la prima volta la sua vera umanità, gettando le basi per il suo arco narrativo finale.

Si sottintende anche che questo sia il colpo di grazia per Victor. Quando decide che la creatura è stata un errore, le concede una possibile tregua se riuscirà a dire un’altra parola oltre a “Victor”. Quando la creatura dice “Elizabeth”, Victor cerca comunque di ucciderla, implicitamente per gelosia, poiché lei ha respinto le sue avance.

Il concetto di una storia d’amore tra Elizabeth e il mostro ha senso, data la storia della filmografia di Del Toro, il regista che ha vinto un Oscar per La forma dell’acqua. Questo filo conduttore finisce però per essere uno degli elementi più tragici di Frankenstein. Quando la creatura dà la caccia a Victor, scopre Elizabeth nella sua prima notte di nozze.

I due hanno un breve ricongiungimento in cui sembrano ritrovare il loro legame, ma Elizabeth viene ferita mortalmente quando Victor li vede e spara alla creatura. Ferita a morte, muore da sola con la creatura, confessando che non era destinata a questo mondo. A causa dell’immortalità della creatura, tuttavia, lui non ha alcuna possibilità di ricongiungersi con lei nella morte.

È allora che la creatura inizia a comportarsi in modo veramente mostruoso nei confronti di Victor, reagendo in modo più vendicativo. Frankenstein non è mai stata una storia felice, ma questi elementi aggiungono un tocco dolorosamente tragico al conflitto tra la creatura e il suo creatore, l’incapacità di quest’ultimo di accettare la prima che porta alla morte della donna che entrambi amavano.

Cosa sta succedendo con l’angelo della morte di Frankenstein?

Frankenstein di Guillermo Del Toro

Un motivo visivo ricorrente in Frankenstein è l’arcangelo che appare a Victor nei suoi sogni. Basato su una statua che aveva da bambino e che conserva anche da adulto, i pochi momenti in cui Victor abbraccia la fede piuttosto che le scienze naturali che lo circondano derivano dalle sue preghiere all’angelo affinché lo guidi e lo assista.

Victor vede ripetutamente l’angelo nel corso del film, che gli appare tra le fiamme nei suoi sogni. Tuttavia, l’angelo alla fine si toglie la sua bella maschera e rivela un volto scheletrico, trasformando il segnale di speranza in mezzo al caos in un presagio di sventura. Questo riflette la sua graduale discesa dall’ambizione elevata al rimpianto amaro.

Il fuoco che circonda l’angelo anticipa il destino finale del laboratorio di Victor, ridotto in macerie nel suo tentativo di distruggere la sua creazione. L’angelo potrebbe essere visto come una rappresentazione di diversi elementi della storia. L’interpretazione più ovvia sembra essere quella dell’angelo della morte, che incombe su Victor e gli ricorda che non può essere veramente sconfitto.

Tuttavia, potrebbe anche essere visto come una manifestazione dell’ambizione interiore di Victor. Quando considera il suo lavoro corretto e adeguato alle scienze naturali, è angelico. Una volta che si è rivoltato contro la creatura, l’angelo rivela il suo volto scheletrico. Questo riflette lo stato emotivo interiore di Victor e la sua visione delle proprie azioni.

L’angelo della morte potrebbe anche essere visto come un presagio delle azioni di Victor nel corso del film, che si avvicina man mano che più persone muoiono intorno a lui. La sua prima visione dell’angelo fiammeggiante arriva dopo la morte di sua madre, e le visioni si ripetono quando Henrich, Elizabeth e William muoiono intorno a lui. In un certo senso, Victor era il loro angelo della morte.

Come Frankenstein cambia il finale del romanzo

Mia Goth in Frankenstein di Guillermo Del Toro
© Cortesia di Netflix

Frankenstein‘s framing device è tratto direttamente dal romanzo omonimo. In entrambe le versioni, Victor racconta la sua storia a un capitano nell’Artico prima che vengano trovati dal mostro. In entrambe le versioni, la creatura arriva per piangere la morte del suo creatore. Tuttavia, le circostanze esatte di questo finale e ciò che ne è stato della creatura in seguito differiscono.

Nel libro, la creatura non raggiunge Victor prima della sua morte. Victor non muore ammettendo i suoi errori e i suoi rimpianti, ma cercando invece di convincere la barca a salpare per la stessa gloria che un tempo era abbastanza ambizioso da cercare. Nel film, Victor chiede umilmente perdono alla creatura, ottenendolo alla fine prima di morire.

L’ultima conversazione di Victor con la sua creazione implora anche la creatura di abbracciare la vita. Questo porta alla natura ambigua del finale del film, che prepara la creatura a un futuro unico e inconoscibile. Si tratta di una grande divergenza rispetto al romanzo, che invece si concludeva con la creatura che ammetteva che, con la morte del suo creatore, era finalmente pronta a uccidersi.

Un tema importante della versione di Del Toro di Frankenstein è l’incapacità della creatura di morire, risultato degli esperimenti di Victor che hanno portato a un avanzato fattore di guarigione per la creatura. Il finale del libro assume un tono più apertamente cupo rispetto al film, che invece si conclude con una nota agrodolce di speranza per la creatura e il suo futuro.

Il vero significato del Frankenstein di Guillermo Del Toro

Oscar Isaac in Frankenstein di Guillermo Del Toro
© Cortesia di Netflix

Frankenstein è un film sulle qualità mostruose dell’umanità, che stabilisce che i più grandi fallimenti delle persone spesso derivano dalle loro scelte e dai loro errori. L’ego e l’ambizione portano gli uomini a grandi altezze, ma li trasformano anche in mostri. Anche al di là di Victor, questo tema può essere visto nei destini di Leopold Frankenstein e Henrich Harlander.

Leopold era il padre di Victor, un brillante chirurgo determinato a far sì che suo figlio seguisse le sue orme. Questo lo portò a picchiare fisicamente suo figlio durante le lezioni, un tratto che fu tramandato a Victor. Il film mette in parallelo l’insegnamento fallito di Victor alla creatura con il trattamento abusivo di Leopold, creando un filo conduttore tra le loro peggiori qualità.

Henrich è il principale benefattore di Victor, presentandosi inizialmente come incuriosito dalla possibilità di entrare nella storia. In realtà, soffre di sifilide e spera che il processo possa essere utilizzato per prolungare la sua vita. Quando Victor gli dice senza mezzi termini che non funzionerà, Henrich reagisce violentemente, danneggiando i macchinari e facendosi uccidere.

Al contrario, il vecchio cieco di cui la creatura diventa amica è umile e gentile. La sua morte dopo l’attacco di un lupo è descritta come tranquilla e cupa, con la sua umanità che traspare nei suoi ultimi momenti. Questo ha un grande impatto sulla creatura, che impara da lui non solo a leggere e a parlare, ma anche a essere umano.

In tutto Frankenstein, sono le azioni avventate e rabbiose degli uomini a causare la morte loro e degli altri. Da Victor fino agli uomini senza nome che attaccano la creatura e vengono uccisi per legittima difesa, la violenza è ricambiata con la stessa moneta dal mondo in generale. In Frankenstein, la crescita emotiva più potente deriva dalla gentilezza e dall’empatia.

Mortal Kombat 2: l’uscita in sala anticipata di una settimana

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Il ritorno al Netherrealm avverrà prima del previsto grazie a un nuovo aggiornamento di Mortal Kombat 2. Il prossimo capitolo dell’adattamento live-action dell’iconica serie di videogiochi di combattimento dovrebbe riprendere poco dopo la fine del reboot di Mortal Kombat del 2021, in cui Sonya Blade, Jax e Cole Young decidono di creare una nuova squadra di combattenti del Regno Terrestre, in particolare Johnny Cage.

Con volti nuovi e di ritorno, tra cui Karl Urban nei panni di Cage e Martyn Ford in quelli di Shao Kahn, Mortal Kombat 2 era originariamente previsto per il 24 ottobre 2025, ma ha subito un cambiamento a sorpresa nei suoi piani, essendo stato posticipato a maggio 2026. Secondo alcune indiscrezioni, la decisione sarebbe stata presa dalla Warner Bros. che, forte del successo al botteghino di Superman del 2025, vorrebbe replicarlo con un’altra uscita estiva.

Dopo aver già posticipato l’uscita del film da ottobre 2025 al 15 maggio 2026, la Warner Bros. Pictures ha però apportato un’altra modifica alla data di uscita di Mortal Kombat II. Il sequel dell’adattamento del videogioco è ora previsto nelle sale l’8 maggio, con un anticipo di una settimana rispetto alla data precedente.

Sebbene al momento non sia chiaro il motivo per cui lo studio abbia deciso di cambiarla nuovamente, la nuova data di uscita di Mortal Kombat 2 offre al film una possibilità ancora maggiore di eccellere al botteghino. La maggior parte del mese di maggio 2026 è caratterizzata da uscite minori, con il weekend del 15 maggio che vedrà in particolare il debutto di Poetic License di Maude Apatow e del thriller Is God Is.

Tuttavia, maggio è un mese unico in quanto è racchiuso tra Animal Friends e Il diavolo veste prada 2 nella sua prima settimana, e The Mandalorian e Grogu nella sua ultima settimana. Dato che Mortal Kombat 2 si rivolge a un pubblico più maturo rispetto agli altri film, non c’è nessun altro film con cui sia in diretta concorrenza.

Detto questo, puntare su una finestra in cui evitare il pubblico adolescente attirato dal film di Star Wars è in definitiva una decisione migliore per Mortal Kombat 2. Il film precedente è uscito nelle sale alla fine di aprile 2021 e, nonostante gli ostacoli della pandemia di COVID-19 e l’uscita simultanea su HBO Max, ha comunque ottenuto un discreto successo al botteghino. Pertanto, mantenere il franchise nella tarda primavera potrebbe essere la scelta migliore per gettare le basi per il futuro.

Il cast di Mortal Kombat 2

Mortal Kombat 2 è diretto da Simon McQuoid da una sceneggiatura scritta dallo sceneggiatore di Moon Knight Jeremy Slater. Il sequel vedrà il ritorno di Lewis Tan come Cole Young, Jessica McNamee come Sonya Blade, Josh Lawson come Kano, Tadanobu Asano come Lord Raiden, Mehcad Brooks come Jax, Ludi Lin come Liu Kang, Chin Han come Shang Tsung, Joe Taslim come Bi-Han e Sub-Zero, Hiroyuki Sanada nei panni di Hanzo Hasashi e Scorpion e Max Huang nei panni di Kung Lao.

Il sequel d’azione introdurrà anche una serie di nuovi personaggi oltre al Johnny Cage di Karl Urban, ovvero Adeline Rudolph (Resident Evil) nei panni di Kitana, Tati Gabrielle (You) nei panni di Jade, Martyn Ford (F9) nei panni dell’imperatore Shao Kahn, Damon Herriman di Mindhunter nei panni del demone di Netherrealm Quan Chi, Desmond Chiam (The Falcon and the Winter Soldier) nei panni del Re Edeniano Jerrod e Ana Thu Nguyen (Get Free) nei panni della Regina Sindel. Ulteriori dettagli sulla trama sono ancora tenuti nascosti. Il film è prodotto da James Wan, Michael Clear, Todd Garner e E. Bennet Walsh.

Il film sarà al cinema dal 15 maggio 2026.

Jeremy Renner aggiorna sul suo futuro come Occhio di Falco nel MCU

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Sono passati quasi quattro anni da quando Jeremy Renner ha interpretato Occhio di Falco nel Marvel Cinematic Universe nella serie TV che condivide con Kate Bishop, interpretata da Hailee Steinfeld. Con la saga del Multiverso che si avvicina alla fine, il destino delle varie serie TV del MCU è ancora incerto. Liam Crowley di ScreenRant ha recentemente intervistato Renner in vista della premiere della quarta stagione di Mayor of Kingstown il 26 ottobre e ha ottenuto un nuovo aggiornamento sulle possibilità di una seconda stagione di Occhio di Falco.

Il veterano dell’MCU, che fa parte del franchise dal 2011 con Thor, ha sottolineato che “non è davvero una decisione che spetta a me prendere”. Renner ha aggiunto: “Per una seconda stagione, l’idea era sempre quella di continuare quella narrazione, anche nel contesto natalizio, perché amano quel mondo a New York”. Con l’ambientazione natalizia che gioca un ruolo cruciale, la star di Clint Barton ha concluso dicendo: “Non c’è davvero posto più bello di New York fino a Natale. Dopo Natale è un po’ desolante”.

Una versione alternativa del popolare eroe Marvel interpretato da Renner ha recentemente fatto la sua comparsa nel mondo dell’animazione nella serie TV Marvel Zombies, che ha debuttato il 24 settembre 2025 su Disney+. Per quanto riguarda il live-action, l’attore non ha più interpretato l’eroe dell’MCU dal sesto episodio di Hawkeye, che ha debuttato il 22 dicembre 2021. In un’intervista separata con ComicBook, a Renner è stato chiesto se Clint si fosse ritirato di nuovo e se si sarebbe costretto a tornare per un grande evento come Avengers: Doomsday.

Ha commentato: “Penso che abbia iniziato a ritirarsi… ma è sempre tornato dal ritiro, lo sai”. Per lui, il membro di lunga data degli Avengers è “un uomo di famiglia; sai sempre da che parte sta, e ha sempre rinunciato al pensionamento”. Ma finché sarà vivo, Renner vede l’arciere della Marvel tornare sempre in gioco, dicendo: “Finché non verrà ucciso, continuerà sempre a lavorare”.

Dove potremmo rivedere l’Occhio di Falco di Jeremy Renner?

Mentre la Marvel Studios ha svelato diversi membri del cast di Avengers: Doomsday il 26 marzo 2025, l’Occhio di Falco di Jeremy Renner non era tra questi. Tuttavia, durante il CinemaCon del 3 aprile 2025, Kevin Feige ha confermato che saranno annunciati altri personaggi, lasciando aperta la porta alla possibilità che Clint sia uno di questi. Non resta dunque che attendere maggiori novità, con la speranza di poter rivedere l’amato eroe tornare in azione.

The Walking Dead: Daryl Dixon – Stagione 3, la spiegazione del finale

The Walking Dead: Daryl Dixon ha ufficialmente concluso la sua terza stagione e, sebbene i protagonisti non siano riusciti a tornare a casa dagli Stati Uniti, hanno risolto diversi conflitti chiave. Dopo aver lasciato il Regno Unito in rovina di The Walking Dead, Carol e Daryl hanno navigato verso gli Stati Uniti prima di approdare involontariamente in Spagna a seguito di una tempesta.

Da allora, hanno cercato di riparare la loro barca e tornare a casa, ma si sono presto ritrovati coinvolti nella vita degli abitanti spagnoli di Solaz del Mar. Durante il finale, Carol ha cercato di salvare il suo Daryl Dixon, interesse amoroso della terza stagione, mentre Daryl si è diretto a El Alcazar con Paz per cercare di salvare Elena e Justina.

Nonostante le difficoltà che entrambi i protagonisti dovevano affrontare, hanno rischiato la vita per persone che avevano appena conosciuto, dimostrando la loro umanità. Tuttavia, anche dopo aver completato le loro missioni, i personaggi principali non sono riusciti a tornare a casa perché la loro barca è stata sabotata da uno dei cattivi principali dello spin-off, creando un finale ricco di colpi di scena.

Daryl e Paz hanno salvato Elena e Justina mentre abbatterono El Alcázar

Sebbene diversi gruppi di cattivi siano emersi durante la terza stagione di Daryl Dixon, El Alcázar era di gran lunga la minaccia più grande in Spagna prima che Daryl e Paz li abbattessero. Dopo aver scoperto che Fede aveva essenzialmente venduto sua nipote al gruppo contro la sua volontà, Daryl accettò di andare a salvare Justina da solo prima di incontrare Paz sulla strada per Barcellona.

Sebbene il loro piano iniziale non abbia funzionato, si sono finti operai che indossavano maschere per infiltrarsi nell’insediamento malvagio. Durante una cena tra i residenti più influenti di El Alcázar, Daryl è riuscito a sabotare uno spettacolo teatrale che utilizzava gli zombie per liberarli da dietro il sipario, scatenando il caos.

Il re di Spagna è stato morso mentre tutti fuggivano dalla sala, costringendo Daryl e Paz a separarsi. Quest’ultima ha cercato di localizzare la sua ex ragazza, che era stata trasferita a El Alcázar durante una precedente La Ofrenda, mentre Daryl ha approfittato del caos per appiccare il fuoco al luogo prima di rintracciare Justina.

Justina ha cercato di fuggire minacciando l’uomo che l’aveva scelta per il matrimonio, ma il suo piano le si è rapidamente ritorto contro e ha dato inizio a una rissa. Fortunatamente, Daryl l’ha salvata appena in tempo e ha liberato diverse altre donne prima di fuggire dalla comunità.

Nel frattempo, Paz ha localizzato Elena e ha scoperto che aveva un figlio, guadagnando tempo per permettere loro di fare i bagagli e andarsene. Tuttavia, dopo aver ucciso una guardia, è stata messa al tappeto da Torres, lo stesso uomo che diversi anni prima aveva ostacolato i suoi piani per salvare Elena.

Questa volta, però, le cose sono andate diversamente, poiché Elena ha pugnalato suo marito mentre Paz ha sferrato il colpo finale, riunendosi infine con Daryl e le altre donne fuori dalla struttura. Questo sembrava segnare la fine del gruppo antagonista, con Paz, Elena e le altre che salutavano Daryl e Justina, che tornavano insieme a Solaz.

I due sono tornati sulla moto di Daryl, giusto in tempo per aiutare a porre fine al tumulto che stava avvenendo all’interno della città fortificata.

Carol ha aiutato a salvare Antonio prima che Fede fosse smascherato

Mentre Daryl e Paz conquistavano El Alcázar, Carol è tornata a Solaz del Mar per salvare Antonio.

Dopo aver lasciato la comunità mentre contrabbandava il figlio di Antonio fuori dalla città, Carol ha deciso di tornare, sapendo che il suo interesse romantico sarebbe stato nei guai dopo essersi opposto a Fede davanti a tutti.

Arrivati con alcuni uomini di Valentina, sono riusciti a liberare Antonio, che era stato torturato e lasciato in mezzo alla città come punizione, provocando una sparatoria. Uno dei residenti ha permesso ad Antonio e Carol di nascondersi nella sua casa fino all’arrivo degli uomini di Fede, costringendo i due a fuggire attraverso un’uscita segreta.

Diversi abitanti del paese si sono riuniti per aiutarli a fuggire, ma alla fine sono stati traditi da Gustavo, che li ha consegnati a Fede in cambio di medicine. Invece di ucciderli, Fede è riuscito a localizzare Roberto e lo ha incatenato ai vaganti, permettendo a Carol e Antonio di proteggerlo, anche se senza il lusso delle armi.

Sono riusciti a tenere a bada gli zombie, con alcuni spettatori che si sono sentiti in colpa e hanno gettato le armi per aiutarli a combattere, ma alla fine Daryl ha salvato la situazione ancora una volta durante il finale della terza stagione di Daryl Dixon. È arrivato appena in tempo per sparare ai non morti, guadagnando tempo abbastanza a lungo da permettere a Justina di arrivare e dire la verità.

Dopo che lei ha rivelato che Fede era il vero traditore, la città si è unita per uccidere i vaganti e Fede è stato imprigionato per il suo tradimento, ponendo fine al conflitto a Solaz Del Mar e permettendo a Justina e Roberto di ricongiungersi.

Perché Fede ha distrutto la barca nel finale della terza stagione di Daryl Dixon

Con tutti i conflitti risolti, sembrava che sarebbe stato un semplice viaggio di ritorno a casa per Daryl e Carol, soprattutto con Antonio, Roberto e Justina che si erano uniti a loro. Purtroppo, le cose non sono state così semplici, poiché la madre di Fede lo ha liberato dalla prigione, spingendo l’ex leader di Solaz a confrontarsi con Daryl sulla spiaggia.

Puntandogli una pistola contro, ha promesso di uccidere il veterano di The Walking Dead, ma Carol ha placcato il cattivo proprio mentre stava per premere il grilletto. Sorprendentemente, The Walking Dead ha messo fine a un cliché comune che consisteva nell’uccidere inutilmente nuovi personaggi nel finale della terza stagione di Daryl Dixon, poiché non ci sono state vittime durante questa colluttazione, tranne una: la barca.

I proiettili della pistola di Fede hanno perforato la nave e l’hanno incendiata, senza che il gruppo riuscisse a spegnere il fuoco. Questo non solo ha vanificato il duro lavoro di un’intera stagione, ma ora la nave sarà probabilmente irreparabile, senza lasciare ai personaggi principali una via chiara per tornare a casa.

Sebbene Fede non abbia sabotato intenzionalmente il loro viaggio, voleva vendicarsi di Daryl per essere stato una spina nel fianco, e probabilmente avrebbe ucciso anche tutti gli altri sulla spiaggia, forse ad eccezione di Justina. Chiaramente non voleva che i sopravvissuti se ne andassero, ma le sue azioni erano dettate esclusivamente dalla vendetta, piuttosto che da qualsiasi altro motivo.

Tuttavia, ha finito per costare a Daryl e Carol la loro migliore possibilità di tornare al Commonwealth, ma “Solaz del Mar” ha offerto un barlume di speranza attraverso il ritorno di un personaggio importante.

Codron è tornato da Daryl Dixon e in qualche modo è arrivato in Spagna

Dopo essere stato visto l’ultima volta nel finale della seconda stagione, sembrava che Daryl Dixon si fosse dimenticato di Codron dopo la sua scomparsa nel Canale. Tuttavia, con grande sorpresa di molti fan, è ricomparso in Spagna, vagando per il paese da solo prima di imbattersi nel cubo di Rubik di Laurent che Daryl aveva lasciato vicino a un monumento.

La serie non ha mai fornito dettagli su come sia arrivato in Spagna, un mistero che presumibilmente verrà risolto nella prossima puntata, ma vedere Codron tornare da Daryl Dixon è stata sicuramente una svolta gradita. Lo abbiamo intravisto solo brevemente all’inizio dell’episodio, ma sembrava proprio che stesse cercando i protagonisti.

È poi ricomparso nei momenti finali della terza stagione, dove ha avvistato da lontano la nave in fiamme, suggerendo che il suo ricongiungimento con Carol e Daryl è sicuramente alle porte. Dato che è stato uno dei migliori personaggi dello spin-off, la sua presenza dovrebbe indubbiamente rendere più interessante la quarta stagione, offrendo agli spettatori qualcosa da aspettarsi con ansia.

Come il finale della terza stagione di Daryl Dixon prepara la stagione finale

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Manuel Fernandez-Valdes/AMC

Con la quarta stagione di Daryl Dixon confermata come l’ultima per lo spin-off, sarà sicuramente più grande e migliore che mai, soprattutto dopo il finale della terza stagione. Forse non si è conclusa con un tipico cliffhanger, dato che molti dei conflitti principali sono stati risolti, ma ha lasciato alcune domande su come Daryl e Carol torneranno a casa.

Di conseguenza, la barca in fiamme significa che la storia imminente ruoterà probabilmente intorno alla ricerca di un nuovo modo per tornare a casa, cosa in cui il ritorno di Codron potrebbe essere d’aiuto. Doveva arrivare in Spagna in qualche modo e, supponendo che il suo mezzo di trasporto sia ancora operativo, rimane la possibilità di tornare finalmente negli Stati Uniti.

Nonostante The Walking Dead: Daryl Dixon finisca con la quarta stagione, il presidente di AMC Network Dan McDermott ha accennato alla possibilità che il franchise visiti altri continenti in futuro.

Anche la discesa di Fede nella malvagità potrebbe giocare un ruolo importante nella prossima stagione. Certo, probabilmente tornerà in prigione all’inizio della quarta stagione, ma il suo potere e la sua influenza sulle persone fanno sì che sia destinato a uscire di nuovo, con la terza stagione che mostra quanto sia facile per lui manipolare chi gli sta vicino.

C’è anche la questione irrisolta dei Los Primitivos, che non sono mai tornati dopo il loro attacco iniziale, una minaccia che sicuramente tornerà. Nel complesso, “Solaz del Mar” vede i personaggi principali alla ricerca di una nuova via di ritorno in America mentre cercano di superare i nemici conosciuti, e inevitabilmente ci saranno nuovi ostacoli da affrontare quando arriverà la quarta stagione.

Cosa significa davvero il finale della terza stagione di Daryl Dixon

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Manuel Fernandez-Valdes/AMC

Il vero significato del finale di Daryl Dixon sembra riguardare l’impegno di Daryl e Carol a fare la cosa giusta, a qualsiasi costo. Nonostante volesse tornare a casa innumerevoli volte, Daryl è stato costantemente convinto da Carol a rimanere e ad aiutare, semplicemente perché era la cosa moralmente giusta da fare.

Entrambi hanno aiutato persone innocenti quando sarebbe stato più facile andarsene, con Daryl che ha persino deviato dal suo percorso per aiutare una comunità in difficoltà dopo che questa gli aveva mostrato gentilezza. Inoltre, il finale si concentra anche sul viaggio di Daryl alla scoperta di sé stesso.

Ammette apertamente di non essere sicuro del motivo per cui ha lasciato il Commonwealth, attribuendolo alla paura di sentirsi a proprio agio. I suoi flashback hanno anche esplorato il rapporto passato di Daryl con Merle in The Walking Dead e come questo abbia influito sulla sua incapacità di rimanere in un posto.

Sebbene sentisse chiaramente che lasciare il Commonwealth fosse stato inutile e che gli mancasse uno scopo, alla fine della stagione sembra pronto a tornare a casa e ha contribuito a cambiare in meglio la vita di diverse persone, dimostrando che sia lui che Carol sono persone buone nel profondo, nonostante le loro azioni violente in Daryl Dixon.

Jennifer Lawrence ha quasi smesso di recitare durante i suoi due anni di pausa: “Ero in pace con me stessa”

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Jennifer Lawrence tornerà a brillare sul grande schermo quest’anno, recitando nel tanto atteso thriller psicologico Die My Love, della regista Lynne Ramsay. Con questa commedia dark, la Lawrence torna a interpretare i ruoli complessi in cui eccelle, dopo essere diventata una star di prima grandezza grazie alle sue interpretazioni in Silver Linings Playbook, American Hustle e Winter’s Bone.

A 35 anni, Lawrence potrebbe ancora regalare molte altre interpretazioni decisive per la sua carriera. Tuttavia, la star di Hunger Games ha rivelato in una nuova intervista al The Graham Norton Show che recentemente ha pensato di ritirarsi. Dopo la fine di The Hunger Games e la sua quarta nomination all’Oscar per Joy, Lawrence ha visto una serie di insuccessi e ha finito per prendersi due anni di pausa.

Dopo il film X-Men del 2019Dark Phoenix, il prossimo film di Lawrence è stato Don’t Look Up del 2021. Ha confidato a Norton che si stava semplicemente prendendo una pausa dopo che le grandi saghe e i film premiati avevano occupato la sua vita per così tanto tempo, e ha riflettuto: “Mi sono presa un po’ di tempo, ho lavorato per tutti i miei vent’anni, e poi mi sono detta… cosa c’è là fuori? Cosa sta succedendo?

Ero in pace con la possibilità che ciò accadesse”, ha continuato Lawrence, parlando di come questa pausa le avrebbe permesso di tornare a Hollywood. “[Hollywood] è molto… Penso che sarei stata [bene], ma sarei anche stata molto turbata. Non lo so”.

Jennifer Lawrence
Jennifer Lawrence sul Red Carpet della Festa del Cinema di Roma 2025 – Foto di Aurora Leone © Cinefilos.it

Ironia della sorte, l’ultimo film di Lawrence prima di Die My Love è stato No Hard Feelings del 2023, il che significa che non la vediamo da due anni. Anche se mettere in pausa la propria carriera comporta dei rischi, è possibile che Lawrence sia ormai un nome così famoso che i registi saranno ancora interessati a lavorare con lei, anche dopo una pausa.

Lawrence ha dichiarato che “sarei stata davvero sconvolta” all’idea di abbandonare la recitazione, sottolineando che entrambe le opzioni presentavano pro e contro. Tuttavia, ora sembra essersi nuovamente dedicata alla recitazione, con alcuni progetti in cantiere dopo Die My Love, tra cui un progetto senza titolo con Amy Schumer e il film The Wives dei registi emergenti Michael Breslin e Patrick Foley.

Ma soprattutto, Lawrence reciterà al fianco di Leonardo DiCaprio nel prossimo film di Martin Scorsese, What Happens at Night. Questo thriller psicologico e storia di fantasmi segue una coppia che si reca in una remota e innevata cittadina europea per adottare un bambino e soggiorna in un misterioso hotel abitato da un gruppo di personaggi eccentrici.

Avendo trascorso gran parte della sua giovane vita lavorando a The Hunger Games e X-Men, e ricevendo una serie di nomination agli Oscar e l’attenzione che ne deriva prima dei 30 anni, è comprensibile che Jennifer Lawrence abbia pensato a come sarebbe stato uscire dalle luci della ribalta. Tuttavia, era ancora appassionata del suo mestiere e alla fine è tornata a farlo.

Elizabeth Olsen sceglie il grande schermo: la decisione che cambia la sua carriera

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Elizabeth Olsen stabilisce una condizione che seguirà per tutti i suoi film futuri. Sebbene sia nota soprattutto per aver interpretato Wanda Maximoff/Scarlet Witch in numerosi film del Marvel Cinematic Universe e nella serie WandaVision di Disney+, Olsen vanta una vasta filmografia.

Al di fuori dell’MCU, i film di Elizabeth Olsen includono The Assessment, His Three Daughters, Wind River, Ingrid Goes West, Godzilla, La fuga di Martha e Liberal Arts. Ha anche recitato nelle serie televisive Sorry for Your Loss e Love & Death.

Durante un’intervista con InStyle sul suo prossimo film romantico Eternity e sulla sua carriera, Olsen ha rivelato che d’ora in poi reciterà solo in film che usciranno nelle sale cinematografiche. Questo perché crede nell’esperienza collettiva che deriva dal vedere un film insieme al pubblico in sala, che lei paragona alla folla che assiste agli eventi sportivi. Ecco cosa ha detto:

Penso che sia importante per le persone riunirsi come comunità, vedere altri esseri umani, stare insieme in uno spazio. Ecco perché mi piacciono gli sport. Penso che sia davvero potente per le persone riunirsi per qualcosa che le entusiasma.

Olsen chiarisce che è favorevole alla vendita di film indipendenti a una piattaforma di streaming, ma non crede che i film debbano essere disponibili solo in streaming senza alcun tipo di distribuzione nelle sale cinematografiche:

Se un film è realizzato in modo indipendente e viene venduto solo a una piattaforma di streaming, allora va bene. Ma non voglio realizzare qualcosa in cui questo sia l’unico obiettivo.

Questo avviene in un momento in cui molti studi stanno cercando di trovare il giusto equilibrio tra le uscite nelle sale e quelle in streaming, oltre a trovare il modo di attirare il pubblico nei cinema. La nuova condizione di Olsen è una vittoria per l’esperienza cinematografica, poiché almeno per le prime settimane dopo l’uscita, i suoi nuovi film saranno disponibili solo nelle sale.

La maggior parte dei film di Olsen ha avuto un’ampia distribuzione nelle sale prima di essere disponibile in streaming. Un’eccezione degna di nota è His Three Daughters, che è stato proiettato solo in alcune sale per due settimane prima di essere distribuito in esclusiva su Netflix. La piattaforma di streaming è stata tradizionalmente riluttante a distribuire i suoi film originali nelle sale, e questo sembra ora essere un deterrente per Olsen a lavorare di nuovo con loro.

Continuano le speculazioni sul fatto che la Olsen riprenderà il ruolo di Wanda/Scarlet Witch e si unirà al cast di Avengers: Doomsday. I film della MCU sono sempre stati distribuiti nelle sale cinematografiche, quindi se tornerà in Doomsday o in uno degli altri film della serie in uscita, continuerà a rispettare la sua nuova regola.

Eternity, in cui Joan, interpretata da Olsen, deve scegliere se trascorrere il resto dell’aldilà con il suo primo o secondo marito, debutterà in sala in edizione limitata il 14 novembre, prima dell’uscita nelle sale il 26 novembre. Elizabeth Olsen ha fortemente incoraggiato il pubblico a vedere questo film, così come tutti i suoi film futuri, nelle sale invece di aspettare che siano disponibili in streaming.

Jeremy Allen White rivela lo stato delle riprese della quinta stagione di The Bear

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È stata confermata la produzione della quinta stagione di The Bear, dopo la decisione rivoluzionaria presa da Carmy Berzatto nel finale della quarta stagione. Sono passati quasi quattro mesi dall’uscita della quarta stagione di The Bear, conclusasi con la decisione dello chef protagonista di lasciare il ristorante, affidandone la gestione a Sydney, Ritchie e Natalie.

Durante una nuova intervista con Vogue, a Jeremy Allen White è stato chiesto se la produzione della prossima stagione fosse già iniziata. Tuttavia, il protagonista ha confermato che “non abbiamo ancora girato la prossima stagione”. Ha parlato della produzione della quarta stagione e dell’impostazione unica che hanno scelto, dicendo: “È interessante perché abbiamo girato questo finale nel 2024, ma poi abbiamo girato molti episodi della quarta stagione nel 2025, quindi è una cosa strana. Sembra che sia passato molto tempo”.

Allen ha sottolineato come “Carmy abbia perso così tanto in quel finale e abbia confessato così tante cose”. Definendo la scelta di Carmy come un suo “tentativo di fare ciò che ritiene giusto o migliore”, la star vincitrice di un Emmy ha aggiunto: “Ma poi, lavorare a ritroso un anno dopo è stata un’esperienza strana. Ricordo però che l’ultimo episodio è stato molto divertente, perché l’abbiamo girato come se fosse uno spettacolo teatrale”.

Da un punto di vista tecnico, “c’erano tre telecamere e poi Ayo [Edebiri], Ebon [Moss-Bachrach], io e Abby [Elliott] alla fine”. Secondo il veterano di Shameless, “ci sono voluti 36 minuti per recitare e l’abbiamo fatto tipo quattro volte”.

L’attore 34enne ha anche elogiato lo showrunner di The Bear per la direzione creativa, sottolineando: “Sono sempre molto colpito dal modo in cui [il creatore] Chris [Storer] scrive e sviluppa questa storia, e vorrei poter recitare con tutti quei ragazzi per sempre, onestamente, se ci fosse un modo per farlo”. FX ha annunciato il rinnovo il 1° luglio 2025, solo una settimana dopo l’uscita della quarta stagione.

Al momento non è noto se The Bear – stagione 5 sarà l’ultima puntata della pluripremiata serie. Sebbene non siano ancora state prese decisioni sul futuro dello show, potrebbe essere rivelato in un secondo momento se la prossima stagione concluderà la serie.Al momento, The Bear stagione 5 non ha una data di uscita fissata.

Constantin 2: James Gunn non ha ancora letto la sceneggiatura

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James Gunn ha rivelato un importante aggiornamento sul suo coinvolgimento in Constantine 2. Il primo film, Constantine, è uscito nel 2005 e vedeva Keanu Reeves nel ruolo del protagonista. Altri membri del cast includevano Rachel Weisz, Shia LaBeouf e Tilda Swinton. Il sequel è rimasto in un limbo per diversi anni, ma negli ultimi mesi ci sono stati finalmente aggiornamenti positivi, anche da parte dello stesso Reeves, che all’inizio di ottobre ha rivelato che una nuova bozza della sceneggiatura era stata completata e che il team aveva intenzione di sottoporla allo studio.

Durante un’intervista con BobaTalks, Gunn ha ora spiegato di aver discusso di Constantine 2 con Reeves “di tanto in tanto”. Pur ritenendo che l’attore e l’intero team siano molto talentuosi, il co-presidente della DC Studios ha ammesso di non aver ancora letto la sceneggiatura, nonostante l’importante aggiornamento di Reeves di alcune settimane fa.  “Ne ho discusso di tanto in tanto. Ne ho discusso con Keanu. Penso che sia un gruppo fantastico. Mi piacciono molto tutte queste persone, penso che abbiano talento. Ma non ho ancora letto nessuna sceneggiatura”, sono le precise parole di Gunn.

Dopo che Gunn ha assunto la direzione della DC Studios per rilanciare il franchise, è stato rivelato che Constantine 2 non sarebbe stato inserito nella continuity principale dell’universo DC con Superman e Peacemaker, ma sarebbe stato etichettato come un progetto DC Elseworlds insieme a Joker e The Batman. Prima dei recenti aggiornamenti di Reeves e Gunn sul film, il processo era stato molto lento, con lunghi periodi senza alcun sviluppo da parte del team. Considerando che sia Reeves che Gunn hanno rivelato informazioni sulla sceneggiatura nello stesso mese, sembra che la pre-produzione sia davvero in corso ora.

Quando potremo vedere Constantine 2?

Una prima bozza della sceneggiatura è stata completata nell’autunno del 2024, ma lo sviluppo della storia è continuato fino al 2025, con Reeves che ha partecipato al processo insieme al regista Francis Lawrence, ai produttori e agli sceneggiatori. La storia è stata approvata dalla DC Studios all’inizio del 2025, il che ha portato alla stesura di una nuova sceneggiatura. Dopo i recenti commenti di Reeves, non è chiaro se la sceneggiatura sia stata effettivamente presentata ufficialmente alla DC Studios. Anche se fosse stata consegnata, Gunn non l’ha ancora letta, secondo quanto da lui stesso dichiarato.

È possibile che Gunn e altri dirigenti della DC vogliano perfezionare ulteriormente la storia e la sceneggiatura nei prossimi mesi, ma una volta approvata la sceneggiatura, si potrà davvero dare il via ad altri importanti elementi di pre-produzione come il casting, la scenografia e la ricerca delle location. Anche se Gunn non ha ancora letto la sceneggiatura, il processo di sviluppo di Constantine 2 sembra dunque prendere progressivamente forma e i fan potrebbero ricevere ulteriori aggiornamenti entusiasmanti nei prossimi mesi.

Wind River 2: aggiornamenti sulla trama del sequel di Taylor Sheridan, a lungo rimandato

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Dopo numerosi ritardi, Wind River: The Next Chapter riceve un aggiornamento dalla star Scott Eastwood. Si tratta del seguito del film western del 2017 di Taylor Sheridan, Wind River, il cui cast era guidato da Jeremy Renner, Elizabeth Olsen e Graham Greene.

Gil Birmingham riprende il ruolo di Martin Hanson dal primo film, e questa volta è affiancato da Eastwood, Martin Sensmeir, Jason Clarke, Chaske Spencer e Alan Ruck. La storia ruota attorno al tracciatore Chip Hanson (Sensmeir) che indaga su una serie di omicidi nella riserva in cui vive.

Il sequel è stato girato nel 2023, ma ci sono state poche notizie sulla uscita di Wind River: The Next Chapter, fino a quando Clarke ha rivelato che il film “uscirà presto”. Non è stata ancora confermata una data o un periodo di uscita più specifici.

Durante l’intervista di ScreenRant a Scott Eastwood per Regretting You, Joe Deckelmeier ha chiesto all’attore della trama del nuovo film Wind River. Eastwood ha anticipato che è simile al film precedente, ma amplia il mondo immaginario creato da Sheridan. Ha anche sottolineato che il sequel approfondisce ciò che sta accadendo nelle riserve indigene. Ecco i suoi commenti:

È fantastico. È emozionante. È sicuramente sulla stessa linea del primo, ma amplia il mondo. Approfondisce un po’ di più ciò che sta accadendo in queste riserve.

Il primo film era ambientato nella riserva indiana di Wind River, nel Wyoming, dove il personaggio di Renner, un tracciatore, e quello di Olsen, un’agente dell’FBI, indagano su un omicidio. Wind River ha contribuito a richiamare maggiore attenzione sulla violenza contro le donne indigene e, stando ai commenti di Eastwood, il sequel sensibilizzerà il pubblico su altre importanti questioni relative alle comunità indigene e alle riserve.

Le differenze tra i film Wind River a cui Eastwood ha alluso sembrano collegate ai precedenti commenti di Birmingham, che descrive il sequel come “più un thriller”. Altre differenze chiave includono il fatto che Sheridan non è coinvolto nel sequel e che Renner e Olsen non torneranno a interpretare i loro ruoli. The Next Chapter è diretto da Kari Skogland, che in precedenza ha lavorato a The Handmaid’s Tale e The Falcon and the Winter Soldier.

C’è la continuazione del personaggio di Birmingham, lo stesso mondo e temi simili. Tuttavia, i commenti di Eastwood aiutano a sottolineare che il film in uscita sarà in gran parte una storia a sé stante piuttosto che un sequel.

Anche se Wind River: The Next Chapter non è un sequel tradizionale in senso stretto, è comunque destinato a beneficiare del successo del primo film e di come si basa su elementi familiari. Dopo gli aggiornamenti di Clarke e Eastwood, il prossimo aggiornamento potrebbe essere una finestra di lancio confermata o una data in cui i fan potranno vedere la nuova storia.

Hamnet – Nel Nome del Figlio: recensione del ritorno di Chloé Zhao al grande cinema – #RoFF20

La selezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma 2025 ha trovato il suo gioiello in Hamnet – Nel Nome del Figlio, il nuovo film di Chloé Zhao. Già premio Oscar per Nomadland e reduce dal discreto disastro di Eternals, la regista si misura con un’impresa ambiziosa: trasformare in immagini il mondo interiore e sensoriale del romanzo di Maggie O’Farrell (2020), fatto di silenzi, di percezioni e di una natura profondamente viva. Qui emerge subito uno degli aspetti più affascinanti del film: la sua apertura naturalistica, che riesce a evocare – per vie visive e ritmo – lo spirito del cinema di Terrence Malick. Gli alberi, la luce che filtra tra le fronde, il terreno segnato dal passare del tempo, diventano non solo ambientazione ma personaggi silenziosi, custodi e riflessi dello stato d’animo dei protagonisti, testimoni.

Questo sguardo «dalla natura» parla in modo molto chiaro del film: non è una ricostruzione storica puntuale, non è una biografia pedissequa, bensì una messa in scena della sofferenza, della vita familiare, del sacrificio, del lutto – tutto filtrato attraverso l’esperienza della trasformazione. Il bosco, in questo senso, appare come luogo liminale, tra fertilità e morte, tra l’originario e il finito: il film lo chiarisce sin dalle prime sequenze, rendendo visibile una spiritualità dell’immanenza.

Amore, matrimonio e tribolazioni: la quotidianità nobile di una famiglia

La prima parte del film si sofferma sulla storia d’amore tra William (interpretato da Paul Mescal) — giovane insegnante di latino, il nostro Shakespeare — e Agnes (Jessie Buckley), “figlia della foresta”, con un alone mistico e ribelle che la comunità percepisce come straniante. Zhao dedica tempo all’unione non convenzionale della coppia, alla maternità, al contesto familiare che si costruisce con il passare delle stagioni. Il film assimila lo spirito bucolico della sua protagonista e lo coniuga con un intimismo da casa colonica, da focolare domestico che risiede nel cuore della natura.

Questo lavoro di messa in scena non è privo di tensioni: la seconda parte del film avrebbe forse beneficiato di maggior tempo per approfondire il personaggio che dà il titolo al film e effettivo slancio alla vicenda — il piccolo Hamnet — prima di raccontarne la morte, sospesa tra misticismo e mistero. In questo modo lo spettatore sarebbe potuto forse entrare più profondamente nello squarcio che la perdita avrebbe prodotto. Il rischio è che, in alcuni momenti, la storia sembri procedere con una simmetria “premeditata” verso la tragedia, piuttosto che emergere dalla tensione della quotidianità. Ma è proprio in quest’ottica che il film reclama il suo statuto: non tanto una cronaca quanto un rito visivo e emotivo. Anche perché interviene poi Buckley, con la sua intensità, a trascinare lo sguardo e le viscere di chi guarda, dentro la tragedia.

Jessie Buckley e Paul Mescal in Hamnet
Jessie Buckley e Paul Mescal in Hamnet

Il lutto, l’assenza e la creazione: verso un epilogo carico di catarsi

È nella terza parte che Hamnet si apre con maggiore forza: la scena della perdita, il rituale del lutto, la trasformazione del dolore in creazione (e qui il legame alla tragedia di Hamlet appare chiaro) spingono lo spettatore in una dimensione di commozione autentica. Il tessuto emotivo del film riesce a distruggere e scavalcare il dolore, così come fa quell’ultimo sguardo dolente e finalmente libero di Agnes in una delle sequenze più toccanti dell’anno cinematografico: una madre che perde il figlio, un padre che cerca di dare senso al dolore attraverso l’arte, una coppia che si ritrova.

Non è un finale consolatorio ma catartico: ciò che era privato diventa universale. Jessie Buckley brilla in questo frangente come protagonista assoluta: la sua Agnes è carne, spirito, natura e ferita insieme, un elemento diverso e separato da qualsiasi altro, in scena (anche grazie alla palette cromatica che la regista le riserva). È proprio con queste sequenze cariche di intensità che Hamnet riesce a superare gran parte dei suoi limiti, conquistando una legittimità emotiva che veste con nobiltà le proprie immagini e le proprie ambizioni.

Qualche riserva, ma con la certezza di un’esperienza da vivere

Come ogni film “ambizioso”, Hamnet non è immune da difetti. Uno dei punti che più emergono è la percezione di un andamento non perfettamente equilibrato: la lentezza può in certi momenti appesantire e la costruzione simbolica – specie nel secondo atto – può apparire un po’ sovrastrutturata. Inoltre, alcuni spettatori potrebbero avvertire una certa distanza nella focalizzazione narrativa: la parte iniziale dedica molto tempo alla costruzione del rapporto amoroso e familiare, e si dilunga a scapito del cuore del racconto che è la perdita stessa.

Se dunque da un lato si può rimproverare a Zhao di aver optato per una forma di ‘prestige drama’ che talvolta si avverte, dall’altro è proprio l’uso di tale forma — con tutti i suoi rischi — che le consente di raggiungere momenti di assoluta potenza visiva e emotiva. È questa tensione tra forma e sentimento che rende Hamnet un film “imperfetto” ma sinceramente ambizioso.

Un film da sentire

Hamnet richiede disponibilità, lentezza, e cuore: non è pensato per l’intrattenimento puro, ma per la riflessione e la partecipazione emotiva. Se amate il cinema che “respira”, che vive di silenzi e paesaggi interiori, che mette al centro i sentimenti più fondamentali — amore, perdita, creazione — allora sarete ripagati. La regia di Chloé Zhao, il cast capitanato da Jessie Buckley e Paul Mescal, e l’atmosfera bucolica e sospesa lo elevano oltre la semplice trasposizione letteraria: il film diventa un’esperienza sensoriale, un invito a toccare il fondo del dolore per risalire, insieme, alla meraviglia della vita e dell’arte.

Mad Bills to Pay: recensione dell’esordio di Joel Alfonso Vargas – #RoFF20

“Don’t ever stop me if I’m fucking up. If I am a dickhead let me know please.”
(“Non fermarmi mai se sto sbagliando. Se mi comporto da stronzo, per favore, dimmelo.”)

Con questa scritta, diretta e vulnerabile, si apre Mad Bills to Pay (or Destiny, dile que no soy malo), l’esordio alla regia di Joel Alfonso Vargas, che firma una delle opere più autentiche e vibranti presentate nella sezione Progressive Cinema della Festa del Cinema di Roma. Ambientato nel Bronx, il film racconta la crescita improvvisa e dolorosa di un ragazzo che deve imparare a diventare adulto e imparare dai propri errori prima del tempo.

Mad Bills to Pay: una storia di crescita tra spiaggia e cemento

Rico (Juan Collardo), diciannovenne di origini ispaniche, vive con la madre e la sorella Sally (Nathaly Navarro). Trascorre le giornate vendendo “Nutties” – drink artigianali e illegali, ottenuti mischiando alcol e succhi – sulla spiaggia libera di Orchard Beach. Tutto cambia quando scopre che Destiny (Destiny Checo), una ragazza di sedici anni con cui ha avuto una relazione occasionale, è incinta.

Juan Collado e Destiny Checo in Mad Bills To Pay 2025
Cortesia della Festa del Cinema di Roma

Rico accoglie la notizia con una sorprendente serenità: decide di prendersi cura di Destiny, la porta a vivere in casa nonostante le resistenze della madre e della sorella, e si convince che il bambino sarà un maschio. “Voglio essere il padre che non ho avuto”, afferma con disarmante semplicità. È questo il cuore del film: il desiderio di riscatto di un giovane che tenta di costruire, in mezzo al caos, una nuova idea di famiglia.

Crescere prima del tempo

Vargas racconta una storia di formazione maschile, coming of age, con una sensibilità inconsueta, lontana da qualsiasi retorica machista o da cliché del cinema urbano americano. Il Bronx non è rappresentato come un inferno sociale, ma come un ecosistema complesso e pieno di contraddizioni: le case popolari, i murales, la musica reggaeton che si mescola alle urla dei bambini e al rumore dei treni sopraelevati.

Rico si muove in questo ambiente con un misto di ingenuità e determinazione, oscillando tra i sogni e la necessità. Vuole smettere di bere, trovare un lavoro, e diventare un punto fermo per Destiny, che nel frattempo sogna di studiare in futuro economia al college. Il loro conflitto – lui che immagina un futuro familiare ma ha difficoltà a mettersi sulla buona strada, lei che teme di rinunciare al proprio – è il motore emotivo del film. Il sottotitolo, Destiny, dile que no soy malo (“Destiny, digli che non sono cattivo”), diventa una supplica universale: il bisogno di essere visti come migliori di ciò che si è stati.

Lo sguardo di Vargas in Mad Bills to Pay: tra realismo e poesia urbana

La regia di Alfonso Vargas colpisce per il suo equilibrio tra spontaneità e consapevolezza visiva. Nativo del Bronx, la sua visione scenica permette allo spettatore di passeggiare nelle vie che hanno segnato la sua giovinezza. L’inquadratura è spesso ampia, quasi grandangolare, includendo nei margini lo spazio urbano che ingloba i personaggi. Rico e Destiny appaiono piccoli tra i palazzi e le spiagge, frammenti di un mondo che li osserva ma non li ascolta. Questa scelta visiva traduce perfettamente il tema del film: la difficoltà di affermare la propria voce in un contesto che tende a soffocarla.

Nathaly Navarro Mad Bills To Pay 2025
Cortesia della Festa del Cinema di Roma

Vargas adotta una fotografia calda e naturale, prediligendo la luce del tardo pomeriggio, come se la storia si svolgesse costantemente in una zona di transizione – tra infanzia e maturità, tra giorno e notte, tra illusione e responsabilità. Il montaggio fluido accompagna il ritmo della crescita di Rico, alternando scene di quotidianità a momenti di pura introspezione.

Un debutto che promette

Mad Bills to Pay (or Destiny, dile que no soy malo) è un racconto di formazione intimo e universale, che cattura con sincerità la fragilità dei primi passi verso l’età adulta. Alfonso Vargas firma un esordio che sorprende per maturità narrativa e per la capacità di fondere realismo e tenerezza.

Rico non è un eroe, ma un ragazzo che tenta di non “sbagliare più”, come nella frase iniziale del film: una confessione, ma anche una promessa.

Fast and Furious 11: Vin Diesel fornisce un promettente aggiornamento

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Dopo mesi di preoccupazioni che l’ultimo capitolo della saga potesse essere cancellato del tutto, Fast and Furious 11 sembra finalmente essere sulla buona strada. La serie principale di film dovrebbe concludersi dopo l’undicesimo capitolo, che riprenderà dal finale sospeso di Fast X, in cui Dom e Little B sono rimasti intrappolati in una delle trappole di Dante, mentre Gisele è tornata dalla morte per salvare Letty e Cipher, e Hobbs, interpretato da Dwayne Johnson, è diventato il nuovo obiettivo di Dante.

Nonostante il piano in due parti, però, Fast and Furious 11 ha avuto numerosi problemi di sviluppo negli ultimi due anni, inizialmente sospeso a causa degli scioperi della Writers Guild of America e della SAG-AFTRA, prima di subire un altro ritardo a causa della riscrittura della sceneggiatura. Più recentemente, sono circolate voci secondo cui l’ultimo capitolo previsto sarebbe stato completamente cancellato, poiché il modesto successo al botteghino di Fast X ha spinto la Universal a cercare un modo per produrre il prossimo film in modo più economico dopo il budget di produzione di 378,8 milioni di dollari del decimo film.

Ora, in un nuovo post di Vin Diesel sulla sua pagina Instagram, lo si vede visitare la sede della Universal Pictures con il Chief Marketing Officer dello studio, Michael Moses. Il produttore/protagonista indossa una maglietta con la scritta “Fast X Part 2 Los Angeles Production 2025” e lo si vede non solo passeggiare per il backlot e uno dei suoi teatri con Moses, ma anche il dirigente della Universal affermare che stavano “pianificando tutto” e “risolvendo la questione”, indicando che i ritardi nella produzione del film sono stati appianati.

Sebbene le dichiarazioni di Moses siano sicuramente motivo di grande sollievo per i fan della serie, non significano necessariamente che Fast and Furious 11 abbia ottenuto il via libera ufficiale dallo studio. Solo poche settimane prima della stesura di questo articolo era stata diffusa la notizia che la Universal voleva ridurre il budget necessario per la sceneggiatura definitiva del film di ben 50 milioni di dollari, rendendo necessario tagliare alcuni personaggi e mantenere la produzione nazionale anziché internazionale.

La posizione di rilievo di Moses all’interno dello studio crea una sorta di incoraggiamento sul fatto che Diesel e la Universal abbiano finalmente trovato un accordo per Fast and Furious 11. Dato che lo studio era già nelle prime fasi di sviluppo di altri titoli spin-off, tra cui Hobbs & Reyes, il progetto con protagoniste femminili e una storia autonoma ancora sconosciuta, è possibile che alcune delle idee narrative per l’undicesimo film siano state trasferite agli altri film. Con l’obiettivo precedente di un’uscita nell’aprile 2027, però, l’ultimo Fast & Furious dovrà correre presto in produzione o rischiare un altro ritardo.

È Colpa Nostra? spiegazione del finale: Chi è Simon?

Il finale di È Colpa Nostra?, o Culpa Nuestra di Prime Video, è così affrettato che sembra che i realizzatori abbiano voluto racchiudere il resto della vita di Noah e Nick in questo unico film per soddisfare i fan. Come avevamo previsto, Nick si ritrova impegnato a Londra mentre Noah finisce gli studi e volta pagina dopo un amore che non perdona. Lei rimpiangerà per sempre quella notte con Michael, ma Nick non le permetterà mai di dimenticarlo. Nonostante abbia lasciato un messaggio in cui dice che sarà sempre la sua luce nell’oscurità, Nick e Noah sono ben lontani dall’essere insieme all’inizio di È Colpa Nostra?.

Nick ora sta con Sofia, che ha intenzione di trasferirsi a Londra, mentre Noah incontra un bel ragazzo sul volo per Ibiza (dove Lion e Jenna si sposano) quattro anni dopo il finale di È Colpa Nostra?. Noah non è ansiosa di vedere Nick, ma ovviamente lui è il migliore amico dello sposo, quindi non c’è modo di evitarsi. Questo porterà a un amore ritrovato o finiranno per ferirsi di nuovo a vicenda? Scopriamolo nel finale di È Colpa Nostra?.

Cosa succede al matrimonio?

Il film inizia con la riunione di Nick e Noah al matrimonio di Jenna e Lion. Entrambi sono infelici, ma i loro migliori amici sono desiderosi di tenerli vicini perché sanno cosa è meglio per loro. Noah non vuole fare da damigella d’onore, ma non può nemmeno tirarsi indietro, quindi, nonostante lo stress e il desiderio di stare lontani, finiscono per andare a letto insieme la notte del matrimonio. Quando Nick si sveglia, però, è una persona completamente diversa. È notte fonda e dice a Noah che in realtà non è interessato a tornare insieme. Non l’ha perdonata per quello che ha fatto con Michael (anche se è stato lui a baciare Sofia per primo). Così Noah si dedica a lavori occasionali in attesa di trovare quello giusto, mentre Nick si impegna a fare lo stronzo nell’ufficio di Londra (scherzo).

Chi è Simon?

E' Colpa Nostra
È Colpa Nostra? – Cortesia Prime Video

L’azienda non sta andando molto bene e qualunque cosa Nick stia cercando di fare non funziona. La gente protesta contro l’azienda e qualcuno cerca persino di uccidere William, il padre di Nick (e il patrigno di Noah, oops). Ma Nick è determinato a fare le cose in modo diverso. D’altra parte, Noah trova finalmente un lavoro interessante in un’azienda tecnologica guidata nientemeno che dal pilota Simon. Simon non ha esitato a chiedere a Noah di uscire con lui a Ibiza quando il loro volo è atterrato. Ma lei allora ha detto di no. Tuttavia, ora che lavorano insieme e lei deve chiaramente superare la storia con Nick, decide di dare una possibilità a questo ragazzo, ma con calma e senza fretta. Allo stesso tempo, per salvare la faccia dell’azienda, Nick dice a Sofia che dovrebbero annunciare di avere una relazione “seria”. Ma poi Nick finisce per rilevare l’azienda di Simon (un’altra strana iniziativa per aiutare a ripulire la loro immagine?) e quando vede Noah lì, perde un po’ la testa. Non solo è apertamente detestabile nei confronti di Simon, ma proibisce persino le relazioni sentimentali in ufficio, sapendo che Simon e Noah stanno insieme. Ma questo non fa alcuna differenza perché Simon afferma di essere così innamorato di Noah che non gli importa della sua azienda (aspetta, cosa?).

Cosa riavvicina Noah e Nick?

È Colpa Nostra? – Cortesia Prime Video

Ci sono così tante cose casuali che accadono in questo film che mi sembra di parlare di cose diverse. Ora, Maggie, la sorella di Nick, dovrebbe andare a trovarlo perché ha bisogno di passare più tempo con suo padre, ma sia lei che Will trovano molto difficile farlo. Invece, lei passa la maggior parte del tempo con Noah, che vomita la torta all’agave che lei mangia. Comunque, Noah è il migliore con Maggie, e l’ostinazione di Nick non gli permette di perdonare sua madre o suo padre per il loro passato, il che significa che non ha modo di aiutare nemmeno Maggie. Inoltre, veniamo improvvisamente colpiti dalla notizia che la madre di Nick sta morendo di leucemia, quindi la custodia di Maggie ora spetta a Will (eh?). Nick dice a Noah che non sa come fare senza di lei, che è un’abitudine a cui continua a tornare. Finiscono per andare a letto insieme (di nuovo) perché lui non vuole stare da solo. Ma subito dopo Noah se ne va. Lei però scopre con stupore di essere incinta. A quanto pare, è di Nick perché potrebbe essere successo al matrimonio (non capisco la cronologia di questo film).

A una festa con Sofia e Simon, Nick bacia di nuovo Noah, dicendole che non può lasciarla andare. Lei lo ferma e ha bisogno di riposare, quindi lui la porta a casa, lasciando Sofia infastidita e Simon troppo ubriaco per preoccuparsene. Ora Noah è visibilmente incinta, ma in qualche modo nessuno se ne accorge. Comunque, lei dice a Nick che lui sarà felice sposando Sofia, e che lei sarà un’ottima madre per i suoi figli. Lui le dice che lei sarebbe meglio, ma lei risponde che come può essere la madre dei suoi figli se lui non riesce a perdonarla (ragazza? Sei già incinta.

Alla fine, è al funerale della madre di Nick che Noah insegna a Maggie che dovrà accettare Will come suo padre perché lei ha fatto lo stesso e gli dà persino un abbraccio davanti a tutti. Maggie la segue. Parla anche di come, quando succedono cose del genere, di solito non è “colpa” di una sola persona. D’altra parte, c’è ancora un altro grattacapo da affrontare. Michael viene licenziato dall’ospedale dove lavora perché Nick ha detto loro che è andato a letto con una studentessa mentre era consulente. Ma quando Noah incontra Michael, lui le dice di stare lontana da lui perché gli ha rovinato la vita. Lei va da Sofia per chiedere aiuto, e Sofia muove alcune leve, ma alla fine Michael vuole ancora vendicarsi e sa che Noah è incinta perché ha messo le mani sulla sua cartella clinica.

È Sofia a dire a Nick che lui non sa come lasciar andare il risentimento. Gli ricorda che tutti quelli che lo circondano possono perdonarlo, tranne lui. Gli fa anche capire che Noah è l’unica persona che è davvero lì per lui, e che lui è riuscito ad allontanare anche lei. Sofia rimane sola, ma c’è ancora speranza per lei, e non c’è rancore tra lei e Nick.

Chi è il grande cattivo?

È Colpa Nostra? – Cortesia Prime Video

Il grande colpo di scena in È Colpa Nostra? non ha nulla a che vedere con i protagonisti. Si tratta invece del fatto che Michael è ancora in contatto con Briar, che ha bisogno dell’aiuto di un medico, ma invece viene curata da uno psicopatico squilibrato. Ora Michael sta già lavorando su Briar, ma il suo piano entra in azione in ritardo perché Nick, che ritrova Noah, il quale ha deciso di andarsene per sempre, viene colpito dallo stesso uomo che ha cercato di uccidere suo padre all’inizio del film. Noah e Nick stavano finalmente per tornare insieme, e lui pensava che il bambino fosse di Simon, ma gli andava comunque bene (wow, quell’uomo è cresciuto dopo quella conversazione). Ma ovviamente era felicissimo di sapere che era suo figlio. Nick si risveglia dal coma dopo la nascita del loro bambino, e sembra che Nick e Noah stiano finalmente vivendo il loro lieto fine, ma non è così. Briar si presenta, prende il bambino e sostiene che dovrebbe tenerlo perché ha perso un bambino a causa di Nick: occhio per occhio, bambino per bambino, capite? Ne segue una lotta, e Noah combatte Michael come una vera dura e alla fine prende a pugni Briar in faccia dopo averle strappato il bambino. Mamma Noah è piuttosto tosta, eh? Farebbe qualsiasi cosa per i suoi due ragazzi.

Nel finale di È Colpa Nostra?, Nick e Noah si sposano e partono verso il paradiso nella loro auto nuova di zecca, per la quale Noah dovrà pagare il mutuo per il resto della sua vita (voglio dire, è sposata con Nick, quindi no). Il film ha un lieto fine e i fratellastri finiscono per diventare marito e moglie, anche con l’approvazione dei loro genitori (oops).

James Gunn non intende introdurre a breve Darkseid nel DCU

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L’universo DC di James Gunn è appena agli inizi, ma il pubblico non dovrebbe aspettarsi di vedere un certo famoso cattivo nel prossimo futuro. Durante una nuova intervista con New Rockstars, a Gunn è infatti stato chiesto se Darkseid fosse stato preso in considerazione come il grande cattivo della serie DCU. Tuttavia, il co-CEO della DC Studios ha commentato: “Usare Darkseid come grande cattivo ora non è necessariamente la cosa giusta da fare… perché Zack l’ha fatto in modo così fantastico a modo suo e a causa di Thanos e della Marvel”.

Come noto, Darkseid compare – seppur brevemente – in Zack Snyder’s Justice League del 2021 e dunque per Gunn sarebbe troppo presto per prendere in considerazione di introdurlo nel DCU. Allo stesso tempo, avvalersi di un personaggio di quel tipo rischierebbe di dare una sensazione di già visto, generando ovvi paragoni con il Thanos del MCU. È dunque probabile che, quando un primo grande villain del DCU si paleserà, questo rappresenterà una decisa novità rispetto a ciò che attualmente ci si può aspettare.

Tutto quello che sappiamo su Man of Tomorrow

Le riprese principali di Man of Tomorrow dovrebbero iniziare nella primavera del 2026, con una data di uscita fissata per il 9 luglio 2027. David Corenswet riprenderà il ruolo nel sequel al fianco di Lex Luthor, interpretato da Nicholas Hoult, poiché i due si alleeranno contro questo nuovo nemico, come ha dichiarato il regista.

James Gunn ha infatti affermato: “È una storia in cui Lex Luthor e Superman devono collaborare in una certa misura contro una minaccia molto, molto più grande. È più complicato di così, ma questa è una parte importante. È tanto un film su Lex quanto un film su Superman. Mi è piaciuto molto lavorare con Nicholas Hoult. Purtroppo mi identifico con il personaggio di Lex. Volevo davvero creare qualcosa di straordinario con loro due. Adoro la sceneggiatura”.

Gunn annunciato Man of Tomorrow sui social media il 3 settembre. Nel suo annuncio, lo sceneggiatore e regista ha incluso un’immagine tratta dal fumetto in cui Superman è in piedi accanto a Lex Luthor nella sua Warsuit. Nei fumetti DC, Lex crea la tuta per eguagliare la forza e le abilità di Superman. Mentre l’immagine teaser suggeriva che Lex e Superman sarebbero stati di nuovo in contrasto, ora sembra che Lex userà la sua Warsuit per poter essere allo stesso livello di Superman per qualsiasi grande minaccia si presenti loro. Al momento, è confermata la presenza della Lois Lane di Rachel Brosnahan.

Il film è stato in precedenza descritto come un secondo capitolo della “Saga di Superman”. Ad oggi, Gunn ha affermato unicamente che “Superman conduce direttamente a Peacemaker; va notato che questo è per adulti, non per bambini, ma Superman conduce a questo show e poi abbiamo l’ambientazione di tutto il resto della DCU nella seconda stagione di Peacemaker, è incredibilmente importante”.

Don’t Say a Word: la spiegazione del finale del thriller con Michael Douglas

Uscito nel 2001 e diretto da Gary Fleder, Don’t Say a Word (Non dire una parola) è un thriller psicologico che intreccia tensione familiare, trauma e avidità in un racconto che si muove tra la mente e la colpa.

Interpretato da Michael Douglas, Brittany Murphy, Sean Bean e Famke Janssen, il film segue la storia del dottor Nathan Conrad, uno psichiatra newyorkese costretto a decifrare la mente di una giovane paziente traumatizzata per salvare la vita della propria figlia rapita. Il finale, tanto teso quanto rivelatore, svela il vero significato del titolo e chiude la storia su un doppio piano: quello della giustizia e quello della redenzione emotiva.

Il segreto di Elisabeth e la chiave nascosta

Gran parte della tensione del film ruota attorno al personaggio di Elisabeth Burrows (Brittany Murphy), una ragazza ricoverata in una clinica psichiatrica che da anni non parla con nessuno. Nathan, interpretato da Michael Douglas, viene incaricato di occuparsi del suo caso, ma presto scopre che dietro il mutismo della giovane si nasconde un segreto che ha a che fare con una rapina di diamanti avvenuta dieci anni prima.

I rapitori della figlia di Nathan, guidati da Patrick Koster (Sean Bean), credono che Elisabeth sia l’unica a sapere dove è nascosto il diamante rubato. Il titolo Don’t Say a Word (“Non dire una parola”) è allo stesso tempo un comando e un trauma: Elisabeth ha mantenuto il silenzio per sopravvivere, dopo aver assistito all’omicidio del padre, uno dei ladri coinvolti nel colpo.

La rivelazione: il diamante e il trauma infantile

Nella parte finale del film, Nathan riesce a guadagnare la fiducia di Elisabeth, scoprendo che la chiave del mistero è letteralmente una chiave – un oggetto che la ragazza conserva come simbolo di protezione e che conduce al luogo dove il diamante è nascosto.
Questo oggetto rappresenta l’unico legame tra la sua infanzia traumatizzata e il presente.

La svolta arriva quando Elisabeth ricorda il numero di una tomba, il luogo dove il padre aveva nascosto il diamante prima di essere ucciso da Koster. Nathan si reca al cimitero, recupera la pietra preziosa e la usa come merce di scambio per liberare la figlia, Jessie, tenuta prigioniera in casa sotto gli occhi della madre, immobilizzata a letto.

Il confronto finale e la caduta di Koster

Il climax del film si consuma nel confronto tra Nathan e Koster. Lo psichiatra riesce a consegnargli il diamante, ma in un colpo di scena tipico del thriller anni 2000, Elisabeth stessa decide di intervenire. Determinata a vendicarsi per la morte del padre, la ragazza inganna Koster portandolo con sé in un terreno paludoso, dove lo spinge nel fango e lo lascia annegare.

La scena, girata con toni cupi e quasi onirici, è la vera chiusura psicologica del film: Elisabeth rompe il suo silenzio, non più come vittima ma come soggetto attivo della propria vendetta. “Don’t say a word” – la frase che l’ha condannata al silenzio – diventa paradossalmente la chiave della sua liberazione.

Il significato del finale: la parola come cura

Nel finale, Nathan riesce a salvare la figlia e a riportare l’equilibrio nella sua famiglia.
Ma la vera guarigione avviene dentro la mente di Elisabeth, che finalmente parla. Le sue ultime parole, rivolte a Nathan, suggellano il tema centrale del film: la parola come strumento di salvezza. Dopo anni di silenzio, la ragazza può finalmente nominare il proprio dolore, trasformandolo in ricordo invece che in prigione.

Gary Fleder costruisce qui un epilogo dal tono catartico. L’inquadratura finale mostra Elisabeth seduta in una stanza d’ospedale, illuminata da una luce morbida. Il suo volto è sereno, privo della tensione che lo aveva attraversato per tutto il film. La parola non è più pericolosa: è diventata terapia.

Giustizia e trauma: due piani paralleli

Il film non si limita a risolvere la trama poliziesca. Il finale infatti mette in parallelo due percorsi di guarigione: quello fisico e familiare di Nathan, che recupera la figlia e la serenità domestica, e quello psicologico di Elisabeth, che riesce a riappropriarsi della propria identità.

La chiusura del film suggerisce che il trauma, se condiviso e ascoltato, può trovare una via d’uscita. Nathan, come terapeuta, non solo decifra il codice di un caso criminale, ma diventa simbolicamente colui che restituisce la parola a chi non la possedeva più.

Il messaggio finale: il silenzio non è protezione

Il titolo Don’t Say a Word assume quindi una doppia valenza: da un lato è la minaccia imposta dal carnefice, dall’altro il trauma interiorizzato dalla vittima. Alla fine, rompere il silenzio significa rompere il potere di chi ha causato la violenza. Il film, pur restando un thriller di intrattenimento, si muove su un terreno più profondo: il linguaggio come salvezza e verità.

L’ultimo sguardo di Elisabeth, rivolto verso la finestra, è l’immagine della libertà: una giovane donna che ha ritrovato la voce, e con essa la possibilità di vivere.  Nathan, intanto, osserva la figlia dormire al sicuro — un simbolo di equilibrio ritrovato, ma anche di un male che, se non affrontato, può sempre riaffiorare. Così Don’t Say a Word si chiude non con la vendetta, ma con la riconquista della parola: la più semplice, e insieme la più potente, forma di giustizia.

Robin Hood – L’origine della leggenda, la spiegazione del colpo di scena dello sceriffo di Nottingham

La nuova versione di Robin Hood – L’origine della leggenda del regista Otto Bathurst, con Taron Egerton nel ruolo dell’affascinante ladro dal cuore d’oro, si conclude con un colpo di scena piuttosto importante riguardante Will Scarlet (Jamie Dornan) e lo sceriffo di Nottingham. Dopo che Robin e Little John (Jamie Foxx) riescono a uccidere lo sceriffo originale (Ben Mendelsohn), impiccandolo in una chiesa, un nuovo sceriffo assume il suo ruolo. Quello sceriffo non è altro che Will, uno dei fedeli Merry Men di Robin nelle storie originali, che nel film di Bathurst diventa suo nemico mortale.

Quando incontriamo Will Scarlet per la prima volta nel film, entra in scena da sinistra e si avvicina per baciare Lady Marian (Eve Hewson), che è stata ingannata dallo sceriffo facendogli credere che Robin fosse morto durante le Crociate. Robin è naturalmente devastato alla vista di questa scena e, su richiesta di John, trascorre gran parte del film tenendo Marian a distanza, senza rivelarle la sua vita segreta come “il Cappuccio”. Nella battaglia finale del film, tuttavia, Robin e Marian si riconciliano e si scambiano un bacio appassionato… a cui Will Scarlet assiste sfortunatamente.

Will, furioso, ferito e sfigurato durante il combattimento, si rifiuta di fuggire nei boschi con Robin e gli altri Merry Men. Robin e Marian lo lasciano a malincuore e se ne vanno con le ricchezze che hanno rubato allo sceriffo di Nottingham. Tuttavia, proprio quando sembra che tutto stia per concludersi in modo soddisfacente, Friar Tuck (Tim Minchin) ritorna in voce fuori campo per rivelare che questo finale perfetto non è proprio come sembra. Il film passa a Will che ha un incontro clandestino con il Cardinale (F. Murray Abraham), che aveva cospirato con lo sceriffo di Nottingham per sabotare lo sforzo bellico. Con lo sceriffo originale fuori dai giochi, il Cardinale ha bisogno di un nuovo uomo a Nottingham dalla sua parte, e Will odia Robin abbastanza da accettare il lavoro.

Si tratta di un bel cambiamento per Will, che per tutto il film ha fatto da portavoce del popolo, cercando di guidare i minatori di Nottingham in una pacifica opposizione alla tirannia dello sceriffo. Si potrebbe obiettare che è piuttosto inverosimile che Will rinneghi tutte le sue convinzioni e diventi un cattivo sfregiato solo perché ha visto qualcuno baciare la sua ragazza.

Tuttavia, si potrebbe anche sostenere che Robin stesso abbia creato questo mostro convincendo Will ad abbandonare i suoi piani di ritiro pacifico a favore di un attacco totale agli uomini dello sceriffo.

Il colpo di scena di Robin Hood – L’origine della leggenda  è ovviamente pensato per preparare il terreno a un sequel che vedrà Robin contro Will Scarlet… anche se, dato che Robin Hood dovrebbe incassare solo 15 milioni di dollari nel weekend del Ringraziamento, quel sequel probabilmente non ci sarà. È davvero un peccato; Dornan non aveva molto da fare come terzo vertice di un triangolo amoroso, ma interpretare Will Scarlet non solo come un cattivo, ma come il più grande nemico di Robin Hood, avrebbe dato una svolta molto interessante a una storia familiare.

La Warner Bros. Discovery è ufficialmente in vendita

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A seguito di precedenti fusioni e ristrutturazioni, Warner Bros. Discovery è ora ufficialmente in vendita. Negli ultimi mesi sono apparse diverse notizie relative all’acquisizione del colosso hollywoodiano, tra cui una riguardante un’offerta rifiutata da Paramount.

“Continuiamo a compiere passi importanti per posizionare la nostra attività in modo da avere successo nell’odierno panorama mediatico in continua evoluzione, portando avanti le nostre iniziative strategiche, riportando i nostri studi alla leadership del settore e espandendo HBO Max a livello globale. Abbiamo compiuto il passo coraggioso di prepararci a separare la Società in due aziende mediatiche distinte e leader, Warner Bros. e Discovery Global, perché eravamo fermamente convinti che questa fosse la strada migliore da seguire”.

David Zaslav ha sottolineato che “non sorprende che il valore significativo del portafoglio [della Warner Bros.] stia ricevendo un crescente riconoscimento da parte degli altri operatori del mercato”. Il capo dello studio ha confermato che “dopo aver ricevuto manifestazioni di interesse da più parti, [essi] hanno avviato una revisione completa delle alternative strategiche per identificare la strada migliore da seguire per sbloccare il pieno valore delle [loro] attività”.

Samuel A. Di Piazza Jr., che ricopre la carica di presidente del consiglio di amministrazione di WBD, ha ulteriormente spiegato: “La nostra decisione di avviare questa revisione sottolinea l’impegno del consiglio di amministrazione a considerare tutte le opportunità per determinare il miglior valore per i nostri azionisti”. Ciò avviene solo pochi mesi dopo l’annuncio, il 9 giugno 2025, della scissione di Warner Bros. e Discovery in due entità separate.

Di Piazza ha commentato come continuino a sostenere questa decisione, affermando: “Continuiamo a credere che la nostra separazione pianificata per creare due società mediatiche distinte e leader creerà un valore interessante. Detto questo, abbiamo deciso che intraprendere queste azioni per ampliare il nostro raggio d’azione è nel miglior interesse degli azionisti”. La separazione dovrebbe comunque essere completata entro aprile 2026.

Al momento della stesura di questo articolo, per quanto riguarda il processo delle alternative strategiche dell’azienda, non esiste una scadenza fissata o un “calendario definitivo” per la nuova iniziativa. Warner Bros. inoltre “non intende fare ulteriori annunci in merito alla revisione delle alternative strategiche”, ma lo farà solo quando “il Consiglio approverà una transazione specifica o determinerà in altro modo che un’ulteriore divulgazione è appropriata o necessaria”.

Secondo un rapporto di Puck del 19 settembre 2025, Netflix starebbe valutando la possibilità di presentare un’offerta per Warner Bros. Discovery. Tuttavia, Greg Peters, CEO di Netflix, ha fornito un commento molto vago il 9 ottobre riguardo alla possibilità che il popolare servizio di streaming stia effettivamente valutando tale opzione. Se uno qualsiasi degli altri grandi colossi di Hollywood dovesse acquisire lo studio e le attività di Zaslav, potrebbe inaugurarsi una nuova importante era di proprietà intellettuali riunite sotto lo stesso tetto. Dopo che l’interesse per la vendita è diventato ufficiale, il futuro di Warner Bros. Discovery sarà una delle più grandi storie aziendali nel mondo dell’intrattenimento.

Il coraggio di Blanche: la spiegazione del finale del film con Virginie Efira

Diretto da Valérie Donzelli e interpretato da Virginie Efira e Melvil Poupaud, Il coraggio di Blanche (L’amour et les forêts, titolo internazionale Just the Two of Us) è uno dei film francesi più intensi e discussi degli ultimi anni, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2023 nella sezione Cannes Première. Tratto dal romanzo omonimo di Éric Reinhardt, il film affronta il tema della violenza psicologica e del controllo in una relazione di coppia con una delicatezza e una lucidità rare nel cinema contemporaneo.

Il finale, aperto e sospeso, rappresenta il punto culminante del percorso interiore della protagonista: non una vittoria, ma una presa di coscienza. Un epilogo che trasforma Il coraggio di Blanche in un racconto sulla libertà femminile, sulla ricostruzione di sé e sull’impossibilità di dimenticare del tutto chi ci ha fatto del male.

Un amore che diventa prigione

All’inizio del film, Blanche (Virginie Efira) incontra Grégoire Lamoureux (Melvil Poupaud), un uomo carismatico e apparentemente premuroso. Innamorata, lo sposa e si trasferisce in un’altra città, lontano da tutto ciò che conosceva. Ma la passione iniziale si trasforma presto in un meccanismo di controllo psicologico e isolamento: Grégoire diventa geloso, possessivo, invadente.

La regista mette in scena questa progressiva prigionia con uno stile sobrio e claustrofobico: le inquadrature si stringono, gli spazi si chiudono, la luce scompare. Nel corso del film, lo spettatore assiste a una lenta discesa nell’abuso, resa ancora più inquietante dall’apparente normalità del quotidiano. Il finale arriva come un atto di ribellione, ma anche come un momento di dolorosa consapevolezza.

La fuga e il confronto finale

Negli ultimi minuti, Blanche riesce a fuggire dalla relazione. Con le sue due figlie si trasferisce in un piccolo appartamento e tenta di ricostruire la propria vita. Ma il passato non si cancella facilmente: Grégoire continua a perseguitarla, inviando messaggi, comparendo all’improvviso, manipolando ogni tentativo di autonomia.

Quando i due si ritrovano faccia a faccia, il film raggiunge il suo momento più teso. Non c’è violenza esplicita, ma un silenzio pieno di significato. Blanche lo guarda con calma, quasi con pietà. È un gesto semplice, ma rivoluzionario: non ha più paura.

La scena finale — Blanche di spalle che cammina con le figlie lungo una spiaggia — è insieme un addio e una rinascita. Nessuna colonna sonora enfatica, nessun lieto fine: solo il silenzio di chi ha trovato la forza di andare avanti, anche senza aver ottenuto giustizia.

Il significato simbolico del finale

Il titolo Il coraggio di Blanche racchiude la chiave interpretativa del film. Il coraggio non è la ribellione clamorosa, ma la capacità di sopravvivere e ricominciare. La foresta — elemento ricorrente del romanzo di Reinhardt — diventa la metafora dell’inconscio, il luogo dove Blanche si perde per poi ritrovarsi. Nel finale, il suo cammino nella natura o lungo la spiaggia rappresenta il ritorno alla vita, una purificazione interiore.

Valérie Donzelli trasforma la fuga in un rito di liberazione: non la vittoria sul carnefice, ma la riappropriazione del proprio corpo, del proprio sguardo e del proprio nome.
La libertà, nel film, non è assenza di dolore ma riconciliazione con esso.

La doppia Blanche e il tema dell’identità

Un elemento centrale del racconto è la presenza della sorella gemella di Blanche, anch’essa interpretata da Virginie Efira. Le due donne sono opposte e complementari: una fragile, l’altra decisa; una vittima, l’altra osservatrice. Nel finale, le due figure sembrano fondersi, come se la protagonista avesse finalmente integrato le sue parti più divise: la paura e il coraggio, la dipendenza e la libertà.

La “seconda Blanche” rappresenta la voce interiore della protagonista, quella che non ha mai smesso di parlarle anche nei momenti più bui. Quando Blanche accetta la propria vulnerabilità e smette di definirsi attraverso lo sguardo dell’altro, le due identità diventano una sola. È in questo gesto invisibile che avviene la vera guarigione.

Un finale realistico, non consolatorio

Il film evita il moralismo e il sentimentalismo. Non c’è una punizione per Grégoire, né una risoluzione totale. Ma Blanche, ora consapevole, non è più la stessa. La sua camminata verso il mare, accompagnata dalle figlie, diventa un gesto di resistenza quotidiana: un inno sommesso ma potente alla vita dopo la violenza.

Valérie Donzelli chiude il film con uno sguardo lucido e compassionevole, senza enfasi melodrammatica. Come in molte opere del cinema francese contemporaneo, la salvezza non è un traguardo ma un percorso: lento, incerto, ma reale.

Il messaggio finale: la libertà come memoria

Il finale di Il coraggio di Blanche racchiude la sua essenza più intima: la libertà non è dimenticare, ma ricordare senza più paura. Blanche porta con sé il trauma, ma anche la consapevolezza di averlo attraversato. La spiaggia finale, con la luce che si apre sul mare, non è una via di fuga ma una soglia — quella tra il passato e la possibilità di un futuro diverso.

Virginie Efira, in una delle interpretazioni più intense della sua carriera, riesce a trasformare la sofferenza in forza.  Il suo volto, nell’ultima inquadratura, è quello di una donna che ha perso tutto ma ha ritrovato sé stessa. E questo, nel cinema come nella vita, è il vero coraggio.