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Alice nella Città 2025: annunciati i vincitori!

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Alice nella Città 2025: annunciati i vincitori!

Sono stati annunciati i vincitori di Alice nella Città 2025, la ventitreesima edizione della manifestazione che si svolge in concomitanza con la Festa del Cinema di Roma e che è rivolta al pubblico dei giovani. Tutti i vincitori di seguito:

PREMIO MIGLIOR FILM ALICE NELLA CITTÀ 2025MY DAUGHTER’S HAIR  di Hesam Farahmand

Il riconoscimento è stato assegnato da una giuria di 35 ragazzi di età compresa tra i 16 e 19 anni.  A ritirare il riconoscimento il produttore Saeid Khaninamaghi e la giovane protagonista Ghazal Shakeri.

Motivazione – Una storia di differenze sociali e instabilità economica, in cui non esiste una morale netta e definita, ed ogni gesto d’amore ha un prezzo da pagare.

L’eccellente interpretazione di Shahab Hosseini, le ottime performance del resto del cast, unite a una costruzione narrativa riuscitissima, permettono allo spettatore di immedesimarsi nel dramma profondo di ogni singolo personaggio.

MENZIONE SPECIALE – LA PICCOLA AMÉLIE di Liane-Cho Han e Maïlys Vallade

Motivazione – Un racconto universale e intergenerazionale, unito a uno stile evocativo che tocca le corde più profonde del nostro cuore. Un film capace di restituirci il carattere fondante della nostra identità, ovvero la capacità di trattenere la bellezza e farla rivivere in noi attraverso la lente del ricordo.

PREMIO MIGLIOR OPERA PRIMA – ANEMONE di Ronan Day-Lewis

Premio attribuito dall’Associazione U.N.I.T.A. e viene consegnato dall’attrice Mia Benedetta

Motivazione – Ronan Day-Lewis ha realizzato un film audace, onirico, immersivo e dirompente, che dimostra una complessità e una completezza inusuali da riscontrare in un’opera prima. L’esperienza da pittore di Ronan è fondamentale per dare vita a un’atmosfera totalizzante, resa tale anche dal sonoro. Non di minore impatto è il glorioso ritorno sulla scena di Daniel Day-Lewis, che interpreta un personaggio il cui passato non lo ha mai abbandonato. Un passato segnato dal trauma della guerra, degli abusi e dall’assenza di un padre, i cui errori decide di non replicare.

Daniel Day-Lewis
Focus Features

PREMIO DEL PUBBLICO AL MIGLIOR FILM DEL PANORAMA ITALIA – 2 CUORI E 2 CAPANNE  di Massimiliano Bruno

Sinossi: Lei (Claudia Pandolfi) è una splendida quarantenne libera e indipendente, anticonformista e impegnata nel sociale, femminista convinta e allergica alla convivenza e alle lunghe relazioni. Lui (Edoardo Leo) è un coetaneo attraente, sportivo, ma rigido e attento alle convenzioni con una vita semplice, rigorosa e forse abbastanza banale. Un mattino, le loro strade si incrociano: la chimica è innegabile, la passione travolgente. Poi la sorpresa: lavorano nella stessa scuola. Peccato che lei sia l’idolo dei suoi alunni e lui il preside inflessibile con i ragazzi. Due mondi agli antipodi. Costretti a convivere tra corridoi scolastici e aule piene di adolescenti, saranno pronti a rimettere in discussione tutto ciò in cui credono?

PREMIO RB CASTING – AL MIGLIOR GIOVANE INTERPRETE ITALIANO – ADALGISA MANFRIDA per “Ultimo schiaffo”

Il premio è assegnato da una giuria composta da Francesca Borromeo (casting director), Ines Vasiljević (produttrice), Giorgia Vitale (agente).

Motivazione – È un grande onore per questa giuria premiare un’interprete dotata di un sottile strumento attoriale, capace di coniugare una sorprendente spontaneità con un controllo scenico maturo e ben strutturato. Adalgisa Manfrida, nel bel film “L’Ultimo Schiaffo” di Matteo Oleotto, ci ha regalato momenti di puro divertimento nei toni brillanti e ci ha profondamente toccato nei passaggi più intimi e dolorosi.

PREMIATO UNITA UNDER 35 – ADALGISA MANFRIDA per “Ultimo schiaffo”.

Premio attribuito dall’Associazione U.N.I.T.A. e viene consegnato da Jacopo Olmo Antinori e Sofia Acuitto

Motivazione – Per la sensibilità e l’intelligenza attoriale, sottile e ironica, per l’intensa fierezza che ha donato al suo personaggio, rompendo schemi e confini della quarta parete. Per l’energia contagiosa che emana da tutto il suo lavoro, il Premio UNITA Under 35 per Alice nella Città va ad Adalgisa Manfrida assieme alla tessera onoraria di U.N.I.T.A.: benvenuta e grazie per averci regalato Petra!

PREMIO PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO INTERNAZIONALE DELLA SEZIONE ONDE CORTE – RAGE di Fran Moreno Blanco e Santi Pujol Amat

Assegnato da una giuria composta dal regista Kenneth Lonergan (Presidente), dalla sceneggiatrice Francesca Serafini e dall’attrice e regista Alissa Jung.

Motivazione –  Due autori che a dispetto della giovanissima età mostrano un totale controllo e grande consapevolezza nel loro modo di scrivere e di girare. Abbiamo molto apprezzato la delicatezza con cui quella “furia”, che dà il titolo alla loro storia e crea da subito tensione narrativa, si esprima solo attraverso una struggente richiesta d’amore da parte da parte di Eric. Un personaggio che viene seguito nella sua fuga e il suo ritorno a casa con sapienti movimenti di macchina, senza alcun compiacimento. I due registi riescono a caratterizzarlo anche nelle sue dinamiche famigliari con profondità e verità. Una verità che commuove e che lascia ben sperare per il loro futuro di cineasti e per le sorti del cinema in generale che gli unici effetti speciali di cui ha davvero bisogno sono quelli che si nascondono dentro i personaggi quando si ha la curiosità di mettersi al loro ascolto.

PREMIO RAFFAELLA FIORETTA PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DEL PANORAMA ITALIA – BRATISKA di Gregorio Mattiocco

Assegnato da una giuria composta di registi Riccardo Milani (Presidente onorario), Maria Sole Tognazzi, Fabio Mollo, Paolo Strippoli.  Il riconoscimento avrà un riconoscimento di 3.000 euro che andrà al  regista.

Motivazione – Per una scrittura consapevole della forma del cortometraggio, capace di centrare, in perfetto equilibrio tra commedia di formazione e dramma sociale, un tono che ricorda il miglior cinema di Ken Loach. Per una regia attenta al lavoro con gli attori, diretti senza sbavature di maniera, che tradisce una passione necessaria per i personaggi del proprio racconto.

MENZIONI SPECIALI

  • ASTRONAUTA di Giorgio Giampà

Motivazione – Per la capacità di raccontare con dolcezza e autenticità il rapporto tra un padre e una figlia, in uno spiraglio di vita che trasforma i sogni infranti di ieri nella promessa luminosa di domani.

  • FIORI CADONO di Ludovica Galletta

Motivazione – Per la cura con cui l’immagine tesse le trame del ricordo, sull’orlo della decadenza ma con la certezza che esista ancora un futuro a cui guardare. L’albergo del film si trasforma in uno spazio universale e la sua narrazione volutamente poco densa permette a ogni spettatore di esplorarlo in libertà, e di riempirlo degli odori e delle immagini del proprio passato.

PREMIO ONDE CORTE – PREMIO DEL PUBBLICO – TEMPI SUPPLEMENTARI di Matteo Memè

Sinossi – In un pomeriggio d’estate Claudio chiede a suo figlio Mattia un passaggio in motorino, direzione “casa di un amico”. Ma quando Mattia scoprirà la vera destinazione di suo padre farà di tutto per cercare di sotterrare l’ascia di guerra che da anni rovina il loro rapporto.

PREMIO ONDE CORTE ACADEMY – MIX ESTATE ’83 di Cristian Vassallo, studente di NABA, Nuova Accademia di Belle Arti

Motivazione – Per la delicatezza con cui rivisita un tempo personale e collettivo, intrecciando memoria e immaginario visivo, dando voce ad un’estate che si fa specchio di desideri, fughe e ritorni. Per la forza del linguaggio cinematografico che, nella compattezza della forma breve, riesce a suggellare un universo intimo eppure aperto al pubblico, restituendo l’effimero come testimonianza di trasformazione. Il comitato di selezione assegna questa Menzione Speciale a MIX Estate ’83 di Christian Vassallo, come riconoscimento al coraggio creativo e alla sensibilità narrativa che ne fanno un progetto degno di attenzione.

PREMIO PREMIERE FILM – IL VELO di Cristian Patanè

Il riconoscimento è attribuito al miglior cortometraggio senza distribuzione festivaliera e vincerà un anno di distribuzione gratuita in tutto il mondo.

Motivazione – Per la capacità di costruire una storia che in pochissimi minuti, senza dialoghi, racconta un’intera vita di rinunce, un personaggio con un enorme conflitto interiore che nessuno può conoscere, una relazione impossibile da vivere alla luce del sole, e l’ultima, scandalosa, opportunità di diventare finalmente se stessi.

PREMIO FILM IMPRESA UNDER 35 – BAGARRE di Sarah Narducci

Il riconoscimento è nato dalla collaborazione tra Alice nella città e Premio Film Impresa, la manifestazione di Unindustria che promuove il racconto audiovisivo del lavoro e dell’innovazione imprenditoriale.

Motivazione –  Il Premio Film Impresa – Under 35, alla sua prima edizione, va a Bagarre di Sarah Narducci che in pochi minuti tratteggia un mobile spaccato giovanile contemporaneo facendo dell’amicizia femminile un cristallo dai chiaroscuri sconosciuti, grazie anche alla notevole fotografia di Marlene Bialas”

PREMIO RAI CINEMA CHANNEL – BRATISKA di Gregorio Mattiocco

Il premio è assegnato da una giuria di studenti RUFA coordinata da Rai Cinema a uno dei corti italiani provenienti dalle diverse categorie dal programma Panorama Italia.

Motivazione – “Bratiska” è un ritratto emotivo e profondamente radicato nel sociale, che affronta il tema dell’immigrazione e delle dinamiche familiari spezzate. Attraverso una regia puntuale, una sceneggiatura incisiva e una fotografia evocativa, Mattiocco cattura con maestria la loro lotta, con empatia e realismo.

PREMIO ANDROMEDA FILM – CIAO VARSAVIA di Diletta Di Nicolantonio

Assegnato da Andromeda Film a uno dei cortometraggi italiani selezionati nella sezione Onde Corte Panorama Italia per sostenere i giovani autori e registi emergenti. Prevede un contributo economico di € 5.000, che sarà erogato a fronte di una prelazione e/o opzione in favore di Andromeda Film per la realizzazione di un progetto futuro.

Motivazione – Con Ciao Varsavia, Diletta Di Nicolantonio ci accompagna in un viaggio intimo e silenzioso dentro la fragilità e la forza di una giovane donna che cerca di ricucire il proprio rapporto con il corpo e con il mondo. La regista sceglie di guardare la ferita senza paura, con uno sguardo che sa essere insieme tenero e implacabile, capace di restituire dignità e verità a ciò che spesso resta invisibile. Ogni inquadratura respira, ogni silenzio pesa come una confessione trattenuta. La regista non filma il dolore, ma la sua trasformazione: la lenta rinascita di chi impara che guarire non significa cancellare, ma accogliere. Premiarla significa riconoscere una voce che sa trasformare la fragilità in linguaggio, il silenzio in resistenza, e il cinema in atto d’amore verso l’essere umano.

PREMIO NOTORIOUS

Rivolto a giovani sceneggiatori under 35 ed è suddiviso in due categorie: Notorious Movies dedicata a concept per lungometraggi e Notorious Series dedicata a concept per serie televisive. Il premio per i due vincitori consisterà in un incarico di sviluppo del concept.

  • Lorenzo Garofalo per la categoria Miglior Soggetto di Film

  • Chiara Biava per la categoria Miglior Concept di Serie

Bugonia, la spiegazione del finale: Michelle, interpretata da Emma Stone, è in realtà un’aliena?

Il finale selvaggio di Bugonia rivela se il CEO farmaceutico interpretato da Emma Stone sia effettivamente un alieno, preparando il terreno per un colpo di scena ancora più grande nei momenti finali del film. Diretto da Yorgos Lanthimos, Bugonia segue due uomini che decidono di rapire Michelle Fuller convinti che lei faccia parte di una forza aliena segreta che controlla l’umanità.

Il film gioca sulla premessa sia della commedia dark che dell’horror teso, con l’instabilità di Teddy, interpretato da Jesse Plemons, che crea un film in cui tutto può succedere. Tuttavia, anche il pubblico che si adatta ai grandi cambiamenti di Bugonia potrebbe non prevedere il colpo di scena finale e ciò che esso dice sullo stato dell’umanità nel suo complesso.

Michelle è davvero un’aliena in Bugonia

Nonostante lo neghi per tutto il film, il grande colpo di scena finale di Bugonia è la rivelazione che Michelle è davvero un’aliena proveniente dalla galassia di Andromeda. Per gran parte di Bugonia, il film presenta l’impegno di Teddy e Don nei confronti di questa idea come farsesco e pericoloso. Michelle nega ripetutamente l’accusa, “ammettendola” solo nel tentativo di placare Teddy, sempre più instabile.

I continui tentativi di Michelle di ingannare Teddy e conquistare Don rendono sospetti tutti i suoi commenti mentre è intrappolata da loro, compresa la sua sfuriata finale in cui “ammette” le sue origini aliene. Tuttavia, date le scene successive del film, si sottintende che queste affermazioni siano vere.

È solo dopo che Teddy viene ucciso accidentalmente che il pubblico scopre che aveva ragione fin dall’inizio. Michelle è, infatti, l’imperatrice degli alieni di Andromeda. Considerando ciò che dice a Teddy e ciò di cui parla in seguito con i suoi sudditi, si scopre che era sulla Terra per sviluppare un farmaco in grado di aiutare a sopprimere la natura più oscura dell’umanità.

È una rivelazione assurdamente comica, soprattutto quando il pubblico scopre che lei comunica davvero con la sua specie attraverso i capelli e che ha un teletrasporto nascosto nell’armadio del suo ufficio. Tuttavia, assume anche un tono molto più spaventoso e triste quando lei concorda sul fatto che l’umanità è una causa persa e distrugge personalmente tutta la vita umana sulla Terra.

Il fatto che Michelle sia un’aliena giustifica retroattivamente alcune delle indagini di Teddy, anche se il film non cerca mai di sostenere che le sue azioni (compreso l’omicidio) fossero giustificate. Al contrario, gioca sulla prospettiva di Michelle sui difetti dell’umanità e rafforza ulteriormente la sua separazione come donna estremamente ricca dalle “api operaie” che mantengono a galla la sua azienda e la società.

Anche al di là delle sue origini extraterrestri, Michelle proviene da un mondo molto diverso da quello di Teddy. La sua rabbia nei suoi confronti non nasce solo dall’orgoglio umano, ma dalla vendetta per i crimini che lei ha commesso contro di lui e le persone della sua classe sociale. Il fatto che Michelle sia effettivamente un’aliena rafforza il livello di separazione tra lei e persone come Teddy.

Perché Teddy prende di mira Michelle

Jesse Plemons in Bugonia (2025)
Foto di Courtesy of Focus Features

Teddy ha un secondo fine nel prendere di mira Michelle, al di là della sua convinzione che lei sia un’aliena. La madre di Teddy ha partecipato a una sperimentazione farmacologica condotta dall’azienda di Michelle anni prima degli eventi del film. Il farmaco ha avuto una reazione negativa sui soggetti del test, uccidendone molti e lasciando gli altri in coma, compresa la madre di Teddy.

Questo dà a Teddy un motivo per odiare Michelle, e Teddy diventa sempre più furioso con lei a causa della sua rabbia persistente per il destino di sua madre. Anche se Michelle e la sua azienda hanno offerto un risarcimento monetario per il destino di sua madre e le hanno fornito cure mediche continue, la rabbia di Teddy lo ha gradualmente spinto ad agire contro Michelle.

Questo conferisce a Bugonia un elemento politico più chiaro, poiché sottolinea il costo medico e personale dell’industria farmaceutica. In un’epoca in cui l’omicidio dell’amministratore delegato di UnitedHealthcare può diventare un punto critico politico, l’opinione di Teddy secondo cui solo un alieno disumano potrebbe essere responsabile del destino di sua madre risuona con la confusione e la rabbia della persona media.

Questo influisce anche sulla comprensione del pubblico nei confronti di Teddy e sul motivo per cui è così disposto a oltrepassare i limiti morali mentre interroga Michelle. Tuttavia, mette anche in una luce più dura la sua dissezione di altri “alieni”, poiché è disposto a fare lo stesso tipo di esperimenti su persone vive che l’azienda di Emily ha utilizzato contro persone come sua madre.

Perché Michelle decide di distruggere l’umanità (e come lo fa)

Emma Stone in Bugonia
Foto di Courtesy of Focus Features

Dopo la sua esperienza con Teddy e Don, Michelle decide che è ora che l’umanità giunga al termine. Nonostante abbia dei contatti nella sua azienda e una chiara predilezione per la musica creata dall’uomo, Michelle fa esplodere in lacrime una ricostruzione dell’atmosfera terrestre. Questo uccide istantaneamente ogni persona sul pianeta, ma risparmia in modo significativo altre forme di vita animale.

Le motivazioni di Michelle sembrano cristallizzarsi nelle sue interazioni con Teddy, ma si basano sulla sua precedente “confessione” all’uomo. Michelle spiega che i vari interventi alieni sul pianeta (incluso il regno perduto di Atlantide) hanno portato alla corruzione del genoma umano attraverso l’evoluzione.

Secondo Michelle, l’aggressività umana era il risultato dell’evoluzione naturale che aveva portato la specie verso direzioni più oscure. Nonostante gli sforzi degli alieni per trovare un farmaco o una medicina in grado di sopprimere questi elementi, l’umanità è ancora brutale. Teddy sembra essere stato la prova definitiva di questo per Michelle, distruggendo la sua fede nel salvataggio dell’umanità.

È degno di nota, tuttavia, che Michelle pianga quando distrugge l’umanità. Le scene finali del film sottolineano il peso di questa decisione, mostrando innumerevoli persone che sono morte improvvisamente nel bel mezzo della loro vita normale. È un momento molto cupo, che sembra causare a Michelle un dolore sincero.

Il vero significato di Bugonia

Bugonia

Nonostante tutto il dolore di Michelle, c’è un messaggio sottinteso sulla società in Bugonia e sul modo in cui le persone possono disumanizzarsi a vicenda per i propri obiettivi personali e le proprie vendette. A un livello più ovvio, è così che Teddy riesce a torturare Michelle e massacrare gli altri, tutto nel tentativo di “liberare” l’umanità dalla loro influenza.

Michelle vede letteralmente gli esseri umani come inferiori a lei. Nella sua visione del mondo, sono un fastidioso e resistente parassita, ben lontano dall’immagine di “amministratore delegato rassicurante” che cerca di proiettare. Anche prima della rivelazione, Michelle viene ripetutamente mostrata mentre offre banalità superficiali ai suoi dipendenti e alle vittime dei suoi esperimenti, il tutto con una mancanza di autentica umanità ed empatia.

Questo è il motivo per cui il destino di Don rende Bugonia ancora più triste. Don è l’unica persona a Bugonia di cui Teddy può fidarsi e a cui può confidarsi, il che lo porta a reclutare suo cugino per il suo piano. Tuttavia, Don non ha la determinazione necessaria per scendere a compromessi morali come Teddy. Crede nella prospettiva di suo cugino, ma cerca di rimanere umano nei confronti di Michelle.

Diviso tra il senso di colpa per il trattamento riservato a Michelle, la lealtà verso Teddy e il proprio senso di isolamento, Don punta la pistola contro se stesso davanti a Michelle. Don era forse l’unica persona che avrebbe potuto trovare un modo per risolvere la situazione o almeno impedire a Michelle e Teddy di oltrepassare i loro limiti morali più raccapriccianti.

Una volta che Don se ne va, le manipolazioni di Michelle diventano più letali, mentre Teddy diventa più crudele. È quasi come se il destino dell’umanità fosse stato segnato nel momento in cui Don ha ceduto all’oscurità interiore che Michelle sosteneva di voler risolvere. Bugonia offre una dura morale sulla società moderna e su come le persone perdono la loro umanità nel perseguimento delle loro convinzioni e dei loro obiettivi.

Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze, la spiegazione del finale

Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze è l’evento cinematografico dell’anno, con una spettacolare rappresentazione di follia e tragico romanticismo. Sebbene la sua uscita nelle sale abbia portato alcuni fan a credere erroneamente che Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze non sia collegato alla trama principale, il film ha aperto la strada a una seconda stagione delle disavventure di Denji.

La trama principale di Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze si concentra su Denji che cerca di venire a patti con i suoi sentimenti per Makima e Reze, così come sulla nuova collaborazione di Aki con Angel. Anche se Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze non termina con un cliffhanger scioccante, getta le basi per una nuova stagione, sviluppando i personaggi in modo più profondo del previsto.

Cosa è successo a Reze alla fine di Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze

Le origini di Reze rimangono sconosciute fino alla parte finale di Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze. Mentre Reze sta per salire da sola su un treno diretto a Yamagata dopo che Denji le ha offerto di fuggire con lei, Kishibe conferma ad Aki Hayakawa che è cresciuta come cavia da laboratorio in Unione Sovietica, dove è stata addestrata fin da piccola a diventare una guerriera.

Reze cambia idea sulla fuga da sola e si dirige verso il caffè dove incontra Denji, ma viene intercettata da Makima e Angel. Dopo che le viene mozzato un braccio, Reze continua a tentare di attaccare Makima e attivare la sua trasformazione in Bomb Devil. Purtroppo, Reze viene trafitta dalla lancia di Angel e viene mostrata in una pozza di sangue, suggerendo la sua morte.

Sebbene questo sia stato un finale tragico per Reze, che è riuscita a conquistare il cuore dei fan, era chiaro che i Cacciatori di Demoni della Pubblica Sicurezza non l’avrebbero lasciata andare facilmente. Reze era pericolosa, sia per la sopravvivenza di Denji, che serviva l’organizzazione, sia per gli interessi del Giappone, poiché era un’agente di un altro paese.

Reze è ufficialmente morta dopo Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze?

Sebbene Reze sembri morta alla fine di Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze, c’è la possibilità che i fan la vedranno ancora. Essendo un ibrido tra umano e demone, Reze non morirà facilmente, nemmeno con il cuore trafitto. Ciò è dimostrato dalle numerose volte in cui Denji ha subito attacchi mortali.

Inoltre, Makima potrebbe sfruttare a suo vantaggio i suoi incredibili poteri distruttivi come demone bomba, rendendo Reze più utile viva che morta. Tuttavia, c’è una certa ambiguità nelle parole di Makima, quindi è possibile che l’avrebbe lasciata andare se avesse deciso di lasciare la città e l’avrebbe uccisa solo quando ha cercato di portare via Denji.

In che modo il finale di Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze prepara la seconda stagione?

Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze include una scena post-crediti che approfondisce il personaggio di Denji per la prossima stagione. Come anticipazione di ciò che accadrà nella storia di Chainsaw Man, nella scena finale del film, Denji viene sorpreso da Power dopo aver aspettato Reze tutto il giorno al bar con un mazzo di fiori.

Denji era triste perché credeva che Reze fosse scappata senza di lui. Tuttavia, la natura spontanea e narcisistica di Power ha restituito a Denji il suo senso dell’umorismo, e il film si conclude con i due che litigano per i fiori. Anche se questa scena sembra insignificante, sottolinea che Denji tornerà alla sua routine precedente, vivendo con Power e Aki, lavorando per la Pubblica Sicurezza e seguendo gli ordini di Makima.

Inoltre, grazie alle parole di Kishibe, i fan ora sanno che anche le organizzazioni internazionali dell’Unione Sovietica sono alla ricerca del cuore di Chainsaw Devil, il che significa che Denji sarà di nuovo in pericolo nella nuova stagione. Questo dà ai fan un indizio su cosa aspettarsi dal ritorno di Chainsaw Man Stagione 2.

Cosa succederà ad Aki e Angel nella seconda stagione di Chainsaw Man?

Makima chiede ad Angel perché non abbia invitato Aki a sostenere la lotta contro Reze, concludendo che è perché lo considera troppo gentile per uccidere una ragazza. Angel chiede anche a uno dei topi di Makima se è bello vivere in città, suggerendo che ha cambiato idea e non vuole più tornare in campagna.

Questo breve scambio implica che Angel sia premuroso nei confronti di Aki dopo che questi gli ha salvato la vita, che ha quasi perso a causa delle onde d’urto della battaglia contro i Bomb Demons e Typhoon. Tuttavia, per salvare Angel, Aki ha sacrificato due mesi della sua vita.

Questi sono stati sottratti dai due anni che il Cursed Devil ha rivelato che Aki aveva a disposizione nell’episodio n. 10 della stagione 1 di Chainsaw Man. Aki non ha molto tempo per vendicarsi del diavolo che ha ucciso la sua famiglia, quindi la collaborazione di Angel come suo partner sarà cruciale per ciò che lo aspetta nella stagione 2 di Chainsaw Man.

Reze amava Denji in Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze?

Sebbene l’unica missione di Reze fosse quella di rubare il cuore del Demone della Motosega, è chiaro che qualcosa dentro di lei è cambiato dopo aver incontrato Denji. Al loro incontro, Denji ha regalato a Reze una margherita bianca, che lei ha tenuto in acqua. Tuttavia, alla fine del film, Reze fa una donazione a un gruppo che raccoglie fondi per le vittime del Demone, per cui riceve una margherita rossa.

Poiché le margherite rosse sono associate alla passione e all’amore, la decisione di Reze di non salire sul treno simboleggia sottilmente il suo amore per Denji. Tuttavia, è lasciato ambiguo ai fan decidere se credere che Reze amasse Denji romanticamente o se il suo affetto fosse platonico, poiché si sentiva compresa da lui a causa delle loro infanzie difficili.

Nel caso di Denji, inizialmente non aveva preso in considerazione l’idea di andarsene con Reze, poiché non voleva abbandonare la sua vita in città. Tuttavia, Denji era disposto a rinunciare a tutto per lei quando le ha suggerito di scappare insieme. Sfortunatamente, il finale agrodolce di Denji, che si sente abbandonato da Reze, pone fine alla loro tragica storia d’amore.

Dove si interrompe Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze nel manga?

Chainsaw Man – Il film: La storia di Reze copre l’arco narrativo Bomb Girl, adattando parte dei capitoli dal 38 al 52 del manga. Ciò significa che i fan desiderosi di sapere cosa succederà nella storia di Chainsaw Man dovrebbero procurarsi il volume 7 del manga, che inizia dal capitolo 53 e introduce l’arco narrativo International Assassins.

Il manga di Chainsaw Man è disponibile in versione digitale sull’app MangaPlus di Shōnen Jump. Anche se la seconda stagione di Chainsaw Man non è stata ancora confermata ufficialmente, gli ultimi aggiornamenti suggeriscono che l’anime tornerà prima del previsto. Tuttavia, il viaggio di Denji è appena iniziato e non è paragonabile a nulla di ciò che i fan hanno visto finora.

La vita va così è tratto da una storia vera?

La vita va così è tratto da una storia vera?

Con La vita va così, Riccardo Milani firma un film che si muove tra ironia e malinconia, mescolando toni leggeri e riflessione sociale in un equilibrio perfettamente riconoscibile per chi conosce il suo cinema. L’autore di Come un gatto in tangenziale, Benvenuto Presidente! e Un mondo a parte torna a raccontare l’Italia contemporanea attraverso una lente umana, mettendo al centro persone comuni travolte da eventi più grandi di loro. La domanda che accompagna il film – e che ha incuriosito molti spettatori – è se La vita va così (la nostra recensione) sia ispirato a una storia vera. E la risposta, come spesso accade nel cinema di Milani, si colloca in quella zona sottile tra realtà e verosimiglianza, dove il quotidiano diventa racconto collettivo e l’esperienza personale si trasforma in materia universale.

Le radici reali di un film profondamente italiano

Milani non ha mai nascosto il suo interesse per le storie vere, minime, nascoste nei gesti di tutti i giorni, capaci però di riflettere le contraddizioni del Paese. Anche La vita va così nasce da osservazioni reali, da incontri e testimonianze che il regista ha raccolto negli anni, spesso durante la preparazione di documentari e progetti televisivi. L’idea di fondo è raccontare come le difficoltà economiche, la perdita del lavoro o la solitudine possano trasformarsi in nuove possibilità di rinascita quando le persone riscoprono il valore della solidarietà e del tempo condiviso. Non c’è una “storia vera” unica che abbia ispirato il film, ma un mosaico di vite reali che restituiscono l’immagine di un’Italia che resiste, reinventa sé stessa e trova speranza anche nelle piccole sconfitte.

Dalla cronaca alla finzione: come Milani costruisce la verità emotiva

La vita va così
@Claudio Iannone

Uno degli aspetti più interessanti del cinema di Milani è la sua capacità di trasformare la realtà in emozione narrativa. In La vita va così, la verità non sta nella precisione dei fatti ma nella loro risonanza umana. Il film mette in scena personaggi che potrebbero esistere davvero — padri divorziati, lavoratori precari, donne che lottano per mantenere equilibrio tra famiglia e dignità personale — e li fa vivere in un contesto riconoscibile, tra periferie urbane e piccoli centri, dove il tono della commedia si alterna a quello della riflessione sociale. L’autenticità nasce dal linguaggio, dai dialoghi e dai silenzi più che dalla ricostruzione documentaria. È questo che fa sembrare La vita va così un film “tratto da una storia vera”, pur non essendolo formalmente.

Il legame con la realtà sociale dell’Italia di oggi

Come in Scusate se esisto e Un mondo a parte, Milani usa la sua consueta cifra umana e ironica per indagare temi molto concreti: le disuguaglianze, la fragilità del lavoro, la crisi dei legami sociali. Il film diventa così uno specchio del presente, una fotografia emotiva di un Paese in trasformazione. Ciò che rende la sua narrazione “vera” non è la fonte di ispirazione, ma la capacità di far emergere emozioni collettive — quel senso di precarietà e di resistenza che appartiene a milioni di italiani. Attraverso i suoi protagonisti, Milani costruisce un piccolo affresco di resilienza quotidiana, mostrando che la commedia può ancora essere un veicolo potente per parlare di empatia, memoria e appartenenza.

La vita va così
@Claudio Iannone

Una storia che sembra vera perché parla di tutti noi

In conclusione, La vita va così non è basato su una storia vera in senso stretto, ma è intriso di verità nel modo in cui osserva e racconta la vita. La sua forza nasce dalla sensibilità autoriale di Milani, dalla capacità di tradurre la realtà sociale in emozione cinematografica senza mai cedere al didascalico. Il film non pretende di documentare ma di comprendere, restituendo allo spettatore la sensazione di riconoscersi nei personaggi e nelle loro fragilità. In questo senso, la “storia vera” di La vita va così è quella di chiunque abbia dovuto reinventarsi, imparare a ripartire o semplicemente accettare che, nonostante tutto, la vita — appunto — va così.

Le 10 migliori serie tv crime basate su storie vere in ordine di gradimento

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Il true crime è un genere televisivo e cinematografico in continua espansione, ma i migliori programmi drammatizzati sul true crime eccellono rispetto agli altri. L’umanità è affascinata dalla psicologia che porta le persone a commettere crimini, come dimostra la popolarità del true crime. I documentari e le docuserie su casi di omicidio e altri casi raccapriccianti sono diventati un punto fermo. Tuttavia, molte delle migliori storie sul true crime sono drammatizzazioni che raccontano la storia utilizzando attori.

Questo fatto risale al teatro, dove i drammaturghi romanzavano crimini come l’omicidio di Giulio Cesare. I film Lifetime degli anni 2000 basati su storie vere dimostrano che non si tratta di una novità, nemmeno per la TV e il cinema. Tuttavia, nell’ultimo decennio, gli standard per i true crime sono cambiati. È aumentata la richiesta di una narrazione più accurata, che dia voce alle vittime e affronti le questioni sistemiche correlate. I migliori programmi televisivi sui true crime mettono questi valori in primo piano.

The Girl From Plainville (2022)

The Girl From Plainville (2022)

The Girl From Plainville di Hulu è una serie drammatica basata su un fatto di cronaca reale con una trama molto controversa, ma raccontata in modo incredibilmente efficace. La serie utilizza un formato sperimentale per il genere, aggiungendo Conrad Roy come frutto dell’immaginazione di Michelle Carter anche dopo la sua morte. Inoltre, fa un uso efficace dei flashback. L’attrice Elle Fanning interpreta egregiamente Michelle, un’adolescente complicata che soffre di problemi di salute mentale e compie un gesto indubbiamente orribile.

Dando a Michelle scene senza altri personaggi, The Girl From Plainville offre un quadro più chiaro della psicologia del personaggio. La sua mente non è però l’unico focus della serie. La serie cerca di comprendere la depressione e le emozioni contrastanti di Conrad. Sebbene questa serie sia sicuramente una delle migliori drammatizzazioni di crimini reali, si classifica più in basso perché il ritmo a volte può sembrare un po’ fuori luogo. Alcuni momenti scorrono troppo velocemente, mentre altri si trascinano.

The People V. O.J. Simpson: American Crime Story (2016)

The People V. O.J. Simpson: American Crime Story (2016)

American Crime Story è una serie antologica, e la sua prima stagione segue il caso The People of the State of California v. Orenthal James Simpson, meglio noto come O.J. Simpson. Questa rivisitazione della storia è una delle migliori drammatizzazioni di crimini reali di tutti i tempi. Gli attori Sarah Paulson, Courtney B. Vance e Sterling K. Brown hanno fatto un lavoro incredibile interpretando alcuni degli avvocati che hanno dedicato tempo e impegno alla difesa della loro parte. Paulson, in particolare, è stata bravissima nel mostrare la frustrazione del personaggio che cresceva nel corso del caso.

La sceneggiatura di The People v. O.J. Simpson: American Crime Story è scritta in modo fenomenale ed esamina il processo da tutti i punti di vista. Purtroppo, questa serie presenta due grossi difetti. Innanzitutto, la performance di John Travolta lascia molto a desiderare. Inoltre, la serie si concentra troppo poco su Nicole Brown Simpson e Ronald Goldman.

Candy (2022)

Candy: Morte in Texas

Candy, serie drammatica di Hulu, è un prodotto incredibilmente ben realizzato che racconta un caso di cronaca nera, con ottime interpretazioni di Melanie Lynskey e Jessica Biel, che interpretano rispettivamente Betty Gore e Candy Montgomery. La serie è incentrata sul punto di vista dell’assassina, ma riesce dove altri falliscono, mostrando anche un quadro completo della vittima. Il formato narrativo, che salta avanti e indietro nel tempo, rende la serie interessante anche per chi conosce già il caso. Tuttavia, è sicuramente più godibile per chi ha una conoscenza minima del caso, perché così si preserva il mistero.

Candy supera di gran lunga anche l’altra serie poliziesca basata sullo stesso caso e uscita più o meno nello stesso periodo, Love and Death, perché offre un importante commento sociale. Questa serie mette in luce il lato oscuro dell’oppressione subita dalle casalinghe dei sobborghi. Purtroppo, la serie fatica leggermente a fondere lo studio psicologico del personaggio di Candy nella prima metà con il dramma giudiziario nella seconda metà.

In nome del cielo (2022)

In nome del cielo recensione serie tv

In nome del cielo è una delle migliori trasposizioni cinematografiche di un caso di cronaca nera realmente accaduto. La serie esplora l’omicidio di Brenda Lafferty e della sua bambina e il suo intrinseco legame con la fede mormone. Questo film ha fatto un lavoro fenomenale nel mescolare la controversa storia della chiesa e della fede mormone con gli eventi che hanno portato al crimine senza confondere la narrazione. La narrazione non ha paura di porre le grandi e pesanti domande che circondano il crimine e il fondamentalismo.

Ogni attore del cast di In nome del cielo ha offerto una performance fenomenale che ha mostrato gli aspetti multidimensionali dei personaggi. Anche i cattivi della storia sembravano ben delineati. Il ritmo contribuisce ad aggiungere peso al mistero della serie. Non sorprende che la serie abbia ricevuto diverse nomination, vincendo il premio come Miglior miniserie e serie limitata ai Saturn Awards. L’unico punto debole di questa serie è il fatto che non ha lo stesso livello di suspense di altre grandi drammatizzazioni di crimini reali.

Dr. Death (2021)

Dr. Death

Dr. Death di Peacock è una serie che racconta la storia vera del dottor Christopher Duntsch e del dottor Paolo Macchiarini, due chirurghi che hanno mutilato e ucciso i loro pazienti. La prima stagione, dedicata al primo medico, era incredibilmente ben realizzata e avvincente da guardare. La storia è raccontata in modo altrettanto straziante quanto l’omonimo podcast di Wondery. Gli attori fanno un ottimo lavoro nell’entrare nella mente dei loro personaggi. Tuttavia, Dr. Death è diventato uno dei migliori programmi sui crimini reali di tutti i tempi dopo l’uscita della seconda stagione.

I direttori del casting hanno ingaggiato attori di grande talento. La storia offre un forte equilibrio tra la storia d’amore di Benita Alexander e la scelta orribile fatta da Macchiarini di eseguire ripetutamente interventi chirurgici sperimentali su persone malate. In definitiva, Dr. Death non è all’altezza di altri programmi sui crimini reali, non per i suoi difetti, ma perché gli altri superano tutte le aspettative.

The Dropout (2022)

The Dropout (2022)

The Dropout è una fantastica miniserie di Hulu che racconta il percorso di Elizabeth Holmes da studentessa di Stanford a capo di un’azienda coinvolta in una frode su larga scala. Questa serie è forte per molte ragioni, tra cui la buona regia e una sceneggiatura solida. Tuttavia, la performance dell’attrice Amanda Seyfried nei panni di Elizabeth Holmes è il cuore e l’anima di The Dropout.

L’attrice fa un lavoro incredibile nell’entrare nella mente di una giovane donna che è sopraffatta dal suo ruolo di imprenditrice e sceglie l’inganno. Non sorprende che Seyfried abbia vinto il Primetime Emmy 2022 come migliore attrice protagonista in una serie limitata o antologica o in un film per questo ruolo. Tuttavia, vale la pena notare che anche il resto del cast ha fatto un ottimo lavoro nel catturare la personalità dei propri personaggi. L’unica cosa che pone The Dropout al di sotto degli altri è il leggero problema di ritmo. Tuttavia, la storia e la recitazione sono abbastanza buone da mantenerlo tra i migliori programmi sui crimini reali.

Impeachment: American Crime Story (2021)

Impeachment: American Crime Story (2021)

La serie American Crime Story conta tre stagioni al momento della stesura di questo articolo, ognuna delle quali racconta una diversa storia criminale che ha sconvolto gli Stati Uniti. Tutte e tre sono fenomenali a modo loro, ma la migliore è Impeachment: American Crime Story. Questa stagione aveva già tutte le carte in regola per diventare una grande serie sin dal suo esordio. Ogni attore eccelle nel proprio ruolo. Tuttavia, Beanie Feldstein ha superato se stessa offrendo una performance convincente nei panni di Monica Lewinsky, interpretando la vulnerabilità e l’infatuazione della giovane donna.

Inoltre, la serie ha fatto qualcosa di unico. Secondo Variety, la vera Monica Lewinsky ha contribuito alla produzione della serie e ha influenzato la rappresentazione dell’incidente da parte del team creativo. La stagione diventa uno dei migliori drammi polizieschi reali se vista attraverso una lente culturale, però. Questa storia denuncia l’abuso di potere, che è più importante che mai con gli scandali politici emersi negli ultimi anni. Inoltre, il movimento #MeToo ha ridefinito il modo in cui guardiamo allo scandalo Clinton, che è stato uno dei primi episodi di cyberbullismo a livello nazionale.

A Friend Of The Family (2022)

A Friend Of The Family (2022)

La miniserie drammatica di Peacock A Friend of the Family è imperdibile per chiunque ami i true crime. La serie racconta una storia più strana della realtà e impossibile da credere. Il caso di Jan Broberg è stato portato all’attenzione del pubblico per la prima volta nel 2017 con il documentario Abducted in Plain Sight. Sebbene fosse estremamente ben realizzato, la storia è stata raccontata in modo migliore nella drammatizzazione A Friend of the Family. Gli eventi sono ancora più terrificanti da vedere in azione con Hendrix Yancey e Mckenna Grace che interpretano Jan in età diverse.

La vera Jan Broberg ha contribuito alla realizzazione di A Friend of the Family e ha persino interpretato un ruolo minore come terapeuta di Jan. Riteneva importante dare voce a se stessa e alla sua famiglia nella loro storia. Coinvolgendola nel processo, la serie ha incluso più sfumature e una rappresentazione più accurata delle dinamiche interpersonali. Questo conferisce alla serie un enorme vantaggio rispetto ad altre serie sui crimini reali.

Unbelievable (2019)

Unbelievable (2019)

Una delle migliori drammatizzazioni di crimini reali di tutti i tempi è la miniserie Netflix Unbelievable. La serie mette in luce il caso di Marie, una giovane donna di 18 anni che è stata violentata, ma la polizia non le ha creduto e l’ha costretta a ritirare la denuncia. Questa serie fa un lavoro incredibile nell’intrecciare la storia di Marie con quella degli agenti che hanno indagato e assicurato alla giustizia il suo stupratore. La storia non solo è raccontata bene, ma affronta anche questioni difficili come la cattiva condotta della polizia, la mancanza di educazione sulle vittime di stupro e le lacune nel sistema poliziesco.

Marie ha scelto di mantenere l’anonimato, tenendo segreti il suo cognome e la sua vita privata.

Sebbene non sia stata direttamente coinvolta nella realizzazione della miniserie drammatica, Variety ha riferito che la vera Marie ha guardato lo show e ha trovato pace in questa bellissima rappresentazione. Questo è senza dubbio merito del team composto interamente da donne che ha affrontato la storia con sensibilità e attenzione. Unbelievable mostra l’importanza delle voci delle donne quando si raccontano storie di crimini reali che riguardano la misoginia e la violenza contro le donne.

When They See Us (2019)

When They See Us

Il miglior programma televisivo di sempre dedicato ai crimini reali è senza dubbio When They See Us, che racconta l’ingiustizia perpetrata nei confronti di Antron McCray, Kevin Richardson, Yusef Salaam, Raymond Santana e Korey Wise, i cinque adolescenti afroamericani e latinoamericani noti come i Central Park Five. Diretta da Ava DuVernay, questa miniserie ha compiuto un’impresa incredibile affrontando un caso complesso, caratterizzato da razzismo e comportamenti scorretti da parte della polizia. La serie ha dovuto affrontare un’ulteriore sfida perché copre un arco temporale che va dall’aggressione alla jogger nel 1989 alla condanna ingiusta nel 2014. Tuttavia, tratta gli argomenti in modo eccellente.

Oltre a toccare il cuore, When They See Us scene umanizza anche i ragazzi coinvolti, rendendoli individui con le loro esperienze e personalità. Questo non accade spesso nel caso dei Central Park Five perché i ragazzi vengono considerati un unico gruppo. Tuttavia, in realtà, l’ingiustizia è stata commessa sei volte: una volta nei confronti di ciascuno dei ragazzi e una volta nei confronti della vittima dello stupro, Trisha Meili. When They See Us è una serie importante da vedere per tutti, appassionati di crimini reali o meno. Inoltre, dovrebbe servire come prova del fatto che i registi neri apportano un’importante autenticità alle storie sul razzismo.

Alla festa della rivoluzione: recensione del film con Valentina Romani – #RoFF20

Dopo una lunghissima carriera come direttore della fotografia (Chiedimi se sono felice, Mia madreBenedetta follia, tanto per citare alcuni titoli), Arnaldo Catinari torna ora alla regia di un lungometraggio con Alla festa della rivoluzione, presentato nella sezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma. Non si tratta della prima regia per Catinari, già autore nel 1992 di Dall’altra parte del mondo e poi regista di alcuni episodi di Suburra – La serie, Vita da Carlo Citadel: Diana. Con questo suo nuovo progetto, però, firma la sua opera più ambiziosa.

Tratto dal libro omonimo di Claudia Salaris, il film – da Catinari scritto insieme a Silvio Muccino – ci porta infatti nel primo dopoguerra, in un momento di apparente euforia ma nel quale si trovano già i semi che germoglieranno poi nelle tensioni politiche e sociali degli anni successivi. In questo momento in cui tutto sembra possibile e permesso, si svolge dunque una vicenda che Catinari descrive come “di vendetta, redenzione e amore che vuole essere un film popolare, avvincente e intrigante“, che risulta vincente soprattutto nella cura della ricostruzione di quel periodo sullo schermo.

La trama di Alla festa della rivoluzione

1919. Nell’incandescente clima politico che precede il fascismo, Beatrice, una determinata spia al servizio della Russia, è a Fiume il giorno in cui il vate ed eroe di guerra Gabriele D’Annunzio dà il via alla sua rivoluzione visionaria. Ma proprio durante la festa d’insediamento si trova coinvolta in un attentato alla vita del Poeta-Guerriero. Scoprire quali sono i nemici della rivoluzione è di prioritaria importanza: per Beatrice che è lì per proteggere D’Annunzio, per Pietro, il capo dei servizi segreti italiani combattuto tra dovere e ideali.

Maurizio Lombardi in Alla festa della rivoluzione
Maurizio Lombardi in Alla festa della rivoluzione

Ma anche per Giulio, un medico, disertore della Grande Guerra, vicino agli ambienti anarchici. Sullo sfondo di una rivoluzione che intende cambiare il mondo, le vite di Beatrice, Pietro e Giulio si intrecciano rivelando una realtà in cui intrighi politici, amori impossibili e vendette private collideranno finendo per modellare non solo il loro destino ma anche quello di Fiume, di D’Annunzio e dell’Italia, che all’alba degli anni 20 si trova ad un bivio cruciale tra dittatura e rivoluzione.

Tra cura per il dettaglio ed eleganza estetica

C’è un aspetto che colpisce fin dai primi minuti di Alla festa della rivoluzione: la forza delle immagini. Arnaldo Catinari – che firma anche la fotografia del film – costruisce infatti un film che si lascia ammirare per la sua eleganza visiva. Ogni scena sembra studiata al millimetro, con colori che oscillano tra il naturalismo e l’artificio, e una luce capace di restituire tanto la materia della Storia quanto la sua dimensione più simbolica. È un cinema che non si limita a ricostruire, ma prova a evocare. Così facendo, riesce spesso a incantare per la cura e l’eleganze ricercate e ottenute.

Allo stesso tempo, però, questa perfezione formale si porta dietro un rischio: quello della distanza emotiva. L’immagine è così curata da diventare, a tratti, una barriera. I personaggi sembrano muoversi dentro una cornice troppo ordinata, dove la tensione visiva prevale sugli sconvolgimenti di cui si sta narrando. Catinari ha il merito di tentare una fusione tra linguaggio pittorico e dramma storico, ma il risultato resta talvolta incerto: potente sul piano visivo, probabilmente meno incisivo su quello umano. È un equilibrio fragile, che funziona a tratti e si spezza quando il film vorrebbe spingersi verso il pathos.

Riccardo Scamarcio in Alla festa della rivoluzione
Riccardo Scamarcio in Alla festa della rivoluzione

Un cast di prim’ordine per rievocare la storia

Eppure, anche nei suoi limiti, Alla festa della rivoluzione trova un’identità precisa. Catinari non insegue il realismo, ma un’estetica quasi teatrale, dove la storia si fa visione e l’utopia di quel periodo prende corpo nei paesaggi e nei volti dei protagonisti. Valentina Romani, nel ruolo di Beatrice, incarna con intensità la spia russa coinvolta nell’impresa di Fiume, mostrando una vulnerabilità che si mescola a una determinazione silenziosa. Riccardo Scamarcio, nei panni di Pietro, il capo dei servizi segreti italiani, offre invece una performance misurata, sottolineando il conflitto interiore del suo personaggio senza mai cedere a eccessi emotivi.

Nicolas Maupas, che interpreta Giulio, un disertore legato al movimento anarchico, porta sullo schermo una passione giovanile che si scontra con le dure realtà del contesto storico. Infine, Maurizio Lombardi, nel ruolo di Gabriele D’Annunzio, riesce a rendere la figura del poeta-soldato con una presenza scenica che mescola carisma e autoritarismo, senza mai scadere nel caricaturale. Insieme, questi attori costruiscono un affresco corale che, pur nelle sue sfumature, riesce a trasmettere le tensioni e le speranze di un’epoca turbolenta.

Nicolas Maupas in Alla festa della rivoluzione
Nicolas Maupas in Alla festa della rivoluzione

Contro le disillusioni del presente

Dietro la rievocazione storica e l’estetica raffinata, Alla festa della rivoluzione è però soprattutto un film che parla di utopie e disillusioni. L’impresa di Fiume diventa lo specchio di un sogno collettivo destinato a frantumarsi, ma anche il racconto di un’energia giovanile che cerca una nuova forma di libertà. Catinari guarda a quel momento con un misto di fascinazione e malinconia: da un lato la voglia di sovvertire l’ordine, dall’altro la consapevolezza che ogni rivoluzione finisce per essere tradita dal proprio stesso mito.

Il risultato è un racconto che, pur se ambientato nel 1919, dialoga in modo diretto con il presente, interrogandosi su cosa resti oggi del desiderio di cambiare davvero le cose. Il film mette in scena il sogno di un mondo diverso, ma lo fa senza idealizzarlo. L’utopia dannunziana viene raccontata come un esperimento politico e umano che si nutre di contraddizioni: la libertà che diventa caos, la passione che si trasforma in potere, l’arte che si piega alla propaganda.

Catinari non giudica i suoi protagonisti, ma si limita ad osservarli. Lascia che le loro parole e i loro gesti rivelino quanto sia fragile ogni tentativo di rivoluzione, quando manca una coscienza collettiva capace di sostenerla. È in questa tensione — tra idealismo e fallimento — che Alla festa della rivoluzione trova la sua verità più profonda: quella di un film che racconta il sogno di un popolo e, allo stesso tempo, il momento in cui quel sogno inizia a svanire.

GUARDA ANCHE:  Alla festa della rivoluzione, il red carpet della Festa del Cinema di Roma

Alla festa della rivoluzione, il red carpet della Festa del Cinema di Roma

Mini reunion di Mare Fuori sul red carpet della Festa del Cinema di Roma 2025, con Valentina Romani e Nicolas Maupas che sono i co-protagonisti di Alla festa della rivoluzione, film di Arnaldo Catinari presentato al festival nella sezione Grand Public.

Alla festa della rivoluzione racconta l’impresa di Fiume

Il film di Arnaldo Catinari. Liberamente ispirato al libro omonimo di Claudia Salaris (il Mulino), sceneggiato dal regista con Silvio Muccino, il film rivisita l’impresa fiumana di D’Annunzio raccontando una vita-festa fatta di futurismo e di utopie, di trasgressione sessuale e di pirateria, di gioco e di vendetta, all’alba di un bivio cruciale tra dittatura e rivoluzione.

Murdaugh: Morte in famiglia, la storia vera dietro alla serie Disney+

La vera storia di Murdaugh: Morte in famiglia di Hulu e Disney+ è più contorta della finzione, ed ecco cosa è successo a tutte le persone coinvolte nei crimini. Nel 2021 è arrivata la notizia scioccante che Maggie Murdaugh e Paul Murdaugh, della dinastia legale del sud, sono stati uccisi a sangue freddo.

Le indagini hanno portato alla luce non solo il colpevole degli omicidi, ma anche una lunga lista di reati finanziari e di droga commessi da Alex Murdaugh (Jason Clarke) e dai suoi soci. Data la precedente reputazione della famiglia, la storia degli omicidi Murdaugh è stata raccontata in documentari, podcast e romanzi.

Murdaugh: Death in the Family di Hulu intreccia i vari filoni della storia, creando una versione coerente, sebbene drammatizzata, della vicenda. È una storia di privilegi, ricchezza e crudeltà, che risulta particolarmente toccante nel momento della sua uscita. Alla fine, questo dramma basato su un fatto di cronaca lascerà gli spettatori a chiedersi cosa sia realmente accaduto a tutte le persone coinvolte, ed ecco la verità.

Maggie e Paul Murdaugh sono stati uccisi da Alex Murdaugh

Il 7 giugno 2021, Alex Murdaugh ha chiamato la polizia per denunciare l’omicidio di sua moglie e suo figlio. Margaret Murdaugh aveva 52 anni al momento della morte e suo figlio Paul ne aveva 22. Ha affermato di non essere stato a casa al momento degli omicidi, perché era andato a trovare sua madre. Questo dettaglio lo avrebbe condannato in tribunale.

Quando la polizia è arrivata, i corpi sono stati trovati vicino alle cucce dei cani nella proprietà della famiglia Murdaugh. Secondo NBC News, hanno scoperto che Paul era stato colpito con un fucile calibro 12 al petto e alla spalla, poi alla testa. Allo stesso modo, Alex ha sparato a Margaret all’addome e alla gamba con un fucile prima di spararle alla testa.

Per rispetto delle vittime, non entrerò nei dettagli, ma la scena è stata descritta come piuttosto brutale durante il processo. Alex Murdaugh era la vittima principale ed è stato arrestato per gli omicidi nel luglio 2022.

Alex Murdaugh è stato giudicato colpevole di entrambi gli omicidi e di numerosi reati finanziari

Nel 2023, Alex Murdaugh ha trascorso sei settimane sotto processo per l’omicidio di Margaret “Maggie” Murdaugh e Paul Murdaugh. Le prove indiziarie contro Alex si sono accumulate molto rapidamente.

Queste includevano residui di polvere da sparo sui suoi vestiti dalla notte del delitto, dati dal suo cellulare e dalla sua auto, bugie scoperte alla polizia, l’interrogatorio di Alex da parte della polizia, la manipolazione dei testimoni e le armi della famiglia scomparse. La prova più schiacciante è stata un video Snapchat sul telefono di Paul che ha confermato che Alex era sulla scena del delitto pochi minuti prima dell’ora stimata della morte (via BBC).

Alex Murdaugh è persino salito sul banco dei testimoni per cercare di giustificare le sue menzogne. Tuttavia, non è stato convincente. La giuria lo ha ritenuto colpevole di entrambi gli omicidi e lui è stato condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale per entrambi i capi d’accusa.

Gli omicidi hanno aperto le cateratte, portando alla luce tutta una serie di altri reati, tra cui appropriazione indebita, cospirazione per commettere frodi telematiche e riciclaggio di denaro. Ha affrontato 101 capi d’accusa, ma ha patteggiato. Alla fine, ha accettato di dichiararsi colpevole se le accuse fossero state ridotte a 22 (via United States Attorney’s Office).

Buster Murdaugh ha difeso suo padre ed è stato implicato in un incidente nautico

Jason Clarke in Murdaugh: Morte in famiglia

Buster Murdaugh non era affatto vicino alla casa dei Murdaugh al momento degli omicidi e non ha avuto alcun coinvolgimento noto nella pianificazione o nell’esecuzione dell’atto. Tuttavia, ha dovuto affrontare le conseguenze in quanto figlio di Alex e Maggie Murdaugh e fratello di Paul Murdaugh.

Sebbene sia rimasto in silenzio per molto tempo, alla fine ha parlato degli omicidi e di suo padre nella docuserie The Fall of the House of Murdaugh. Ha ammesso che suo padre aveva tratti “psicopatici”, ma continuava a dubitare che Alex Murdaugh avesse ucciso Maggie e Paul.

Oltre agli omicidi, Buster Murdaugh è stato implicato nell’incidente in barca e nella morte di Mallory Beach, per cui Paul era sotto indagine al momento della sua morte. Paul avrebbe usato la carta d’identità di Buster per acquistare l’alcol. Alla fine, la famiglia ha raggiunto un accordo con la famiglia Beach (tramite The Guardian).

I fratelli di Alex, Randy e John Marvin Murdaugh, lottano con l’ignoranza della verità

Quando Alex Murdaugh è stato processato per gli omicidi di Maggie e Paul, suo fratello John Marvin Murdaugh lo ha difeso dal banco dei testimoni. Ha raccontato di essere stato lui a ripulire i resti di Paul dopo l’omicidio e ha giurato di trovare il vero assassino (tramite PEOPLE).

Tuttavia, Randy Murdaugh, l’altro fratello di Alex, non è così sicuro che Alex non abbia commesso gli omicidi. Randy ha dichiarato al The New York Times che Alex è sicuramente un bugiardo seriale e un ladro. Tuttavia, non sa se suo fratello abbia ucciso Paul e Maggie. Dice che è difficile conciliare il verdetto della giuria con l’immagine di suo fratello che preme il grilletto.

Jerry Rivers e Spencer Roberts stanno scontando la pena detentiva per i loro reati finanziari e di droga

La teoria prevalente, presentata dall’accusa, sul motivo per cui Alex Murdaugh ha ucciso sua moglie e suo figlio è quella di nascondere i suoi reati finanziari. Tuttavia, questo ha attirato ancora più attenzione su di loro. Di conseguenza, Alex e i suoi soci sono stati smascherati. Jerry Rivers e Spencer Roberts erano coinvolti nei reati finanziari di Alex Murdaugh.

Entrambi i complici sono stati giudicati colpevoli dei loro crimini e stanno scontando la pena detentiva. Grazie a un patteggiamento, Jerry Rivers trascorrerà dai cinque ai vent’anni dietro le sbarre (via Greenville News). Nel frattempo, Spencer Roberts sta scontando una pena di otto anni e una di sei anni contemporaneamente (via WRDW).

Curtis Edward Smith è stato incriminato per il suicidio assistito di Murdaugh e non è ancora stato processato

Ci sono così tanti colpi di scena scioccanti nel caso degli omicidi Murdaugh, ma uno dei più sorprendenti è stato il fatto che Alex Murdaugh avrebbe complottato con suo cugino, Curtis Edward Smith, per ucciderlo.

Secondo quanto riferito, avrebbe sparato a Murdaugh al lato del viso in un complotto di suicidio assistito. Alex ha ammesso di averlo pianificato, pensando che Buster non avrebbe ricevuto i soldi dell’assicurazione se Alex fosse morto suicidandosi (via The New York Times). Buster è stato incriminato, ma al momento dell’uscita di Murdaugh: Death in the Family non è ancora stato processato.

La cancelliera Rebecca Hill, che ha lavorato al caso Murdaugh, è stata accusata di falsa testimonianza

Da quando Alex Murdaugh è stato giudicato colpevole di omicidio, ha continuato a presentare ricorso contro la sua condanna. La sua affermazione più recente è che la cancelliera Rebecca Hill, che ha lavorato al caso, ha cercato di influenzare i giurati affinché votassero “colpevole”, poiché stava scrivendo un libro sugli omicidi.

Sebbene non ci siano prove concrete al riguardo, secondo l’Associated Press, è stata accusata di altri quattro reati relativi al caso. È stata accusata di ostruzione alla giustizia e falsa testimonianza per aver mostrato a un giornalista delle fotografie secretate e poi aver mentito per coprire le sue azioni.

Inoltre, deve rispondere di due capi d’accusa per cattiva condotta per aver accettato bonus e promosso il suo libro sugli omicidi Murdaugh attraverso un ufficio pubblico. Al momento dell’uscita della serie originale Hulu, è in attesa di processo per queste accuse.

Il giudice Clifton Newman è in pensione e lavora come mediatore e professore

Il giudice Clifton Newman ha presieduto il caso di omicidio di Alex Murdaugh, ma da allora si è dimesso dalla carica a causa del limite di età. Secondo la South Carolina Public Radio, ora ha intrapreso una nuova carriera. Attualmente è mediatore per JAMS, un servizio di risoluzione alternativa delle controversie.

Inoltre, è diventato professore presso l’Università della Carolina del Sud, dove tiene un corso di patrocinio processuale. Nonostante il cambio di carriera, sarà sempre ricordato come il giudice che ha presieduto il caso Murdaugh e lo ha punito durante la sentenza. Comprensibilmente, è stato reso personaggio di fantasia in serie come Murdaugh: Death in the Family.

Slow Horses – Stagione 5: svelata la storia di tortura di Lamb

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Slow Horses – Stagione 5: svelata la storia di tortura di Lamb

Spiegata la scioccante storia delle torture subite da Jackson Lamb in Slow Horses – stagione 5. La serie originale Apple TV+ ha riscosso un enorme successo in streaming e il thriller di spionaggio sta acquisendo sempre più importanza durante la sua quinta stagione. Slow Horses vede protagonisti Gary Oldman, Jack Lowden, Kristin Scott Thomas e Hugo Weaving.

Adattata dai romanzi Slough House di Mick Herron, la serie è stata rinnovata per una sesta e una settima stagione, mentre la premiere della quinta stagione è andata in onda il 24 settembre. L’episodio 3 della stagione 5 di Slow Horses presentava una scena che includeva una storia scioccante che potrebbe essere vera o meno.

Secondo TV Insider, lo showrunner Will Smith ha rivelato la storia che Lamb racconta alla sua squadra per aiutarli a organizzare la fuga, la storia di qualcuno che è stato brutalmente torturato e poi ha dovuto assistere alla tortura e all’uccisione della donna che amava.

Non è confermato se la storia sia vera o se Jackson l’abbia inventata, ma Smith dice che la dice lunga sul suo stato d’animo. Ha anche elogiato l’attore Oldman per la sua interpretazione nella scena. Leggi i commenti di Smith qui sotto:

“Anche se nulla di tutto ciò è realmente accaduto, il fatto che tu possa pensarlo, che tu possa evocarlo in quel momento, dice che probabilmente hai qualche problema. Voglio dire, è molto, molto oscuro. E quello che volevamo lasciare era proprio un punto interrogativo: è successo o no? È successo a quest’altra persona? Perché il modo in cui Gary lo fa, Gary ti coinvolge completamente. Tu ci credi, credo, e sicuramente gli altri personaggi nella stanza ci credono completamente. E poi quando si capisce che era solo un modo per sviare le persone, pensi: beh, deve aver inventato tutto per adattarlo agli oggetti che erano nella stanza e che li avrebbero aiutati a scappare. Ma poi Catherine lo scopre e ti chiedi: c’è qualcosa di vero in tutto questo? Cosa ha passato?”.

I commenti di Smith riassumono perfettamente il personaggio di Oldman. Dopotutto, è un enigma, e questo è parte di ciò che lo rende così abile in quello che fa. La sua più grande forza è che le persone lo sottovalutano sempre, e questo è qualcosa che lui usa senza sforzo a suo vantaggio, come mostra questa scena.

La performance di Oldman conferisce a Lamb quel tocco in più che rende il personaggio così credibile, e questa è una storia perfettamente costruita, poiché fornisce quanto basta per dividere l’opinione del pubblico sul fatto che sia reale o meno, mentre è quasi certo che sia stata raccontata per fornire alla squadra informazioni sufficienti per poter fuggire.

Inoltre, i commenti di Smith su come deve aver inventato tutto per adattarsi agli oggetti che si trovavano nella stanza tracciano un parallelo evidente con il capolavoro di Bryan Singer degli anni ’90, I soliti sospetti. Nel film, Verbal Kint inventa una storia basata sugli oggetti presenti in un ufficio per sfuggire alla custodia della polizia.

Sembra un riferimento deliberato a quel film, e ci sono parallelismi tra i personaggi di Kint e Lamb, entrambi sottovalutati a causa del loro aspetto fisico. La scena evidenzia anche il fatto che Lamb è un personaggio che potrebbe non svelare mai completamente chi è, ma questo probabilmente andrà a vantaggio della squadra di Slow Horses a lungo termine.

Dracula alla Festa del Cinema di Roma, le foto dal red carpet

Dracula alla Festa del Cinema di Roma, le foto dal red carpet

Il cast di Dracula al gran completo ha invaso il red carpet della cavea dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, in occasione della premiere italiana del film di Luc Besson alla Festa del Cinema di Roma 2025.

Insieme al regista, il cast del film: Caleb Landry Jones, Christoph Waltz, Matilda De Angelis, Zoë Sidel e Raphael Luce.

Leggi la nostra recensione di Dracula – l’amore perduto

Luc Besson scrive e dirige una storia d’amore in grado di resistere alla morte e attraversare i secoli. Il suo Dracula, interpretato da Caleb Landry Jones, ci mostra l’indole tormentata e mostruosa ma anche il lato più intimo del vampiro per antonomasia che ha scelto di rinnegare persino Dio.

Dracula è disposto a tutto pur di ritrovare l’amore perduto: inganna, manipola, seduce, uccide. La sua sete di sangue è, in fondo, una sete disperata, assoluta, eterna. Ma potrà il più puro dei sentimenti redimerlo dall’oscurità a cui ha scelto di abbandonarsi da oltre quattro secoli?

Dracula. L’amore perduto uscirà in Italia il 29 ottobre 2025 distribuito da Lucky Red.

The Lost Bus: la storia vera dietro l’eroica evacuazione del Camp Fire del 2018

The Lost Bus di Paul Greengrass racconta una storia vera di straordinario eroismo durante il più devastante incendio boschivo della California. Il Camp Fire del 2018 nella contea di Butte, in California, è stato l’incendio boschivo più mortale e distruttivo nella storia dello Stato. L’incendio ha causato molte tragedie all’interno dello Stato, ma ci sono stati anche momenti di coraggio esemplari, tra cui uno messo in evidenza in questo film.

The Lost Bus è stato presentato in anteprima al Toronto International Film Festival del 2025 e ha avuto una distribuzione limitata nelle sale il 19 settembre 2025, prima di essere trasmesso in anteprima su Apple TV+. Basato sul romanzo Paradise: One Town’s Struggle to Survive an American Wildfire di Lizzie Johnson, il film è incentrato su Kevin McKay, un autista di autobus che ha portato in salvo bambini e insegnanti durante l’incendio.

Il film vede Matthew McConaughey nel ruolo principale, affiancato da America Ferrera nel ruolo di Mary Ludwig, un’insegnante che assiste McKay durante il viaggio. Ha ricevuto ottime recensioni dalla critica e detiene un punteggio dell’86% su Rotten Tomatoes. The Lost Bus è una storia stimolante, ma racconta solo alcune delle persone la cui vita è stata colpita dal catastrofico incendio.

The Lost Bus è basato sul Camp Fire del 2018 in California

Gli incendi boschivi sono purtroppo un evento comune in California. Gran parte della California meridionale si sta ancora riprendendo dagli incendi che hanno colpito Los Angeles. Nel 2018, la California ha subito il peggior incendio boschivo in termini di morti e danni. Secondo ABC 7, l’incendio Camp Fire del novembre 2018 nella contea di Butte ha causato la distruzione di 18.804 edifici, l’incendio di 153.336 acri e 86 morti.

L’incendio è divampato vicino al Feather River Canyon nella contea di Butte, in California, a nord di Sacramento. Secondo EBSCO, l’incendio è stato alimentato da “cespugli e alberi secchi”, ma si è intensificato a causa dei “venti secchi che si sono abbattuti sui pendii delle montagne della Sierra Nevada a est”. Si è trattato di una tempesta di fuoco che si è propagata rapidamente e che, secondo quanto riferito, ha consumato circa “80 acri al minuto”.

L’incendio ha rapidamente raggiunto Paradise, una comunità di circa 27.000 persone. Ai residenti è stato ordinato di evacuare, ma molti sono rimasti intrappolati nelle loro case. I vigili del fuoco hanno fatto del loro meglio per salvare quante più persone possibile e contenere il più possibile l’incendio, ma il fuoco ha comunque causato danni considerevoli, distruggendo circa 13.696 case.

Sebbene le condizioni di siccità abbiano creato una situazione pericolosa, l’origine dell’incendio è stata ricondotta alla Pacific Gas & Electric. Nel 2019, i vigili del fuoco della California hanno dichiarato che l’incendio è stato causato dalle linee di trasmissione elettrica di proprietà della PG&E. La società si è dichiarata colpevole di 84 capi d’accusa di omicidio colposo e ha raggiunto un accordo per un risarcimento danni del valore di 13,5 miliardi di dollari.

Secondo la CBS News, l’8 novembre McKay ha risposto a una chiamata di emergenza. Si è recato alla Ponderosa Elementary School, ha prelevato 22 studenti e li ha portati via dagli incendi. Era accompagnato da due insegnanti, Mary Ludwig e Abbie Davis. Il loro lungo e stressante viaggio è diventato la storia dietro The Lost Bus.

Come The Lost Bus affronta la storia vera

The Lost Bus

Sebbene The Lost Bus drammatizzi alcuni eventi della storia, come fanno molti film biografici, Greengrass ha comunque adottato un approccio autentico al materiale del film. Ha parlato con McKay e Ludwig per capire quale fosse stata la loro esperienza, nonché quale fosse la loro situazione di vita al di fuori di questo evento. Anche McConaughey e Ferrera hanno parlato con loro prima di interpretarli.

Tuttavia, ci sono state alcune mosse che Greengrass ha evitato durante le riprese. Parlando con Time, il regista ha detto che hanno scelto di girare il film nel New Mexico, piuttosto che in California. Il team riteneva che sarebbe stato “insensibile” girare in una zona che non assomiglia a Paradise.

“Paradise è una città operaia, non una località ricca della California meridionale: è un mondo diverso”, ha detto Greengrass. “Abbiamo girato a tre ore da Santa Fe, in una città chiamata Ruidoso, che era incredibilmente simile”.

Greengrass voleva anche ritrarre i vigili del fuoco in modo rispettoso e autentico. In un’intervista con Indiewire, ha detto che molti dei vigili del fuoco che si vedono nel film sono gli stessi che hanno fatto parte della squadra che ha combattuto il Camp Fire. Il regista ha detto che è stata un’esperienza reciprocamente vantaggiosa sia per i vigili del fuoco che per gli attori.

“Quello che succede è che chiunque reciti prova un grande senso di sicurezza essendo circondato da veri professionisti, perché allora sa cosa dire, come dirlo, quali sono i segnali di chiamata, tutte quelle cose. Non hanno la sensazione di recitare nel vuoto. D’altra parte, se sei, ad esempio, un gruppo di vigili del fuoco professionisti che si riunisce per ricostruire in un film ciò che hai vissuto, essere circondato da alcuni attori è una fonte immensa di incoraggiamento perché possono insegnarti come recitare. Se sei fortunato, gli attori smettono di recitare e iniziano a diventare come persone reali, e le persone reali iniziano a recitare, e tutti si fondono insieme. Allora si ottiene qualcosa che ha il sapore dell’autenticità, ma che allo stesso tempo fa avanzare la storia.

Cosa cambia e cosa viene tralasciato in The Lost Bus rispetto alla storia vera

Alcune persone coinvolte nell’evento reale sono state modificate o tralasciate dalla storia. Una di queste era Davis, un’insegnante di prima elementare che era sull’autobus. Time ha riferito che lei “non voleva essere coinvolta nel film”. Secondo Biography, durante il viaggio è stata fatta salire a bordo anche un’insegnante di scuola materna, ma anche lei è stata omessa.

Un’altra modifica è stata apportata al capo dei vigili del fuoco, interpretato da Yul Vazquez. Nel film, il suo nome è Ray Martinez, mentre il vero capo dei vigili del fuoco è John Messina, che interpreta se stesso in un piccolo ruolo nel film. Greengrass ha anche rivelato di non aver contattato nessuno dei bambini coinvolti nell’evento, poiché erano ancora minorenni.

“Ovviamente non abbiamo contattato nessuno dei bambini perché erano minorenni”, ha detto Greengrass a Time. “Ma quando si gira un film, si crea una famiglia di persone coinvolte, e io prendo molto sul serio il fatto di portare queste persone fino alla fine con cura, rispetto e consenso”.

Una delle sfide più grandi del film è stata quella di condensare il viaggio in autobus in un lungometraggio. The Lost Bus dura poco più di due ore, ma il viaggio in sé è durato quasi sei ore. Parlando con Creative Screenwriting, il co-sceneggiatore Brad Inglesby ha raccontato che Greengrass gli ha detto: “Dobbiamo far muovere l’autobus”, evitando scene in cui l’autobus era bloccato nel traffico.

“È stato un modo geniale per dare slancio alla storia”, ha detto Inglesby. “Quell’idea ha davvero sbloccato il viaggio del film. Il pubblico si chiede continuamente: ‘Riusciranno a uscire? È un altro vicolo cieco?’ Questo crea un dolore e uno slancio costanti, anche mentre esploriamo il crescente peso emotivo e psicologico sui personaggi”.

Cosa è successo a Kevin McKay, Mary Ludwig e ai 22 bambini nella vita reale

Gli adattamenti di storie vere includono quasi sempre versioni drammatizzate degli eventi, ma McKay e Ludwig sono riusciti a salvare 22 bambini nella vita reale. Secondo il Washington Post, McKay era nuovo nel distretto scolastico, ma non nella zona. Aveva accettato un lavoro come autista di autobus mentre studiava per ottenere una laurea in pedagogia presso il college locale.

Il giorno dell’incendio, si trovava vicino alla scuola elementare e si è offerto di aiutare. McKay ha guidato l’autobus, mentre Ludwig e Davis si sono presi cura dei bambini, consentendo a McKay di concentrarsi sulla fuga dalla zona in sicurezza. McKay ha detto alla CNN che sembrava che stessero “dirigendosi verso Mordor”, riferendosi al regno infuocato del Signore degli Anelli.

L’autobus è rimasto ripetutamente bloccato nel traffico di auto che cercavano di fuggire dalla zona, causando il riempimento dei polmoni dei bambini di fumo. McKay e gli insegnanti hanno improvvisato. Si è tolto la camicia e l’ha strappata in pezzi più piccoli. Hanno bagnato le strisce di stoffa con acqua e le hanno date ai bambini in modo che potessero respirare meglio.

Il Washington Post ha riferito che lo scuolabus è arrivato alla scuola elementare di Biggs, a circa 25 miglia a sud di Paradise. Sono arrivati alle 14:00, quasi sei ore dopo. La scuola elementare Ponderosa è stata gravemente danneggiata durante l’incendio. La casa di McKay è stata distrutta, così come quella di Davis. Tuttavia, i 22 bambini erano al sicuro, insieme a McKay e agli altri passeggeri.

The Lost Bus è una storia vera e stimolante di eroismo e coraggio di fronte a un pericolo imprevedibile, anche se alcuni dettagli sono stati tralasciati. Online sono disponibili molte informazioni sul grande incendio che ha avuto un impatto su così tante vite.

Elevation: la spiegazione del finale dall’action con Anthony Mackie

Il finale di Elevation presenta diversi elementi tematici e di world-building da analizzare. Il film sui mostri del 2024 è ambientato nella regione delle Montagne Rocciose degli Stati Uniti, il che consente un espediente unico. I mostri hanno invaso la Terra e ucciso senza pietà una parte significativa della popolazione, ma non si avventurano oltre i 2.400 metri di altitudine. Questo mette Will (Anthony Mackie) in difficoltà quando deve viaggiare per salvare la vita di suo figlio. Le recensioni di Elevation lodano le dinamiche dei personaggi e la drammaticità del film, che costituiscono il nucleo della narrazione tra elementi di azione e thriller.

Elevation è diretto da George Nolfi, che in precedenza ha scritto The Bourne Ultimatum, Ocean’s Twelve e diretto The Adjustment Bureau. Il cast di Elevation è guidato da due star del Marvel Cinematic Universe: Anthony Mackie e Morena Baccarin. Alla fine del film i loro personaggi scoprono un metodo per uccidere finalmente un Reaper, dando nuova speranza alle comunità umane che vivevano nelle Montagne Rocciose. Alzano una bandiera pirata, unendo gli umani della zona per andare a caccia di Reaper, uccidendone diversi prima che scorrano i titoli di coda.

Come Nina uccide il Mietitore nel finale di Elevation

I proiettili rivestiti di cobalto di Nina causano l’autodistruzione dei Mietitori

Prima dell’apocalisse in Elevation, Nina era una scienziata che lavorava in un laboratorio a Boulder, in Colorado. Il suo obiettivo nel film è raggiungere il suo laboratorio, dove potrebbe usare una sostanza chimica per potenziare i proiettili per uccidere i Mietitori innescando una carica elettrica. Lo fa esercitandosi su un pezzo di armatura indurita dei Mietitori che recupera all’inizio del film. Quando si esercita in laboratorio, i suoi primi tentativi falliscono prima che decida di applicare il cobalto alla miscela. Questo le permette di uccidere il primo Mietitore che la attacca.

L’idea di Nina di applicare il cobalto deriva dalla sua storia personale. Spiega a Will che, il giorno in cui i Reaper sono arrivati, stava lavorando con la sua azienda per utilizzare il cobalto per potenziare la potenza delle batterie. Capisce che l’applicazione del cobalto potrebbe potenziare la carica di cui ha bisogno dai Reaper e, così facendo, li fa implodere al momento dell’impatto con i suoi proiettili. Questo metodo si rivela efficace su più Reaper, consentendole di issare la bandiera pirata nella loro comunità.

Cosa significa issare la bandiera pirata per il futuro dell’umanità

Morena Baccarin e Anthony Mackie in Elevation (2024)
© Vertical

La bandiera pirata fa sapere alle comunità umane che un Reaper è stato ucciso

La bandiera pirata in Elevation è essenzialmente un simbolo di segnalazione visibile alle altre comunità, che indica che hanno trovato un modo per uccidere un Reaper. All’inizio del film viene stabilito che queste comunità umane utilizzano le radio per tenersi in contatto, ma che hanno smesso di usarle per risparmiare elettricità. Quando la bandiera viene issata, le comunità riprendono i contatti, quindi inviano una squadra di umani con proiettili rivestiti di cobalto per iniziare a combattere i Reaper.

Per la prima volta dopo anni, gli umani non solo hanno un modo per difendersi dai Reaper, ma hanno anche il sopravvento. Il metodo di Nina si rivela facilmente efficace, poiché basta un solo colpo per colpire i bersagli massicci e distruggerli. Sicuramente ci vorrà del tempo per sconfiggere i Reaper, poiché dovrebbe essercene ancora un numero significativo sulla Terra. L’importante è che ora hanno gli strumenti per farlo.

Come è morta la moglie di Will e cosa significa

L’arco narrativo del personaggio di Will in Elevation riguarda il suo confronto con la morte della moglie. Lei era la madre di suo figlio e lui l’aveva incoraggiata a non sostenere Nina nella sua missione per raggiungere il suo laboratorio a Boulder. Ma lei, credendo nella missione di Nina, decise di accompagnarla nonostante le suppliche di Will e non tornò mai più dal viaggio. Will rimase solo a prendersi cura di loro figlio e provò risentimento verso Nina per aver portato sua moglie nella missione.

Alla fine, Will finisce per portare a termine la missione da cui sua moglie non è mai tornata. Piuttosto che limitarsi a procurarsi le bombole di ossigeno per suo figlio, aiuta Nina a raggiungere il suo laboratorio, dando finalmente all’umanità un senso di speranza per la prima volta dopo anni. Will era concentrato sulla protezione di suo figlio e della sua famiglia, ma la sua crescita nel corso del film lo ha portato a capire che l’unico modo per proteggere davvero le persone che amava era quello di opporsi alla minaccia più grande.

Cosa è successo alla famiglia di Nina prima dell’Elevazione?

Anthony Mackie in Elevation (2024)
© Vertical

Will e Katie (Maddie Hasson) trascorrono la maggior parte del film credendo che Nina sia disposta a rischiare tutto perché non ha alcun legame personale. Uno dei colpi di scena più grandi del film è che Nina aveva una famiglia, ma l’ha persa durante l’apocalisse iniziale. Non è chiaro cosa sia successo esattamente, ma Nina si rammarica di aver lavorato invece di passare del tempo con loro quando sono morti. Al momento di Elevation, ha incanalato i suoi sentimenti nella rabbia e nel desiderio di vendetta contro i Mietitori.

Come la scena post-crediti di Elevation prepara il terreno per un sequel

Dopo la vittoria nel finale del film, la scena post-crediti di Elevation suggerisce che le cose potrebbero non rimanere così positive. La breve scena mostra Will e Nina che guardano il cielo mentre le meteore si dirigono verso la Terra, presumibilmente preparando una minaccia futura. Un aspetto importante dei Reapers è che sono macchine, ma il film non spiega mai chi li ha inventati o perché non possono salire oltre gli 8.000 piedi, quindi ci sono già delle domande a cui un sequel dovrà rispondere.

La scena post-crediti in particolare sembra suggerire una nuova minaccia dei Reapers. I primi Reapers provenivano dal sottosuolo, e ora che sono stati sconfitti, una nuova ondata arriverà dal cielo. È pura speculazione, ma un sequel potrebbe vedere l’umanità costretta sottoterra, in spazi come le miniere mostrate nel primo film, con i nuovi Reaper che hanno un effetto inverso rispetto agli originali, in quanto non possono scendere al di sotto di un certo livello di altitudine. Ciò potrebbe significare che le macchine sono una sorta di test per le capacità di sopravvivenza dell’umanità e la sua capacità di adattarsi all’ambiente circostante.

Il vero significato del finale di Elevation spiegato

Elevation è un film abbastanza lineare con idee sull’esperienza interiore di una situazione apocalittica. Sebbene gli esseri umani possano sopravvivere e adattarsi a circostanze diverse, ci sarà sempre un desiderio umano fondamentale di espandersi e prosperare che non può essere contenuto in uno spazio fisico o metaforico. Gli esseri umani delle comunità di Elevation sono fisicamente vivi, ma non realizzano il loro scopo semplicemente esistendo.

Will ha concentrato la sua attenzione esclusivamente sulla sopravvivenza di suo figlio e non si è reso conto che, limitandosi a sopravvivere, suo figlio non potrà mai vivere veramente.

Nel corso del film, ogni personaggio è costretto a fare i conti con ciò che lo rende umano. Nina si è isolata e si è concentrata esclusivamente sulla rabbia e sulla vendetta, e Will la aiuta a ricordare la sua umanità mostrandole la famiglia che un tempo amava. Will ha concentrato la sua attenzione esclusivamente sulla sopravvivenza di suo figlio e non si è reso conto che, limitandosi a sopravvivere, suo figlio non potrà mai vivere veramente. Così, questi personaggi concludono gli eventi di Elevation con una migliore comprensione del loro scopo individuale.

Come è stato accolto il finale di Elevation

Elevation ha avuto un’accoglienza mista ma interessante. Non solo il film di fantascienza del 2024 con Anthony Mackie ha diviso le opinioni dei critici più o meno a metà, ma è anche un esempio di film che evidenzia come le aspettative e i desideri dei critici cinematografici professionisti non corrispondano a quelli del pubblico generale. Ciò è dimostrato dai punteggi di Rotten Tomatoes del film del regista George Nolfi, che ha ottenuto un punteggio Tomatometer (punteggio della critica) del 56%, ma un punteggio Popcornmeter (punteggio del pubblico) dell’80%.

Coloro che hanno apprezzato la solida esecuzione di Elevation di una storia convenzionale hanno apprezzato i momenti finali, mentre coloro che non l’hanno apprezzato l’hanno visto come un ultimo sbadiglio prima che i titoli di coda scorrissero fortunatamente.

Tuttavia, il finale di Elevation non è responsabile dei risultati contrastanti. Per la maggior parte, le risposte negative a Elevation sono state dovute a un unico difetto: l’eccessiva familiarità. Ci sono dozzine di film di fantascienza sui mostri in circolazione, e molti critici hanno semplicemente ritenuto che il film non mostrasse nulla che non avessero già visto prima. Anche molte recensioni positive di Elevation hanno sottolineato questo aspetto. Ad esempio, il critico Zachary Lee di Roger Ebert ha apprezzato il film, ma ha riconosciuto che non fa nulla di innovativo:

Sebbene “Elevation” non riesca mai a superare i limiti del suo genere o a sfuggire all’ombra delle sue influenze, non scende mai così in basso da diventare banale e insulso. Con una durata di soli novanta minuti, è un film di evasione di altissimo livello, che offre pericoli a una distanza di sicurezza dallo schermo.

Il finale di Elevation non è citato come punto di forza o di debolezza in nessuna delle recensioni positive o negative del film. È stata una conclusione perfettamente adatta al film, anche se incredibilmente simile a quella di molti altri thriller d’azione post-apocalittici in cui l’umanità viene quasi spazzata via da esseri mostruosi. Ciò significa che coloro che hanno apprezzato la solida realizzazione di Elevation di una storia convenzionale hanno apprezzato i momenti finali, mentre coloro che non l’hanno apprezzata l’hanno vista come un ultimo sbadiglio prima che i titoli di coda scorrissero fortunatamente.

& Sons: recensione del film che riflette sul peso dell’eredità e delle menzogne familiari – #RoFF20

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La famiglia è un terreno fragile, fatto di legami, omissioni e ferite sempre pronte a riaprirsi. In & Sons, diretto da Pablo Tropero e scritto insieme a Sarah Polley dal romanzo di David Gilbert, la complessità dei rapporti familiari diventa il cuore di un dramma che alterna realismo e suggestioni quasi metafisiche. Il film è un viaggio dentro l’intimità di un padre e dei suoi figli, ma anche dentro il concetto stesso di identità, in una riflessione sul peso dell’eredità e sul valore della verità.

Ciò che distingue & Sons da molti altri drammi familiari è la sua natura ambigua: sotto la superficie di una storia di riconciliazioni e rancori si nasconde qualcosa di più audace e sorprendente. Un colpo di scena centrale, che è meglio non rivelare, trasforma la narrazione in un racconto poetico e quasi fantascientifico, dove la realtà sembra piegarsi al bisogno umano di lasciare un segno, di essere ricordati anche quando la memoria tradisce.

Un padre, tre figli e un segreto che riscrive tutto

La storia inizia nella casa disordinata di Andrew Dyer (Bill Nighy), scrittore celebre ma ormai in declino, che vive isolato tra bottiglie di whisky e manoscritti dimenticati. Accanto a lui c’è solo Andy Jr. (Noah Jupe), il figlio nato da una relazione extraconiugale. Quando Andrew convoca anche i suoi due figli maggiori, Richard (Johnny Flynn) e Jamie (George MacKay), il loro ritorno è tutt’altro che affettuoso. Il padre ha un annuncio da fare, un segreto capace di riscrivere la loro storia.

Ciò che segue è un dramma familiare carico di tensione e di ironia amara, dove il passato riaffiora come un fantasma. La rivelazione non riguarda solo la verità su Andy, ma la fragilità di tutti i legami che tengono insieme la famiglia Dyer. Il film diventa così una lunga resa dei conti: quella di un uomo che ha costruito la propria vita sulle parole, ma che non ha mai saputo usarle per chiedere perdono.

Un racconto di padri e figli tra ironia e malinconia

Tropero dirige con equilibrio e sensibilità, alternando momenti di scontro a silenzi carichi di significato. La regia evita il sentimentalismo e preferisce lasciare spazio alla vulnerabilità dei personaggi. L’ironia, spesso cupa, serve a bilanciare la malinconia di un film che parla di fallimenti, ma anche di seconde possibilità.

Bill Nighy offre una delle sue interpretazioni più intense: il suo Andrew è vanitoso, fragile e al tempo stesso commovente. L’attore riesce a far emergere la contraddizione di un uomo che teme di morire dimenticato, e che cerca disperatamente di essere ancora padre. Accanto a lui, Flynn, MacKay e Jupe restituiscono con sincerità la rabbia e la confusione dei figli, ognuno in un diverso stadio di disillusione.

Ma è Imelda Staunton, nei panni dell’ex moglie di Andrew, a regalare al film i momenti più intensi. Ogni sua apparizione porta con sé un’emozione trattenuta, una verità che spezza il ritmo e costringe lo spettatore a fare i conti con il dolore. Staunton incarna la dignità ferita di chi ha scelto di sopravvivere all’amore, e la sua presenza eleva ogni scena in cui compare.

I limiti di un’opera ambiziosa ma sincera

Nonostante la forza del suo impianto emotivo, & Sons non è privo di imperfezioni. La seconda parte inserisce troppe sottotrame e colpi di scena che rischiano di appesantire la narrazione, allontanandola dal suo nucleo più autentico. A volte la sceneggiatura sembra voler dimostrare troppo, come se il film temesse la semplicità.

Eppure, anche nei suoi momenti meno riusciti, l’opera di Tropero e Polley resta profondamente umana. È un film che parla di perdono, di rimpianti e di memoria, e che sa trovare la verità nei dettagli più piccoli: un gesto esitante, uno sguardo che chiede scusa, un silenzio che dice tutto.

Malavia: recensione del nuovo film di Nunzia De Stefano – #RoFF20

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Con Malavia, presentato e visto in anteprima alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Freestyle, Nunzia De Stefano torna dietro la macchina da presa dopo l’apprezzato Nevia (2019). Ancora una volta, la regista sceglie di raccontare il margine, le vite sospese in bilico tra sogno e sopravvivenza, tra rabbia e speranza.

Prodotto da Matteo Garrone e distribuito prossimamente da Fandango, Malavia è una produzione Archimede e Rai Cinema, e conferma la sensibilità di De Stefano nel catturare il reale attraverso uno sguardo empatico ma mai indulgente. Il film segue la storia di Sasà (Mattia Francesco Cozzolino), tredicenne della periferia napoletana che sogna di diventare rapper e di riscattare se stesso e la madre Rusè (Daniela De Vita) da una quotidianità fatta di precarietà e disillusione. Ma il percorso verso la luce non è lineare: la caduta nella criminalità sembra inevitabile, finché l’incontro con il mentore Yodi (Giuseppe “PeppOh” Sica) apre uno spiraglio verso un nuovo inizio.

Foto Credits Gianni Fiorito

Realismo e poesia nel racconto della periferia

Ciò che colpisce immediatamente in Malavia è l’autenticità dello sguardo. De Stefano, che conosce profondamente le dinamiche dei luoghi e dei corpi che racconta, non costruisce mai un racconto filtrato da pietismo o retorica. La sua Napoli è viva, aspra, fatta di voci e sguardi, di un’energia pulsante che attraversa ogni fotogramma.

Il film si nutre di un linguaggio diretto, quasi documentaristico, in cui la camera segue i personaggi da vicino, restituendo la sensazione di trovarsi dentro le loro vite. Non c’è artificio, ma una verità visiva e umana che si percepisce in ogni dettaglio, dai volti dei protagonisti alle strade sconnesse dei quartieri popolari.

In questa dimensione cruda e autentica, De Stefano riesce comunque a inserire una poesia sottile, fatta di piccoli gesti e momenti sospesi, di grande tenerezza. La musica, in particolare, diventa non solo strumento narrativo ma anche elemento simbolico: il ritmo e la parola diventano veicoli di liberazione, un modo per affermare la propria identità quando tutto intorno sembra negarla.

Foto Credits Gianni Fiorito

Il potere salvifico della musica e dell’arte

Il tema del riscatto attraverso l’arte non è nuovo nel cinema contemporaneo, ma Malavia riesce a renderlo fresco e sincero, abbracciando anche le trappole della prevedibilità, senza scappare dai luoghi comuni ma dando loro sostanza e autenticità. La musica rap, linguaggio delle periferie e mezzo di espressione spontaneo, diventa per Sasà un atto di sopravvivenza.

Il giovane protagonista, interpretato con una naturalezza disarmante da Mattia Francesco Cozzolino, vive la musica come un sogno e una promessa. Il suo percorso – dall’entusiasmo ingenuo alla caduta, fino alla rinascita – segue le tappe di una formazione emotiva e morale che non ha nulla di artificioso. Accanto a lui, la figura di Yodi, interpretato da Giuseppe “PeppOh” Sica, rappresenta la possibilità di una guida, di una mano tesa che non giudica ma accompagna.

In questo senso, Malavia è anche un film sull’importanza dell’incontro, sulla capacità di riconoscere nell’altro una possibilità di cambiamento. L’arte, nel mondo di De Stefano, non è mai evasione, ma strumento concreto di resistenza, un modo per riappropriarsi della propria voce e, con essa, del proprio destino.

Un cast giovane e sorprendente per un racconto di verità

Foto Credits Gianni Fiorito

Uno degli elementi che più contribuiscono alla forza del film è la scelta del cast. De Stefano affida i ruoli principali a giovani interpreti non professionisti, trovando in loro una verità recitativa che attori più strutturati difficilmente avrebbero potuto restituire. Mattia Francesco Cozzolino è una rivelazione: intenso, istintivo, capace di esprimere la fragilità e la rabbia di Sasà con uno sguardo che dice più di mille parole. Accanto a lui, Daniela De Vita nel ruolo della madre offre un ritratto di struggente umanità: una donna ferita ma non vinta, simbolo di una generazione intrappolata tra sogni infranti e desiderio di riscatto.

Il film si arricchisce poi delle presenze di Junior Rodriguez, Francesca Gentile, Ciro Esposito, Artem e Nicola Siciliano, che contribuiscono a costruire un mosaico corale e credibile. Tutti i personaggi, anche quelli minori, vivono di una propria luce, grazie a una scrittura che non giudica ma osserva, con rispetto e compassione.

La regia di De Stefano, sostenuta da una fotografia vibrante e da un uso sapiente del suono, riesce a fondere realismo e lirismo, offrendo un’esperienza sensoriale che colpisce lo spettatore sul piano emotivo. La colonna sonora, curata con attenzione, diventa parte integrante del racconto, amplificando il battito vitale del film.

Con Malavia, Nunzia De Stefano conferma di essere una delle voci più autentiche e necessarie del nuovo cinema italiano. Il suo è uno sguardo che non ha paura di sporcarsi di realtà, ma che sa trovare la bellezza anche nel dolore.

Il film parla di sogni, cadute e rinascite, ma soprattutto di identità: di come l’arte possa restituire dignità e speranza a chi la società tende a dimenticare. Intenso, vibrante e profondamente umano, Malavia è un film che tocca corde universali, ricordandoci che, anche nei luoghi più difficili, la bellezza può ancora salvare.

Springsteen – Liberami dal nulla avrà un sequel? il regista anticipa: “Se si possono realizzare quattro film sui Beatles, si possono realizzare anche un paio di film su Bruce Springsteen”

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Il regista di Springsteen – Liberami dal nulla Scott Cooper ha accennato ai piani per un sequel del film biografico su Bruce Springsteen e a come potrebbe essere realizzato. Il dramma biografico vede Jeremy Allen White interpretare il ruolo del cantautore, descrivendo le sue lotte personali e il suo successo durante la registrazione del suo sesto album, Nebraska. Le recensioni di Springsteen – Liberami dal nulla sono state contrastanti ma positive.

Ciononostante, ciò non ha impedito a Cooper, che ha anche scritto la sceneggiatura del film, di prendere in considerazione l’idea di un sequel. Parlando con Variety all’AFI Fest, il regista ha rivelato di sperare di realizzare un sequel di Springsteen – Liberami dal nulla. Citando il sostegno del vero Springsteen al film, Cooper ha spiegato come ci siano diversi aspetti della vita del cantante che potrebbero diventare film:

Se si possono realizzare quattro film sui Beatles, si possono realizzare anche un paio di film su Bruce Springsteen. Ci sono così tanti capitoli nella vita di Bruce, in tutta serietà, che sono perfetti per essere trasposti sul grande schermo.

È qualcosa di cui, onestamente, Bruce e io abbiamo discusso. Penso che lui ami davvero questo film. Ha amato questa esperienza. Penso che si senta incredibilmente a suo agio con qualcuno che racconta un capitolo molto doloroso della sua vita. Dovresti chiederlo a lui, ma penso che sia pronto per altro.

Il paragone di Cooper con i Beatles fa riferimento a quattro film sulla band diretti da Sam Mendes attualmente in fase di sviluppo. Ciascuno dei quattro film sui Beatles sarà incentrato su un membro del gruppo, offrendo prospettive diverse su eventi simili. Il suo paragone dimostra quante storie della vita di Springsteen potrebbero essere trasposte sul grande schermo.

La vita di Springsteen ha un grande potenziale per film oltre a Deliver Me From Nowhere. Con una carriera decennale ancora in corso, il musicista ha molti momenti della sua vita che potrebbero diventare film. A differenza di altri film biografici musicali, come Elvis o Bohemian Rhapsody, quello su Springsteen lascia la porta aperta a ulteriori sviluppi grazie al suo approccio al periodo storico.

La trama contenuta di Springsteen – Liberami dal nulla offre l’opportunità di realizzare un sequel. Considerando quanto sia stata elogiata la performance di Jeremy Allen White nei panni del musicista, mantenerlo nel ruolo e raccontare una storia su un periodo successivo della vita del cantante sarebbe un approccio potenziale. Tuttavia, al momento della stesura di questo articolo non esistono piani concreti.

Se il film avesse un sequel, The Bear star tornerebbe solo come uno dei fattori. Springsteen ha 21 album in studio, l’ultimo dei quali è Only the Strong Survive del 2022. Se i sequel fossero incentrati su un album in particolare, come Springsteen – Liberami dal nulla si è concentrato su Nebraska, sarebbe un modo creativo per esplorare la sua vita.

Tuttavia, la possibilità di un sequel di Springsteen – Liberami dal nulla dipenderà dal suo rendimento complessivo al botteghino. Con un budget di 55 milioni di dollari, sarà necessario un rendimento modesto affinché il sequel venga approvato. Il film uscirà nelle sale questo fine settimana e solo il tempo dirà se un seguito è davvero nelle carte.

Il nuovo libro di M. Night Shyamalan diventa il bestseller n. 1 del New York Times prima dell’adattamento cinematografico

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Il nuovo libro di M. Night Shyamalan, Remain, è appena diventato un grande successo tra i lettori, mentre si avvicina l’adattamento cinematografico. Scritto in collaborazione con l’autore Nicholas Sparks, il romanzo paranormale segue le vicende di un architetto in lutto che incontra una donna misteriosa dopo essersi trasferito a Cape Cod per lavoro.

Con l’adattamento cinematografico con Jake Gyllenhaal e Phoebe Dynevor in uscita il prossimo anno, la Warner Bros. ha ora ripubblicato il recente post della Random House che celebra un importante traguardo raggiunto da Remain. Il post annuncia che il libro è diventato il numero 1 nella classifica dei bestseller del New York Times, congratulandosi sia con Sparks che con Shyamalan.

Remain ha raggiunto questo traguardo in poco più di una settimana, essendo il libro uscito il 14 ottobre. Anche se il post della Warner Bros. afferma che l’adattamento cinematografico sarà nelle sale “presto”, il progetto diretto da Shyamalan è ancora lontano circa un anno, con una data di uscita fissata per il 23 ottobre 2026.

Shyamalan ha confermato sul suo account Instagram che le riprese principali di Remain sono iniziate nel giugno di quest’anno. Le riprese sono terminate ad agosto, il che significa che il progetto è ora in fase di post-produzione. Il film segnerà il seguito del regista a Trap nel 2024, che ha ottenuto recensioni contrastanti dalla critica ma ha avuto un discreto successo al botteghino.

Remain segna una novità per Shyamalan. Il regista scrive solitamente le sceneggiature dei suoi film, tra cui successi come Il sesto senso (1999), Signs (2002) e The Village (2004), ma questo prossimo progetto è stato concepito come una collaborazione narrativa che diventerà sia un romanzo che un film.

Sparks vanta un curriculum impressionante, avendo scritto libri come The Notebook, Dear John e Safe Haven, molti dei quali sono stati adattati in film di successo. L’autore ha scritto 25 libri, tutti diventati best seller del New York Times, il che significa che Remain non è un’eccezione in questo senso.

L’immensa popolarità di Remain dopo solo una settimana e mezzo è un segno promettente per l’adattamento cinematografico. Shyamalan continua a scrivere e dirigere thriller di sicuro successo, e la collaborazione con Sparks in questo caso dovrebbe giocare a favore del progetto.

Il prossimo adattamento segnerà anche la prima collaborazione tra Shyamalan e Gyllenhaal. L’attore è reduce dal successo della serie TV Apple TV+ Presumed Innocent, mentre il remake di Prime Video Road House (2024) è il suo film più recente. Anche Dynevor collabora per la prima volta con Shyamalan ed è nota soprattutto per il suo ruolo in Bridgerton di Netflix.

Con una data di uscita ancora lontana circa un anno, Remain probabilmente non avrà il suo primo trailer per un po’ di tempo. Un teaser trailer arriverà probabilmente nella prossima primavera, ma le immagini promozionali saranno probabilmente rilasciate prima, fornendo un primo sguardo a Gyllenhaal e Dynevor nei panni dei loro personaggi. Per ora, però, i lettori stanno evidentemente apprezzando il libro.

Dracula – L’amore perduto: recensione del film di Luc Besson – #RoFF20

Luc Besson torna al grande racconto mitico con Dracula – L’amore perduto, scegliendo un’angolazione personale e dichiaratamente romantica: Dracula non come incarnazione della paura, ma come amante maledetto, condannato all’eternità da un lutto originario. Nel prologo, Vlad perde Elisabeta, rinnega Dio e ottiene la maledizione della vita eterna. Secoli dopo, tra Parigi e Londra, riconosce in Mina la reincarnazione dell’amata e la insegue con una devozione che pretende di trasformare il classico gotico in una tragedia romantica. Al posto del canonico Van Helsing, troviamo un sacerdote senza nome che agisce “in nome dell’anima” più che della scienza: un cambio di pedine che chiarisce l’intento del film, spostato dalla caccia al vampiro alla redenzione (impossibile) dell’uomo dietro il mostro.

L’orrore dimenticato in nome del sentimento

Sulla carta, la deviazione funziona: usare l’amore come chiave di volta potrebbe restituire al mito un punto di vista meno frequentato, o almeno meno scontato. Sullo schermo, però, questa impostazione finisce per svuotare il personaggio della sua dimensione predatoria. Besson insiste sull’estetica del desiderio – balli, saloni, velluti, candele, castelli – e sostituisce l’ipnosi del morso con un espediente fiabesco: il “profumo perfetto” con cui Dracula piega le volontà. L’idea genera due momenti che restano impressi: l’assalto a Versailles, travolto da un impeto sanguigno che altrove manca, e la scena nel convento, dove le monache, stordite dall’aroma, si ammassano in un’estasi coreografica che sfiora Ken Russell per furore visionario. Ma sono lampi isolati dentro un film che evita la paura, attenua l’eros, addolcisce la minaccia.

Caleb Landry Jones, un vampiro senza fascino

Caleb Landry Jones affronta il ruolo con una dedizione fisica evidente (come già dimostrato in Dogman e Nitram): voce cavernosa, corpi storti, età che si stratificano grazie al trucco. A tratti è inquietante, a tratti magnetico: raramente, però, risulta davvero seducente. Il suo Dracula resta introverso, ripiegato, più reliquia che presenza irresistibile. Il make-up offre momenti convincenti e altri in cui scivola nel cosplay, accentuando l’impressione di “teatro di posa” invece che di carne viva. Christoph Waltz, sacerdote-cacciatore, recita con la misura abituale ma lascia poco: eleganza, ironia, qualche guizzo, il tutto in pilota automatico. Tra le interpreti, Zoë Bleu Sidel lavora di sguardi per colmare i vuoti di scrittura di Mina/Elisabeta; Matilda De Angelis, vampira elettrica e imprevedibile, è quella che più riaccende il film quando l’andamento si fa piatto.

Una scena di Dracula - L'amore perduto

Il barocco svuotato di Luc Besson

Il problema cardine è la costruzione del sentimento. Se l’ambizione è spostare il baricentro sull’amore, allora quell’amore deve risultare inevitabile, doloroso, vissuto. Qui, invece, si regge su un montaggio iniziale di idilli e su un presupposto “fatale” ripetuto più volte senza guadagnare densità. La messa in scena raramente traduce in azione o spazio l’attrazione tra i due: Besson racconta più di quanto faccia sentire. Così, nella seconda ora, quando bisognerebbe stringere, Dracula – L’amore perduto si affloscia: interni sempre più chiusi, scene che girano su se stesse, un antagonista che non fa mai davvero paura, un confronto finale che guarda più alla messinscena bellica che al gotico.

Un mito senza sangue né reinvenzione

La scelta di sostituire Van Helsing con un sacerdote avrebbe potuto aprire una linea teologica interessante: colpa, perdono, peccato originaria come ferita che sanguina nei secoli. Dracula – L’amore perduto, però, accenna e ritrae, preferendo ribadire l’ossessione romantica a scapito del conflitto morale. Allo stesso modo, l’idea – sulla carta promettente – di raccontare Dracula dal suo punto di vista resta a metà: non scava davvero nella mostruosità dell’amore possessivo, non abbraccia fino in fondo la via del melodramma tragico, non osa disturbare. È come se Besson cercasse un equilibrio tra feuilleton e barocco, senza accettare le conseguenze radicali di nessuno dei due.

Frame da Dracula - L'amore perduto

Il morso che non lascia segno

Dracula – L’amore perduto è un’operazione che promette una deviazione e la percorre a metà. Rinuncia all’orrore senza trovare un equivalente emotivo, invoca l’amore eterno senza costruirne davvero la necessità, insegue il sublime e spesso inciampa nel decorativo. Rimangono una manciata di immagini, qualche intuizione, la generosità degli attori: troppo poco per giustificare una nuova incarnazione del conte nell’anno in cui altre letture del vampiro hanno ricordato quanto il mito sappia ancora mordere.

Austin Butler è in trattative per il reboot di Miami Vice

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Austin Butler è in trattative per il reboot di Miami Vice

Austin Butler è in trattative per il reboot di Miami Vice. Il franchise neo-noir ha avuto origine con una serie poliziesca che seguiva le vicende di due detective di Miami, trasmessa dalla NBC per cinque stagioni tra il 1984 e il 1990. Uno dei produttori esecutivi dello show, il regista Michael Mann, ha poi adattato la serie in un film del 2006 che è ampiamente considerato un cult classico.

Secondo Variety, Austin Butler è ora in trattative preliminari per interpretare James “Sonny” Crockett nel prossimo reboot di Miami Vice, diretto dal regista di Top Gun: Maverick e F1 The Movie Joseph Kosinski. Il film della Universal è stato scritto da Eric Warren Singer (Top Gun: Maverick) e Dan Gilroy (Andor).

Crockett, veterano di guerra ed ex giocatore di football, è stato interpretato originariamente da Don Johnson nella serie e da Colin Farrell nel film del 2006.

La star de I peccatori Michael B. Jordan è già in trattative per recitare al suo fianco nel ruolo di Ricardo “Rico” Tubbs. Tubbs è un ex agente della polizia di New York dal temperamento irascibile, interpretato da Philip Michael Thomas nella serie e da Jamie Foxx nel film.

Il film, la cui produzione dovrebbe iniziare nel 2026, trarrà ispirazione dall’episodio pilota di Miami Vice e dall’arco narrativo complessivo della prima stagione. L’uscita nelle sale è attualmente prevista per il 6 agosto 2027.

Se Austin Butler otterrà la parte in Miami Vice, sarà uno dei tanti ruoli importanti per la star, che ha raggiunto il successo interpretando l’icona della musica nel film Elvis del 2022, ruolo che gli è valso una nomination all’Oscar. Da allora, è apparso in film e serie di grande rilievo, tra cui Dune: Parte Due, Masters of the Air e Caught Stealing di Darren Aronofsky.

Sebbene si sia già affermato come un talento di prim’ordine, il ruolo di Crockett potrebbe potenzialmente rappresentare un grande vantaggio per Butler. Anche se la sua carriera è decollata dopo la nomination all’Oscar, Elvis rimane il film di maggior successo in cui ha interpretato un ruolo da protagonista o da coprotagonista.

Elvis ha incassato 288,1 milioni di dollari in tutto il mondo ed è il terzo film di Austin Butler con il maggior incasso in assoluto, dietro a C’era una volta a… Hollywood (377,4 milioni di dollari) e Dune: Parte Seconda (715,4 milioni di dollari).

Tuttavia, la situazione potrebbe cambiare se Miami Vice diventasse un grande successo. Non è detto che ciò avvenga, dato che il film del 2006 non è riuscito a raggiungere il pareggio al botteghino, incassando 164,2 milioni di dollari a fronte di un budget dichiarato di circa 150 milioni. Tuttavia, la presenza di Joseph Kosinski potrebbe essere un asso nella manica.

Kosinski ha già trasformato un IP storico in un successo che ha segnato una generazione con Top Gun: Maverick, che ha incassato 1,496 miliardi di dollari ed è diventato l’undicesimo film di maggior incasso della storia al momento.

Tuttavia, anche il suo seguito, F1 The Movie (una storia originale ambientata nel mondo del popolare sport motoristico), è diventato un successo, incassando 628,7 milioni di dollari e diventando il film di maggior incasso con Brad Pitt nel ruolo principale.

Se Kosinski riuscirà a ottenere un successo simile con Miami Vice, Austin Butler (che ha già dimostrato il suo talento nei film polizieschi con Caught Stealing, che ha ottenuto buone recensioni ma non è riuscito a infiammare il botteghino) potrebbe consolidare la sua posizione come una delle star del cinema più importanti dell’era moderna.

FOTO DI COPERTINA: Austin Butler alla premiere di “The Bikeriders” Foto di Image Press Agency via DepositPhotos.com

La Diaspora delle Vele: intervista a Francesca Comencini

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La Diaspora delle Vele: intervista a Francesca Comencini

La nostra intervista a Francesca Comencini, che in occasione della Festa del Cinema di Roma ha presentato il suo ultimo documentario, La Diaspora delle Vele, che vedremo su Sky Documentaries e in streaming su NOW nel corso del 2026. La diaspora delle Vele è una produzione Cattleya e Sky Studios, in collaborazione con il Comune di Napoli e il Comitato Vele di Scampia.

La trama di La Diaspora delle Vele

Il 22 luglio 2024 il cedimento di uno dei ballatoi nella Vela Celeste di Scampia ha provocato la morte di tre persone e dodici feriti. Dopo la tragedia, il piano di rigenerazione delle Vele avviato dal Comune di Napoli subisce una drastica accelerazione e quasi 2000 persone ancora residenti alle Vele vengono evacuate per ricollocarsi in alloggi provvisori, in attesa di tornare a Scampia nel nuovo quartiere attualmente in costruzione. Questo documentario racconta, attraverso le loro voci, frammenti di storie di alcune/i di loro.

Spider-Man 4: un video sembra rivelare uno spoiler sul personaggio di Sadie Sink nell’MCU

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Sadie Sink entrerà a far parte del Marvel Cinematic Universe nel 2026 con Spider-Man: Brand New Day, ma il suo personaggio potrebbe già trovarsi in difficoltà. La timeline dell’MCU vedrà finalmente il ritorno di Peter Parker, interpretato da Tom Holland, sul grande schermo nel 2026, poiché il suo prossimo capitolo è attualmente in produzione.

Attraverso @CosmicMMedia, è emerso un nuovo video dal set di Spider-Man: Brand New Day, questa volta incentrato su Sink, poiché il suo personaggio viene visto ferito. Tuttavia, non sembrano essere i paramedici del pronto soccorso a prenderla in carico, poiché viene vista trasportata su una barella da personaggi sconosciuti in un veicolo nero.

Nessuno degli altri membri del cast principale è stato avvistato durante le riprese della scena, e non è chiaro cosa o chi abbia causato le ferite al misterioso personaggio interpretato da Sadie. La star di Stranger Things è uno dei numerosi nuovi attori che hanno aderito al progetto, poiché la sesta fase vedrà anche la partecipazione di Marvin Jones III nel ruolo di Tombstone, insieme a Tramell Tillman e Liza Colón-Zayas.

Spider-Man: Homecoming Tom Holland
Foto di Chuck Zlotnick – © 2017 CTMG, Inc. © Marvel Studios

Ci sono state varie teorie e voci su chi interpreterà l’attore 23enne, da Jean Grey della Marvel, dato l’imminente X-Men reboot in lavorazione, a Rachel Cole-Alves, che lavora con Frank Castle come vigilante. Il Punisher di Jon Bernthal, che è recentemente tornato nel franchise con Daredevil: Rinascita, farà il suo debutto cinematografico nell’MCU nel film di Holland.

Una prima immagine di Sink sul set è apparsa per la prima volta il 19 ottobre 2025, dove è stata avvistata insieme al regista del film, Destin Daniel Cretton. La storia di Spider-Man: Brand New Day sarà incentrata su Peter che ora opera da solo, poiché gli Avengers e il resto del mondo hanno dimenticato chi è, a causa dell’incantesimo del Dottor Strange in Spider-Man: No Way Home.

Poiché Spider-Man: Brand New Day è in programma per il 2026, sarà l’ultimo film prima dei rivoluzionari film della saga Multiverse, Avengers: Doomsday e Avengers: Secret Wars. Al momento della pubblicazione non è chiaro se Holland sarà coinvolto nel film.

Mentre le riprese continuano, il personaggio di Sink potrebbe essere svelato completamente nel primo trailer di Spider-Man: Brand New Day, non appena sarà pronto per essere mostrato dalla Sony Pictures e dalla Marvel Studios.

Oi Vita Mia: il trailer del nuovo film di Pio e Amedeo

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Oi Vita Mia: il trailer del nuovo film di Pio e Amedeo

Ecco il trailer di Oi Vita Mia, il nuovo film diretto e interpretato da Pio e Amedeo, con la partecipazione di Lino Banfi e con Ester Pantano, Cristina Marino, Marina Lupo, Adriana De Meo ed Emanuele La Torre.

Distribuito da Piperfilm, Oi Vita Mia arriva nelle sale il 27 novembre.

Pio gestisce una comunità di recupero per ragazzi, Amedeo una casa di riposo per anziani. Uno ha una relazione in crisi, l’altro una figlia adolescente irrequieta. Costretti dalle circostanze a vivere sotto lo stesso tetto tra anziani smemorati e giovani casinisti che si fanno la guerra, i due finiranno per scambiarsi consigli non richiesti, infilarsi in situazioni assurde e, tra bollette arretrate e partite a padel, trovare finalmente il coraggio di mettere ordine alle loro vite e scoprire così un nuovo modo di stare assieme.

Rebuilding: recensione del film con Josh O’Connor – Alice nella Città

Con Rebuilding, Max Walker-Silverman torna a raccontare l’America autentica e spesso dimenticata, quella dei grandi spazi e delle piccole comunità, con la delicatezza e il senso del luogo che già avevano contraddistinto A Love Song (2022). Presentato nella Selezione Ufficiale di Alice nella Città 2025 e in uscita nel 2026 con Minerva Pictures e FilmClub Distribuzione, il film è un ritratto commosso e sincero di una comunità che cerca, tra le rovine, la forza di ricominciare.

Il cowboy che ha perso tutto

Il protagonista, Dusty (Josh O’Connor), soprannome di Thomas, è un cowboy che ha visto il suo ranch di famiglia di duecento acri ridursi in cenere dopo un vasto incendio nel Colorado – dove il regista è cresciuto. Costretto a vendere il bestiame per sopravvivere, Dusty trova un impiego temporaneo come operaio autostradale, pur continuando a sognare una nuova vita in Montana, dove il cugino lo attende. Ma l’arrivo di un nuovo lavoro non colma il vuoto, anzi: lo lega ancora di più alla terra, ai ricordi  e al sogno infranto di portare avanti l’attività del ranch di famiglia.

Walker-Silverman inquadra Dusty con un pudore quasi documentaristico, mostrandone la dignità più che la sconfitta. L’America che vediamo non è quella delle città scintillanti, ma dei campi arsi, dei silenzi interrotti solo dal vento. È l’America dei contadini, dei pastori, dei cowboys: un luogo dove la speranza sopravvive nella fatica e nei piccoli gesti quotidiani.

La comunità dei sopravvissuti in Rebuilding

Dopo l’incendio, Dusty vive in una roulotte, in un campo abitativo con altri sfollati: famiglie, anziani, persone che hanno perso tutto ma che, nella condivisione del dolore, trovano una forma nuova di comunità. Le serate davanti al barbecue, i racconti scambiati attorno a un fuoco improvvisato, i sorrisi che resistono alla disperazione diventano il cuore pulsante del film.

Josh O'Connor Rebuilding Recensione 2025
Crediti Jesse Hope

Qui Walker-Silverman costruisce un microcosmo di umanità e solidarietà, in cui ogni personaggio sembra portare addosso una ferita, ma anche la voglia di guarire. È una piccola America che si sostiene da sola, ignorata dalle istituzioni e dalle banche – “dopo un incendio, la terra resta arida per otto, anche dieci anni”, dice un funzionario negando a Dusty un prestito – ma capace di ricostruirsi dal basso.

Rebuilding: un padre, una figlia, e la possibilità di rinascere

La vera spinta vitale del film arriva però dal rapporto tra Dusty e Callie-Rose (Lily LaTorre), la figlia avuta dall’ex moglie Ruby (Meghann Fahy), presenza costante nella sua vita, fin dall’infanzia. Paradossalmente, dopo la distruzione del ranch, padre e figlia si avvicinano: condividono momenti semplici, compiti scolastici, silenzi che diventano complicità e domande genuine e schiette, come “Puoi essere un cowboy anche senza mucche?”.

Meghann Fahy in Rebuilding 2025 Recensione
Crediti Jesse Hope

Il legame tra i due riecheggia nella fiaba che Callie-Rose legge per la scuola, quella del bambino convinto che i suoi stivali magici gli permettano di viaggiare ovunque, finché non comprende che la vera magia è dentro di lui. È la stessa lezione che impara Dusty: non serve fuggire per ricominciare, basta trovare dentro di sé la forza per ricostruire, “rebuild”.

Il volto umano dell’Ovest americano

Con una fotografia calda e naturale, Rebuilding restituisce la bellezza malinconica dell’Ovest americano, tra tramonti rossastri e spazi infiniti. La regia e la sceneggiatura di Walker-Silverman abbracciano la lentezza come linguaggio, trasformando il tempo in uno spazio emotivo in cui i personaggi possono respirare.

Josh O’Connor è notevole nella sua interpretazione, trattenuta ma intensissima: un uomo ferito, fragile, che trova nella semplicità la propria redenzione e un forte desiderio di ricominciare. Accanto a lui, il cast secondario – come Kali Reis, che interpreta Mali – rafforza il senso di autenticità del racconto.

Walker-Silverman costruisce così un film universale, dove il dolore e la speranza convivono, e dove la rinascita non è un trionfo ma un atto di resistenza quotidiana.

I Fantastici Quattro: Gli Inizi dal 5 novembre su Disney+

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I Fantastici Quattro: Gli Inizi dal 5 novembre su Disney+

Il film Marvel Studios I Fantastici Quattro: Gli Inizi (qui la recensione) arriverà in streaming il 5 novembre, in esclusiva su Disney+. Con Pedro Pascal, Vanessa Kirby, Joseph Quinn ed Ebon Moss-Bachrach nei panni della Prima Famiglia Marvel, l’ultima avventura del Marvel Cinematic Universe segue Reed Richards (Mister Fantastic), Sue Storm (Donna Invisibile), Johnny Storm (Torcia Umana) e Ben Grimm (la Cosa) nel loro viaggio attraverso il cosmo, alla scoperta del cuore, dell’umorismo e dei legami familiari che li rendono davvero fantastici.

Conciliare la vita familiare con il loro ruolo da eroi è solo una delle sfide che i Fantastici 4 devono affrontare, ma lo fanno insieme, come una famiglia! Il loro più grande potere è il legame che li unisce, che trascina il pubblico in un vivace mondo retro-futuristico che celebra la connessione, il coraggio e il cuore. “Certified Fresh” e “Verified Hot” su Rotten Tomatoes®, I Fantastici 4: Gli Inizi è tra i dieci film di maggior incasso del 2025, sia negli Stati Uniti che a livello globale. I critici lo hanno definito “uno dei migliori film di supereroi di tutti i tempi” (Ryan Britt, Men’s Journal), elogiandone “lo spettacolo mozzafiato e l’azione epica” (Josh Wilding, Comic Book Movie).

Il film Marvel Studios I Fantastici 4: Gli Inizi sarà il prossimo titolo in IMAX Enhanced disponibile su Disney+, con l’esclusivo formato espanso IMAX per tutti gli abbonati della piattaforma streaming, garantendo che l’intento creativo dei filmmaker sia pienamente preservato per un’esperienza visiva più coinvolgente. Gli abbonati con TV e ricevitori AV certificati possono anche sperimentare il suono IMAX Enhanced con tecnologia DTS:X, che riproduce l’intera gamma dinamica del mix cinematografico originale.

La colonna sonora originale del film Marvel Studios I Fantastici 4: Gli Inizi, con musiche originali del compositore Michael Giacchino, vincitore di Academy Award®, Emmy® e Grammy®, è disponibile su Spotify, Apple Music, Amazon Music, YouTube Music e altre piattaforme digitali.

I Fantastici 4: Gli Inizi
Sullo sfondo di un mondo retro-futuristico ispirato agli anni ‘60, la Prima Famiglia Marvel è alle prese con una sfida difficile. Costretti a bilanciare il loro ruolo di eroi con la forza del loro legame familiare, devono difendere la Terra da una divinità spaziale e dal suo enigmatico Araldo.

Scommessa con la morte: la spiegazione del finale del film

Scommessa con la morte: la spiegazione del finale del film

Scommessa con la morte (The Dead Pool, 1988) rappresenta il quinto e ultimo capitolo della celebre saga dedicata all’ispettore Harry Callahan, interpretato da Clint Eastwood. Dopo il successo dei precedenti film — da Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! a Coraggio… fatti ammazzare — questo episodio segna la chiusura di un’epoca, portando con sé un tono più riflessivo e ironico. Eastwood riprende il suo iconico ruolo con la consueta freddezza e determinazione, ma anche con una sottile consapevolezza del tempo che passa: Callahan è un uomo che continua a combattere il crimine con i propri metodi, pur sentendo il peso di una carriera costellata da violenza e solitudine.

Rispetto ai capitoli precedenti, Scommessa con la morte introduce elementi di metacinema e critica ai media, ambientando la storia nel mondo dello spettacolo e del giornalismo sensazionalista. La trama ruota attorno a un gioco macabro, una “dead pool” — una lista di celebrità che, secondo una scommessa, moriranno entro l’anno — in cui il nome di Callahan compare per errore. Da semplice poliziotto in lotta contro il male, Harry diventa egli stesso bersaglio, costretto a confrontarsi con la spettacolarizzazione della morte e con l’immagine di eroe mediatico che gli viene cucita addosso.

Il film, diretto da Buddy Van Horn, mescola azione, thriller e una vena di satira sociale, riflettendo sui pericoli dell’ossessione per la fama e sulla manipolazione della verità da parte dei media. Il personaggio di Callahan, pur restando fedele ai suoi principi, appare più umano e disilluso, in bilico tra la giustizia e il cinismo di un mondo in cui tutto diventa intrattenimento. Nel resto dell’articolo, si analizzerà il finale del film, spiegandone il significato e come esso chiuda idealmente la parabola dell’ispettore Callahan.

Scommessa con la morte film

La trama di Scommessa con la morte

L’ispettore Harry Callaghan è ora divenuto una vera e propria celebrità, tanto per i suoi modi poco ortodossi quanto per il suo carattere poco incline all’indulgenza. Grazie alla cattura del boss mafioso Lou Janero, egli finisce su tutte le televisioni, come anche nel mirino di nuovi pericolosi nemici. Come se non bastasse, Callaghan si ritrova nuovamente affiancato ad un partner indesiderato. Si tratta di Al Quan, il quale dovrebbe tenere a bada i violenti modi di fare dell’ispettore. I due si ritrovano da subito a dover collaborare su un caso molto particolare. Un misterioso killer sta infatti seminando il terrore in città uccidendo una serie di personaggi famosi secondo un perverso gioco definito “bingo con il morto”.

Le regole di questo prevedono che a vincere è chi, entro un certo limite di tempo, annovera nella propria lista il maggior numero di morti. L’autore di tale follia viene identificato in Peter Swan, regista di film dell’orrore. Nella sua lista, compare tra gli altri proprio il nome di Callaghan, il quale non è ovviamente lieto di ciò. Per poter riuscire a prevalere, l’ispettore dovrà nuovamente utilizzare tutta la sua astuzia, cercando di prevedere le mosse del rivale. Anticipare queste sarà infatti l’unico modo con cui poter arrivare a lui, fermandolo una volta per tutte. Nel compiere ciò, però, Callaghan dovrà inoltre assicurarsi che nessun altro si faccia male. Un compito stavolta particolarmente complesso.

La spiegazione del finale del film

Nel terzo atto di Scommessa con la morte, la tensione esplode quando il vero colpevole degli omicidi viene finalmente identificato: Harlan Rook, un fan squilibrato convinto che il regista Peter Swan gli abbia rubato le idee. Dopo aver seminato terrore uccidendo personaggi pubblici inclusi nella “dead pool”, Rook prende di mira la giornalista Samantha Walker, attirandola con un finto invito a un’intervista. Fingendosi Swan, la rapisce e la conduce nei suoi studi cinematografici, dove Callahan, intuendo la trappola, si lancia in un’operazione disperata per salvarla, affrontando l’assassino nel suo stesso territorio.

Il confronto finale tra Callahan e Rook si trasforma in una caccia mortale tra le scenografie abbandonate del set, un luogo che diventa simbolicamente un campo di battaglia tra realtà e finzione. Callahan è costretto a consegnare la sua pistola per salvare Samantha, ma con la solita prontezza riesce a ingannare il suo avversario e a condurlo fino a un molo. Qui, in un gesto che richiama il tono ironico e spietato della saga, Callahan uccide Rook sparandogli con un cannone spara-fiocine, impalandolo sul posto. L’ispettore recupera la sua arma e si allontana con Walker, lasciando che la polizia e i media accorrano solo a tragedia compiuta.

Scommessa con la morte cast

Il finale di Scommessa con la morte rappresenta una chiusura perfetta per la figura di Harry Callahan. L’eroe, come nei capitoli precedenti, resta un uomo solo che agisce al di fuori delle regole, ma stavolta lo fa in un mondo dove il confine tra spettacolo e crimine si è ormai dissolto. La morte di Rook, un fan ossessionato dal successo, è il rovescio speculare di quella fama che i media hanno imposto a Callahan. L’ispettore, pur restando fedele ai propri principi, sembra ormai consapevole del paradosso di essere diventato egli stesso parte del sistema che disprezza.

Questo epilogo chiude idealmente la parabola del personaggio, evidenziando la contraddizione tra giustizia personale e giustizia istituzionale. Se negli episodi precedenti Callahan incarnava la legge fatta uomo, qui è più un simbolo della resistenza all’assurdità del mondo moderno, dove anche il crimine si trasforma in spettacolo. La violenza resta la sua unica lingua, ma ora è anche un gesto di liberazione da un sistema che riduce ogni tragedia a contenuto mediatico. La morte di Rook non è solo la fine di un assassino, ma anche il rifiuto del circo della notorietà.

Alla fine, Scommessa con la morte ci lascia con un messaggio amaro ma lucido: la giustizia, in un mondo dominato dall’immagine e dal profitto, è un concetto sempre più fragile. Callahan non è un eroe classico, ma un uomo che continua a combattere nonostante l’inevitabile sconfitta morale del suo tempo. Il film suggerisce che il vero coraggio sta nel mantenere la propria integrità anche quando tutto intorno si svuota di senso, e in questo, l’ispettore Callahan resta una figura senza tempo.

Nunzia De Stefano e Matteo Garrone presentano Malavia alla Festa del Cinema di Roma

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Dopo l’esordio visto alla Mostra di Venezia, Nevia, Nunzia De Stefano torna a dirigere un lungometraggio per il cinema, Malavia, presentato nella sezione Freestyle della 20° edizione della Festa del Cinema di Roma.

“Malavia nasce dalla necessità di indagare il mondo dei giovani d’oggi. Anche il fatto che io sia madre, mia ha spinto a affrontare questo tema, anche alla luce del fatto che mio figlio ama la musica rap proprio come il protagonista del film.” ha spiegato Nunzia De Stefano in occasione della conferenza stampa esclusiva organizzata per il film. “Non conoscevo la musica rap e non sapevo dove ambientare il film, fino a che non ho approfondito la scena napoletana, una conoscenza che mi ha aperto molte strade.”

Il racconto di Malavia

SASÀ è uno scugnizzo di tredici anni, della periferia di Napoli. Trascorre le giornate con i suoi due migliori amici, CIRA e NICOLAS, ascoltando musica rap. Cresciuto senza padre, vive da solo con la sua giovane madre RUSÈ. Tra i due c’è un legame molto profondo, che spesso sfocia in una sproporzionata gelosia da parte del figlio. Amante dell’hip hop e dotato di un grande talento musicale, Sasà aspira a diventare un rapper famoso per permettere alla madre una vita migliore.

L’incontro con YODI, noto rapper della old school partenopea, sembra dare slancio al suo sogno e lo porta a comporre il suo primo vero pezzo: un rap dedicato a Rusè. Tuttavia, lo scontro con la realtà cinica del mondo della musica e della strada, costringe Sasà ad abbandonare le proprie aspirazioni. Disilluso, cede alla criminalità pur di aiutare economicamente la madre, ritrovandosi a spacciare nel cortile della scuola. Quando viene scoperto, rischia di perdere tutto. Divorato del senso di colpa, dal dolore provocato a Rusè e dalla possibilità di essere portato in una casa-famiglia, Sasà sprofonda in una forte depressione dalla quale non sembra esserci via di uscita. Soltanto un nuovo incontro con Yodi riesce a far breccia nell’animo del ragazzino, facendogli ritrovare l’entusiasmo perduto con il quale affrontare il futuro, qualunque cosa accadrà.

Foto Credits Gianni Fiorito

“Oggi siamo un po’ distratti nei confronti dei giovani, manca un po’ quella che a Napoli chiamiamo ‘carnalità’ tra un genitore e un figlio. Ed è importante che le nuove generazioni vedano questo film”, sottolinea la regista.

Nunzia De Stefano racconta un ragazzo con una passione

Per il produttore Matteo Garrone, Malavia – scritto da De Stefano con Giorgio Caruso – è un film che racconta “di un ragazzo con una passione e questo è già un grande traguardo perché uno dei problemi delle nuove generazioni è proprio l’apatia. Non so le ragioni, quello che so è che i ragazzi di oggi stanno crescendo in un’era digitale sono completamente diversi da noi, dal nostro mondo, e quindi è complesso riuscire a capirli. I social creano dei modelli che danno delle illusioni e ci sono delle conseguenze che spesso i ragazzi pagano senza avere la consapevolezza”. 

Invitato a commentare i tagli al fondo dedicato alle produzioni dell’audiovisivo in Italia, Matteo Garrone ha risposto: “Spesso vengono fatte delle critiche, anche da persone della politica importanti, rispetto alla difficoltà di certi film di incassare in sala. Ma ciò che non viene detto, e questo lo dico da produttore, è che oggi, rispetto al passato, i film vengono visti in tanti modi. Quindi, se il successo del film dipende dal numero di persone che lo vanno a vedere in sala, facciamo un errore madornale. Questo era vero negli Anni 60 e 70, quando ci andavano otto persone rispetto a una di oggi. Però non c’erano non c’erano altre forme per vedere i film”.

Foto Credits Gianni Fiorito

Povere creature!, la spiegazione del finale del film

Povere creature!, la spiegazione del finale del film

Povere creature! (qui la recensione) di Yorgos Lanthimos si conclude con Bella Baxter, interpretata da Emma Stone, che vive alla grande nella tenuta di Godwin (Willem Dafoe) dopo la sua morte. Il film segue Bella nel suo viaggio da creatura alla Frankenstein a donna a tutti gli effetti, mentre impara le vie del mondo attraverso varie esperienze che la cambiano e la aiutano a comprendere le complessità della sua esistenza. Povere creature! conclude la storia di Bella con la sua fuga dalla tenuta di Alfie Blessington (Christopher Abbott) dopo aver cambiato idea sul matrimonio con Max (Ramy Youssef), ma lei è rapidamente infastidita dalle minacce e dai tentativi di Alfie di controllarla.

Sentendosi intrappolata e desiderosa di andarsene, Bella finisce per sparare ad Alfie al piede e portarlo a casa con sé. Con Godwin ormai morto, Bella esegue il suo primo esperimento: scambia il cervello di Alfie con quello di una capra. Alla fine di Povere creature!, Bella ottiene la sua versione di un lieto fine: lei, Max, Felicity (un’altra creazione di Godwin) e Toinette, la sua amica del bordello di Parigi, vivono insieme nella tenuta di Godwin. Duncan non si vede da nessuna parte, ma il finale di Povere creature! vede Bella nella fase successiva del suo viaggio.

La spiegazione dell’esperimento di Godwin e la creazione di Bella

Il dottor Godwin Baxter è uno scienziato su cui suo padre ha fatto degli esperimenti e, sebbene non avesse intenzione di creare qualcuno come Bella, Godwin ha visto un’opportunità che non poteva lasciarsi sfuggire quando ha trovato il corpo quasi senza vita di Victoria sulla riva dopo che lei si era gettata dal ponte. Sperimentare su Bella inserendo la mente infantile del bambino di Victoria nel corpo di una donna adulta era intrigante per Godwin, che ha potuto esaminare da vicino la sua crescita.

Tuttavia, più che creare Bella per motivi scientifici, Godwin era solo e voleva una compagna al suo fianco. Suo padre era sempre stato crudele con lui, e Godwin apprezzava l’affetto che Bella gli dava come figura paterna, arrivando ad amarla come una figlia. La presenza di Bella e la sua propensione all’apprendimento portavano gioia a Godwin e gli davano l’amore che gli era stato negato nella sua vita. Godwin capiva Bella anche perché, in misura minore, non era estraneo alla sperimentazione, ma Bella gli aprì ulteriormente il cuore. Senza di lei, Godwin sarebbe stato senza scopo, concentrato esclusivamente sulla scienza, senza alcun affetto nella sua vita.

Povere Creature! film

Perché Bella ha lasciato Max all’altare per Alfie Blessington

Bella Baxter era infinitamente curiosa. Sebbene sembrasse soddisfatta della sua decisione di sposare Max, non aveva ancora finito di esplorare e imparare. Voleva soprattutto conoscere la verità, soprattutto dopo che le avevano mentito per tutta la vita. Così, quando Alfie Blessington si presentò per fermare il matrimonio, Bella andò con lui per scoprire com’era la vita di Victoria prima di rinascere come “Bella”, poiché Victoria era un pezzo del puzzle che Bella non aveva ancora capito del tutto.

È anche possibile che Bella non fosse del tutto convinta di dover sposare Max, e che questa non fosse la prima volta che lo lasciava per esplorare il mondo e altre relazioni. È anche possibile che Bella sentisse che una vita con Alfie sarebbe stata più interessante, anche se non aveva intenzione di restare per sempre. Bella lascia Max all’altare nonostante abbia accettato di sposarlo e lo lascia per andare con Blessington, ma anche dopo essere fuggita da Alfie, Povere creature! non conferma mai se Bella abbia sposato Max dopo essere tornata a casa o meno.

Il finale del film vede la coppia di buon umore e non sembra esserci alcuna animosità tra loro. Come accennato in precedenza, Bella e Max continuano a vivere la loro vita e a prendersi cura della tenuta insieme, ma non è chiaro se Bella si sposerà mai dopo le sue esperienze con Duncan e Alfie. È possibile che quelle stesse esperienze, insieme alla sua “educazione” con Max sempre vicino a lei, abbiano fatto capire a Bella che lei e Max possono stare insieme senza i vincoli del matrimonio o, semplicemente, che possono essere buoni amici.

Mark Ruffalo Povere creature

Perché Duncan riunisce Bella e Alfie nonostante voglia stare con lei

Duncan e Bella sono scappati insieme e inizialmente vivevano una vita meravigliosa, ma dopo i tentativi di Duncan di controllare Bella, lei ha deciso che lui non andava più bene e lo ha lasciato. Da allora, Duncan viene rifiutato da Bella più volte e non riesce a sopportarlo. Eppure, nonostante tutto, voleva stare con lei, anche solo per continuare a esercitare il suo controllo. Riunendo Bella e Alfie, Duncan non voleva altro che punire Bella per non aver scelto lui.

Duncan sapeva che lei aveva avuto una vita prima di lui come Victoria, e trovare Alfie Blessington per lei era il suo modo di farla soffrire. Duncan sapeva che Blessington non avrebbe trattato bene Bella e avrebbe cercato di controllarla, e gli piaceva l’idea che lei non sarebbe stata felice senza di lui, perché se non poteva avere Bella, allora Duncan avrebbe fatto in modo che fosse infelice. In modo contorto, Duncan stava probabilmente cercando di far capire a Bella quanto fosse felice con lui; lei non lo capiva, ma Duncan pensava solo a se stesso e ai suoi sentimenti feriti.

Il vero significato dietro la scelta di Bella di diventare medico

Verso la fine di Povere creature!, Bella decide di voler diventare medico. Per molto tempo dopo la crociera, e dopo aver visto il peggio dell’umanità e ciò che la vita offre ad alcuni ma non ad altri, Bella ha voluto aiutare il mondo a modo suo. Essere medico le avrebbe permesso di farlo, e avrebbe anche seguito le orme di Godwin e portato avanti il suo lavoro. Bella ha dimostrato di avere un talento per la chirurgia con ciò che ha fatto ad Alfie, ed è probabile che voglia continuare a fare ciò che ritiene giusto. Essere un medico le permetterebbe di aiutare le persone e, forse, di sperimentare di più in futuro, proprio come ha fatto Godwin.

Povere Creature! Emma Stone

Com’era la vita di Bella prima della sua morte e resurrezione?

Prima di essere resuscitata da Godwin, Bella era Victoria Blessington, una donna ricca che si divertiva a compiere atti crudeli insieme ad Alfie nei confronti del suo personale. A differenza di Bella, che desiderava solo esplorare tutto ciò che la vita aveva da offrire, Victoria sembrava accontentarsi di rimanere a casa o frequentare l’alta società. Tuttavia, la gravidanza di Victoria la cambiò: odiava il bambino ed è possibile che iniziasse a sentirsi intrappolata, sia nella maternità che nella sua vita. Poiché queste informazioni provengono da Alfie, non da Victoria, è probabile che ci sia dell’altro, ma la rinascita di Victoria come Bella le ha dato una vita completamente nuova.

Cosa ha detto il regista Yorgos Lanthimos sul lieto fine di Bella in Povere creature!

Povere creature! ha un finale sorprendentemente felice che molti non si aspettavano, date le precedenti opere di Lanthimos, che non sono note per concludersi con una nota ottimistica. Nonostante tutto ciò che accade nel film, tra i percorsi dei personaggi, i loro contesti, le ambientazioni surreali, la musica e altro ancora, è Bella quella che spicca in ogni momento. L’impatto di Bella è stato tale che, secondo Lanthimos e lo sceneggiatore Tony McNamara, ha cambiato il finale. Lanthimos e McNamara hanno detto a Polygon che essere fedeli a Bella significava essere “in definitiva fedeli a un’idea di questo tipo di ottimismo riguardo all’avventura della vita”, ed è questo che ha portato Bella ad avere un lieto fine in Povere creature!.

Invasion – Stagione 3, la spiegazione del finale: dove va Mitsuki?

Creata da Simon Kinberg e David Weil, la serie Invasion di Apple TV+ racconta la storia della perdita e dell’appartenenza attraverso gli occhi di una civiltà che deve affrontare un’invasione aliena. Mentre gli attacchi extraterrestri sfuggono alla comprensione umana, la serie sceglie invece di decifrare la reazione umana altrettanto sconcertante, con diversi filoni di pensiero che affrontano la crisi in modo diverso. I tre protagonisti, Trevante Cole, Mitsuki Yamato e Aneesha Malik, provengono tutti da contesti diversi, ma si ritrovano nella stessa situazione di terrore esistenziale, che li porta a unirsi nella resistenza contro le forze aliene. La terza stagione segue due anni di silenzio, interrotti da una nuova ondata di attacchi, questa volta da parte di entità più avanzate e ambigue. L’episodio finale della stagione, intitolato “The End of the Line”, funge sia da omaggio ai progressi compiuti finora dai personaggi che da sua estensione, con più fronti di battaglia che si uniscono per fare eco al desiderio di sopravvivenza dell’umanità. SPOILER IN ARRIVO.

Cosa succede nella terza stagione di Invasion

Il finale inizia con Aneesha sulle tracce di Marilyn, senza prestare molta attenzione al peggioramento delle condizioni dei soldati. Mentre avanza, concentrandosi sul coglierli di sorpresa, è evidente che la morte di Clark ha influenzato il suo giudizio. Nel frattempo, il culto Infinitas inizia a crollare dall’interno con l’aumentare della richiesta di aria respirabile. Infuriata, Marilyn decide di continuare da sola il percorso verso la nave madre, notando le radici degli alberi luminose che potrebbero condurla al centro della megastruttura. Quando Aneesha raggiunge la squadra, è già troppo tardi e, mentre scoppia una sparatoria, lei fugge da sola, sperando di raggiungere la leader della setta. Altrove, Trevante, insieme a Jamila e Nikhil, raggiunge il precipizio della nave madre, ma ha paura a causa del suo trauma persistente. Jamila gli chiede di riporre la sua fiducia nel piano e nella loro nuova amicizia, e con questo, il trio va avanti.

Una volta raggiunti gli alberi, Marilyn incontra nientemeno che Mitsuki e rivela di aver studiato a fondo la specialista delle comunicazioni. In seguito, cerca di convertire Mitsuki in una sostenitrice di Infinitas, data la sua capacità di comprendere e connettersi con gli alieni. Tuttavia, questo scambio viene interrotto da Aneesha, costringendo Marilyn ad aprire il fuoco e poi a correre da sola all’ingresso della nave madre. Ferita, Aneesha fatica ad andare avanti e trova aiuto in Mitsuki. Insieme, riflettono sul peso di continuare questa battaglia per la sopravvivenza nonostante sappiano che le probabilità sono contro di loro, ma la dottoressa rifiuta di rinunciare alla speranza. Ricordando le ultime parole di Clark, ribadisce l’importanza di continuare a provare e mostra la sua fiducia nel potenziale innato dell’umanità di migliorare come specie. Questo dà a Mitsuki la spinta finale di cui ha bisogno e lei decide di provare ancora una volta a usare i suoi poteri per il bene comune.

Altrove, Trevante e il suo gruppo incontrano un problema quando gli alieni iniziano ad attaccare le loro vulnerabilità mentali. In poco tempo, sia lui che Nikhil si bloccano sul posto, con la mente che torna ai ricordi traumatici del loro passato. Per Trevante, si tratta di una serie di esperienze di perdita, che si tratti della sua unità, di suo figlio o, alla fine, di Caspar. Per Nikhil, invece, è il ricordo d’infanzia di aver rubato dei soldi, un atto che ha portato alla morte di sua madre. Jamila è l’unica che sembra non essere influenzata da questo attacco alla memoria, eppure i suoi tentativi di riportarli indietro non danno alcun risultato. In quel momento, Mitsuki ristabilisce una connessione con le radici aliene e un flashback rivela che Nikhil ha cercato di salvarla quando il WDC ha iniziato a sperimentare sul suo corpo, ma è stato allontanato con la forza dalla scena. Venire a conoscenza di questo fatto scuote l’intero sistema di credenze di Mitsuki, che capisce di dover intervenire e proteggere le persone a cui tiene.

Dove va Mitsuki? È viva o morta?

Golshifteh Farahani e Enver Gjokaj in Invasion - Stagione 3
Cortesia di Apple Tv

Dopo diversi episodi che si traducono in anni di repressione fisica, emotiva e psicologica, Mitsuki trova un momento di liberazione strappando via il chip impiantato sulla sua nuca. Creato originariamente per limitare la sua connessione psichica con gli alieni, l’impianto ora costituisce un ostacolo sul percorso dell’umanità verso la vittoria. Pertanto, sebbene la mossa sia di natura profondamente personale, essa svolge anche un ruolo importante nella macronarrazione di “Invasion”. Con tutti i suoi poteri ritrovati, Mitsuki compie una mossa audace per salvare Trevante, Nikhil e Jamila, intrappolati nelle profondità della nave madre. Irrompendo nella rete di comunicazioni extraterrestri, Mitsuki attira l’attenzione di tutti gli alieni su di sé, anche se questo la espone a un rischio ancora maggiore. Alla fine, sopravvivere alla furia aliena non le porta molti vantaggi, poiché pochi istanti prima di ricongiungersi con Nikhil, viene trascinata in aria da un portale che svanisce poco dopo averla consumata.

Sebbene il rapimento di Mitsuki sia pensato per essere un momento di sorpresa, la sequenza ha anche un senso di definitività. Levitando nell’aria, la sua mente torna vividamente a tutti i ricordi che hanno costruito i propri angoli nella sua mente, creando un collage delle ultime due stagioni. Sebbene emotivamente potente, la scena può anche essere interpretata come un segno di chiusura, non solo per Mitsuki ma anche per il pubblico. Tuttavia, i momenti finali della stagione mostrano Nikhil che stravolge completamente la sua azienda nella totale dedizione alla ricerca di Mitsuki. In una scena precedente, egli afferma che non deve assolutamente lasciarla andare, un errore che ha già commesso una volta, e questa ambiguità sembra mettere alla prova quella promessa. Dato che Mitsuki è una specialista in comunicazioni e intelligence, la scena in cui Nikhil e tutta la Dharmax esaminano disperatamente ogni telecamera e mappa acquista un senso di ironia, poiché lei potrebbe non essere più nel regno umano.

Nel corso della storia, il profondo legame di Mitsuki con gli alieni è stato uno dei misteri più inspiegabili eppure rilevanti. La sua abilità si intreccia ancora di più con la trama, poiché non solo viene risparmiata dalla morte dai cacciatori-assassini, ma viene anche guarita dai giardinieri, una varietà di entità extraterrestri. A tal fine, è improbabile che questa esperienza del portale significhi la fine del suo personaggio. Al contrario, è possibile che Mitsuki sia stata trasportata direttamente alla base aliena che esiste al di fuori della Terra. Questo salto di portata può significare diverse cose per la storia, ma soprattutto riporta in gioco il suo allineamento. Avendo compreso intimamente la coscienza aliena, il sostegno di Mitsuki all’umanità vacilla in diversi punti, ma è l’umanità dimostrata da Nikhil che riaccende la sua fiducia nella specie. Pertanto, è improbabile che lei si arrenda senza combattere, e i suoi legami con il mondo alieno potrebbero subire la loro più grande prova di resistenza.

Trevante, Nikhil e Jamila distruggeranno la nave madre? Cosa succederà agli alieni?

Shioli Kutsuna in Invasion - Stagione 3
Cortesia di Apple Tv

Nel momento in cui Mitsuki scatena tutta la sua potenza e distoglie l’attenzione da Trevante, Nikhil e Jamila, il trio finalmente coglie la sua grande occasione e entra immediatamente in azione. In particolare, la sincronizzazione delle coscienze significa che Nikhil condivide brevemente i suoi ricordi e pensieri con gli altri due protagonisti. Questo ha un effetto fondamentale sulla sua psiche, poiché non nasconde più il suo desiderio incondizionato di proteggere Mitsuki dal mondo alieno. Questo impegno verso la causa ridefinisce l’intera missione, che finora era stata quella di piazzare una bomba nel cuore della nave madre. Sebbene non si tratti di un esplosivo tipico, la bomba espande la funzione del soppressore neurale di Mitsuki, convertendolo in un’esplosione a forma d’onda in grado di colpire tutti i sistemi di comunicazione degli alieni in un colpo solo. A tal fine, il trio piazza con successo la bomba e la difende abbastanza a lungo da farla esplodere, provocando istantaneamente un blackout nella nave madre.

Sebbene la caduta della nave madre aliena sia comunicata in gran parte dalle immagini, sia che si tratti delle luci che si affievoliscono dalla flora circostante o del crollo degli alieni, la conferma più esplicita della vittoria dell’umanità sugli alieni è che Trevante, insieme al resto della sua squadra, riesce a uscire vivo dalla Zona Morta. Tuttavia, l’assenza di Mitsuki dal gruppo ci ricorda che non si tratta di una vittoria completa per la squadra e che molti sacrifici, fatali o meno, sono stati fatti per arrivare a questo momento. Anche il luogo in cui viene piazzata e successivamente esplode la bomba è cruciale, poiché è lì che Trevante ha compiuto le mosse decisive nel suo precedente tentativo di abbattere la nave. A differenza di quella volta, ora ha l’aiuto di Jamila e Nikhil, che, in sincronia con l’unità dell’esercito, aiutano l’umanità a tornare in carreggiata. La loro attività viene notata dai leader mondiali, che sembrano aver inviato squadre di soccorso. Trevante viene promosso al grado di comandante, ora rispettato invece che temuto dal WDC.

Caspar è reale o è un’allucinazione? Perché scompare?

Invasion 3
Cortesia di Apple Tv

Uno dei principali ostacoli nel viaggio di Jamila, Trevante e Nikhil per rovesciare la nave madre è rappresentato dalla guerra psicologica. Mentre l’attacco è più evidente nel caso degli ultimi due, Jamila si trova ad affrontare una perdita totale di contatto con la realtà. Dai passaggi oscuri della nave emerge Caspar, che da tempo era dato per morto, o almeno scomparso. L’apparizione a sorpresa del prodigio psichico, un tempo uno dei protagonisti della storia, suscita immediatamente allarme, poiché Jamila crede che potrebbe trattarsi di un gioco degli alieni. Tuttavia, Caspar si affretta a rassicurarla che non è così, spiegandole che lei non è influenzata dalla loro malvagità grazie al suo legame con lei. Dato che questo significa la fine per i suoi due compagni di squadra, Jamila rifiuta di cedere e si rende conto invece che la battaglia che l’attende è tanto sul fronte interno quanto su quello esterno. A tal fine, la presenza di Caspar diventa la chiave per cambiare le sorti a suo favore, ma non nel modo previsto.

La consapevolezza di Caspar di non dover essere vivo riflette la struttura più ampia della serie, che in più di un’occasione ha fatto affidamento sul ritorno dal mondo dei morti del personaggio per aiutare i protagonisti a vincere. Questa volta, Jamila collega i puntini dopo aver ascoltato il suo punto di vista sulla presunta sequenza di morte nel primo episodio della stagione. Caspar spiega che l’unica ragione per cui è ancora lì è perché lei gli ha tenuto la mano e ha creduto in lui molto tempo dopo la sua apparente scomparsa, eppure questa sembra essere proprio la debolezza su cui puntano gli alieni. Il ritorno alla realtà di Jamila non è descritto come un momento di trionfo, ma come la solenne consapevolezza che deve lasciarsi il passato alle spalle se vuole davvero andare avanti con la sua vita. Risoluta nella sua decisione, chiude gli occhi e vediamo Caspar, che si rivela essere una figura spettrale, svanire lentamente dall’esistenza. Questo pone fine definitivamente al suo personaggio, dando sia a lui che ai suoi cari la chiusura di cui hanno bisogno.

Marilyn è morta? Aneesha ottiene la sua vendetta su Infinitas?

Mentre all’interno della nave madre si consuma una scena tragica, fuori dai suoi cancelli si scatena il caos e la violenza, quando Aneesha stringe la mano a Marilyn in uno scontro finale. Durante lo scontro, entrambe le parti cercano di difendere la propria posizione, con Marylin che ribadisce la possibilità che le anime dei morti migrino nella nave madre. Questa prospettiva, tuttavia, ricorda in modo inquietante le credenze che Aneesha aveva in un momento precedente della storia, e lei stessa lo fa notare. Inoltre, spiega le insidie di questo modo di pensare e come esso rappresenti un tentativo di fuga dalle esperienze traumatiche che ora uniscono l’umanità. Tuttavia, con il leader della setta che rifiuta di cedere, la lotta continua, terminando solo quando la bomba esplode e la nave madre inizia a morire. Sebbene sconfitta, Marilyn rifiuta di arrendersi e si scaglia contro Aneesha, che la uccide a colpi di pistola, ponendo fine a questo capitolo.

Sebbene Aneesha uccida Marilyn per legittima difesa, c’è anche un’altra dimensione nelle sue azioni, che deriva dal desiderio di vendetta. L’episodio precedente si conclude con il leader della setta che elimina Clark con un attacco a sorpresa, e quella mossa riempie momentaneamente la mente di Aneesha di rabbia e tossicità. È solo più tardi, quando i suoi alleati cominciano a cadere a destra e a manca, che Aneesha si ricorda del bene che possiede, sia come essere umano che come medico, e questa consapevolezza contribuisce in modo determinante a definire la sua battaglia finale con Marilyn. Sebbene la setta di Infinitas utilizzi indubbiamente il terrore a proprio vantaggio, in fondo è una comunità di persone con il cuore spezzato che fanno affidamento sulle loro esperienze apparentemente soprannaturali per dare un senso alla realtà. Secondo questa definizione, il confine tra loro e la nostra protagonista è sfumato, con Marilyn che funge da triste promemoria dei sentieri oscuri che gli esseri umani possono intraprendere quando sono in lutto.

27 Nights, la spiegazione del finale: Martha soffriva davvero di demenza?

Il dramma psicologico argentino Netflix 27 Nights segue Martha Hoffman, un’anziana vedova di 83 anni che viene rinchiusa in un istituto psichiatrico dalle figlie con la scusa che soffre di demenza frontotemporale. Nel film vediamo Leandro Casares, interpretato da Daniel Hendler, esaminare Martha, ma la sua valutazione non giunge mai a una conclusione.

Ma da quello che vediamo come spettatori, è difficile non notare che Martha non soffre di demenza. Al contrario, viene descritta come una donna dallo spirito libero, determinata a vivere il resto della sua vita secondo i propri principi: che si tratti di bere o di incontrare uomini e donne.

Perché Martha è stata accusata di demenza in 27 Nights?

Martha è una ricca vedova che sembra divertirsi un mondo bevendo e festeggiando con i suoi eccentrici amici molto più giovani. Come vediamo nel film, finisce per regalare i suoi beni ai suoi amici o ad altri per capriccio, un fatto che fa arrabbiare le sue due figlie: Myriam e Olga.

Inoltre, come sostengono le sue figlie, continua a fare ingenti investimenti in progetti che secondo quanto riferito sono truffe. Secondo quanto sostengono le figlie, tutti i suoi amici sono truffatori che la sfruttano per denaro.

Il film è liberamente ispirato al caso reale di Natalia Kohen, un’artista anziana dichiarata ingiustamente incapace e ricoverata in un istituto dalle figlie, solo per essere poi dichiarata mentalmente sana e rilasciata. Ispirandosi al caso reale, anche Martha viene manipolata dalle figlie e confinata in un istituto psichiatrico.

Inoltre, come scopre Casares durante le sue indagini e l’esame delle cartelle cliniche di Martha, la diagnosi di demenza di Orlando Narvaja potrebbe essere stata falsificata dall’esaminatore che l’ha fatta ricoverare. Alla fine, Martha negozia e raggiunge un accordo con le figlie.

Come finisce per Martha in 27 Nights?

27 Nights

Alla fine di 27 Nights, Casares non riesce a portare a termine la sua perizia come avrebbe voluto. Inoltre, poiché aiuta Martha a fuggire dalla reclusione nella sua casa, le sue relazioni vengono respinte. Anche le relazioni mediche di Narvaja vengono respinte.

Martha raggiunge un accordo con le figlie, Myriam e Olga. È ritenuta incapace di essere autonoma e, secondo i termini dell’accordo, non può vendere o ipotecare i suoi beni; non può acquistare nuove proprietà, costituire società o firmare accordi; non può sposarsi o lasciare il Paese. Per qualsiasi delle condizioni sopra menzionate, deve ottenere il permesso delle figlie.

Inoltre, tutto il suo capitale e i suoi beni sono posti sotto la tutela di un amministratore fiduciario. Casandro viene successivamente nominato amministratore fiduciario dopo un accordo tra le madri e le figlie. Come si scopre, Martha finisce per vivere fino a 104 anni, conservando la sua libertà e il suo stile di vita eccentrico.

Il finale è allo stesso tempo scioccante e soddisfacente, lasciando gli spettatori a riflettere sulla libertà, la famiglia e il controllo. Cosa ne pensate dell’adattamento di Daniel Hendler del romanzo Veintisiete noches dell’autrice argentina Natalia Zito? Fatecelo sapere nei commenti qui sotto.

27 Nights è una storia vera? cosa è successo a Martha Hoffman nella vita reale?

Diretto da Daniel Hendler, 27 Nights di Netflix è un film drammatico argentino in lingua spagnola che segue Martha Hoffman, una famosa collezionista d’arte tanto ricca quanto audace. Il suo stile di vita avventuroso, tuttavia, la mette in conflitto diretto con le sue figlie, e le cose precipitano quando viene ricoverata in una struttura psichiatrica senza il suo consenso. Segue un’estenuante analisi della sua psiche, con un esperto nominato dal tribunale che porta alla luce la verità nascosta dietro molti strati di pensieri e desideri. A tal fine, anche lui è costretto a guardarsi dentro e a decifrare i limiti che si è imposto. Sebbene il viaggio riguardi espressamente la diagnosi e il destino finale di Martha, racchiude anche una serie di ansie moderne sull’azione del corpo e della mente.

27 Nights reinterpreta il caso reale della scrittrice e artista Natalia Kohen

Sebbene il film “27 Nights” sia vagamente ispirato all’omonimo romanzo della scrittrice Natalia Zito, entrambe le opere condividono una caratteristica biografica, con la vita reale dell’artista e scrittrice Natalia Kohen che funge da fonte di ispirazione parziale. Scritto da Daniel Hendler, Mariano Llinás e Martín Mauregui, il film raccoglie i numerosi racconti radicati nella realtà e aggiunge il proprio tocco creativo, dando vita a una storia che solleva diverse questioni mediche, etiche e morali in un colpo solo.

Il cuore della storia attinge dal doloroso episodio realmente accaduto a Natalia Kohen, alla quale, all’età di 86 anni, fu erroneamente diagnosticata la malattia di Pick, una forma di demenza frontotemporale che compromette le capacità comunicative di una persona. Poco dopo, nel 2005, è stata ricoverata con la forza in una clinica psichiatrica, dove ha trascorso 27 notti, come riportato da Global Comment, un dettaglio che probabilmente ha influenzato la scelta del titolo del film.

Nata nella provincia argentina di Mendoza nel 1919, Natalia era una studiosa di letteratura e filosofia, nonché appassionata d’arte. Dopo il matrimonio con Mauricio Kohen, un magnate dell’industria che fondò l’azienda farmaceutica Argentia, Natalia assunse il ruolo di direttrice della Fondazione Argentia. Poco dopo la morte del marito, la loro figlia maggiore, Nora Kohen, subentrò come nuova responsabile e le cose rimasero così per circa un altro decennio. Tuttavia, tutto si interruppe quando Natalia annunciò il suo interesse a contribuire alla creazione di un centro d’arte locale.

Natalia Kohen fu ricoverata in un istituto psichiatrico contro la sua volontà

27 Nights finale

A seguito di disaccordi sulle finanze, le figlie di Natalia, Nora e Claudia, avrebbero iniziato a consultare uno psicoterapeuta per la madre. Le sorelle cercarono presto un neurologo di nome Dr. Facundo Manes. In particolare, gli avvocati di Natalia le consigliarono di agire immediatamente o di rischiare di essere ricoverata ingiustamente, ma lei respinse quel pensiero come una reazione eccessiva. In breve tempo, è stata dichiarata bisognosa di assistenza medica urgente, con conseguente ricovero coatto presso l’Ineba, noto anche come Instituto de Neurociencias de Buenos Aires.

La fonte primaria che descrive in dettaglio le esperienze vissute da Natalia Kohen dopo il suo ricovero in una clinica psichiatrica proviene da un rapporto dettagliato di Página 12. Nell’articolo pubblicato il 13 luglio 2006, Natalia descriveva la sua vita rigidamente regolamentata all’interno dell’istituto e come questo l’avesse traumatizzata. Determinata a cambiare le cose, contattò i suoi amici dall’interno dell’istituto e successivamente lanciò una campagna pubblica, completa di indagini giornalistiche, che la costrinse a lasciare l’istituto in anticipo.

Tuttavia, la vita nella sua residenza si rivelò altrettanto difficile per Natalia, che ricordava le limitazioni su dove poteva andare e con chi poteva interagire. Fu in quel periodo che decise di portare la questione in tribunale, presentando una denuncia contro il dottor Facundo Manes per la presunta creazione di referti medici falsi. Il caso fece notizia a livello nazionale, con questioni relative all’agenzia medica e ai diritti di proprietà al centro del dibattito.

Il procedimento giudiziario ha portato alla luce diverse verità nascoste relative alla diagnosi errata di Natalia

Nella sua intervista a Página 12, Natalia ha affermato che la diagnosi di malattia di Pick fatta da Facundo Manes era falsa, richiamando l’attenzione sulle presunte lacune nel processo diagnostico. Secondo quanto riferito, all’inizio del procedimento, l’istituto FLENI, dove Manes lavorava come neurologo, ha affermato di non avere alcuna documentazione relativa alla valutazione di Natalia presso la propria struttura, il che sembrava rafforzare le sue affermazioni. Successivamente, il 5 giugno 2005, Manes ha rilasciato un nuovo certificato medico in cui si affermava che i sintomi manifestati da Natalia erano compatibili con la diagnosi originale di morbo di Pick.

Tuttavia, è stato subito fatto notare che questo documento non era stato firmato da Manes, ma dal suo avvocato, Griselda Russo, che ha ammesso di non aver mai valutato personalmente Natalia. Questo, insieme all’incongruenza dei due certificati e delle descrizioni allegate, ha portato a una sentenza della corte d’appello del 16 ottobre 2007, in cui si affermava che Natalia Kohen non soffriva di demenza frontotemporale.

Sebbene la corte abbia dichiarato nulla la diagnosi medica di demenza di Natalia, sulla base sia delle perizie sia delle discrepanze nelle informazioni fornite dal FLENI, Natalia è stata comunque ritenuta legalmente incapace. Un team di tre esperti ha riferito che presentava sintomi caratteristici della sindrome psico-organica, che rientra nella categoria più ampia dei disturbi mentali organici. Questa diagnosi ha ulteriormente influenzato la decisione del giudice di assegnare un curatore definitivo a Natalia.

In materia legale, il ruolo di un curatore è tradizionalmente quello di gestire le finanze e i beni per conto di qualcuno che non è in grado di farlo. Tuttavia, nel caso di Natalia, le condizioni sono state modificate, con il cambiamento più significativo rappresentato dalla rimozione di qualsiasi limite alle sue spese mensili. Natalia è morta nel 2022, all’età di 103 anni, lasciando dietro di sé un’importante eredità culturale. Secondo un documentario del 2009 sulla sua esperienza, negli anni successivi al caso ha riconciliato il suo rapporto con le figlie.

27 Nights riunisce sotto lo stesso tetto le questioni scottanti del passato e del presente

La narrazione di “27 Nights” tiene conto di diversi dettagli di questa storia vera e utilizza una licenza creativa per collegarli tra loro. Tuttavia, i creatori del film hanno parlato a lungo della loro intenzione di non esitare a dare vita alla rilevanza politica e contemporanea della storia. In una conversazione con Variety, il produttore Santiago Mitre ha sottolineato gli aspetti unici del film, affermando che, invece di puntare sullo spettacolo, il film mette in luce i dettagli più sottili della psicologia umana e le interazioni sottili che danno peso alle note drammatiche.

Da lì, Mitre ha anche parlato delle dimensioni politiche del film, dicendo che “anche se è sottovalutato, non posso fare a meno di collegarlo all’attuale drammatica situazione politica in Argentina. Ogni mercoledì assistiamo alla repressione da parte dello Stato di anziani che chiedono semplicemente condizioni di vita migliori. In questo contesto, raccontare la storia di una donna che cerca di essere felice diventa, a suo modo, un atto politico, un riflesso del Paese in cui viviamo oggi”.

La scrittrice e psicoanalista Natalia Zito, autrice del romanzo originale su cui è parzialmente basato il film, ha affrontato la narrazione da una prospettiva diversa, come spiegato nella sua conversazione con GPS Audio Visual. Ha spiegato che la storia riguarda, in parte, il modo in cui percepiamo la vecchiaia, aggiungendo che tratta di “ciò che riteniamo possibile in quel momento e ciò che invece ci disturba, soprattutto per le donne, e la questione di chi eredita è un argomento controverso”. In quanto tale, “27 Nights” funge da punto di incontro per una miriade di questioni sociali, trasformando il grande schermo in una piattaforma per un’indagine più approfondita sulla verità.

La terrificante storia vera dietro alla serie Netflix Il Mostro

La terrificante storia vera dietro alla serie Netflix Il Mostro

Con Il Mostro, Netflix riapre una delle pagine più oscure e controverse della storia italiana: quella del Mostro di Firenze, un nome che evoca ancora oggi paura, mistero e inquietudine. La serie, diretta da Stefano Sollima, non è solo una ricostruzione dei delitti che terrorizzarono la Toscana tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta, ma un racconto sulle ossessioni di un Paese, sulle ombre di un’epoca e sull’impossibilità di dare risposte definitive a un caso che continua a dividere opinione pubblica e studiosi. Sollima sceglie di restituire la complessità del mito e della cronaca, alternando fedeltà storica e libertà narrativa, in una rappresentazione cupa e viscerale dell’Italia di quegli anni.

Gli omicidi del Mostro di Firenze: una lunga scia di terrore

La serie affonda le sue radici nei fatti reali che sconvolsero la provincia fiorentina. Tra il 1968 e il 1985, una serie di sette duplici omicidi colpì coppie appartate nelle campagne, spesso durante momenti di intimità in automobile. Le vittime furono sempre giovani uomini e donne, uccisi con una pistola Beretta calibro 22 Long Rifle e colpiti con precisione spietata. Le modalità dei delitti — la scelta dei luoghi isolati, le mutilazioni inflitte ai corpi femminili e la meticolosità dell’assassino — suggerivano un profilo disturbato, ossessivo, ma anche incredibilmente lucido.

Il primo omicidio attribuito retroattivamente al Mostro risale al 1968, quando Barbara Locci e Antonio Lo Bianco furono trovati senza vita nei pressi di Signa. Il figlio di lei, il piccolo Natalino Mele, venne ritrovato vivo, confuso, abbandonato a pochi chilometri dal luogo del delitto: un dettaglio che colpì profondamente l’opinione pubblica e diede inizio alla leggenda nera. Dopo alcuni anni di apparente silenzio, la scia di sangue riprese nel 1974 e si protrasse fino al 1985, trasformando il Mostro in una figura quasi mitologica, un simbolo del male nascosto tra le pieghe della provincia italiana.

L’indagine infinita e l’enigma dell’assassino

Le indagini furono tra le più complesse della storia giudiziaria italiana. Centinaia di sospettati, decine di piste, migliaia di pagine di perizie, intercettazioni, confessioni e ritrattazioni. L’opinione pubblica, alimentata da una stampa spesso sensazionalista, seguiva ogni sviluppo come un thriller a puntate. Tra i sospetti principali emersero nomi come Stefano Mele, Francesco Vinci e, soprattutto, Pietro Pacciani, contadino toscano che divenne il volto mediatico del caso. Arrestato nel 1993, Pacciani fu condannato in primo grado come autore dei delitti, ma la sentenza venne ribaltata in appello e il processo si concluse con un nulla di fatto.

Dopo di lui, finirono sotto processo i cosiddetti “compagni di merende”, Mario Vanni e Giancarlo Lotti, accusati di essere complici nei delitti. Entrambi furono condannati, ma le loro versioni, piene di contraddizioni e vuoti logici, lasciarono aperti molti interrogativi. Nonostante decenni di indagini, il Mostro di Firenze non ha mai avuto un volto certo, e la sua identità rimane uno dei più grandi misteri della cronaca italiana, al punto da diventare un caso di studio per criminologi di tutto il mondo.

La Toscana degli anni Settanta e Ottanta: paura, moralismo e ossessione

Ciò che rende il caso del Mostro così unico e disturbante è il contesto in cui si sviluppò. La Toscana di quegli anni era un territorio sospeso tra modernità e tradizione: una società contadina che stava lentamente aprendosi alla modernità, ma ancora radicata in rigidi schemi patriarcali e religiosi. I delitti avvenivano in luoghi di intimità e libertà sessuale, e questo contribuì a caricarli di un significato simbolico: agli occhi di molti, il Mostro divenne il “punitore” di una generazione che cercava emancipazione e piacere.

Netflix e Sollima scelgono di restituire questa dimensione collettiva del terrore, mostrando come la violenza non fosse solo quella dei delitti, ma anche quella del giudizio sociale, delle dicerie e dei sospetti che devastarono intere famiglie. Il male, nel racconto della serie, non è solo il killer sconosciuto, ma una comunità intera che, nel cercare un colpevole, finì per sacrificare i propri innocenti.

Tra realtà e finzione: come la serie rielabora il mito del Mostro

Pur ispirandosi fedelmente alla cronaca, Il Mostro utilizza licenze narrative per costruire un racconto corale e visivamente potente. I nomi dei personaggi sono in parte cambiati, alcune vicende condensate o riscritte, ma l’atmosfera resta ancorata alla verità storica. Sollima evita di dare risposte definitive, preferendo interrogare lo spettatore: chi è davvero il Mostro? Un singolo individuo, o l’incarnazione del male collettivo di un Paese in cui istituzioni, stampa e giustizia fallirono nel proteggere i più deboli?

Con una regia tesa e realistica, la serie restituisce la sensazione di claustrofobia e impotenza che attraversò Firenze in quegli anni. Il paesaggio, la luce, il silenzio delle campagne diventano protagonisti tanto quanto gli uomini e le donne coinvolti nel caso. L’obiettivo non è ricostruire il colpevole, ma mostrare il prezzo umano della paura: la perdita di fiducia, la fine dell’innocenza, il sospetto come condizione permanente.

Una ferita che non si rimargina

A distanza di decenni, la vicenda del Mostro di Firenze resta una ferita aperta nella memoria collettiva italiana. Ogni nuova indagine, libro o adattamento riporta a galla le stesse domande: quanto sappiamo davvero? E quanto, invece, abbiamo scelto di dimenticare? Con Il Mostro, Netflix non cerca la verità assoluta, ma la verità emotiva di una nazione che si specchia nel proprio lato oscuro.

Il risultato è un racconto che unisce cronaca e cinema, documento e suggestione, con l’ambizione di trasformare un caso irrisolto in una riflessione universale sul male, sulla colpa e sull’ossessione di sapere. Perché, come suggerisce la serie, forse il Mostro non è mai stato un solo uomo, ma il riflesso di un intero Paese incapace di guardare se stesso.