Hercule Poirot è
tornato. L’investigatore più famoso e baffuto del giallo,
nato da una delle più grandi penne del genere,
Agatha Christie, è pronto a risolvere un altro
caso d’omicidio. A fare da sfondo al nuovo mistero non sono più gli
spazi claustrofobici di un treno e neppure le soleggiate
ambientazioni d’Egitto, ma la fredda, piovosa e mistica Venezia, la
quale offre il più suggestivo dei milieu finora proposti
negli adattamenti recenti, facilitando la tensione del suo
pubblico. Assassinio a Venezia, così il
titolo del
film, è ancora diretto e interpretato da
Kenneth Branagh, il quale, a ben vedere,
sembra proprio divertirsi a vestire i panni di Poirot.
A differenza dei suoi predecessori,
il film
non aderisce completamente alla trama della sua controparte
cartacea, ma è più una rilettura del romanzo La strage degli
innocenti, uno dei whodunit meno famosi di Lady Mallowan. Del
libro restano però i punti cardine: la storia si svolge anche qui
nella notte di Halloween e ad essere protagonista è sempre la
dipartita di qualche malcapitato, per una mystery story
dalle venature soprannaturali. A stendere la sceneggiatura ancora
una volta il fedele Michael Green, con le musiche
di Hildur Guonadottir. Assassinio a
Venezia è nelle sale cinematografiche dal 14
settembre, distribuito dalla Walt Disney Company
Italia.
Assassinio a Venezia, la trama
Diverso tempo dopo l’omicidio
passionale di Assassinio
sul Nilo, Poirot decide di ritirarsi in pensione
a Venezia. Sono gli anni del Dopoguerra, e precisamente siamo nel
1947. Il detective, un po’ come accaduto a Benoit Blanc in
Glass Onion, ha deciso di godersi la vita lontano
dagli omicidi, tanto che, per sfuggire a frotte di persone che ogni
giorno lo rincorrono fra i canali per sottoporgli un nuovo caso, ha
assunto un bodyguard, l’ex poliziotto Vitale Portfoglio (Riccardo
Scamarcio). Ma quando in città arriva un’amica di
vecchia data, nonché scrittrice di gialli di fama mondiale, Ariadne
Oliver (Tina Frey), Poirot si trova invischiato in
una situazione al limite del reale.
Spinto dalla stessa ad una festa di
Halloween, in un palazzo apparentemente infestato dai fantasmi, il
baffuto detective è costretto ad assistere ad una seduta spiritica,
tenuta dalla medium Mrs. Reynolds (Michelle
Yeoh). Ad essere invocata è la defunta Alicia Drake
(Esther Rae Tillotson), figlia della proprietara
dell’antico palazzo in cui si trovano, Rowena (Kelly
Reilly), morta suicida in seguito alle visioni degli
spettri di bambini che si aggirano fra le mura. Voci, finestre che
sbattono, fantasmi allo specchio, delitti inaspettati… cosa accade
in quella dimora? Poirot, pur avendo perso la fede, è pronto a
credere se qualcosa esiste oltre la morte e se la vita, così come
la conosciamo, cela presenze soprannaturali e collegamenti con
l’aldilà.

Venezia: fra razionalità e
religione
Per il suo terzo lavoro con
Christie, Branagh attinge (come sempre) dal preesistente materiale
sostanzioso e poi amplia il suo sguardo, punta verso nuovi
orizzonti e rimescola le carte in tavola, definendo
un
film nuovo, forse anche più audace oltre che
ambizioso, nel quale vuole confermare di essere un virtuoso, pur
rimanendo saldamente legato, almeno nello schema investigativo, al
giallo firmato Christie. Infatti, accanto alla detection
di Assassinio a Venezia, scorre una
seconda linea narrativa: il soprannaturale. Una
storia di fantasmi, oltre che di omicidi, che si annidano dentro un
palazzo della Venezia pittoresca degli anni del Dopoguerra, nel
quale vivono leggende e superstizioni. È chiaro sin da subito
l’intento del regista: tutto è costruito secondo la logica della
paura, per impregnare la narrazione di sfumature horror. Non si può
dunque fare a meno di evidenziare la sua bravura dietro la macchina
da presa: la regia, qui, è infatti più che mai a servizio del
racconto, quasi schiava della trama delineata.
Branagh mette in campo tutti gli
strumenti più congeniali al registro dell’opera: ci sono le
lenti anamorfiche che alterano lo spazio,
spettrale e lugubre, si ricorrere alla snorricam –
solo per Poirot – per mettere in rilievo la sua destabilizzazione,
e infine ci sono le inquadrature oblique, che tra
l’altro aprono il film e ne diventano costante, e che vogliono
essere una sorta di presagio. Ogni scelta registica, anche di
semplici piani, vuole favorire il senso di distorsione e pericolo.
Fa acquistare all’ambiente un’atmosfera funerea e angosciante,
certamente enfatizzata da una scenografia curata al dettaglio, nei
suoi minimi particolari, e in cui il contrasto di luci e ombre (con
una particolare attenzione alla luce intradiegetica) fanno da
benzina al setting sinistro. Oltre a restituire anche, a
livello drammatico e personale, il disturbo di Poirot e il suo
sentirsi smarrito, titubante e confuso. Credere o non credere? La
fede, la religione e il suo mistero è qualcosa di tanto prezioso
quanto di più delicato al mondo, e lui ne deve fare i conti. Deve
scegliere: rimanere razionali o abbandonarsi alla spiritualità?
Branagh innamorato del suo
Poirot
Se sul piano estetico e di forma
Assassinio a Venezia vince (e questo non
basta a far funzionare il film), purtroppo non si può dire lo
stesso riguardo la sua costruzione narrativa. Fra le prime
sbavature del film c’è l’insistenza a voler spaventare il
pubblico con la componente soprannaturale. Puntando sul
filone dell’horror, Branagh e Green sembrano perdere di vista il
vero senso dell’opera: l’indagine. Non ci sono effettivi depistaggi
e colpi di scena, c’è solo la speranza che lo spettatore faccia un
balzo di paura attraverso jumpscare molto scolastici e di
poco effetto, inseriti senza una vera cognizione di causa. Il
regista si arena in questo tentativo, vuole a tutti i costi
spaventare, e così facendo non riesce a mescolare bene i due
generi, tanto che il thriller soprannaturale non si regge su una
struttura solida e lucida. Ogni evento sembra volersi scoprire in
fretta, ogni soluzione arriva in un lampo, non c’è il piacere del
ragionamento o della sospensione, come invece si era più
riscontrato in
Assassinio sull’Orient Express e
Assassinio
sul Nilo.
Il climax drammatico finale
è privo di vera tensione, poiché si trascina dietro una confusione
che pervade il pubblico sin dal secondo atto. Ne risente in tal
senso anche la coralità, una delle chiavi di volta degli
adattamenti di Branagh, qui però molto al margine. Avendo trovato
la sua personale chiave d’accesso al personaggio di Hercule Poirot,
l’attore/regista pecca quasi di egocentrismo e, innamorandosene un
po’ troppo, decide di avere un one man show. Il cast, meno
stellare rispetto ai predecessori, risulta essere una girandola di
characters tutto fuorché entusiasmanti e di spessore, causa molto
probabilmente anche il poco tempo a disposizione (103 minuti scarsi
rispetto agli altri due più lunghi). Assassinio a
Venezia risulta perciò essere una pellicola solo
dalle forti idee, che nel vano tentativo di farsi grande e
imponente nel cinema mainstream, scade nel banale, speriamo almeno
non finisca nel dimenticatoio.
Powered by 