Approda a Venezia un affresco
barocco intrigante, che occhieggia alla pittura del tardo seicento
con uno sguardo totalmente personale, moderno e dissacrante. Si
tratta del nuovo film di Yorgos Lanthimos:
La Favorita.
La storia di La
Favorita è ambientata nell’Inghilterra del XVIII secolo,
dove la triste Regina Anna decide le sorti del suo popolo protetta
dalla sua reggia isolata nel cuore della campagna inglese. La sua
corte, popolata di nobili, servi e consiglieri, sembra giocare
freddamente con la vita e la morte della povera gente, in maniera
distaccata e annoiata, dando più importanza ai banchetti, alle
corse di anatre, alle tresche e al tiro a volo, piuttosto che alle
inevitabili conseguenze belliche di quel conflitto sanguinoso
con la Francia, che si protrae ormai da lungo tempo.
La Favorita, il film
La sovrana è appesantita dalla
gotta, da altri malanni dell’epoca e da una profonda
depressione, che la rende insicura e decisamente succube della
subdola Sarah. La donna, approfittando del suo favore, governa in
realtà al suo posto. La favorita si prende apparentemente
cura della regina, dimostrandosi disponibile e servile anche come
amante, ma la sua in realtà è un’abile manfrina per ordire
complessi e pericolosi giochi di potere. Un giorno però giunge dal
nulla la giovane e intraprendente Abigail, che relegata a sguattera
di cucina, intraprenderà un ardito quanto sfrontato gioco di
intrighi e strategie, per arrivare a strappare i favori della
Regina alla spietata Sarah.
Nel panorama asfittico della
cinematografia odierna, le opere di Yorgos
Lanthimos portano certamente una ventata di aria fresca.
Certo, un aria malsana e priva di qualsiasi pulviscolo di speranza,
ma certamente una brezza assai originale e stilisticamente
intrigante. Dopo Dogtooth (2009) storia di un
terribile esperimento che genera mostri,
The Lobster (2015) ambientato in un futuro
distopico dove è vietato essere single e
Il Sacrificio del Cervo Sacro (2017) dove la vendetta
si fa crudele, corrodendo dal cuore un’intera famiglia, La
Favorita aggiunge un nuovo tassello a
quell’umanità istintiva e carnivora che lotta per la sopravvivenza,
nella cognizione ineluttabile che è uno sforzo vitale, ma
totalmente effimero.
Le tre donne protagoniste del film,
pur con posizioni sociali squilibrate tra loro, una regina, una
nobile, e una dama caduta in rovina, costretta a farsi assumere
come serva, non esitano di fronte a nulla, al fine di ottenere ciò
che bramano. Non esitano a sacrificare la vita di altre persone,
quella di poveri animali indifesi e anche se stesse, usando il
proprio corpo come un oggetto o come mero strumento di caccia.
Le tre protagoniste,
Emma Stone,
Rachel Weisz e
Olivia Colman offrono una prova assai
convincente e magnificamente dipinta, giocando con le emozioni,
pennellata dopo pennellata. Offrono cambi repentini, quanto
esili, di una miriade di stati d’animo, assecondando i complessi
punti di vista e gli snodi narrativi. Sono personaggi primordiali,
ma dotati di una carica istintiva che li rende imprevedibili, con
un’intelligenza sottile e spietata, da animale selvatico. Il
regista si comporta con loro come uno zoologo attento, che annota
freddamente ogni sfaccettatura della loro etologia, con sguardo
minuziosamente patologico, distendendo sullo schermo, a guisa di
tavolo settorio, il loro corpo e la loro mente, smontandoli pezzo
per pezzo.
Lanthimos gioca in
maniera sfrontatamente claustrofobica con le ottiche corte,
distorcendo e ampliando la percezione visiva. Arriva a fare uso
insolente del fish-eye, realizzando inquadrature che mutano col
movimento. Questo appare straniante, ma poi ci si rende subito
conto che invece tutto ha una funzione e quello che appare
anacronistico è in realtà frutto di un nostro freno inibitorio
estetico, perché in fondo le sue immagini rimandano a giochi di
specchi, illusioni ottiche, o antiche anamorfosi seicentesche.
Visti i riferimenti a
Stanley Kubrick, a volte smaccati, ma sempre ben
riusciti, inseriti nei suoi film precedenti, ci si poteva
certamente aspettare una vicinanza promiscua a Barry
Lyndon (1975), ma fortunatamente
Lanthimos non cade nel tranello, lasciando
piuttosto intravedere altre suggestioni, come I Misteri del
Giardino di Compton House (1982) di Peter
Greenaway, confermate da bizzarri tableau vivant, popolati
di corpi nudi, animali impagliati, oggetti allegorici ed elementi
di vanitas e wunderkammer, inseriti a spezzare sapientemente la
narrazione, oppure la suddivisione in capitoli, che forma una vera
e propria sottostruttura, al fine di organizzare parallelamente
alla trama il materiale del racconto.
La favorita è un dipinto
elegante, sfarzoso, meraviglioso, perturbante, che fa da
specchio crudele, mostrando allo spettatore un passato lontano, ma
che diviene sinistramente il riflesso spietato del mondo
contemporaneo. Può apparire spiazzante, può divertire per il suo
sarcasmo grottesco, può intenerire, commuovere o intrigare, ma
certamente non può lasciare indifferenti, sottolineando quanto la
speranza è molte volte un illusione, un effimera bugia che l’essere
umano si racconta per andare avanti e rimanere in vita.