Whitney: Una Voce Diventata Leggenda è l’ultimo lungometraggio dedicato alla cantante statunitense. Dopo la sua morte, avvenuta a febbraio del 2012, son stati più d’uno i documentari dedicati all’artista che ha raggiunto i maggiori record della storia della musica. Tra questi, a spiccare, c’era stato Whitney Houston – Stella senza cielo diretto da Kevin Macdonald, presentato in anteprima a Cannes nel 2018, che aveva approfondito molti degli eventi della sua infanzia e non solo.
Mentre, invece, I wanna dance with somebody, questo il titolo originale, è un film biografico per la regia di Kasi Lemmons, il cui ultimo film, Harriet del 2019, era stato a sua volta un biopic. La sceneggiatura è scritta da Anthony McCarten, che aveva già curato quella di Bohemian Rhapsody quattro anni fa, restando dunque sempre in tema di personalità che hanno – letteralmente – scritto una parte di storia della musica pop.
Naomi Ackie è Whitney Huston in Whitney: Una Voce Diventata Leggend’
Ad interpretare la meravigliosa Houston, è la trentenne inglese Naomi Ackie, vista tre anni fa sul grande schermo per Star Wars: L’ascesa di Skywalker, che compie il percorso cronologico della vita della cantante vestendone tutti i panni possibili, pur discostandosi dalla raffinatezza dei suoi lineamenti, ma rendendo bene ogni sua fase, in particolar modo quella discendente. Anche Stanley Tucci, nel ruolo del suo fedele e saggio produttore discografico Clive Davis, regala un personaggio fermo ma dolce, presente e sano, considerando il resto dell’entourage. È infatti prevalentemente su questo aspetto che si sofferma la pellicola di Kasi Lemmons: le relazioni che Whitney Houston aveva con le figure di riferimento della sua vita, partendo dal padre, che le ha sempre fatto da manager ma approfittando largamente dei suoi profitti, passando per l’agghiacciante figura dell’ex marito Bobby Brown (Ashton Sanders) e per quella della sua intima amica Robyn Crawford (Nafessa Williams).
Il problema, però, è che ogni momento viene attraversato con grande rapidità, facendo capo ai punti salienti delle hit, il cambio di stile, ma senza entrare nel profondo della donna che doveva essere stata Whitney, nelle sue motivazioni, passioni, sofferenze. L’impressione generale è quella di un lungo trailer, ricco di spezzoni scintillanti, dove Naomi Ackie prende il posto di Houston nelle immagini e filmati passati alla storia, ma attraverso i quali non si vede qualcosa che non sia il personaggio pubblico.

Un riassunto da rotocalco
Ci sono tanti accenni a molte cose tra cui, naturalmente, il rapporto con la figlia Bobbi Kristina (Bria Danielle Singleton) avuta dal matrimonio con Brown, ma si tratta sempre di aspetti sfiorati dove sembra che a far fede non sia ciò che viene mostrato nel film, quanto il contrario: quello che vediamo in Whitney: Una Voce Diventata Leggenda è un veloce sunto di tanti videoclip e rotocalchi scandalistici, nulla di più.
È evidente l’ammirazione della regista per quello di cui sta parlando, oltre al fatto che l’effetto finale è comunque coinvolgente, al netto del livello letteralmente eccezionale della star in questione. Ed è altrettanto chiara la denuncia rispetto alla poca libertà gestionale e organizzativa che a Whitney veniva imposta nei riguardi della propria carriera, cosa purtroppo molto diffusa. Emerge, quindi, piuttosto facilmente la fragilità dell’artista, così come quella del mondo che le è ruotato attorno e che, ovviamente, ne ha principalmente sfruttato le luci, ma restando totalmente incapace di curarne le ombre.
Whitney: Una Voce Diventata Leggenda è dunque piacevole nella misura dello splendore della cantante di cui mostra la (breve) vita. Ma aggiunge molto poco, vivendo della rendita della sua voce e delle sue canzoni. A tal proposito un’ulteriore nota di merito va alla protagonista per i momenti in cui non canta in playback. Ma, a parte ciò, non resta che molta ammirazione e dispiacere per un talento strappato così presto alla vita, senza sentirci né più vicini né più lontani alla sua storia.

Un delizioso delitto estivo




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Ridley e Cuse – anche registi di molti degli episodi – evitano dosano con enorme sensibilità le sottolineature drammatiche e drammaturgiche lasciando che siano i fatti a parlare. Nell’esporre dettaglio dopo dettaglio, scena dopo scena, episodio dopo episodio quanto New Orleans e le sue infrastrutture fossero totalmente impreparate all’emergenza dell’uragano, 
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Nonostante questo, Claes Bang riesce a fornire dell’uomo un’interpretazione molto precisa, subdola e fastidiosa al punto giusto. E con questa puntualizzazione passiamo dunque a scrivere del cast di Bad Sister, composto da cinque attrici in stato di grazia, che riescono ognuna a tratteggiare un personaggio unico e insieme perfettamente integrato con gli altri. La rappresentazione del rapporto che lega le sorelle protagoniste è vero, brioso, profondo, a tratti doloroso. Se Sharon Horgan dimostra ancora una volta una presenza scenica tutta personale e corposa, la vera sorpresa è una Sarah Greene (
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