Cattivissimo
Me 3 regge in testa al box office italiano e
non si lascia spodestare da Dunkirk, che però ottiene la media
per sala più alta della classifica. Forse un po’ a sorpresa, il
film d’animazione batte il kolossal d’autore in questo primo fine
settimana di settembre. Infatti Cattivissimo Me 3 regge
saldamente in testa al box office italiano, incassando 3,6 milioni
di euro al suo secondo fine settimana, arrivando a quota 11,2
milioni di euro.
Invece Dunkirk apre in seconda posizione con
quasi 3 milioni di euro d’incasso in un numero inferiore di sale
(674 contro le 946 di Cattivissimo Me 3). Il film di
Christopher Nolan registra la media per sala più alta della
classifica, pari a ben 4390 euro.
Overdrive perde una posizione con altri
382.000 euro con cui totalizza 991.000 euro,
mentre Amityville: Il risveglio
conferma la quarta posizione dell’esordio con altri 260.000 euro
(totale: 776.000 euro).
Atomica Bionda scende al quinto posto
raccogliendo 206.000 euro per un globale di 1,6 milioni di euro.
Open Water 3 – Cage Dive debutta in sesta
posizione con 192.000 euro ed è seguito da due pellicole in calo:
Annabelle 2 (157.000 euro)
e La
Torre Nera (153.000 euro), giunti rispettivamente
a 3,3 milioni complessivi e 2,1 milioni totali. Chiudono la top10
due new entry del fine settimana: Un profilo per
due, che esordisce con 89.000 euro, ed Easy – Un viaggio facile facile, che
debutta con 55.000 euro.
Uno degli eventi speciali, nel Fuori
Concorso, di Venezia 74, è stata la presentazione
del videoclip di Thriller di Michael
Jackson, in 3D, il celeberrimo cortometraggio diretto da
John Landis. Insieme al video restaurato in
stereoscopia, è stato proiettato il documentario del Make-of di
Thriller, realizzato da Kenny Kramer.
“Thriller è una cosa di cui sono
molto fiero, e avere l’accesso ai negativi e di restaurarlo è stato
bellissimo – ha spiegato Landis – E ho avuto la
possibilità di restituirlo all’aspetto che doveva avere all’inizio,
come lo voleva Michael. Perché su youtube è rovinato.”
Ma per quello che riguarda le sue
ragioni più personali, il regista ha detto: “La mia ragione è
stata per vederlo di nuovo al cinema, in oltre lo abbiamo
rimasterizzato con le tracce originali. È fottutamente
magnifico!”
Le idee di Jackson per il
cortometraggio erano quelle di realizzare una completa
trasformazione in mostro per la star, ma si rese poi conto che
sarebbe stato tutto molto complicato in merito alla danza. “Era
un fan di Un lupo mannaro, e mi chiese di trasformarlo in un
mostro. E da questo è venuto il video. Non era una operazione di
marketing, il disco era già stato vendutissimo, il video fu una
questione di vanità: perché lui voleva che lo trasformassi in un
mostro.”
Landis procede come un fiume in
piena, raccontando un aneddoto che lo vide coinvolto al fianco
della pop star, l’unico momento, a detta sua, in cui ha veramente
avuto paura in tutta la sua vita: “L’unica volta in cui ho a
vuto paura è stato con lui, siamo andati a Disneyworld, e appena
siamo arrivato in pubblico, abbiamo fatto una foto con Mickey
Mouse, e all’improvviso migliaia di persone si sono accorte di lui,
e sono venute verso di noi, urlando, da ogni direzione. Ho pensato
che volessero mangiarci. È stato davvero spaventoso. E lui salutava
tutti, tranquillo. E proprio quando pensavo che saremmo morti, è
arrivata una limo, e ha tirato dentro me, lui e Mickey
Mouse.”
In merito alla sua morte,
John Landis si dimostra ancora una volta
sensibile, mettendo in ordine tutte le parole e le priorità giuste:
“Una tragedia per i suoi bambini, per la sua famiglia, per il
mondo. Una figura brillante e tragica, era davvero un performer
incredibile, e sono così rari. Mi fa stare ancora male.”
Così come la città dove è situata,
la New York Public Library è uno degli edifici più cari al cinema
americano. Teatro di tantissime scene culto, distrutta più volte
nei vari disaster movie (e cinecomic) nel corso degli anni, la
libreria diventa finalmente protagonista di un lungometraggio.
Ex Libris: New York Public Library è l’ultimo
documentario di Frederick Wiseman, presentato alla
74esima
Mostra del cinema di Venezia in Concorso.
Uno dei più grandi cineasti viventi
si addentra nel sontuoso edificio di marmo bianco per raccontare la
libreria in tutta la sua vitalità. Non solo scaffali di tomi
polverosi e vecchie bibliotecarie. L’immaginario collettivo viene
completamente svecchiato e il pubblico, o almeno coloro che non
hanno mai frequentato la biblioteca, viene messo a parte di una
realtà brulicante di iniziativa, attività, aspetti.
Ex Libris: New York Public Library
Gli unici personaggi ricorrenti nel
lungo documentario, oltre tre ore, sono i responsabili, impegnati
nelle loro attività professionali, ma il resto del film si snoda in
una specie di successione di cortometraggi che raccontano sezioni
della vita dell’edificio. Conferenza, lezioni, progetti di
digitalizzazione: ogni attività è osservata da vicino e raccontata
con il solo espediente della manifestazione. Wiseman guarda con
curiosità una stanza, una conferenza, e poi, come se fosse annoiato
o curioso di altro, passa oltre, concentrandosi su un’altra
iniziativa.
Il risultato è un flusso di piccoli
racconti, piccole parentesi che mettono a parte lo spettatore di
argomenti disparati, toccati con grande puntualità e competenza
perché ripresi dagli esperti che nella biblioteca tengono incontri
e lezioni aperte al pubblico. Ex Libris: New York Public
Library si pone l’intento di raccontare un mondo vasto e
complesso attraverso il linguaggio del cinema un luogo che proprio
con il cinema è entrato nell’immaginario collettivo. Il risultato è
un documento di straordinario interesse, basta avere la pazienza di
goderlo fino in fondo.
Il Premio MATTADOR
ha presentato alla Mostra del Cinema di Venezia la
propria attività e le iniziative in cantiere. Il Premio
internazionale di sceneggiatura è stato illustrato all’Hotel
Excelsior del Lido, nello Spazio della Regione del
Veneto, in un incontro, aperto al pubblico, patrocinato
dalla Regione del Veneto.
Alla presentazione, coordinata dal
giornalista Pierluigi Sabatti, sono intervenuti,
Pietro Caenazzo, presidente dell’Associazione
Mattador, Gianluca Novel, responsabile della
Friuli Venezia Giulia Film Commission, Stefano
Bessoni, regista, illustratore e insegnante di stop
motion, Giulio Kirchmayr, coordinatore del
Progetto CORTO86.
E’ intervenuto per la
Regione del Veneto Cristiano Corazzari, Assessore
regionale alla Cultura; ha portato i saluti del Comune di
Venezia,Paolo Romor, Assessore alle
Politiche educative e Prosindaco del Lido di Venezia.
Sabatti ha ricordato che il
Premio è dedicato a Matteo Caenazzo, giovane
triestino formatosi all’Università Ca’ Foscari, scomparso
prematuramente nel giugno 2009. Nato dal pensiero e dalle passioni
di Matteo, con l’obiettivo di far emergere nuovi
talentidai 16 ai 30 anni, Mattador
continua nella formazione di giovani sceneggiatori, registi ed
illustratori: accanto ai premi in denaro offre qualificati percorsi
di formazione dedicati allo sviluppo dei loro progetti – dalla
sceneggiatura alla regia, dallo storyboard alla stop motion –
svolti insieme a tutor professionisti di livello nazionale ed
internazionale. L’iniziativa è resa possibile grazie al contributo
di Mibact, Regione Friuli Venezia Giulia, Regione del Veneto,
Comune di Trieste, Fondazione Casali di Trieste, alle donazioni
private e quote associative.
Sono stati illustrati le recenti
collaborazioni e i nascenti progetti con importanti realtà
nazionali del cinema. La più recente quella con Genova
Liguria Film Commission e Land di Maia
Associazione Culturale, che vedrà l’Apertura della
nona edizione del Premio Mattador a Genova, il prossimo 6
ottobre.
Si è parlato quindi dei libri che
Mattador ha generato a partire dal 2010 insieme alle
Edizioni Università di Trieste e sono stati
anticipati i contenuti del sesto volume, ora in lavorazione, della
collana “Scrivere le immagini. Quaderni di
sceneggiatura”. Inoltre è stata anticipata la
programmazione dei Mattador Workshop, previsti
come ogni anno ad ottobre all’apertura della nuova edizione, con un
focus sul seminario di animazione stop motion. Tra
le novità del programma, ha particolare spicco la sede del percorso
formativo Dolly “Illustrare storie per il cinema” che quest’anno si
svolgerà a Los Angeles, nello studio del tutor Daniele
Auber.
Ampio spazio è stato dato al
Progetto CORTO86 dedicato alla migliore
sceneggiatura per cortometraggio: sono state illustrate le fasi di
produzione del corto “Ascolta i tuoi occhi” di
Marcello Pedretti, tratto dalla sceneggiatura
vincitrice della sezione CORTO86 2016, prodotto da Mattador in
coproduzione con Fantastificio, Pianeta
Zero, Pilgrim,
Incandenza, con il supporto di FVG Film
Commission. L’incontro si è concluso con la proiezione del
cortometraggio, protagonisti gli attori Mily Cultrera di
Montesano e Mirko Artuso, presente
all’evento assieme all’autore.
Il Progetto CORTO86 2017, vinto
dalla sceneggiatura “La serata perfetta” di Daniele Napoli di
Catania, inizierà a breve la produzione nella regione Friuli
Venezia Giulia.
I vincitori dell’ottava edizione
del Premio sono stati premiati il 17 luglio scorso nelle Sale
Apollinee del Teatro La Fenice dalla Giuria composta da Pupi Avati,
Marina Zangirolami Mazzacurati, Salvatore De Mola, Emilia Bandel,
Stefano Bessoni. Mattador mette in palio 5.000 euro alla migliore
sceneggiatura per lungometraggio; 1.500 euro al migliore sviluppo
del soggetto: i finalisti della sezione soggetto sono accompagnati
da sceneggiatori in un percorso di sviluppo dell’idea e della
struttura narrativa dei loro lavori; i vincitori della sezione
DOLLY “Illustrare storie per il cinema” sono affiancati da concept
designer nello sviluppo narrativo della loro storia raccontata per
immagini; il vincitore di CORTO86 è accompagnato da tutor e troupe
tecnica nelle fasi del processo produttivo del suo cortometraggio,
di cui può firmare anche la regia. Infine, le migliori
sceneggiature e storie disegnate vengono pubblicate nei volumi
della collana dedicata al cinema (Edizioni EUT/Mattador).
Arrivano da Reddit nuovi concept art che
raffigurano il Soldato d’Inverno, ovvero
Bucky Barnes, protagonista del Marvel Cinematic Universe
e trai possibili “successori” di Steve Rogers al
ruolo di Captain America.
La sinossi: Mentre
gli Avengers continuano a proteggere il mondo da minacce
troppo grandi per un solo eroe, un nuovo pericolo emerge dalle
ombre cosmiche: Thanos. Despota di intergalattica scelleratezza, il
suo scopo è raccogliere le sei gemme dell’Infinito, artefatti di un
potere sconfinato, e usarle per piegare la realtà a tutto il suo
volere. Tutto quello per cui gli Avengers hanno combattuto ha
condotto a questo punto – il destino della Terra e l’esistenza
stessa non sono mai state tanto a rischio.
Avengers
Infinity War arriverà al cinema il 4 Maggio
2018. Christopher Markus e Stephen
McFeely si occuperanno della sceneggiatura del film,
mentre la regia è affidata a Anthony e Joe
Russo.
Il cast del film al momento è
composto da Cobie Smulders, Benedict Cumberbatch,
Chris Pratt, Vin Diesel, Scarlett Johansson, Dave Bautista, Karen
Gillan, Zoe Saldana, Brie Larson, Elizabeth Olsen, Robert Downey
Jr., Sebastian Stan, Chris Hemsworth, Chris Evans, Tom Holland,
Bradley Cooper, Samuel L. Jacksson, Jeremy Renner, Paul Rudd, Peter
Dinklage, Mark Ruffalo, Josh Brolin, Paul Bettany, Benedict
Wong, Pom Klementieff e Chadwick
Boseman.
Ecco dei nuovi artwork dedicati a
Star
Wars Gli Ultimi Jedi realizzati da Brian
Rood in occasione del Force Friday.
Ecco di seguito i pezzi d’arte che raffigurano i personaggi della
nuova trilogia.
La sinossi: “In Star
Wars Gli Ultimi Jedi della Lucasfilm, la saga Skywalker continua
quando gli eroi de Il Risveglio della Forza si uniscono alle
leggende della galassia in un’epica avventura che svelerà i misteri
della Forza e le scioccanti rivelazioni del passato risalenti
all’Era antica. Star Wars Gli Ultimi Jedi arriverà nei cinema
USA il 15 dicembre 2017.”
FIRST LOOK –
Carrie Fisher in Star Wars Gli Ultimi Jedi
Il film sarà
diretto da Rian Johnson e arriverà al
cinema il 15 dicembre 2017. Il film racconterà le vicende
immediatamente successive a Il Risveglio della
Forza.
Karen Gillan ha
condiviso una nuova foto di Nebula dal
backstage di Avengers Infinity War, o meglio, una
specie di foto di Nebula, come possiamo vedere di seguito.
Nella didascalia leggiamo infatti:
il volto di Nebula alla fine della giornata. Si tratta del trucco
prostetico del personaggio, che ogni giorno, sul set, indossa la
Gillan.
La sinossi: Mentre
gli Avengers continuano a proteggere il mondo da minacce
troppo grandi per un solo eroe, un nuovo pericolo emerge dalle
ombre cosmiche: Thanos. Despota di intergalattica scelleratezza, il
suo scopo è raccogliere le sei gemme dell’Infinito, artefatti di un
potere sconfinato, e usarle per piegare la realtà a tutto il suo
volere. Tutto quello per cui gli Avengers hanno combattuto ha
condotto a questo punto – il destino della Terra e l’esistenza
stessa non sono mai state tanto a rischio.
Avengers
Infinity War arriverà al cinema il 4 Maggio
2018. Christopher Markus e Stephen
McFeely si occuperanno della sceneggiatura del film,
mentre la regia è affidata a Anthony e Joe
Russo.
Il cast del film al momento è
composto da Cobie Smulders, Benedict Cumberbatch,
Chris Pratt, Vin Diesel, Scarlett Johansson, Dave Bautista, Karen
Gillan, Zoe Saldana, Brie Larson, Elizabeth Olsen, Robert Downey
Jr., Sebastian Stan, Chris Hemsworth, Chris Evans, Tom Holland,
Bradley Cooper, Samuel L. Jacksson, Jeremy Renner, Paul Rudd, Peter
Dinklage, Mark Ruffalo, Josh Brolin, Paul Bettany, Benedict
Wong, Pom Klementieff e Chadwick
Boseman.
Dopo In Bruges e
Sette Psicopatici, Martin
McDonagh torna alla regia con Tre manifesti a
Ebbing, Missouri, film che sarà presentato oggi, 4
settembre, nell’ambito del Concorso di Venezia 74.
Come al solito, McDonagh si avvale
di un cast variegato e ricco di star dai volti caratteristici, tra
cui Frances McDormand, Woody Harrelson, Caleb Landry
Jones, Abbie Cornish, Kathryn Newton.
Ecco la trama di Tre
manifesti a Ebbing, Missouri
Mildred Haynes cerca senza sosta di
trovare il colpevole dell’omicidio di sua figlia ma dopo alcuni
mesi decide di fare un gesto audace: dipinge tre cartelloni che
sembrano un messaggio diretto a William Willoughby, l’ammirato capo
della polizia della sua città. Quando nel caso viene coinvolto
anche Dixon, vice del capo della polizia e molto incline a usare la
violenza, lo scontro tra Mildred e William sull’applicazione delle
leggi diventerà sempre più complesso.
Alla seconda settimana di festival,
Venezia 74 ci offre un altro italiano in Concorso.
Oggi sarà presentato Una Famiglia, di
Sebastiano Riso.
Il film drammatico, vede nel
cast Micaela Ramazzotti, Patrick Bruel, Fortunato
Cerlino, Marco Leonardi, Matilda De Angelis, Ennio
Fantastichini.
La trama di Una Famiglia:
Vincent è nato cinquant’anni fa
vicino a Parigi, ma ha tagliato ogni legame con le sue radici.
Maria, più giovane di quindici anni, è cresciuta a Ostia, ma non
vede più la sua famiglia. Insieme formano una coppia che non sembra
aver bisogno di nessuno e conducono un’esistenza appartata nella
Roma indolente e distratta dei giorni nostri, culla ideale per chi
vuole vivere lontano da sguardi indiscreti. In più, Vincent e Maria
sono bravi a mimetizzarsi: quando prendono il metrò, si siedono
vicini, teneramente abbracciati. A volte cenano al ristorante, più
interessati a guardarsi negli occhi che al cibo nei loro piatti.
Quando tornano a casa, fanno l’amore con la passione degli inizi,
in un appartamento di periferia che lei ha arredato con cura.
Eppure, a uno sguardo più attento, quella quotidianità
dall’apparenza così normale lascia trapelare un terribile progetto
di vita portato avanti da lui con lucida determinazione e da lei
accettato in virtù di un amore senza condizioni. Un progetto che
prevede di aiutare coppie che non possono avere figli. Arrivata a
quella che il suo istinto le dice essere l’ultima gravidanza, Maria
decide che è giunto il momento di formare una vera famiglia. La
scelta si porta dietro una conseguenza inevitabile: la ribellione a
Vincent, l’uomo della sua vita.
“L’incursione nel mondo dello
spettacolo è stata particolare, sono stato piacevolmente
impressionato” Così ha esordito Franco
Colomba, ex calciatore del Bologna FC e interprete, in
Nobili Bugie, di Árpád Weisz,
allenatore della stessa squadra, tragicamente morto nelle camere a
gas di Auswitz nel 1944.
“Ho girato una piccola parte e
anche in quella mi sono reso conto dell’impegno che ci vuole per
quelle poche scene è notevole, per tantissime persone. Si tratta di
un lavoro di tanti mesi che serve a mettere in piedi un film di un
paio d’ore.”
Il film è stato presentato alla 74°
Mostra di Venezia, dove ha ricevuto il premio Kinèo. In questa
occasione abbiamo incontrato Colomba che ha commentato così
l’importanza di Weisz nella storia del calcio e del Bologna
soprattutto: “Essendo di Bologna e avendo giocato e allenato il
Bologna e avendo avuto come allenatori da ragazzino i giocatori di
quell’epoca, ero già abbastanza documentato su quello che è stato
Árpád Weisz. Un allenatore che ha vinto due scudetti, una coppa
campioni che a quei tempi aveva il valore della Champions League
adesso, quando mi ricapitava di vincere due scudetti e una coppa?
Ho accettato subito. Anche perché ha sofferto moltissimo, era sulla
cresta dell’onda quando è morto. Si è trovato perseguitato con la
famiglia, nella noncuranza del mondo dello sport che si è
dimenticato di lui. E questo si vede nel film, nella piccola parte
che interpreto. Tengo a precisare che tutto è accaduto nella
dimenticanza.”
Colomba ci tiene anche a ricordare
il libro di Matteo Marani, Dallo scudetto
ad Auschwitz: vita e morte di Arpad Weisz, allenatore
ebreo: “Un paluso va a Marani che ha scritto un libro
su di lui e che ha permesso alla storia di XX di venire fuori.
Altrimenti tutti lo avremmo dimenticato.”
Ambientato durante la seconda
guerra mondiale sui colli bolognesi, Nobili Bugie
racconta di una famiglia di nobili decaduti sopravvissuta al
proprio declino economico nell’unico luogo che ancora possiede: la
tenuta di Villa La Quiete. Il Duca Pier Donato Martellini e la
Duchessa Romola Valli, stanchi e avviliti, risiedono nel loro
podere con la servitù ormai ridotta ai minimi termini: un giovane
giardiniere cieco e un maggiordomo sordo, entrambi reduci di
guerra; e Giovanna, la cuoca costantemente arrabbiata ed
eternamente innamorata. Come se non bastasse devono prendersi cura
del figlio Jean-Jacques, un immaturo cinquantenne che passa le sue
giornate a comporre poesie con un unico tema ricorrente: il Bologna
FC. La soluzione a tutti i problemi si presenta alla villa in un
pomeriggio qualsiasi: un uomo e due donne in fuga, chiedono rifugio
ai Duchi. Sono ebrei, si chiamano Beniamino, Anna e Stefania. Sono
disposti a pagare con un lingotto d’oro ogni mese di permanenza e
promettono di migrare altrove subito dopo la fine della guerra.
Il Festival di Venezia 2017 si
svolge al Lido dal 30 agosto al 9 settembre.
Quando sono arrivato qui vent’anni
fa – o dieci, o un mese o sei giorni, non fa più differenza – mi
sono reso conto di aver dimenticato a Roma le ciabatte. “E che sarà
mai – mi son detto – a parte che a casa non ci sto mai, quanto vuoi
che mi servano? Poi alle perse si comprano. Mica stiamo nell’Africa
nera”. No, infatti. Perché nell’Africa nera qualche sciamano che te
rimedia du ciavatte che non siano fottute infradito per duecento
euro lo trovi. Qui no. E io odio le fottute infradito. Per tutto il
tempo che sono stato qui ho resistito. Per una questione di
principio, sarei stato disposto a camminare a piedi scalzi pure
sulle pietre roventi, per non comprarle. Ma non a smettere di
fumare il sigaro sul balcone, con le tempeste perfette che si son
messe su questi giorni, senza ciabatte, era impossibile. Indovinate
com’è andata a finì? Per fortuna viene in mio aiuto l’amico
Lapo Elkann che, eccentrico com’è, si presenta sul
red carpet non si sa per quale motivo con delle ballerine con tanto
di fiocchetto. Non ridete. Non sto scherzando, adesso.
Mi sento sollevato perché al
cospetto le mie infradito fosforescenti sono più mascoline che
spaccare la legna in camicia a quadri con le maniche arrotolate e
il deltoide in evidenza e più stilose di Orson
Welles che fuma la pipa in smoking. Inoltre, non ci farei
mai un dannato red carpet. Ma si sa, lui le cose le fa a cazzo di
Elkann.
Oggi è il giorno di Virzì, l’uomo
che quando ero ragazzino mi faceva morir dal ridere con il tizio
che diceva ‘Wyoming’ a rutti in
‘Ovosodo’. Ho proprio voglia di un
filmetto allegro. Esco che piango come ‘na fontana, mortacci sua.
The Leisure Seeker è una storia di vecchi che si
amano e ancora fanno sesso (e te credo, Helen
Mirren è bona come il pane pure all’età sua. Lui invece è
Donald Sutherland, gravemente rincoglionito e diciamo che il ruolo
gli calza. Calcolando la differenza di resa estetica tra i due,
direi che gli va benone) ma decisamente meno zuccherosa dei cicì
ciciò con cui ci hanno trastullato Jane Fonda e
Robert Redford direi a occhio e croce sei anni fa
(o due settimane, o due giorni, non conta. Qui il tempo non
esiste). Sti vecchi prossimi alla fine a un certo punto rubano un
camper al figlio e si mettono in viaggio per l’America. Il finale
lo possiamo immaginare ma restate dopo i titoli di coda.
SPOILER……………………………………………. appare
Thanos.
Ang
Io questa
mattina ho appuntamento per trucco e parrucco, e non perché ce ne
sia particolarmente bisogno qui (come diceva Ang passiamo le
giornate tra persone vestite come DiCaprio in The
Revenant a quelli vestiti da pinguini che se vengono
solo a fà i selfie tra cinesi fuori dal red carpet), ma perché dopo
due giorni di pioggia, ma di quelle monsoniche che pensi ti abbia
mandato qualche ex fidanzato solo per romperti i coglioni e farti
uscire vestita come una foca monaca, ero impresentabile pure per il
Selvaggio Lido. Per cui realizzo che forse è il caso di rendermi
un’umana e decido anche di farmi truccare, almeno per coprire le
occhiaie da ore di sala al buio che ci rendono tanto truci, che poi
sembriamo sempre incazzati col mondo andando ad alimentare
l’orrendo cliché secondo cui i critici sarebbero sempre incazzati
perché in verità volevano fare i registi ma erano pippe ar sugo.
Orrendo, ovviamente, in quanto vero, nel 90%. Ora uno che non
lo sa pensa: ‘E che ce vò, vai, te mette un po’ di ombretto,
mascara, rossetto, 5 minuti e via’. Colcazzo, miei
amati ventiquattro lettori. Arrivo coperta con un foulard e gli
occhiali come Mata Hari per la vergogna di
mostrare le ore di sonno perse, e ti trovi davanti questo Dio che
uccide le imperfezioni, bellissimo già alle nove del mattino, che
ti scruta con calma, ti studia, e poi inizia a pulire i pennelli.
Tu osi dirgli ‘guarda, una cosa veloce giusto per nascondere le
occhiaie’ e quello emette un ultrasuono, simile forse a quello dei
delfini in un delfinario quanto non acchiappano al volo er pescetto
– o se preferite, a quello emesso del Mostro della Laguna nel film
di delToro quando gli danno scosse elettriche sulle palle, e con
buona ragione – e mentre tu cerchi di sdrammatizzare e intanto te
copri le orecchie per non avere le convulsioni lui ha già sfoderato
un porta arnesi che simile forse l’hai visto in un film di
Tarantino, e conteneva cose non proprio piacevolissime, e inizia a
lavorare. Con una cura meticolosa e sprezzante verso le lancette
che io guardo con la coda dell’occhio mi tortura per circa mezz’ora
– roba che al cospetto le ossa spezzate e le sevizie di
Brawl in Cell Block ’99 sono scherzi al
telefono che finiscono con ‘stocazzo’ – e vi assicuro sono
cose che pure io che faccio pipì in testa a Clio Make
up non avevo mai visto fare. Dopo tutto questo lavoro,
felice finalmente di potermi fumare una sigaretta, entrare in sala
e godermi il film mi metto in coda per vedere Virzì. Non l’avessi
mai fatto. Pure io ho pianto in maniera imbarazzante, scambiandomi
kleenex col mio vicino di posto che a un certo punto, se non avesse
tirato fuori una banana per far merenda (e io odio l’odore di molte
cose, tra cui quello) avrei abbracciato. Poi il pensiero è andato
al mio trucco, e al Dio dei pennelli e fortunatamente prima di
uscire dalla sala sono passata dal bagno, che è sempre un piacere
incontrare durante il festival, e ho cercato di ripulirmi senza
sembrare Pierrot. In tutto questo incontro una ragazza che piagne
pure lei, le faccio un cenno di intesa, le dico ‘Virzì eh’, me dice
‘no m’ha mollato quel gran figlio di una bòna donna del mio
fidanzato, ora che torno lo ammazzo’. Bene, come non detto, pietra
sopra. Finale con le feste, che non sempre sono una cosa bella.
Perché il tipo di feste varia da quelle in cui invitano anche i
cavalli di fronte al red carpet, a quelli in cui per entrare devi
superare prove di sopravvivenza. Ad esempio ieri io e Ang abbiamo
dovuto indossare una calzamaglia colorata e saltare su un tetto in
un posto indicatoci da una mail anonima. Su quel tetto, dopo aver
dato prova di saper stare 5 minuti nella posizione del Guerriero
tipica dello Yoga Asana. Dopo questa prova, ci siamo calati dal
tetto e io ho dovuto fare il bagno nella fontana davanti alla
biglietteria, che ora copre la famosa buca della darsena, urlando
‘Ang, Ang, came here!’. E solo allora, finalmente, un ragazzo
rasato vestito da Borghi ci ha consegnato 2 biglietti per andare
alla festa. Com’è stata? Non lo sappiamo. Siamo annati a cena da
Tiziano, ristoratore amabile che ce tiene il posto
a qualsiasi ora, perché le cose troppo complicate ci stanno sul
cazzo a prescindere. Ci vediamo domani, voi intanto fate 10
flessioni.
Paolo Virzì ha
presentato in concorso alla 74° Mostra d’Arte cinematografica di
Venezia il suo nuovo film The Leisure Keeper che
uscirà in Italia il 25 gennaio con il titolo Ella e
Jonh. Lo abbiamo incontrato e ascoltato raccontare
particolari su questo progetto interamente girato negli USA, in
lingua inglese e con due grandissimi attori: Helen
Mirren e Donald Sutherland.
Virzì inizia confessando la sua
grande emozione nel trovarsi oggi a Venezia con il suo film
americano in concorso. Dice di essere molto più emozionato oggi,
rispetto a vent’anni fa, quando presentò al Lido
Ovosodo, e di aver passato una notte insonne,
sentendosi piccolo, fragile e disperato.
Poi parla dei suoi due protagonisti
e della paura che naturalmente aveva nell’affrontare una grossa
produzione americana. Sparò due autorevoli nomi, quasi nella
speranza di usare la loro rinuncia come scusa per ritirarsi
(sorride sornione), ma poi si trovò costretto ad accettare quando
Donald Sutherland e Helen Mirren
si dimostrarono ben felici di salire a bordo. Lui con entusiasmo e
senza timori, lei invece volle qualche rassicurazione in più e
chiese di vedere i suoi film precedenti. Ma poi si aprì
completamente affidandosi alla sua guida e dimostrando grande
entusiasmo e affiatamento. Erano comunque i due attori ideali che
aveva immaginato fin dall’inizio e lavorare con loro ha permesso di
costruire la coppia di anziani coniugi esattamente come avrebbe
voluto.
Per Helen Mirren
Virzì confessa che ha sempre provato ammirazione e devozione e
racconta di essersi trovato felice come un bambino quando insieme a
lei oggi ha incontrato Stephen Frears, scattando
ai due una fotografia ricordo. Di Donald
Sutherland aveva scolpita nella mente la sua immagine come
professore in Animal House e immaginava
quell’insegnante in vecchiaia, un uomo che ha studiato una vita e
finito intrappolato nelle pagine di letteratura che ha sempre
studiato e amato.
Venezia 74: The Leisure Seeker
recensione del film di Paolo Virzì
Dice di nutrire simpatia di tutti
quei cineasti vagabondi che girano film su strada e lui si sente un
po’ uno di loro, ma chiede di cercare da soli il vero Virzì, perché
quando un film è finito e proiettato non è giusto spiegare troppo,
ma è bello sentire o leggere quello che ognuno trova.
Quello che lui ha fatto per
approcciarsi meglio al progetto è stato tradire alcuni elementi
troppo americani che erano presenti nel romanzo omonimo da cui è
tratto il film, come il viaggio verso Disneyland o la Route 666,
lui voleva dare l’idea di luoghi che potessero per assurdo
somigliare alla sua maremma o alle coste toscane. Non voleva
assolutamente cadere nei cliché. Tutta sua l’aggiunta
dell’ossessione per la gelosie e il tradimento, un sentimento
tipicamente italiano. Parlandone con i due attori gli ha mostrato
anche dei capolavori della cinema italiano, imperniati su questo
tema. In particolare ha fatto vedere a Helen
Mirren alcune interpretazioni di Monica
Vitti. Ernest Hemingway non è tra i suoi
scrittori prediletti, nonostante chiaramente nutra per lui una
grande ammirazione, ma per esigenze di storia la scelta è stata
quasi obbligata, visto che il viaggio conduce alla sua casa, ormai
trasformata in attrazione turistica.
Alla domanda se preferisce mutande o
boxer, una delle battute contenute nel film, alla quale Sutherland
risponde di preferire le mutande per avere più controllo, lui
risponde che per tutta la lavorazione ha sempre indossato slip.
Questo gli ha permesso di controllare meglio gli attori. Ma dice
anche che, scherzi a parte, la fiducia era reciproca e che da
subito si è sentito tranquillo. Dopo ogni “azione” si
sedeva e si godeva lo show, molte volte senza dare lo
“stop”, lasciandoli liberi di improvvisare. Virzì
dice di amare il regista invisibile, non invadente e fa di tutto
per esserlo. Quello che ha cercato è stato di dare più importanza
ai silenzi, ha voluto imprimere alla narrazione un passo lento,
languido, delicato, come quello di alcune ballad di
Janis Joplin o di David
Crosby.
Quando gli viene detto che in questo
film si sente meno cinismo e una vena assai più romantica, inteso
anche come grande miglioramento, Virzì si sente lusingato e ribatte
che è la normale conseguenza della vita, delle ferite personali,
del riflettere sulla vita e sulla morte. In poche parole forse è
l’affacciarsi della maturità.
Infine ha annunciato che per il
momento non prevede altri progetti oltreoceano, ma che in futuro si
vedrà. Per ora sta per iniziare la lavorazione di un nuovo film a
Roma.
Questa quinta giornata di festival
ha visto la Laguna riempirsi di leggende del cinema; ad aprire le
danze questa mattina è stato il nuovo film di Stephen
Frears dal titolo Vittoria
e Abdul, con una straordinaria Judi Dench
protagonista. Si tratta di un’adorabile commedia in costume che
racconta della bizzarra amicizia nata tra la Regina Vittoriad’Inghilterra e un giovane indiano di umili
origini di nome Abdul Karim, capitato a corte
quasi per uno scherzo del destino.
Dopo il successo di
Florence Foster Jenkins,Stephen
Frears torna ad occuparsi delle sue meravigliose regine e
la bellissima Judi Dench torna a vestire dopo
venti anni i panni di Vittoria in un momento assai diverso della
sua vita. “Non ho mai neanche lontanamente immaginato che un
giorno avrei interpretato di nuovo Vittoria – ha dichiarato la
Dench – ma quando Stephen mi ha proposto lo script non ho
potuto rifiutare: la sceneggiatura era davvero brillante”. È
proprio questo infatti uno dei tanti punti di forza del film di
Frears, la sceneggiatura, pregna di un’inedita e brillante
comicità. “In tanti mi hanno chiesto se il tono del film
dovesse essere davvero questo. Ebbene, era proprio così che io e
Lee [si riferisce a Lee Hall, sceneggiatore
del film e autore anche di Billy Elliott]
avevamo sempre immaginato Victoria and Abdul.
Volevo portare sullo schermo qualcosa che fosse davvero divertente
e allora mi sono chiesto quale film Trump avesse voluto vedere
[ride]. A quelli che mi chiedono perché ho deciso di fare un altro
film su di una regina risponderò molto sinceramente: la
sceneggiatura era eccezionale. Magari fossi sempre così
fortunato!”.
Il riferimento alla politica e
nello specifico a Trump fa un po’ sorridere se si pensa che
Stephen Frears è un regista britannico ma in
effetti il film affronta, grazie alla storia tra Vittoria e Abdul,
delle tematiche molto scottanti e attuali. La storia d’amicizia e
quasi d’amore tra i due è stata osteggiata dai figli della sovrana
e dall’intera corte che non vedeva di buon occhio questo ragazzo di
colore, sempliciotto e ‘selvaggio’, persone che hanno fatto di
tutto pur di separarli e che per secoli ha tenuto nascoste al mondo
le prove di queste relazione. C’è chi ha definito ambiguo il
rapporto tra Vittoria e Abdul ma i due protagonisti a riguardo
hanno idee molto diverse. “È proprio l’amore – ha ammesso
Judi Dench – che rende la storia così
intrigante. Non si tratta di amore romantico ma di quel sentimento
d’affetto che rende più piacevole la vita e che nel film permette
alla Regina Vittoria, sempre sorvegliata dalla sua corte, di godere
di piccoli momenti di autentico relax”. Il co-protagonista
della Dench, il talentuoso ed affascinante Ali
Fazal, ha poi aggiunto: “C’è qualcosa di molto
spirituale nella loro relazione […] Non si tratta di semplice amore
romantico […] Sono intellettualmente stimolati l’uno dall’altra e
godono ogni giorno del piacere reciproco della scoperta. Trovo il
loro rapporto molto misterioso e poetico”.
Durante la conferenza stampa di
Vittoria
e Abdul, gli interpreti e il regista hanno anche
raccontato com’è stato girare insieme sul set e utilizzare la
straordinaria location di Osbourne
House.“Era la prima volta che qualcuno
utilizzava la Osbourne House come set per un film ed è stato un
grande onore poter usufruire di una location così prestigiosa”
ha dichiarato lo sceneggiatore Lee Hall. Quanto
alle riprese, pare ci sia stata una particolare attenzione per la
creazione degli abiti di scena; i costumi, soprattutto nel caso di
Judi Dench, dovevano poter dare l’illusione che
l’attrice fosse fisicamente simile alla vera Regina Victoria.
“I vestiti – ha dichiarato la Dench – sono stati un
vera sfida. Tanto per cominciare io sono molto più alta di Vittoria
e anche meno in carne […] Dopo la morte prematura del marito, il
Prince Albert, Vittoria cadde in una profonda depressione e
utilizzava il cibo come compensazione; è per questo motivo che in
tutti i suoi ultimi ritratti appare sempre i sovrappeso”.
Ma se i costumi hanno fatto penare
non poco Miss Dench, per Ali Fazal sono stati
invece d’aiuto per la costruzione del suo personaggio. “I
costumi erano fantastici, con quelle stoffe così riccamente
decorate e dai colori sgargianti […] indossarli mi ha aiutato ad
entrare meglio nel personaggio e a perfezionare la mia postura
poiché nel film sto spesso in piedi in posa affianco alla regina.
Ovviamente per prepararmi non è stato sufficiente indossare un bel
vestito. Ho dovuto iniziare molti mesi prima che le riprese
cominciassero a documentarmi sulla storia di Vittoria e Abdul.
Nessuno prima d’ora aveva mai parlato di questa storia ma Abdul è
stato davvero un personaggio importante per la Regina, forse il più
importante della sua vita”.
Ci sono storie dimenticate, storie
piene d’amore e grazia che meritano di essere raccontate ed è così
che il grande Stephen Frears, a meno di un anno di
distanza dalla sua stonata ma meravigliosa Florence Foster Jenkins, torna ad incantare il
suo pubblico con un nuovo piccolo gioiello dal titolo
Victoria and Abdul.
Ormai vecchia e affaticata,
arrivata agli ultimi anni del suo governo, la Regina
Vittoria riceve a corte un ospite inaspettato. Con la
conquista dell’India da parte dell’Impero Britannico, ora la
monarca inizia a sentire il peso delle troppe responsabilità
governative, degli anni che passano, della solitudine e a non
sopportare più la vita di palazzo. Ma il suo umore cambia
drasticamente quando a corte arriva il misterioso ed esotico
Abdul Karim.
Grazie a Frears, la straordinaria
Judi Dench torna ad interpretare, dopo ben venti
anni, la burbera e triste Regina
Vittoria stavolta raccontata dal famoso regista di
Le Relazioni Pericolose, sotto una luce diversa.
Si parla infatti dei suoi ultimi anni di vita e della sua finora
segreta storia d’amicizia e quasi d’amore con un comune ragazzo
indiano capitato a corte quasi per sbaglio. Si tratta di una
relazione di cui si era persa ogni testimonianza, una storia che
Stephen Frears ha finalmente portato allo
scoperto.
Victoria and Abdul, il film
E’ il 1887 quando la Regina
Vittoria (Judi
Dench) riceve a corte due ragazzi indiani provenienti
dalla città di Adra arrivati in Inghilterra per rendere omaggio
alla loro nuova sovrana. Il loro compito è molto semplice: dovranno
comparire al cospetto della regina portando in dono un’antica
moneta indiana come segno della loro devozione. Ma qualcosa durante
la cerimonia va storto e uno sguardo fugace tra Vittoria e il
giovane Abdul Karim (Ali Fazal),
in barba al protocollo di corte, dà inizio a qualcosa di
straordinario e quasi sconveniente. Rapita da quegli occhi
magnetici, dall’avvenenza del ragazzo e attratta da quella che
sembra una strana complicità, la regina apre le porte della sua
corte ad Abdul che si ritrova catapultato in un mondo pieno di
splendore e insidie.
Dopo la gloriosa Meryl Streep, interprete della cantante più
dolce e stonata del mondo, Stephen Frears chiama a
sé un’altra leggenda del cinema, la grande Judi
Dench, per il suo nuovo film, Victoria and
Abdul, presentato fuori concorso alla 74° Mostra
del Cinema di Venezia. Negli anni molte persone hanno
definito Frears un regista poco coraggioso, che non ama osare e
fedele solo ad un certo tipo di cinema; ebbene, pur non snaturando
il suo stile personale, stavolta Frears si spinge un po’ oltre la
sua comfort zone e regala al pubblico qualcosa di un
tantino differente.
Grazie alla superba sceneggiatura
di Lee Hall – sceneggiatore anche del famoso film
Billy Elliott -, che ha adattato per il cinema il
libro Victoria & Abdul: The True Story of the Queen’s Closest
Confidant di Shrabani Basu, il
regista imbastisce quella che potremmo definire una commedia in
costume che strizza l’occhio al genere del biopic, molto in voga
negli ultimi anni. Victoria and Abdul racconta la
storia dimenticata di questa strana e, per certi versi, ambigua
amicizia tra la regina Vittoria e un umile ragazzo indiano
diventato poi suo maestro e confidente. Essendo rimasta vedova
molto presto, la sovrana si è trovata a dover gestire il suo regno
senza l’appoggio di nessuno e a tenere a bada le sanguisughe di
corte sprofondando così in una terribile depressione. Proprio
quando si era ormai rassegnata all’idea di morire ed invecchiare da
sola rinchiusa in quella gabbia dorata, la regina incontra Abdul,
un giovane pieno di energia, entusiasta e sempre disposto a
compiacere i suoi desideri: Vittoria è affamata di conoscenza e
Abdul è un cantastorie perfetto.
Con estrema grazia e semplicità
Stephen Frears racconta la nascita e l’evoluzione
di questa bizzarra e dolcissima relazione d’amore, un sentimento
puro che guarda al di là del protocollo di corte, degli obblighi
politici, delle differenze sociali, razziali e religiose. Anche
questo di Frears, come molti altri film già visti quindi a
Venezia 74, affronta quindi la difficile tematica
dell’intolleranza e lo fa raccontando con ironia la storia di
questa improbabile coppia di amici. A conquistare sin dalla prima
inquadratura sono la sempre mitica Judi Dench, nei
panni di una perfetta regina brontolona, e lo sferzante humor
inglese che rende la prima metà del film assolutamente
irresistibile. Ma le risate ben presto lasciano il posto
all’amarezza, alle lacrime e ad un odio così violento e gratuito da
colpire lo spettatore quasi come un pugno nello stomaco; il cambio
di registro è graduale ma non per questo meno traumatico e ci
accompagna per mano verso un finale commuovente e quasi
catartico.
Stando a quanto ci suggerisce la
nuova promo art di Avengers Infinity War, Thanos
riuscirà a completare la sua ricerca delle Gemme dell’Infinito nel
film diretto dai fratelli Russo.
Nell’immagine, il Titano Pazzo
compare infatti in piedi, con la mano guantata dal potente oggetto,
completo di tutte le sue Gemme.
La sinossi: Mentre
gli Avengers continuano a proteggere il mondo da minacce
troppo grandi per un solo eroe, un nuovo pericolo emerge dalle
ombre cosmiche: Thanos. Despota di intergalattica scelleratezza, il
suo scopo è raccogliere le sei gemme dell’Infinito, artefatti di un
potere sconfinato, e usarle per piegare la realtà a tutto il suo
volere. Tutto quello per cui gli Avengers hanno combattuto ha
condotto a questo punto – il destino della Terra e l’esistenza
stessa non sono mai state tanto a rischio.
Avengers
Infinity War arriverà al cinema il 4 Maggio
2018. Christopher Markus e Stephen
McFeely si occuperanno della sceneggiatura del film,
mentre la regia è affidata a Anthony e Joe
Russo.
Il cast del film al momento è
composto da Cobie Smulders, Benedict Cumberbatch,
Chris Pratt, Vin Diesel, Scarlett Johansson, Dave Bautista, Karen
Gillan, Zoe Saldana, Brie Larson, Elizabeth Olsen, Robert Downey
Jr., Sebastian Stan, Chris Hemsworth, Chris Evans, Tom Holland,
Bradley Cooper, Samuel L. Jacksson, Jeremy Renner, Paul Rudd, Peter
Dinklage, Mark Ruffalo, Josh Brolin, Paul Bettany, Benedict
Wong, Pom Klementieff e Chadwick
Boseman.
I tre figli di un anziano uomo
colpito da un ictus sono accanto al padre, completamente
immobilizzato. La villa in cui lo assistono è sul
mare, a La calanque de Méjean, una splendida baia nei dintorni di
Marsiglia. C’è Angèle, che vive a Parigi e fa l’attrice di teatro,
Joseph perso d’ amore dietro una ragazza estremamente più giovane
di lui e perennemente depresso e insoddisfatto e Armand,
proprietario di un modesto ristorante a pochi passi dalla villa,
l’unico della famiglia rimasto a vivere nella zona. C’è poi un
pescatore sognatore e colto, invaghito fin da bambino di Angèle, un
giovane medico e i suoi ostinati genitori e dei militari che
pattugliano la costa alla ricerca di migranti.
L’occasione forzata che li
costringe a riunirsi è chiaramente il naturale spunto per fare i
bilanci di una vita, riflettere su scelte, sbagli e tragedie
che hanno segnato il loro passato. Poi, un giorno, arrivano dei
profughi a bordo di un gommone, tre bambini.
La villa, il film di Robert Guérdiguian
Robert
Guérdiguian, di madre armena e padre tedesco, ha già
diretto numerosi film di successo, tra i quali Marius e
Jeannette (1997), Marie-Jo e i suoi due
amori (2002), Le passeggiate al Campo di
Marte (2005) e Le nevi del Kilimangiaro
(2011). Spesso ha messo la città di Marsiglia, dove è nato, e i
suoi bellissimi dintorni al centro delle sue storie. Ha sempre
pensato a La Calanque de Méjean come a un teatro naturale,
dove il mare sembra il fondale di tela dipinta e, soprattutto in
inverno, quando non c’è più nessuno, assume quel sapore di
abbandono bellissimo e malinconico, un set ideale.
Ama definire “bolla all’aria
aperta” la situazione che abilmente crea intorno ai suoi
personaggi, una bolla dove “alcuni fratelli e sorelle, padri e
madri, amici e amanti si confrontano sugli amori del passato e
sugli amori che verranno. Tutti questi uomini e tutte queste donne
condividono gli stessi sentimenti: sono in una fase della vita in
cui si ha profonda consapevolezza del tempo che passa e dei
cambiamenti del mondo. Le strade che hanno a lungo spianato si
stanno gradualmente ricoprendo e devono essere costantemente
mantenute, altrimenti se ne dovranno creare di nuove”
Nonostante lo sguardo sia
concentrato sui tre fratelli protagonisti, il film affronta, in
maniera per niente marginale, il problema dei profughi. Quando fa
riferimento a questo, Guérdiguian sostiene “Per quanto
possa sembrare un’esagerazione, mi sento di affermare che oggi non
potrei fare un film senza fare riferimento ai profughi: viviamo in
un mondo in cui le persone annegano in mare quotidianamente. Ho
scelto intenzionalmente la parola “profughi”. A prescindere che sia
da imputare ai cambiamenti climatici, ad altre ragioni, o a una
guerra, queste persone sono alla ricerca di un rifugio, di un
focolare”.
La villa è una
continua riflessione sul tempo che scorre, sulla caducità della
vita, sulla casa, sulla famiglia e sulla propria appartenenza.
Ognuno dei personaggi cerca di fare i conti con questo. Gli attori
sono tutti bravissimi, perfettamente calati nelle rispettive parti
e assolutamente credibili come fratelli che hanno fatto scelte
differenti che li hanno portati a vivere lontani l’uno dall’altro.
L’attrice che interpreta con grande delicatezza e introspezione
Angèla è la moglie del regista, Ariane Ascaride,
già apparsa in altri suoi lavori. Molto struggente è un vecchio
filmato in S8, inserito come flashback, dove si vedono i
protagonisti giovani e spensierati, ancora spavaldi nei confronti
della vita che verrà. La scrittura risulta assai efficace,
estremamente naturale e mai forzata, abilmente punteggiata da
momenti ironici che si contrappongono invece alla drammaticità
degli eventi. La regia è delicata, intima, umana, mai
invadente.
Il finale di La
villa è incantevole, affatto scontato. È il degno
coronamento di un film come solamente i francesi sanno fare.
Due anziani coniugi, Ella
(Helen Mirren) e John (Donald
Sutherland) decidono di sfuggire dalle attenzioni
apprensive-oppressive dei figli per compiere un lungo viaggio
attraverso l’America a bordo di un camper con cui andavano in
vacanza negli anni settanta. The Leisure Seeker è
il nome che hanno affettuosamente dato al veicolo. Lui è malato di
Alzheimer, la memoria lo abbandona di continuo, mettendolo nelle
condizioni di dover essere sorvegliato continuamente, anche se il
suo fisico è ancora forte. Insieme però riescono ad andare avanti,
compensandosi e completandosi, come fossero una persona sola. Il
viaggio sarà l’occasione per conoscersi ancora meglio e colmare
quelle lacune e tutte quelle cose in sospeso, piccole e grandi, che
ineluttabilmente si accumulano dopo una vita vissuta assieme.
The Leisure Seeker è per Paolo Virzì il primo film interamente
girato negli USA in lingua inglese, anche se in passato aveva già
compiuto un’incursione sul suolo americano con My Name is
Tanino (2002). È tratto dal romanzo omonimo di
Michael Zadoorian.
Virzì dirige due autentici mostri
sacri, due attori del calibro di Helen Mirren e
Donald Sutherland. Lo fa con mano ferma e grande
sensibilità, costruendo una coppia di navigati anziani coniugi in
grado di passare disinvoltamente e con grande intelligenza da un
registro recitativo all’altro, commuovendo, divertendo, facendo
riflettere, creando apprensione e grande empatia. Il film è tutto
sulle loro spalle, per quasi due ore, e lo sostengono con vigore,
non lasciando mai trasparire fatica o forzature.
Paolo Virzì dice: “Mi sembra che ne sia
venuto fuori un road movie sulla libertà di scegliere ogni istante
della propria vita, con la semplicità di una canzone. Una ballad
buffa e triste, con qualcosa di irragionevole e di pazzoide, ma
vitale e felice”. E in questo è assolutamente riuscito, senza
ombra di dubbio. Il film è perfetto, un vero ricettacolo di
emozioni e sentimenti. Ma la sensazione finale è comunque strana, è
come se il film lasciasse in una condizione di irrisolto, come se
si volesse qualcosa di più, ma non si riuscisse bene a capire cosa.
Semplicemente latita uno sguardo personale, una caratterizzazione
maggiore, cosa che comunque potrebbe anche essere una scelta
strategica, vista la sua prima prova con un sistema produttivo
differente e così esigente. Nonostante la sua altissima
professionalità, la sua regia ineccepibile, l’ orchestrazione
perfetta di tutto il cast artistico e tecnico, manca quello sguardo
personale con il quale l’autore livornese si è imposto fin
dall’inizio, film dopo film. Certo, il cinema di Virzì e le sue
relative caratterizzazioni autoriali sono fortemente legate a
un contesto italiano, ma dove sono quegli stilemi che aveva
cominciato a disseminare a partire da La bella
vita (1994) passando per Ovosodo
(1997) e Caterina va in città (2003), fino ad
arrivare a Tutta la vita davanti (2008),
La prima cosa bella (2010) La pazza gioia (2016)?
In The Leisure
Seeker manca un po’ di Paolo Virzì in più.
Hanno partecipato alla première gli
attori Alessandro Borghi, Filippo
Nigro, Claudia Gerini, Giacomo
Ferrara, Eduardo Valdarnini e
Francesco Acquaroli, i registi Michele
Placido, Andrea Molaioli e
Giuseppe Capotondi, i produttori Gina
Gardini e Riccardo Tozzi e Erick
Barmack, vice presidente degli International Originals
Netflix.
Suburra, la serie
sarà disponibile su Netflix in tutti i Paesi in cui il servizio è
attivo a partire dal 6 Ottobre 2017.
Sinossi:
Suburra, la serie, la
prima serie originale Netflix italiana, debutterà il 6 Ottobre 2017
e raggiungerà 100 milioni di abbonati nei 190 Paesi in cui il
servizio è attivo, rendendo la produzione originale Netflix
disponibile per un pubblico globale.
Diretta da Michele Placido, Andrea
Molaioli e Giuseppe Capotondi, Suburra, la
serie, è un crime thriller
ambientato a Roma, che descrive come la Chiesa, lo Stato e la
criminalità organizzata si scontrano, confondendo i limiti della
legalità e dell’illecito nella loro feroce ricerca del potere.
Al centro della storia troviamo tre
giovani uomini: Numero 8 (Alessandro Borghi), Spadino (Giacomo
Ferrara) e Lele (Eduardo Valdarnini), diversi per origine,
ambizioni e passioni, che saranno chiamati a fare alleanze per
realizzare i loro più profondi desideri.
Gli altri personaggi includono Sara
Monaschi (Claudia Gerini), Amedeo Cinaglia (Filippo Nigro), Samurai
(Francesco Acquaroli) e Manfredi Anacleti (Adamo Dionisi). Prodotta
da Cattleya.
Sarà presentato fuori concorso a Venezia
74The private Life of a modern
woman, il film di James Toback con
protagonista Sienna Miller.
The private life of a
modern woman racconta di Vera Lockman, un’attrice di
successo che vive da sola in un favoloso loft newyorkese, si agita
nel suo letto durante un incubo nel quale lotta con Sal, il suo
spacciatore ed ex ragazzo, prima di sparargli e ucciderlo.
Svegliatasi di soprassalto, scrive nel suo diario che l’omicidio
dell’incubo è effettivamente avvenuto il giorno prima e che Sal
giace morto in un baule in soggiorno. Leon, amante di Vera, arriva
e viene congedato, definitivamente.
Franklin, un amico cineasta, passa
a farle visita, preoccupato. Mette Vera sotto torchio, lasciandola
confusa e un po’ spaventata. Vera trasporta con l’auto il baule in
una zona isolata e lo fa rotolare dentro a un lago. Torna nel suo
loft, e trasalisce alla vista di un detective della narcotici,
McCutcheon, venuto a farle delle domande su Sal. Vera pensa che Mc
Cutcheon abbia creduto alla sua falsa storia. Vera serve la cena al
suo amato e malandato nonno, Arthur, e a sua madre, Elaine.
Successivamente, Carl Icahn, ex compagno di classe di Arthur, passa
a trovarli. Vera e Carl sono emotivamente in sintonia. Il giorno
dopo Vera, per la prima volta calma, scrive. Il suo umore è turbato
da un crescendo di sirene della polizia. Si precipita alla finestra
e vede McCutcheon. I loro sguardi si incrociano. Le manette la
attendono.
James Toback ha così
commentato“Ho concepito e scritto The
Private Life of a Modern Woman per Sienna Miller. Il nucleo
tematico del film è costituito dalle mie personali fissazioni:
l’affermazione del sé, l’impulso a creare, la tensione irrisolta
tra rabbia e amore, l’onnipresente consapevolezza della morte.
Strutturalmente, ho tentato di aderire (con licenza poetica) alle
unità aristoteliche di tempo, luogo e azione: la struttura della
tragedia greca. Volendo fare un’analogia letteraria, il film è una
novella, piuttosto che una storia breve o un romanzo. Come sempre,
mi sono sentito in dovere di inserire nella pellicola opere d’arte
che hanno arricchito la mia vita ovunque potessero valorizzare il
film: il Requiem tedesco di Brahms, la Settima
Sinfonia di Shostakovich, la Messa in Si minore di
Bach, la versione dei Cleftones di Please Say You Want
Me e il Giardino delle delizie di Bosch.”
Sarà presentato oggi fuori concorso
Vittoria
e Abdul, il nuovo film di Stephen Frears e che vede
protagonista Judi Dench nei panni della Regina
Victoria.
Victoria &
Abdul racconta la vera, straordinaria storia
dell’incredibile amicizia tra la regina Vittoria e il giovane
segretario Abdul Karim, diventato suo precettore, consigliere
spirituale e devoto amico. Nel 1887, Abdul parte dall’India per
donare alla regina una medaglia in occasione dei festeggiamenti per
il Giubileo d’oro, ma inaspettatamente entra nelle grazie
dell’anziana sovrana. L’inaudito e incredibile legame scatena una
rivolta all’interno della famiglia reale, ma la regina si oppone a
corte e parenti. Victoria & Abdul esplora con
ironia tematiche come razza, religione e potere, mettendo in scena
le assurdità dell’impero alla luce di un’amicizia insolita e
profondamente commovente.
Stephen Frears ha così commentato
il film: Non conoscevo la storia della regina Vittoria e di
Abdul, non sapevo dell’affetto che la sovrana provava per il
servitore indiano. Lee Hall ha scritto una sceneggiatura brillante,
divertente, attuale e romantica, su diversità e classi sociali,
sulla donna più potente del mondo e su un servitore musulmano. Per
me era più riconducibile a The thief of
Bagdad (Il ladro di Bagdad) che ai film
britannici sull’impero anglo-indiano; ho detto che l’avrei
realizzato soltanto con Judi Dench, e con mia immensa fortuna, lei
ha accettato
Sarà presentato in concorso il
nuovo film di Paolo Virzì The Leisure
Seeker, con protagonisti Helen Mirren, Donald
Sutherlande tratto dall’omonimo
romanzo di Michael Zadoorian.
The Leisure
Seekerè il soprannome del vecchio camper con
cui Ella e John andavano in vacanza coi figli negli anni settanta.
Per sfuggire a un destino di cure mediche che li separerebbe per
sempre, la coppia sorprende i figli ormai adulti e invadenti
salendo a bordo di quel veicolo anacronistico per scaraventarsi
avventurosamente giù per la Old Route 1, destinazione Key West.
John è svanito e smemorato ma forte, Ella è acciaccata e fragile ma
lucidissima: insieme sembrano comporre a malapena una persona sola.
Quel loro viaggio in un’America che non riconoscono più – tra
momenti esilaranti e altri di autentico terrore – è l’occasione per
ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e
devozione, ma anche da ossessioni segrete che riemergono
brutalmente, fino all’ultimo istante.
Commento del regista: Non
avevo previsto che un giorno avrei diretto un film ambientato del
tutto in un altro Paese. Finora mi ero sempre sottratto a progetti
americani dei quali mi era stata offerta la regia. Mi hanno
convinto a provare almeno a scrivere una sceneggiatura e ho
promesso ai produttori: se Helen Mirren e Donald Sutherland
interpretano Ella e John, faccio il film. Era solo un modo per
spararla grossa e mettere le mani avanti. Il destino però mi ha
spiazzato: imprevedibilmente Mirren e Sutherland hanno accettato.
Poche settimane dopo facevo i bagagli per attraversare l’oceano:
non potevo privarmi del godimento di condividere un’esperienza con
due attori così geniali e leggendari. Ma senza alcun intento di
diventare “un regista americano”. Mi sento figlio del cinema
italiano, seppure ormai la condivisione globale di storie e visioni
renda labili e obsoleti i confini territoriali. Anche sulla East
Coast americana ho cercato di non rinunciare alle mie consuetudini
di regista nato in Italia, anzi a Livorno, per usare ingredienti
che ho a cuore da sempre: verità, umanità, ironia, provando a
mescolare commedia e tragedia, disavventure comiche e istanti di
gioia pura. Mi sembra che ne sia venuto fuori un road
movie sulla libertà di scegliere ogni istante della
propria vita, con la semplicità di una canzone.
Una ballad buffa e triste, con qualcosa di
irragionevole e di pazzoide, ma vitale e felice.
Hanno sfilato sul red carpet di
Venezia 74George Clooney in compagnia dei suoi attori
protagonisti, Matt Damon e Julianne
Moore, volti dell’oscuro Suburbicon (leggi la
recensione), pellicola in concorso alla Mostra. Ecco
le foto della premiere: [nggallery id=3158]
Foto di Aurora Leone.
Il Festival di Venezia 2017 si svolge al Lido dal 30 agosto al 9
settembre.
E’ stato presentato oggi alla
stampa Suburbicon,
film che vede George Clooney indossare ancora una volta i
panni del regista, interpretato da Matt Damon e
Julianne Moore, in concorso qui alla 74°
Mostra del Cinema di Venezia. Sceneggiato dai
Fratelli Cohen e diretto da Clooney, il film ha
conquistato la critica grazie al suo aspetto così poco
convenzionale e alle tematiche trattate. Si parla infatti di
razzismo, intolleranza e violenza in una piccola cittadina della
periferia americana degli anni cinquanta, argomento incredibilmente
attuale nonostante l’ambientazione del film.
Data la natura del film e le
pesanti accuse rivolte alla società americana ancora così poco
tollerante verso le minoranze etniche e religiose, George Clooney ha voluto dire la sua e fare
una piccola riflessione politica sulla tesissima situazione sociale
negli States. “Pensavamo tutti che, dopo anni di battaglie e
violenza, il razzismo fosse ormai stato quasi del tutto debellato e
invece ancora assistiamo ad episodi come quello di Charlottsville
[…] Ambientare il film in una piccola città della periferia era una
provocazione; nel film sono tutti impegnati a scacciare l’unica
famiglia di colore, accusandola di portare scompiglio nella
comunità quando il pericolo risiede altrove ed è molto più
spaventoso”. Anche Matt Damon sembra
condividere il punto di vista di Clooney e aggiunge: “In posti
del genere puoi anche correre per strada sporco di sangue ma gli
altri incolperanno sempre quelli che non si sono integrati, i
diversi: è la definizione di White Privileged”.
Parlando di Matt
Damon, che abbiamo già visto nel ruolo di protagonista nel
film di apertura di Venezia 74, Downsizing, la sua
incredibile trasformazione da bravo ragazzo ad assassino
psicopatico ha sorpreso e deliziato il pubblico. “La cosa più
divertente del film è proprio Matt Damon – ha dichiarato Clooney –,
non è mai stato così spaventoso!”. Lo stesso Damon ha però poi
ammesso: “Non mi capita spesso di interpretare ruoli da cattivo
come questo ma tutto risulta più facile quando hai dalla tua un
regista così talentuoso come George […] Ricordo che una volta
Alexander Payne [regista di Downsizing]
mi disse che il mio più grande pregio era il mio aspetto così
poco da star, mi disse che sembravo un uomo comune e che proprio
questa era la mia caratteristica più interessante”.
Alla bravura di Matt
Damon si contrappone quella della bellissima
Julianne Moore che per Suburbicon
si è sdoppiata interpretando due sorelle gemelle omozigote, due
facce della stessa medaglia. “Ho proposto io a George l’idea di
interpretare da sola entrambe le sorelle. Mi incuriosiva il fatto
che, nonostante i legami d’affetto e di sangue, una delle due
desiderasse così ardentemente la vita dell’altra da ucciderla per
coronare il suo sogno e realizzare una sua fantasia”. Nel film
le due donne, oltre ad essere caratterialmente differenti, si
distinguono anche dal colore dei capelli, biondo per Rose, la
sorella buona, e castano scuro per Margaret, la sorella cattiva.
“È stata sua [si riferisce a Julianne Moore] anche
l’idea di far tingere di biondo i capelli di Margaret dopo la morte
della sorella – confessa divertito il regista -, una delle cose più
inquietanti del suo personaggio [ride]“.
C’è stato chi, pur amando il film,
ha definito Suburbicon
un film pieno di rabbia il cui scopo era distruggere il concetto di
famiglia tradizionale americana. “Creare e girare un film
solitamente porta via un paio di anni quindi la rabbia a cui si fa
riferimento, che poteva esserci all’inizio delle riprese, con il
tempo tende a scomparire o a cambiare ed evolversi – ha
dichiarato il regista Clooney – ma, si, il nostro principale
proposito era proprio quello di distruggere lo stereotipo della
perfetta famiglia […] Quello che affascina della periferia è la
possibilità di avere, per pochi soldi, una piccola e graziosa casa
con un giardino e magari una piscina […] per noi quindi trasformare
questo piccolo angolo di paradiso in un luogo pieno di violenza e
depravazione era una provocazione […] volevamo mostrare che non
sempre il male proviene da chi è diverso da noi ma anche da coloro
che ci sono molto vicini poiché tutte le persone sono in grado di
nascondere la propria vera natura […] I veri mostri non sono
persone di aspetto sgradevole sempre intente a lisciarsi i baffi ma
persone normali che fanno scelte sbagliate e diventano mostri. Un
po’ come i nostri protagonisti; sono persone normali che assoldano
due killer perché non sono in grado di uccidere e che poi di fatto
si tramutano anch’essi in mostri. Quanto alla rabbia, beh, le
persone oggi hanno tutto il diritto di essere arrabbiati”.
Ma se la rabbia, l’odio, la
violenza e una certa dose di sadismo sembrano governare su Suburbicon,
la speranza sopravvive ancora negli occhi di Nicky. Dopo aver
assistito a eventi terribili e traumatici c’è l’ultima scena del
film, in cui il bambino gioca con il ragazzino di colore della casa
accanto, che per il regista George Clooney e il
compositore Alexandre Desplat ha
un significato molto particolare. “Era sempre stata una nostra
idea utilizzare questa scena a chiusura del film […] Non volevamo
chiudere una storia così turbolenta con un finale classico come
l’adozione del piccolo Nicky da parte di un’altra famiglia per
questo motivo abbiamo scelto i due bambini. Il fatto che entrambi,
dopo aver passato la notte peggiore delle loro vite, avessero
ancora la forza di giocare insieme a baseball, era per noi il
finale perfetto. Anche la musica per quella scena era di vitale
importanza; fui proprio io a parlare ad Alexander quello di cui
avevo bisogno e lui compose per il film una stupenda melodia,
dolce, spensierata e carica di speranza”.
Dopo il Leone d’Oro del 2009 di
Lebanon, Samuel Maoz torna a
raccontare la guerra, la vita e la morte alla Mostra
del cinema di Venezia con Foxtrot,
selezionato nel Concorso ufficiale di Venezia 74.
Toccante e brillante allo stesso
tempo, il film racconta il dolore di un padre che scopre la morte
del figlio arruolato nell’esercito. Il dolore, esplode in apertura
film con una violenza insostenibile, quando viene comunicato ai
genitori del soldato la perdita del figlio. La seconda parte del
film si sposta invece alla vita del soldato, con i suoi
commilitoni, nel mezzo del nulla, alle prese con un posto di blocco
fantasma, inutile, mentre il conteiner dove i quattro giovani
soldati dormono sprofonda nel fango. Nella parte conclusiva, il
terzo atto, si cambia ancora tono, e si va ad indagare il dolore
dei genitori, le dinamiche di coppia, il loro amore reciproco e per
il figlio.
Toccante e brillante allo stesso tempo
Maoz cerca con
formalizzazioni alla Sorrentino di dare un tocco magico, onirico,
al suo racconto che si concentra comunque sulle brutture della
guerra. La scelta precisa è quella di utilizzare un tono surreale
per la sequenza centrale e spostarsi poi sull’iperrealismo nella
prima e nella terza scena.
Il risultato è una danza che torna
al punto di partenza, come il foxtrot appunto, e che si fa metafora
di una parabola umana dolorosa e piena di segreti nascosti nel
passato dei protagonisti. Questo grande dolore si esterna poi, in
una scena liberatoria e malinconica, nel finale, in una
chiacchierata schietta, romantica, realista, tra i due coniugi che
hanno perso il loro primogenito.
La sequenza meglio realizzata è
però la seconda, quella che descrive la vita dei soldati, dove si
applica al meglio la tendenza onirico/surrealista che trova la sua
massima espressione in una bella sequenza animata. Le quattro vite,
i quattro volti, accomunati dalla divisa e dal fango ma tutti ben
distinti tra loro, appresentano una gioventù e un futuro che non è
dato per scontato, che non è detto arrivi per tutti. In una danza
circolare e senza scopo, la poesia della sofferenza di Maoz in
Foxtrot si svela riflessione sull’esistenza,
ammantata di un gusto per il gioco e per il sorriso che sembre
lenire il dolore delle ferite del cuore.
La Mostra è sempre bellissima, ma
non ci vivrei anche per un altro paio di motivi, su cui stavo
giustappunto riflettendo. Il primo: uno pensa sempre (sempre, anche
se ormai dovrebbe saperlo) che quando arrivi in proiezione presto e
ti fanno sedere hai il miracolo di un quarto d’ora pè cazzi tua, in
cui stare tranquillo, controllare le e-mail, scrivere post cazzoni
come questo, messaggiare la fidanzata, magari schiacciare un
pisolino estemporaneo in attesta che inizi il film. Invece no.
Tocca fare i conti con gli scassacazzi che ti chiedono di alzarti
ogni due secondi per prendere posto (che le file sono strettine, e
tocca incastrarsi che manco al Tetris) e se, come me, hai esigenza
di sederti laterale per andare al cesso in qualsiasi momento di
emergenza è dura.
Anche perché, per la quinta legge di
Murphy dopo servire la salute pubblica, proteggere
gli innocenti, difendere la legge e non uccidere alcun membro
dell’OCP, questi chiedono di entrare sempre dal mio lato della fila
anche se poi si devono sedere al posto sull’estremo opposto. Non
fraintendete, non sono un ipocrita: siamo tutti lo scassacazzi di
qualcun altro, è solo che quest’anno questa cosa la sento
particolarmente.
Il secondo: le maledettissime
cuffiette per la traduzione simultanea della sala conferenze: non
funzionano MAI. Il jack fa sempre contatto e per riuscire a
captare qualcosa lo devi tenere fermo in posizioni assurde, che se
ci aggiungi il fatto di essere costantemente stracarico di arnesi
per il lavoro, dal computer all’iPad passando per il tradizionale
blocco di appunti, e di vari giornali, giornaletti e cartelle
stampa che ti ammollano spietatamente a ogni angolo della
manifestazione, rende necessario un duro allenamento annuale con un
maestro esperto di yoga. E spendeteceli du’ spicci. Voglio dire, li
avete spesi per il documentario di Friedkin.
Comprà un duecento audioguide usate dagli Uffizi no?
Altra sonora delusione, e
oggi la possiamo dire perché la Carducci è tornata e non si
parlotta degli assenti, è la sua disillusa promessa di portare con
sé un drone personale per le riprese e soprattutto selfie aerei con
gli animali famosi. Già immaginavamo epiche scene di
autoperculamento iper-tecnologico, e che il drone cominciasse a
prendere coscienza come HAL-9000, si innamorasse
di lei e facesse un massacro per gelosia di tutti i suoi
ammiratori, con ampi schizzi di sangue e materia cerebrale che
avrebbero reso il red carpet ancora più vivace. E invece no, non lo
ha portato.
C’è da dire, a parziale scusante,
che in tempi di terrorismo far passare un drone potenzialmente
carico di esplosivo per i serrati controlli di sicurezza
organizzati per la Mostra (ieri un agente me guarda in faccia, con
tutto che ho una barba da Imam e almeno quattro borse diverse
appresso, e mi dice “ma no tranquillo, passa. Ho fiducia”) sarebbe
stato quantomeno complicato. Però che diamine, una promessa è una
promessa.
Carducci, te volemo bene lo stesso,
ma non si fa. Avevamo pure preparato una roboante locandina, ve la
mostriamo, perché le cazzate sono come il maiale, non si butta via
niente. Anche se – altro colpo basso – i petali del red carpet che
avevo inserito con estrema cura grafica (perché a ste cazzate ci
tengo) come già vi avevo anticipato, non ci sono più. E per questo
facciamo le rimostranze a Raucone, che qui su
Terra 2 è il presidente della Biennale. Lui pure lo perdoniamo
perché quest’anno la selezione dei film è particolarmente buona –
anche se questo ci complica il lavoro: i film belli sono
difficilmente perculabili).
Oggi per esempio è il giorno di
Suburbicon, cinica e spietata visione di
George Clooney su un’America degli anni cinquanta
ma che ricorda da vicino quella di Trump, con gente che mette su
muri per sfuggire alla visione dei negri, omicidi in famiglia, cose
così. A me piace il film ma piace soprattutto Julianne Moore, per
cui cerco di farmi una foto con lei decidendo di investire mezz’ora
e non di più, seguendo anche l’onda di improbabili soffiate secondo
cui a una certa precisa ora si dovrebbe trovare a un certo preciso
posto. Date retta. So’ cazzate. In compenso è arrivata
Milena Vukotic. Buttala via. Io la stimo
tantissimo, come direbbe il compianto Paolo
Villaggio.
Quindi la foto me la faccio con lei
e alla Julienne me ce faccio le carote. Clooney si presenta sempre
come un regista raffinato e un uomo di grande fascino e intelletto.
Peccato il fiuto per la politica. Un anno e mezzo fa lo incontrai a
Cannes per Money Monster e mi disse
‘tranquillo, Trump non vincerà mai‘ (true story).
Complimentoni proprio. Come se non bastasse Vì è stata sequestrata
da Alessandro Borghi col toupet per provare insieme una scena di
Suburra – sì, oggi passano solo film che
iniziano col prefisso ‘Subur’ – la serie, e anche se l’Isis ancora
non si è fatta sentire le bombe arrivano. Ma sono d’acqua. Ieri non
mi sono fracicato per miracolo, oggi vedremo. E come direbbe George
– e forse pure Paolo Villaggio – ‘What else?’
L’apparenza inganna e a volte i
pregiudizi possono trasformare le nostre vite rendendoci schiavi
dell’odio e dell’intolleranza, alterando la nostra percezione della
realtà. C’è questo e molto di più nel nuovo film da regista di
George Clooney dal titolo
Suburbicon. Dopo aver archiviato il poco
convincente
Monuments Men di qualche annetto fa, il bel George ci
riprova e regala al pubblico della Laguna un film pieno di humor
nero.
Suburbicon è una piccola cittadina
di periferia degli anni cinquanta con case modeste e di buongusto,
abitata esclusivamente da persone bianche. Tutto scorre serenamente
fino a quando una famiglia di colore decide di ‘turbare’ la
tranquillità dei cittadini bigotti di Suburbicon
comprando una casa e di stabilirsi in città. Ma mentre tutti gli
abitanti si mobilitano per scacciare queste persone indesiderate,
c’è qualcun altro invece che progetta qualcosa di nefasto.
Nato da un vecchio soggetto datato
1999 dei fratelli Ethan e Joel Cohen – che hanno
curato ovviamente la sceneggiatura del film -, Suburbicon utilizza
l’apparente tranquillità della classica periferia americana degli
anni cinquanta per sferrare non poche frecciatine all’attuale
politica degli Stati Uniti che sembra voler ancora proteggere e
giustificare atti di violenza, intolleranza ed odio raziale. Una
casetta in periferia con una bella staccionata e un piccolo
giardino dove fare giocare i bambini è da sempre considerata come
uno dei simboli del sogno americano per ogni straniero che decida
di vivere negli States. Attraverso le vicende del piccolo Nicholas
e della sua famiglia, George Clooney invita gli spettatori a
riflettere su quanto la paura verso ciò che è diverso e sconosciuto
continui a condizionare le nostre azioni e ci renda ciechi dinnanzi
alle ingiustizie della vita.
Suburbicon, il film
Una famiglia di origini
afroamericane si è appena trasferita a Suburbicon proprio nella
casa accanto a quella del piccolo Nicky (Noah
Jupe) che vive con suo padre Gardner Lodge (Matt
Damon), sua madre Rose (Julianne
Moore) e la zia, gemella omozigote di Rose, Margaret
(sempre
Julianne Moore). L’arrivo dei Meyers, che crea
malcontento tra i cittadini, distrae l’attenzione di tutti dalla
vera bomba ad orologeria nascosta nel quartiere. Ma quando una
banda di criminali entra in casa dei Lodge e uccide con una dose
letale di cloroformio Rose, nella tranquilla Suburbicon
niente sembra più come prima.
Dopo il grandioso successo ottenuto
con il suo Good Night, Good
Luck, film che stregò pubblico e critica a Venezia nel
lontano 2005, l’affascinante mister Clooney torna alla
Mostra del Cinema con un film che sorprende per il
suo stile vintage e sfrontato e le sue tematiche così
incredibilmente attuali. Suburbicon è un po’ thriller e un po’ noir
ed è caratterizzato da un irresistibile humor nero, merito anche e
soprattutto della sceneggiatura dei fratelli
Cohen. La storia si svolge durante i problematici anni
cinquanta, un periodo emblematico della storia americana fatto di
eccessi e contrasti; da una parte il rock da ballare, le gonne a
ruota e i colori pastello e dall’altra l’incolmabile divario tra
bianchi e neri e le continue manifestazione d’odio razzista che
infiammano le città. La decisione di George Clooney di usare il piccolo
paradiso terrestre da depliant di Suburbicon come
teatro di crimini orribili e inaspettati non è affatto casuale; si
tratta di una provocazione, di mostrare cioè come un uomo, accecato
dall’odio e dai pregiudizi, riesca a farsi ingannare dalle
apparenze e che il male non conosce distinzione di razza.
Il geniale sadismo dei Cohen trova
sfogo quindi nell’impeccabile regia di Clooney ma anche in un cast
di attori davvero eccezionali; dopo averlo visto per anni
interpretare il ‘bravo ragazzo’, finalmente Matt
Damon ci mostra il suo lato oscuro imbastendo un
personaggio freddo, cinico e spietato che trova in Julianne
Moore una complice tanto inquietante quanto
affascinante. Ma a meritare una standing ovation è Oscar Isaac che, pur avendo un ruolo
secondario, riesce a rubare la scena anche alla meravigliosa
Julianne regalandoci una delle scene più belle dell’intero film,
carica di tensione e tagliente umorismo.
E’ proprio grazie al suo
personaggio infatti che la situazione precipita e la storia prende
una piega decisamente inaspettata. Così come il piccolo Nicky, che
guarda il mondo che lo circonda con l’ingenuità caratteristica dei
bambini, anche lo spettatore si lascia rapire dalla surreale
bellezza di Suburbicon per poi avere purtroppo un
brusco risveglio. Tutto sembra oscuro, corrotto e perduto per
sempre ma, mentre gli adulti continuano la loro incessante lotta
per la supremazia, che sfocia nella violenza e nel sangue, è
l’immagine di due bambini, uno bianco e uno di colore, che giocano
a football insieme, a mandare un messaggio di speranza.
Dopo il passaggio all’ultimo Marchè
del Festival di Cannes, al Biografilm Festival di Bologna e a
numerose rassegne cinematografiche, la black comedy in
costume Nobili Bugie, opera prima del regista
Antonio Pisu prossimamente nei cinema italiani distribuita da
Genoma Films, è stata insignita di due importanti premi
durante la 74° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di
Venezia.
L’iconicaClaudia Cardinale, tra i protagonisti
della pellicolaNobili Bugie, verrà
premiata con il prestigiosoPremio Kinéo –
Diamanti al Cinema, riconoscimento dovuto
a un’interprete femminile simbolo del cinema italiano.
L’Associazione culturale Kinéo
assegnerà inoltre un ulteriore riconoscimento al film Nobili
Bugie, premiando Antonio Pisu e il cast del film con il
Premio Kinéo alla Miglior Opera Prima.
La black comedy in
costume Nobili Bugie, opera prima del regista
Antonio Pisu, vede tra i suoi protagonisti l’iconica
Claudia Cardinale assieme a Raffaele Pisu e tra
gli altri Tiziana Foschi, Federico Tolardo, Gaia Bottazzi,
Silvia Traversi, Carlotta Miti, Eraldo Turra, Luciano Manzalini,
Leo Mantovani, Romano Treré, Tita Ruggeri e Franco Colomba,
sarà distribuita prossimamente in Italia da Genoma Films.
Sinossi: 1944. Italia. Sui colli
Bolognesi, una famiglia di nobili decaduti sopravvive al proprio
declino economico nell’unico luogo che ancora possiede: la tenuta
di Villa La Quiete. Il Duca Pier Donato Martellini e la Duchessa
Romola Valli, stanchi e avviliti, se ne fregano della guerra e
risiedono nel loro podere con la servitù ormai ridotta ai minimi
termini. Come se non bastasse devono prendersi cura del figlio
Jean-Jacques, immaturo cinquantenne che passa le sue giornate a
comporre poesie dedicate al Bologna FC. La soluzione a tutti i
problemi si presenta alla villa in un pomeriggio qualsiasi; un uomo
e due donne in fuga, chiedono loro rifugio; sono ebrei, disposti a
pagare con un lingotto d’oro ogni mese di permanenza. La Duchessa,
dopo aver accettato, fa di tutto per sedare sul nascere ogni
tentativo della servitù e del marito di rubare il tesoro agli
ospiti ed ordina di aspettare che la famiglia di “rifugiati”
mantenga la promessa e doni più lingotti possibili al fine di dar
la possibilità di riacquistare i loro averi impegnati. I lingotti
aumentano e proprio nel momento in cui il Duca e la Duchessa
intravedono finalmente una rinascita nobiliare, la guerra finisce.
Terrorizzati dalla possibilità di perdere l’unica fonte di
guadagno organizzano rocamboleschi escamotage, pantomime e
sotterfugi per fingere che il conflitto non sia ancora finito sino
a quando un uomo che i rifugiati conoscono bene si presenta nella
Tenuta e cambierà le carte in tavola.
È il grande giorno di George Clooney a Venezia 74,
dove l’attore e regista ha portato in concorso il suo ultimo film,
Suburbicon, la realizzazione di una sceneggiatura
dei Fratelli Coen. Nel cast del film Matt
Damon e Julianne Moore.
Ecco le foto del
photocall: [nggallery id=3158]
Foto di Aurora
Leone.
Il Festival di Venezia 2017 si
svolge al Lido dal 30 agosto al 9 settembre.
Brawl in Cell Block
99 è il secondo lungometraggio di di S.
Craig Zahler in veste di sceneggiatore, regista e
compositore. Il regista racconta che tutte riprese, soprattutto
quelle di azione e combattimento, che sono veramente tantissime,
sono state inserite nel film con pochissimi tagli di montaggio e
nessuna manipolazione digitale successiva, in modo che queste
sequenze apparissero reali e non costruite minuziosamente in fase
di editing, come sempre più spesso avviene. Questo è stato
altamente impegnativo per la troupe, ma soprattutto per Vince Vaughn, che dopo un lungo allenamento
intenso e stressante, ha dovuto compiere azioni molto difficili e
rischiose in continuità, senza avere la possibilità di farsi
sostituire da uno stuntman.
In Brawl in Cell Block
99 Bradley (Vince
Vaughn) viene licenziato e nello stesso giorno scopre
che sua moglie (Jennifer Carpenter) lo tradisce.
Per provare a costruirsi una vita migliore e riallacciare i
rapporti con lei è costretto a lavorare come corriere per un
narcotrafficante, con il quale aveva già avuto a che fare in
passato. La sua situazione sembra finalmente migliorare, i soldi
non gli mancano, può permettersi una bella casa e un buon tenore di
vita, inoltre sta per diventare padre. Ma un giorno, durante una
consegna, si trova coinvolto in una sparatoria tra la polizia e due
partner che gli sono stati imposti contro la sua volontà da un
nuovo socio del suo capo. Bradley viene arrestato e condannato a
sette anni di carcere. Sarà per lui l’inizio di un turbine di
soprusi e violenza, oltre ogni immaginazione.
Il personaggio di Bradley
è descritto progressivamente nella storia attraverso tragedie,
successi, arresto, condanna, ricatto, mistero e violenza, in un
crescendo di tensione che tiene per buona parte del film molto alta
l’attenzione dello spettatore. Ci sono diversi snodi narrativi
vincenti, caratterizzati da numerosi colpi di scena, soprattutto
nella prima parte e dopo la metà. Poi purtroppo, inaspettatamente,
tutto precipita e quello che era stato costruito sapientemente,
come un perfetto meccanismo di genere, deraglia miseramente, o
meglio impazzisce letteralmente, trascinando la pellicola in
territori assurdi fino al trash. Tutto quello che fino a quel
momento risultava credibile, pur nella fisiologica esagerazione di
un action movie, diventa grottesco, per non dire ridicolo. Anche
gli effetti speciali non aiutano, nella parte finale sono talmente
beceri e riconoscibili da sembrare realizzati per un film a basso
budget e da persone veramente poco pratiche, cosa che contribuisce
ad affondare definitivamente il film.
Peccato che dei bravi attori, dei
personaggi ben costruiti e una perfetta regia, siano stati
compromessi da una scelta finale totalmente inadatta, che però
potrebbe essere assai apprezzata dagli amanti del cinema
spazzatura… e sono tanti.
Più di sessantacinque milioni di
persone nel mondo sono state costrette a fuggire da carestie,
cambiamenti climatici e guerre, provocando il più grande esodo
umano dalla seconda guerra mondiale. Ai Weiwei ha
raccolto immagini nel corso di un anno, in varie parti del pianeta,
per documentare in un epico viaggio cinematografico questa
sconvolgente migrazione di massa. È nato così Human
Flow.
Ai Weiwei è un
autore cinese, famoso per aver sfidato e denunciato pubblicamente
il governo di Pechino e per essere stato invitato alla Biennale
d’Arte Contemporanea di Venezia varie volte. È un artista che
sconfina tra varie forme d’espressione e che spesso ha scelto il
mezzo del documentario per portare avanti le sue istanze espressive
e ideologiche. Tra i suoi lavori più famosi ci sono A
Beautiful Life, Stay Home e
Remember.
Human Flow mostra
la catastrofica portata della crisi dei rifugiati, lontana da ogni
forma d’immaginazione. Il pregio maggiore del film è infatti il
fornire continuamente i numeri delle persone coinvolte nelle varie
migrazioni, andando a creare delle struggenti annotazioni alle
potentissime, quanto sconvolgenti immagini. A queste notizie
vengono alternate frasi di poeti e scrittori, che tendono però a
rendere il meccanismo didascalico e troppo reiterato.
Senza uno schema apparente e
soluzione di continuità il film rimbalza di paese in paese
documentando ciò che avviene in paesi come Afghanistan, Bangladesh,
Francia, Grecia, Germania, Iraq, Israele, Italia, Kenya, Messico e
Turchia. Peccato che Ai Weiwei si faccia
riprendere in continuazione, mentre filma, mentre osserva, mentre
aiuta, mentre arrostisce spiedini, per poi inserirsi
disinvoltamente nel contesto della narrazione filmica, andando a
tradire in pieno quel concetto di cinema verità che si dibatte e si
mette in discussione dagli albori della storia del cinema. Ma in
fondo lui è un artista, un provocatore, e gli artisti si sa, amano
apparire.