Noto principalmente per le sue
abilità di scrittura, non solo come sceneggiatore de Il
Gladiatore, lo script che lo ha reso celebre
e con cui guadagnò una nomination all’Oscar (lo stesso era accaduto
con Viaggio in Inghilterra) ma anche, tra
gli altri di Nell,
Il primo cavaliere ed
Elizabeth – The Golden Age,
William Nicholson torna ora nella doppia veste di
regista e sceneggiatore con Le cose che non ti ho
detto – titolo originale Hope
Gap – disponibile in digitale dal 29 maggio.
Le cose che non ti ho
detto riannoda un filo
Grace,
Annette Bening, e Edward,
Bill Nighy, sono sposati da 29 anni. Edward è
un insegnante di storia e Grace sta lavorando a un’antologia di
poesie. Il figlio Jamie, Josh O’Connor, è ormai
grande e vive per conto proprio. Quando torna a casa per il
weekend, il padre gli comunica che vuole lasciare Grace e lo invita
a restare vicino alla madre per qualche giorno. Quando Edward parla
alla moglie della sua decisione, la donna non la accetta e dopo
vani tentativi di trattenere il marito, cade in una profonda crisi.
Il film segue le vicende dei tre protagonisti, mostrando come
ciascuno affronti questa rottura.
Si tratta, come ha dichiarato lo
stesso Nicholson, di approfondire una tematica che
lo ha sempre interessato, ovvero la coesistenza degli opposti,
amore e dolore, in una relazione. L’aveva già affrontata con
Viaggio in Inghilterra, diretto da
Richard Attemborough, dove la coppia costituita da
Antony Hopkins e Debra Winger si
trovava ad affrontare la malattia e la morte di lei. Nicholson
sembra proprio voler riannodare quel filo. Gli ingredienti sono, in
fondo, gli stessi: amore, morte – qui è quella di un matrimonio –
dolore, la poesia che porta un po’ di sollievo e gli sconfinati
paesaggi d’Inghilterra a fare da cornice.
L’importanza della
scrittura di William Nicholson
Nicholson
riesce con una precisione chirurgica di scrittura e una capacità di
approfondimento psicologico non comune a far entrare lo spettatore
nelle pieghe di questo rapporto, alla prova di un momento così
difficile come quello della separazione.
Non è solo il rapporto di coppia ad
essere sotto la lente del regista, ma quello fra i tre componenti
del nucleo familiare. I punti di vista di Jamie, Grace e Edward si
alternano, segnalati dalle loro voci off. Il regista mostra
l’evoluzione dell’amore in tutte le sue fasi, compresa quella della
sua fine. In questa si concentra sui sentimenti contrastanti che la
dominano, esemplificandoli perfettamente.
Il divorzio è visto nelle sue
conseguenze più devastanti, come una ferita profonda, paragonabile
a quelle che provocano la morte. Il dolore è immenso, ma si fa
strada nei personaggi come nello spettatore anche un senso di
liberazione, non solo per Edward, che forse aspettava da tanto
questo momento, ma anche, paradossalmente, per Grace, che non lo
voleva e restava con tutte le sue forze aggrappata
all’esistente.
Annette Bening e gli altri
interpreti
Grace è una donna forte, di
carattere, che si è innamorata di un ideale di uomo, più che del
vero marito. Una donna che combatte ostinatamente contro una realtà
che non si conforma al suo volere e desidera con tutta sé stessa
tenere in piedi un matrimonio che considera sacro, anche se da
molti anni non è più felice. Un personaggio complesso, che
Annette Bening interpreta magistralmente,
tratteggiandone con abilità le molte sfaccettature, mentre
attraversa le varie fasi della vicenda: dalla negazione del
problema, al vero e proprio lutto per la fine del matrimonio, alla
rabbia, alla grinta che le servirà per ripartire. Il suo
personaggio è anche portatore dell’elemento poetico che lenisce in
qualche modo il dolore. Chi meglio dei poeti, in fondo, ha
scandagliato l’amore in tutte le sue fasi? E chi meglio di loro può
aiutare a superarne i momenti più bui?
Bill Nighy dà al personaggio di Edward – un
uomo mite, che potrebbe perfino infastidire con la sua passività –
un’umanità fragile e misurata, aprendo allo spettatore le porte del
mondo interiore di questo personaggio chiuso e riservato, che ha
sofferto in silenzio e con estrema misura vive anche questa
circostanza. Josh O’Connor interpreta con
covinzione il figlio Jamie, che suo malgrado è chiamato a fare da
ago della bilancia, a parteggiare per l’uno o per l’altro. In
realtà, vede le due figure di riferimento della sua vita in crisi e
vuole solo aiutarle.
Il paesaggio, l’altro
protagonista de Le cose che non ti ho detto
Le cose che non ti
ho detto è anche un viaggio alla scoperta della
natura del Sussex, una vera e propria protagonista del
film. L’ambientazione è Seaford, una cittadina affacciata
sull’estuario di un fiume, a ridosso delle Seven Sisters: sette
colline di roccia che si gettano nel mare formando scogliere
bianche – suggestive quanto le più famose scogliere di Dover.
Il regista si avvicina a questi
luoghi con sguardo intenso e poetico. Sono per lui, nato nel
Sussex, evidentemente luoghi del cuore. Ma sa inserirli nella
narrazione non solo per compiacere l’occhio dello spettatore e
incuriosirlo, o a dargli sollievo all’interno di una vicenda così
emotivamente densa, bensì dando loro un valore fortemente
simbolico. Parte da lì
e costruisce tutto un mondo intorno
a quelle scogliere, che portano con sé la storia di questa famiglia
e costituiscono di per sé la perfetta espressione della coesistenza
degli estremi: accanto a ogni ripida scogliera c’è una valle,
l’acqua del fiume che scorre sempre nello stesso letto si mescola
proprio lì a quella del mare, aprendosi alla libertà.
Hope
Gap (nome di fantasia) è proprio a una di
quelle valli. È il luogo in cui sono trascorsi i momenti felici
dell’infanzia di Jamie e del matrimonio dei suoi. Lì torna Grace a
interrogarsi sulla sua insoddisfacente relazione col marito e poi
tornerà in preda al dolore più profondo, dopo essere stata
lasciata. Su quelle colline passeggia Jamie per scaricare la
tensione. Lì la protagonista comincia a sentire, nonostante il
dolore, quella sensazione di libertà, di liberazione, che è il
cuore del film. È proprio questa, in effetti, la sensazione che
quegli ampi spazi danno allo spettatore.
Con Le cose che non ti
ho detto il regista non vuole commuovere con un melò
straziante, anzi accompagna i protagonisti e lo spettatore verso un
benefico rinnovamento. Verso il piacere di scoprire quanto è
liberatorio mollare e verso la possibilità di immaginare quanta
vita – forse finalmente felice – ci sarà dopo.
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