Presentato in anteprima italiana a
Alice nella Città 2025, in occasione della
Festa del Cinema di Roma,
dove lo abbiamo visto, Anemone
segna un doppio evento cinematografico di rara intensità: il
ritorno alla recitazione di
Daniel Day-Lewis, dopo otto anni da Il filo nascosto di Paul Thomas
Anderson, e l’esordio alla regia del figlio Ronan,
che firma anche la sceneggiatura insieme al padre. L’incontro tra
le due generazioni Day-Lewis si traduce in
un’opera solenne, un film che vive di silenzi, sguardi e lente
rivelazioni, e che fa della memoria e del perdono
i suoi cardini più profondi.
Un
ritorno che non è solo professionale, ma quasi spirituale, perché in
Anemone
Daniel non interpreta semplicemente un personaggio, ma un
riflesso di sé
stesso, un uomo che — come lui — riemerge dal silenzio per
affrontare il tempo e la memoria.
Il ritorno del padre
Ambientato nel nord
dell’Inghilterra, tra foreste cupe e brughiere battute dal
vento, Anemone racconta
la storia di Ray
(Daniel
Day-Lewis), un uomo che ha scelto di isolarsi dopo un
trauma familiare, e di Jem (Sean
Bean), il fratello che decide di ritrovarlo dopo
decenni di lontananza. Il film prende forma dal loro incontro, da
un ritorno che è al tempo stesso fisico, emotivo e simbolico: Jem cerca
Ray, ma Ray deve prima ritrovare sé stesso per poterlo salvare.
Ronan Day-Lewis costruisce così una doppia storia:
quella di un figlio che
dirige il padre nella finzione, e quella di
un padre che, nella
finzione, torna alla vita per salvare il figlio. È un
gioco di specchi tenero e vertiginoso, in cui la
realtà familiare si
riflette nella finzione cinematografica fino a
confondersi.
Già dalle prime inquadrature, Ronan dimostra una
sorprendente maturità visiva. Il suo cinema
procede come una marea: lento, costante, solenne, capace di
sommergere lo spettatore senza mai travolgerlo. Ogni immagine è
misurata, ogni respiro pesa. È un film che cresce dentro, che
continua a espandersi anche dopo la visione, come un’eco silenziosa
che resta nel petto.
Un film di silenzi e
confessioni: la regia del dolore e della rinascita
In Anemone, la regia di Ronan Day-Lewis si impone per la sua
eleganza e
per la capacità di trasformare il dolore in linguaggio visivo. Ogni
inquadratura è un quadro in movimento, illuminato da una luce
lattiginosa e incerta, come se tutto fosse immerso in una perenne
aurora. La foresta diventa un luogo dell’anima, un labirinto
di rami e nebbia dove il passato ritorna sotto forma di presenze
invisibili. È lì che i due fratelli si cercano, si perdono, si
confessano.
Il ritmo è solenne e
inesorabile, scandito da silenzi più eloquenti di
qualsiasi parola. La tensione non nasce dal conflitto esterno, ma
da quello interno: la difficoltà di guardare in faccia chi ci
somiglia troppo. In questa lentezza controllata, Ronan trova la sua
voce: un tono dolce e crudele insieme, che non concede
distrazioni.
Daniel Day-Lewis, tornato davanti alla macchina da
presa dopo anni di ritiro, offre un’interpretazione che va oltre il
mestiere. Il suo Ray è un uomo spezzato, che ha smesso di credere
nella possibilità del perdono. Ma è anche un padre, e sarà proprio
l’amore — o il ricordo di esso — a costringerlo a riemergere dal
suo esilio. In questa parabola c’è qualcosa di profondamente
meta-cinematografico: come Ray torna alla vita per il figlio, così
Daniel torna al cinema
per suo figlio Ronan, mettendo in scena, con la grazia che
lo contraddistingue, la potenza del legame che li unisce.
L’attore si muove tra dolore e dignità, trasformando ogni sguardo
in una confessione. È una performance scarnificata, quasi mistica,
che parla del tempo, della memoria e dell’impossibilità di tornare
davvero indietro.
Accanto a lui,
Sean Bean restituisce a Jem una vulnerabilità
nuova, una dolcezza inaspettata. Il suo personaggio rappresenta il
mondo che preme ai confini della foresta, la vita che continua
anche quando ci si rifiuta di parteciparvi. Samantha Morton, in un ruolo
laterale ma determinante, incarna la voce del passato, la memoria
di un affetto mai guarito.
A
legare tutto c’è un sound
design magistrale, fatto di assenze e di echi. In
Anemone
il suono non accompagna l’immagine, ma la costruisce. Non c’è
musica tradizionale, ma un paesaggio sonoro composto da fruscii, respiri e
vento. È come se la natura stessa partecipasse al dolore dei
personaggi, rendendo l’esperienza cinematografica profondamente
immersiva e
sensoriale.
Daniel Day-Lewis e Sean Bean in Anemone. Cortesia di Focus
Features
Memoria, identità e
eredità: un film che parla di vita e di cinema
Anemone è molto più di
un dramma familiare. È un film che interroga il tempo, la memoria e il senso stesso
del racconto. Ronan Day-Lewis utilizza la
storia dei due fratelli per parlare del rapporto tra generazioni,
tra chi ha già detto tutto e chi deve ancora trovare la propria
voce. È un film sul ritorno, ma anche sulla trasmissione: ciò che un
padre lascia a un figlio, non come eredità materiale, ma come gesto
d’amore e di arte.
C’è qualcosa di straordinariamente commovente nel vedere
Daniel Day-Lewis diretto da suo figlio. Lì,
davanti alla macchina da presa, non c’è solo un attore che torna a
recitare, ma un padre che offre il proprio volto e la propria voce per raccontare la
nascita di un nuovo sguardo. Ronan, dal canto suo,
restituisce tutto con una delicatezza che sorprende. Non
sfrutta il mito del padre: lo accoglie, lo abbraccia, e
attraverso di lui trova il proprio linguaggio.
La metafora
dell’anemone, il fiore che si chiude al minimo contatto,
attraversa il film in ogni suo gesto. Ray è come quel
fiore: fragile, ferito, incapace di aprirsi se non nel
momento della resa. E in quella fragilità, in quel piccolo
movimento verso la luce, c’è tutto il senso del film. Nel finale,
non ci sono abbracci o parole risolutrici. C’è solo un gesto —
minimo, concreto, umano — che racchiude la possibilità del perdono.
È lì che Anemone trova la sua verità più profonda:
la vita può tornare,
anche dopo il silenzio più lungo.
Con Anemone, Ronan Day-Lewis
firma un esordio maturo e potente, che unisce il
respiro classico del grande cinema britannico alla sensibilità
contemporanea. È un film che parla di padri e figli, ma anche di
cinema e
rinascita, di memoria e identità. Un film che cresce lentamente
dentro chi lo guarda, come un fiore ostinato che continua a fiorire
anche dopo la tempesta. Un debutto che non è solo una promessa, ma
un atto d’amore.
Visto in anteprima alla
Festa del Cinema di Roma, nella
suggestiva Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica,
40
secondi di Vincenzo Alfieri è una di quelle
opere che ti costringono a restare seduto anche dopo i titoli di
coda, in silenzio, con un peso che non è solo dolore, ma anche
consapevolezza. Presentato all’interno del Concorso Progressive
Cinema, il film nasce dall’omonimo libro di Federica
Angeli e si propone come una ricostruzione asciutta, a tratti
quasi documentaria, delle ventiquattr’ore che precedono l’omicidio
di Willy Duarte Monteiro, il ventunenne capoverdiano ucciso
a Colleferro, nella notte del 6 settembre 2020,
mentre tentava di difendere un amico.
Alfieri sceglie di non
cedere al sentimentalismo, ma di affidarsi a un linguaggio che
alterna tensione e contemplazione, cercando di restituire non solo
il fatto, ma il clima che lo precede. È un film che cerca il senso
nascosto della violenza, la catena invisibile di sguardi e
atteggiamenti che, in una notte qualunque, possono trasformarsi in
tragedia. 40 secondi non è solo la misura
temporale di un pestaggio, ma il simbolo di tutto ciò che precede e
segue quel tempo sospeso: un istante che contiene la banalità del
male e il suo potere di distruzione.
Fin dall’inizio Alfieri
imposta un racconto che si muove su più piani, costruendo una rete
di incontri e situazioni apparentemente casuali. Ogni gesto
quotidiano diventa un indizio di ciò che accadrà. C’è un realismo
che si avvicina alla cronaca, ma la messa in scena lo trasforma in
qualcosa di più profondo: una riflessione sulla responsabilità,
sull’inerzia e sulla paura che attraversa la nostra società.
Una regia che scava
nei volti: l’estetica del reale e il magistero pasoliniano
Il grande merito di
40 secondi è la regia di Alfieri,
capace di alternare la freddezza dell’osservazione al calore
dell’empatia. La macchina da presa è quasi sempre
vicinissima ai volti, come a volerli decostruire. Alfieri ci
entra dentro, li guarda da dietro la pelle, li mette a nudo per
mostrarne le contraddizioni, la rabbia trattenuta, la paura di
essere deboli. Questo lavoro minuzioso di introspezione visiva
costruisce un film in cui ogni movimento di macchina è pensato per
restituire allo spettatore la fisicità di quella tensione che
esploderà di lì a poco.
Quando la storia si
concentra su Willy, invece, la regia cambia tono: la camera
si apre, il respiro si allarga, e la luce si fa più naturale,
l’atmosfera operosa e piena di speranza. È come se Alfieri
costruisse due film dentro lo stesso racconto: da un lato l’inferno
della violenza, dall’altro la possibilità di un’umanità diversa,
fatta di lavoro, amicizia e sogni semplici. In questa
contrapposizione si avverte chiaramente la lezione di Pier Paolo
Pasolini, non tanto citato quanto riletto e reinterpretato. C’è
in Alfieri una stessa tensione verso il reale, lo stesso desiderio
di capire “come sia possibile” un tale orrore, senza mai
compiacersene.
Cortesia di Eagle Pictures
Il lavoro sugli
attori è un altro punto di forza. Accanto ai volti già noti
di Francesco Gheghi e Francesco Di Leva, spiccano i giovani selezionati
attraverso lo street casting, che portano sullo schermo
un’energia ruvida, istintiva, non addomesticata. La loro presenza
conferisce autenticità e potenza al racconto, trasformando il film
in un vero esperimento di cinema del reale. Alfieri li dirige con
attenzione quasi documentaristica, lasciando emergere le sfumature
di ciascun personaggio senza giudicarlo apertamente, ma sicuramente
non assolvendo.
Anche dal punto di vista
tecnico, 40 secondi è un film curatissimo. La
fotografia gioca con il contrasto tra le ombre delle strade
e le luci calde dei luoghi familiari, mentre la colonna
sonora si mantiene discreta, accompagnando i momenti di
maggiore intensità senza mai sovrastarli. Il risultato è un
equilibrio raro tra forma e sostanza, tra estetica e verità
emotiva.
C’è qualcosa, in questo
film, che ricorda le operazioni di cinema civile degli anni
Settanta, ma aggiornate alla contemporaneità: un lavoro di
ricostruzione certosina che non cerca solo la
verosimiglianza, ma un senso morale. In questo senso, la produzione
Eagle Pictures sembra proseguire un percorso già intrapreso
con film come Il ragazzo dai pantaloni
rosa, in cui la tragedia vera diventa occasione per
una riflessione collettiva.
Tra emozione e
retorica: il coraggio e i limiti di 40 secondi
In alcuni momenti
Alfieri sembra farsi prendere troppo dal dolore, indugiando sulle
emozioni fino a renderle quasi programmatiche. Alcune scelte
narrative, come quella di inserire nel finale la testimonianza
dei fratelli Bianchi, risultano incomprensibili o,
quantomeno, discutibili: un gesto che sposta l’attenzione
dall’elaborazione del dolore alla cronaca giudiziaria, rischiando
di indebolire la forza simbolica del racconto.
Eppure, anche in questi
limiti, il film conserva la sua onestà. 40
secondi è un’opera che si espone, che non cerca
scorciatoie né consolazioni, ma prova a raccontare un dolore
collettivo con rispetto e lucidità. Nel finale, quando la storia
torna a Willy e alla sua figura luminosa, la pellicola ritrova il
suo cuore più autentico: quello di un ragazzo che rappresenta la
parte migliore di un Paese spesso distratto, quella che lavora, che
sogna, che tende la mano invece di colpire.
Il film si chiude con un
senso di impotenza, ma anche di urgenza. Alfieri non pretende di
dare risposte, ma ci obbliga a fare i conti con una domanda:
come può la violenza esplodere così, in quaranta secondi, dentro
una notte qualsiasi?. Ed è in questa domanda che il film
trova la sua ragion d’essere.
Nonostante qualche
passaggio retorico, la forza della pellicola resta
intatta e ci riporta al centro della questione morale e
sociale della nostra epoca. La banalità del male, di cui
parlava Hannah Arendt, diventa qui un concetto cinematografico: un
movimento di macchina, un respiro trattenuto, un silenzio prima del
colpo.
Ciò che rimane di
40 secondi è un sentimento di perdita, ma
anche di consapevolezza. È un film che chiede rispetto, che invita
al ricordo e alla riflessione, e che ci ricorda, con una lucidità
dolorosa, quanto sia sottile la linea che separa la normalità dalla
barbarie. Alfieri non cerca di consolare, ma di capire. E nel
farlo, consegna al pubblico un’opera imperfetta ma profondamente
umana, capace di trasformare la cronaca in cinema e il cinema in
memoria.
Il film Colombiana
del 2011 ha avuto un finale ricco di azione che è riuscito a
concludere molte delle trame del
thriller. Coprodotto da Luc Besson e diretto
da Olivier Megaton, la sceneggiatura di
Colombiana era basata su Mathilda,
originariamente scritta come sequel di Léon del 1994 da
Besson, autore sia dell’iconico dramma poliziesco che del
thriller
d’azione del 2011. Molti dei temi di
Colombiana e Leon si sovrappongono, con
la storia di Cataleya che ricorda in modo inquietante quella di
Mathilda, accolta dallo zio Emilio dopo che l’omicidio dei suoi
genitori a Bogotá la costringe a fuggire negli Stati Uniti e la
spinge a imparare a diventare un’assassina in questo intenso film
con Zoe
Saldana.
Il viaggio a Chicago avrebbe potuto
darle la possibilità di lasciarsi alle spalle la vita di suo padre
Fabio in Colombia, ma Cataleya (Zoe
Saldana) non avrebbe mai potuto dimenticare Don Luis
che uccideva brutalmente sua madre e suo padre davanti ai suoi
occhi. La sua fuga precipitosa da Marco e dai suoi scagnozzi ha
dimostrato le capacità di Cataleya all’inizio di Colombiana, ma ciò
non significava necessariamente che dovesse intraprendere il
gravoso compito di farla pagare a Don Luis. Tuttavia, lo zio Emilio
e i suoi insegnamenti hanno fatto sì che Cataleya ricordasse di
cosa era capace, affinando le sue abilità con un’istruzione
accademica e garantendole il successo nel vendicarsi alla fine di
Colombiana.
Come Cataleya ottiene finalmente
vendetta su Don Luis
Sebbene non avesse mai pianificato
che Emilio e Mama pagassero le conseguenze delle sue scelte,
Cataleya ha sempre saputo che avrebbe fatto pagare a Don Luis
l’omicidio dei suoi genitori e ha messo in atto il suo piano ancora
prima di iniziare a lasciare messaggi sui corpi delle sue vittime.
La lotta particolarmente violenta contro Marco e la fuga di Don
Luis potrebbero averli indotti a credere che non fosse riuscita a
vendicarsi, ma tutti i pezzi del puzzle che aveva creato si sono
incastrati perfettamente quando Don Luis è riuscito a sfuggirle per
un soffio. I cani di Cataleya erano infatti apparsi all’inizio del
film, dimostrando come fossero sempre stati inclusi nel suo brutale
piano di vendetta.
Dal momento in cui Marco ha
affrontato Cataleya subito dopo l’omicidio dei suoi genitori, lui e
la sua banda hanno dimostrato di averla sottovalutata. Non solo è
riuscita a sfuggirgli, ma è anche riuscita a ingannare Marco e Don
Luis facendoli andare da lei, cosa che hanno fatto solo perché
credevano di poterla uccidere facilmente. Cataleya invece ha
approfittato del loro errore di valutazione, sapendo che Don Luis
l’avrebbe chiamata per ricordarle che era troppo forte per essere
sconfitto, firmando così la sua condanna a morte, poiché quella
telefonata era l’unico modo per Cataleya di ordinare ai suoi cani
di aggredirlo e ucciderlo. La loro sottovalutazione di Cataleya ha
reso possibile la sua vendetta.
Cosa significa davvero la
telefonata di Cataleya a Danny nel finale
Se Danny non avesse mai mostrato la
foto di Cataleya al suo amico, lei non sarebbe mai stata trovata
dall’FBI. Anche se lui non sapeva cosa avrebbe potuto significare
mostrare quella foto per la vita di Cataleya, la loro ultima
conversazione prima di quella alla fine di
Colombiana si è conclusa bruscamente e con lei in
fuga per salvarsi la vita, e Danny non sapeva cosa fosse successo a
Cataleya, soprattutto perché era stato portato in centrale per
essere interrogato. Il fatto che Cataleya abbia chiamato Danny e
gli abbia raccontato parte della verità significava che lo aveva
perdonato, anche se le sue azioni le avevano causato molti
problemi, perché lui non aveva intenzione di farlo e Cataleya alla
fine credeva che lui meritasse di conoscere la verità.
Cosa succede a Cataleya dopo il
finale di Colombiana
Sebbene il finale di
Colombiana non spieghi cosa riserverà la vita a
Cataleya dopo la sua vendetta su Don Luis, la sua telefonata a
Danny ha lasciato un barlume di speranza per loro, soprattutto
perché lei gli ha detto il suo vero nome e voleva fargli sapere che
stava bene. Ogni vittima uccisa da Cataleya era stata scelta per
attirare l’attenzione di Don Luis, in modo da poterlo trovare e
uccidere, e alla fine ci è riuscita alla fine di Colombiana,
chiudendo finalmente quel capitolo della sua vita iniziato con il
brutale omicidio dei suoi genitori. La telefonata di Cataleya a
Danny da un telefono pubblico in una stazione di servizio ha anche
lasciato intendere che è riuscita a sfuggire all’FBI.
Infatti, sebbene Ross e l’FBI
sapessero di più su di lei e sulla sua attività criminale, Cataleya
è riuscita comunque a sfuggirgli due volte, e la prima volta è
stato anche inaspettato, poiché non sapeva di essere seguita
dall’amico di Danny. Con il finale di Colombiana
che garantisce a Cataleya la sua vendetta su Don Luis, le sue
energie non saranno più spese nel tentativo di catturarlo, rendendo
più facile continuare a ingannare la polizia per tenerla lontana.
Considerando come Colombiana abbia dimostrato le
eccezionali abilità di Cataleya nel corso del film, è improbabile
che l’FBI riesca a trovarla, soprattutto perché probabilmente
smetterà di uccidere ora che Don Luis è morto.
Perché Emilio e Mama vengono
uccisi nel finale di Colombiana
La scoperta del nascondiglio di
Cataleya da parte dell’FBI avrebbe potuto impedirle di sorvegliare
Emilio e sua madre, ma lei li aveva già evitati per anni in modo
che non potessero risalire a lei. Tuttavia, dato che era stato lo
zio Emilio a procurarle il lavoro e che lei inviava messaggi a Don
Luis tramite i corpi delle sue vittime, era solo questione di tempo prima che Marco e Don
Luis scoprissero Emilio e sua madre. La morte di Emilio e della
mamma è stata il catalizzatore che ha spinto Cataleya a ricattare
Ross e a scoprire dove si trovava Don Luis, ma avrebbe potuto
evitarla solo se Cataleya avesse abbandonato i suoi piani di
vendetta, cosa che purtroppo non è mai riuscita a fare.
Il padre di Cataleya, Fabio, si è
assicurato di addestrare Cataleya in modo che potesse sfuggire a
Don Luis, e sebbene fosse lungimirante nel farle sapere come
difendersi, ha anche involontariamente costretto Cataleya a
vendicare i suoi genitori dopo che lei li aveva visti morire.
Addestrarla da solo non avrebbe portato Cataleya a promettere a se
stessa di uccidere Don Luis per vendicarsi, ma Fabio le aveva anche
detto di andare da suo fratello Emilio a Chicago se fosse successo
qualcosa a lui e alla madre di Cataleya. Emilio disse a Cataleya
più di una volta che non voleva quella vita per lei, ma lei era
stata originariamente indirizzata su quella strada da Fabio.
Come l’atto finale di Fabio ha
reso inevitabile il finale di Colombiana
Infatti, quando Cataleya arrivò a
Chicago, Emilio era chiaramente coinvolto con le gang, e Fabio lo
aveva scelto per prendersi cura di sua figlia. La scelta di Fabio
di mandare Cataleya da Emilio rafforzò il suo desiderio di
vendetta, poiché sarebbe rimasta comunque vicina alle attività
criminali, anche se lui e sua moglie erano stati uccisi proprio
perché volevano lasciarsi alle spalle quella vita e Don Luis
insieme a Cataleya. Avendo assistito in prima persona al
raccapricciante omicidio dei suoi genitori, Cataleya non avrebbe
potuto evitare di seguire la strada di Fabio ed Emilio, poiché era
tutto ciò che conosceva.
Il finale di
Colombiana chiude il cerchio della storia di
Cataleya
La storia di Cataleya in Colombiana
è stata violenta fin dalla prima scena del film d’azione, rendendo
ancora più probabile che sarebbe finita con il raccapricciante
omicidio di Don Luis. Tuttavia, vendicarsi di Don Luis ha
essenzialmente garantito la pace a Cataleya, poiché tutto ciò che
l’aveva spinta a uccidere per la maggior parte della sua vita era
finalmente finito con la morte di Don Luis. In questo modo,
Colombiana ha dato a Cataleya la possibilità di ricominciare da
capo lontano dalla violenza che aveva sempre conosciuto, suggerendo
una possibile felicità nel futuro di Cataleya.
Diretto dal regista esordiente
Spencer Squire, Abandoned (anche
noto come La fattoria maledetta) è un film
horror psicologico del 2022. La storia ruota attorno a una giovane
coppia, Sara (Emma
Roberts) e Alex (John
Gallagher Jr.), che si trasferisce in una fattoria isolata
insieme al loro bambino Liam. Sono originari della
città, ma Sara ha avuto difficoltà dopo la nascita di Liam, quindi
Alex ha pensato che un cambiamento di ambiente avrebbe fatto bene a
entrambi. Ma dopo essere arrivati nella loro nuova casa, la
famiglia scopre il suo tragico passato e decide comunque di
stabilirvisi. Tuttavia, Sara inizia presto a vedere quelli che
crede essere i fantasmi dei precedenti proprietari, il che mette a
dura prova il suo rapporto con la famiglia. Ecco tutto quello che
c’è da sapere sul finale di Abandoned.
La trama di
Abandoned
Sara e Alex vivono in città
dall’inizio della loro relazione. Ma dalla nascita del figlio Liam,
Sara ha iniziato a soffrire di depressione post-partum. Sperando
che un cambiamento di ambiente possa aiutarla, Sara e Alex
acquistano una proprietà isolata in campagna e lasciano la città.
La loro agente immobiliare, Cindy (Kate
Arrington), non fornisce molte informazioni sulla storia
della proprietà. Ma notando da quanto tempo rimane invenduta, Sara
chiede il motivo. Cindy è riluttante a rivelarne la ragione e Alex
è riluttante a farla sapere a Sara, ma viene rivelato che la casa
era precedentemente occupata dalla famiglia Solomon. Anna Solomon
ha ucciso suo padre e sua figlia prima di suicidarsi.
Desiderosi di ricominciare da capo,
Sara e Alex acquistano comunque la casa e vi si trasferiscono.
Tuttavia, non passa molto tempo prima che si rendano conto che
avrebbero dovuto ispezionare la casa un po’ più accuratamente prima
di acquistarla. Trovano una stanza con le porte chiuse a chiave e
un armadio posizionato in modo strano che nasconde un’altra porta
chiusa a chiave dietro di esso. Le finestre della camera della
figlia sono chiuse ermeticamente. Sara e Alex incontrano il loro
strano vicino, Renner (Michael
Shannon), che irrompe in casa quando nessuno risponde
al suo bussare e sostiene che è così che si fa in quella parte del
paese.
Forse l’aspetto più inquietante di
Abandoned è il pianto incessante di Liam. Questo
aumenta il senso di terrore che sembra essere sempre presente nella
nuova casa di Sara e Alex. Sara non ha mai sentito un forte legame
con suo figlio. Allattare il bambino al seno sembrava aiutare, ma
solo marginalmente. Inoltre, per poter allattare Liam, deve
smettere di prendere i farmaci antipsicotici, il che, come
prevedibile, inizia ad avere effetti negativi.
Alex è un veterinario. Trasferirsi
in un nuovo posto significa che deve acquisire una nuova clientela.
Dato che ora vive praticamente in mezzo al nulla, la maggior parte
dei suoi clienti sono agricoltori che vivono a chilometri di
distanza da lui e gli uni dagli altri. Questo fa sì che Alex sia
assente la maggior parte del tempo, lasciando Liam con Sara nella
loro nuova casa. Quando Sara inizia a sentire strani rumori in casa
e alcune cose iniziano a sparire, diventa ossessionata dai Solomon
e presto inizia a vederli in giro per casa.
Kate Arrington, John Gallagher Jr. ed Emma Roberts in
Abandoned
La spiegazione del finale del
film
Forse la domanda più ricorrente
alla fine del film è se la casa sia infestata. Sara sopporta queste
cose orribili per tutto il film, ma rimane l’unica persona a farlo.
Alex convive con lei nella casa, ma non vede mai le cose che vede
lei. Diventa sempre più evidente che l’aspetto horror di
Abandoned è del tutto allegorico, inteso a
sottolineare la depressione post-partum di Sara. Con il suo fisico
esile e i capelli biondi, Sara assomiglia molto ad Anna. Il suo
cervello sembra agganciarsi a questa informazione e le fa credere
che i fantasmi di Anna e Robert siano ancora lì. Il film chiarisce
abbastanza presto che Sara soffre di depressione post-partum, ma la
sua gravità viene rivelata solo più tardi.
Indossa un elastico al polso per
affrontare i suoi problemi di ansia e distinguere tra reale e
irreale. Durante una delle sue allucinazioni, Liam rischia di
cadere dalle scale. Fortunatamente, Alex esce dalla camera da letto
in tempo e salva il bambino. Sara butta via anche il latte. Temendo
per la sicurezza di suo figlio, Alex decide che non può lasciare
Liam da solo con Sara. Organizza un incontro con uno psichiatra. Il
dottor Carver prescrive farmaci antipsicotici, che Sara non prende,
ma mente ad Alex dicendogli di averlo fatto.
Nella scena culminante, Sara
convince Alex ad andarsene dopo aver ricevuto una chiamata di
emergenza da uno dei suoi clienti, assicurandogli che lei e Liam
staranno bene perché ha preso la droga. Poco dopo che lui se n’è
andato, lei inizia ad avere delle allucinazioni. Questa volta non
si tratta di Anna o del padre violento e sessualmente abusivo, ma
dei due selvaggi fratelli Solomon che lei crede vivano ancora nella
casa. Fino a quel momento, il suo subconscio si era manifestato
sotto forma di aggressore, ma questa volta i due ragazzi agiscono
come protettori, accusando Sara di abusare di suo figlio e
dicendole che Liam ora appartiene a loro.
Questo sembra implicare che tutte
le volte che vediamo Liam piangere quando lui e Sara sono soli in
casa siano il risultato della negligenza o del vero e proprio abuso
da parte della madre. La psicosi di Sara si è manifestata in modo
tale che lei non ricorda ciò che ha fatto a suo figlio e ha creato
nella sua mente l’intera esperienza di essere perseguitata. È la
stessa mente che ora la mette sotto processo, minacciando di
separarla da Liam. Affrontando questi problemi, sembra finalmente
instaurare un vero legame con suo figlio. Quando arriva il mattino
e Alex ritorna, Sara ha esorcizzato i suoi demoni. Questo
probabilmente non significa che sia completamente guarita. La
depressione non funziona in questo modo. Ma ora è almeno pronta ad
affrontare i suoi problemi.
Emma Roberts in Abandoned
Sara è incinta?
La sequenza finale del film si
svolge alcuni anni dopo che Sara e Alex si sono trasferiti nella
casa. Liam è cresciuto e Sarah non ha più l’elastico al polso,
segno che ha fatto molta strada. L’ultima scena del film rivela che
Sara è incinta del secondo figlio di Alex. La vita della coppia è
chiaramente migliorata. Hanno finalmente trasformato la loro casa
in una vera famiglia.
Tuttavia, proprio prima che venga
rivelata la sua gravidanza, Sara sembra turbata in una breve
inquadratura del suo viso. Probabilmente è preoccupata che la
depressione post-partum possa tornare, il che non è una paura
infondata. La ricorrenza della depressione post-partum è piuttosto
comune. Può derivare da molteplici fattori, tra cui la prospettiva
di doversi prendere cura di più figli. Quindi, sarà importante che
Alex sostenga sua moglie in tutto ciò di cui ha bisogno, proprio
come ha fatto l’ultima volta.
Cosa è successo alla famiglia
Solomon? Chi è Renner?
Come accennato in precedenza, Cindy
informa con riluttanza Sara e Alex che nella proprietà c’è stato un
omicidio-suicidio. Anna Solomon ha ucciso suo padre e sua figlia
prima di togliersi la vita. In seguito si scopre che Anna aveva un
fratello, Andrew. La loro madre morì quando Andrew aveva un anno.
Robert iniziò ad abusare sessualmente di sua figlia. Ad un certo
punto, Anna ha dato alla luce una figlia. Sopraffatta dagli abusi e
dalla vergogna per come era stata concepita sua figlia, Anna ha
commesso un omicidio-suicidio.
Tuttavia, Andrew è sopravvissuto ed
è stato affidato a una famiglia adottiva. Anni dopo, è tornato.
Anche se usava il nome Chris Renner, tutti nella zona sapevano chi
era. Quando ha iniziato a vivere accanto alla sua vecchia casa,
glielo hanno permesso. Questo è continuato fino a quando Sara e
Alex hanno comprato la casa. Gli altri ragazzi di cui parla Renner
sono stati probabilmente uccisi da Robert, che ha lasciato i corpi
nella stanza nascosta. Ecco perché ha messo l’armadio davanti, in
modo che nessuno tranne lui potesse accedervi.
Diretto da Taylor
Sheridan (I
segreti di Wind River), Quelli che mi vogliono
morto è un film d’azione che ruota attorno a Hannah
(Angelina
Jolie), una vigile del fuoco che non riesce a salvare
tre ragazzini da un incendio boschivo. Tormentata dal senso di
colpa, inizia gradualmente a perdersi nell’alcol e
nell’autolesionismo. Nel frattempo, un ragazzino di nome Connor
(Finn Little) fugge da Jacksonville, in Florida,
con suo padre dopo che il capo di quest’ultimo è stato assassinato.
Il loro obiettivo è raggiungere lo zio materno di Connor, Ethan
(Jon Bernthal),
un agente di polizia del Montana.
Tuttavia, il padre di Connor viene
trovato e ucciso da due assassini professionisti, Jack
(Aidan Gillen) e Patrick
(Nicholas
Hoult). Connor riesce a scappare e incontra Hannah.
Dopo aver appreso la sua situazione, Hannah decide di proteggere il
ragazzo dagli assassini e dal terrificante incendio boschivo che
hanno appiccato. Dopo la sua uscita, il film ha ricevuto recensioni
per lo più positive, con i critici che hanno elogiato la sua
rappresentazione dell’incendio boschivo e della vita dei vigili del
fuoco paracadutisti. Se vi state chiedendo se Quelli che mi
vogliono morto sia ispirato a eventi reali, ecco cosa
dovete sapere.
Quelli che mi vogliono
morto è basato su una storia vera?
No, Quelli che mi vogliono
morto non è basato su una storia vera. È l’adattamento
cinematografico dell’omonimo romanzo giallo contemporaneo del 2014
dello scrittore americano Michael Koryta. La
sceneggiatura del film è stata scritta da Koryta, Sheridan e
Charles Leavitt e differisce in modo significativo
dal libro originale. Ad esempio, il protagonista più giovane del
libro è Jace, mentre, come già detto, nel film è Connor. Dopo aver
assistito a un omicidio, Jace si iscrive con una falsa identità a
un programma di sopravvivenza nella natura selvaggia per
adolescenti con problemi.
Il programma è gestito da Ethan e
sua moglie Allison. Anche Hannah appare nel libro ed è uno dei
personaggi principali, ma la sua partecipazione non è così
importante come nel film. Questi cambiamenti sono probabilmente
dovuti al coinvolgimento della Jolie. Sebbene la storia raccontata
dal film sia di fantasia, la sua rappresentazione degli incendi
boschivi è piuttosto accurata. Il film mostra che gli incendi
boschivi possono aumentare di velocità, specialmente quando si
muovono in salita o in discesa. Descrive anche, sebbene brevemente,
la vita pericolosa dei vigili del fuoco paracadutisti.
Finn Little e Angelina Jolie in Quelli che mi vogliono
morto
In America, gli smokejumper fanno
parte del servizio forestale, un’unità di vigili del fuoco che
riceve un addestramento esclusivo su come affrontare un incendio
boschivo dopo essere atterrati sul luogo con un paracadute. Il film
d’azione e thriller del 1998 “Firestorm” è un altro film
che ha come protagonista uno smokejumper. Ambientato nel Wyoming
settentrionale, il film racconta la storia di Jesse Graves
(Howie Long), che deve salvare Jennifer
(Suzy Amis), un’ornitologa, da un gruppo di
detenuti evasi, affrontando contemporaneamente due incendi
boschivi.
Un altro aspetto importante di
Quelli che mi vogliono morto riguarda assassini
professionisti, politici corrotti e funzionari governativi
assassinati. La corruzione è dilagante ovunque e l’America non fa
eccezione. Nel corso degli anni, numerosi membri del Congresso sono
stati costretti a dimettersi dopo che le loro attività illegali
sono venute alla luce. Alcuni sono stati persino mandati in
prigione. È possibile che almeno alcune di queste persone influenti
e potenti assumano assassini per uccidere chiunque indaghi su di
loro. Quindi, è comprensibile che si possa pensare che
Quelli che mi vogliono morto sia basato su eventi
reali, ma chiaramente non è così.
Ecco le immagini dal red carpet
della Festa del Cinema
di Roma 2025, che nella serata di giovedì 16 ottobre
ha offerto il suo lungo percorso della cavea ai protagonisti di
Per te, su tutti Edoardo Leo, e Breve Storia d’amore, esordio alla regia di
Ludovica Rampoldi, con Pilar Fogliati,
Adriano Giannini e Andrea Carpenzano.
VisionQuest
concluderà la trilogia iniziata con WandaVision
e proseguita lo scorso anno con Agatha All Along. C’è
grande fermento intorno a ciò che questo significa per l’MCU, in particolare con
Avengers: Doomsday all’orizzonte.
La serie affronterà probabilmente lo status di Scarlet Witch dopo
la sua apparente scomparsa in Doctor Strange nel Multiverso
della Follia. Per quanto riguarda Vision, si ricongiungerà con
i suoi figli, Billy e Tommy Maximoff, e con alcune IA familiari del
suo passato e di quello dell’MCU (che, secondo recenti voci, si
nascondono a Madripoor dopo aver assunto in qualche modo forma
“umana”).
Ci sono state alcune preoccupazioni
tra i fan riguardo al fatto che Ultron di James Spader, ad esempio, sia stato ritratto
in questo modo per risparmiare sui costi degli effetti speciali. Il
design del cattivo in Avengers:
Age of Ultron del 2015 era stato un argomento piuttosto
controverso all’epoca, e i fan hanno aspettato più di un decennio
per vedere l’androide tornare in piedi. Parlando con Phase Hero, lo showrunner di
VisionQuest, Terry Matalas,
ha confermato che vedremo Ultron nella sua vera forma. “Si vede
il robot Ultron, ma si vedono anche molto James Spader e Paul Bettany insieme”, ha anticipato.
“Sono davvero il cuore pulsante della serie”.
Ha aggiunto che la serie funge da
“veicolo per Bettany e Spader” ed è evidente che
VisionQuest affronterà finalmente ciò che è
successo dopo lo scontro finale tra Vision e Ultron nel bosco alla
fine di Avengers: Age of Ultron. Questo
è stato lasciato volutamente ambiguo; anche se sembrava probabile
che Vision avesse distrutto suo “padre”, è stato a lungo ipotizzato
che potesse averlo lasciato libero (o che Ultron avesse trovato un
modo per fingere la sua morte). Il cattivo è stato chiaramente
molto impegnato, circondandosi di una sorta di famiglia a
Madripoor.
Ci sono ancora molte cose che non
sappiamo su VisionQuest e, secondo Matalas,
possiamo aspettarci che ogni episodio sia completamente unico.
“Tutti”, ha risposto dopo che gli è stato chiesto se
avesse un episodio preferito. “Ad essere onesti, sono tutti
molto diversi. Ognuno di essi è un tipo di film diverso, quindi di
ognuno potrei dire: ‘Non vedo l’ora di vederlo, non vedo l’ora di
vederlo’. Sono tutti così diversi, ma tutti hanno dei momenti che
preferisco”.
Con l’avvicinarsi della fine per la
banda di Hawkins, nell’Indiana, Finn Wolfhard spera di dare a Stranger Things un addio degno. L’attore ha
ammesso di essere “piuttosto preoccupato” che la quinta e ultima
stagione della serie fantascientifica di Netflix possa essere “fatta a pezzi”, proprio come è
successo con il tanto atteso finale di Il Trono di Spade nel 2019, che ha
lasciato il pubblico diviso.
“Onestamente, penso che tutti
fossero piuttosto preoccupati”, ha detto Wolfhard a Time. “Visto il modo in cui Game of
Thrones è stato fatto a pezzi in quell’ultima stagione, ci siamo
tutti avvicinati a questo progetto pensando: ‘Speriamo che non
succeda una cosa del genere’. Ma poi abbiamo letto le
sceneggiature. Abbiamo capito che era qualcosa di
speciale”.
Stranger Things – Stagione
5, i dettagli sulla nuova stagione
Il cast della quinta stagione vedrà
il ritorno di tutti i volti principali. Millie Bobby Brown sarà ancora Undici, pronta
a usare i suoi poteri in una battaglia decisiva. Fanno poi parte
del cast Finn Wolfhard (Mike), Noah
Schnapp (Will), Gaten Matarazzo (Dustin),
Caleb McLaughlin (Lucas), Sadie Sink (Max) e Natalia
Dyer (Nancy), Joe Keery (Steve),
Charlie Heaton (Jonathan), Maya Hawke (Robin), Winona
Ryder(Joyce) e David Harbour (Hopper). Grande attesa anche
per il ritorno di Jamie Campbell Bower nel ruolo di Vecna/Henry,
ancora più potente e vendicativo.
Netflix sta suddividendo la quinta
stagione della serie in tre uscite distinte: i primi
quattro episodi debutteranno il 26 novembre, durante le
vacanze del Ringraziamento, con “Sorcerer” che fungerà da finale di
metà stagione. I successivi tre episodi
debutteranno a Natale e il finale, “The Rightside
Up”, debutterà a Capodanno. Insieme ai fratelli Duffer,
gli episodi sono stati diretti dal produttore esecutivo
Shawn Levy e dal regista Frank
Darabont (“Le ali della libertà”).
40 Secondi è un film che
nasce per raccontare la violenza, la paura e il coraggio di un
ragazzo che, nel tentativo di difendere un amico, ha perso la vita.
Diretto da Vincenzo
Alfieri e prodotto da Eagle Pictures, il film si ispira alla tragica
vicenda di Willy Monteiro
Duarte, avvenuta nella notte tra il 5 e il 6 settembre
2020 a Colleferro.
Con un cast guidato da Justin De Vivo,
Francesco Gheghi,
Francesco Di Leva,
Sergio Rubini e Maurizio Lombardi, 40 Secondi è un’opera che unisce
cinema civile e dramma corale, riflettendo sulla brutalità e
sull’indifferenza che possono consumare una vita in pochi
istanti.
Cosa succede in 40
Secondi
Il film si apre con una giornata come tante: amici che si
incontrano, discussioni che si accendono, un sabato sera che sembra
destinato a finire senza sorprese. Ma nel giro di quaranta secondi
– il tempo di uno sguardo, di una parola di troppo, di un pugno –
tutto cambia.
40 Secondi racconta le
ultime ore di
Willy, intrecciando i punti di vista dei ragazzi coinvolti
e delle persone che gravitano attorno a quella notte. L’approccio
non è sensazionalistico, ma intimo e osservativo: la violenza non è
spettacolo, ma trauma collettivo.
Alfieri sceglie di alternare momenti di luce – i sogni, la musica,
la speranza – con quelli di buio e caos, costruendo una tensione
crescente che culmina nell’aggressione finale. Ogni dettaglio, ogni
gesto, è scandito da una regia che punta a mostrare quanto il male possa essere banale
e rapido, come la durata del titolo stesso: quaranta
secondi che cambiano tutto.
La storia vera di Willy Monteiro Duarte
Cortesia di Eagle Pictures
Willy Monteiro Duarte aveva 21 anni. Nella notte tra il
5 e il 6 settembre
2020, a Colleferro (provincia di Roma), intervenne per
difendere un amico
coinvolto in una lite davanti a un locale. In pochi istanti – quei
“quaranta secondi” che il titolo del film trasforma in dispositivo
narrativo – fu pestato a
calci e pugni da più persone fino a perdere la vita.
L’omicidio scosse il Paese e portò a quattro arresti:
Marco e Gabriele
Bianchi, Mario
Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti originari di Artena.
Il
procedimento giudiziario ha avuto tappe decisive.
Il 4 luglio 2022,
in primo grado, la Corte d’Assise di Frosinone ha condannato
i fratelli Bianchi
all’ergastolo, Belleggia a 23 anni e Pincarelli a 21. Nel luglio 2023, in appello, ai Bianchi
sono state riconosciute le
attenuanti generiche con la riduzione a
24 anni; le pene
per Belleggia e Pincarelli sono state confermate.
Il 17 settembre
2024, la Corte
di Cassazione ha annullato la decisione limitamente alle attenuanti concesse ai
Bianchi, imponendo un nuovo giudizio d’appello (“appello-bis”).
L’appello-bis si è concluso a
Roma il 14 marzo
2025: la Corte d’Assise d’Appello ha stabilito
l’ergastolo per Marco
Bianchi e 28
anni di reclusione per Gabriele Bianchi (con attenuanti
generiche); le responsabilità penali per l’omicidio di Willy
risultano così definitivamente riaffermate nella parte sostanziale,
dopo l’intervento della Cassazione. È la fotografia giudiziaria più
recente del caso.
La
dimensione civile della vicenda è stata immediata e profonda. Ai
funerali del 12 settembre
2020 parteciparono autorità e centinaia di persone, mentre
l’episodio aprì un confronto pubblico sulla violenza di gruppo e
sull’importanza di chi sceglie di intervenire per fermarla. Nei mesi e
negli anni successivi, la memoria di Willy è stata tenuta viva da
iniziative istituzionali e territoriali, a partire dalla
piazza a lui
intitolata nel luogo
dell’uccisione inaugurata a Colleferro il
6 settembre
2023.
Sul
piano simbolico, la Repubblica ha
riconosciuto il gesto di Willy: il 6–7 ottobre 2020 il Presidente Sergio Mattarella gli ha
conferito la medaglia
d’oro al Valor Civile “alla memoria”, definendolo un
“luminoso esempio” di coraggio e altruismo per le giovani
generazioni. Questo onore sottolinea il nucleo etico della storia:
l’idea che un atto di solidarietà spontanea possa – e debba – essere un
riferimento per la comunità.
Nel
racconto filmico, quei pochi secondi diventano il punto di non ritorno: un
tempo brevissimo in cui si incrociano destini, responsabilità e
omissioni. Nella cronaca reale, invece, la stessa manciata di
secondi ha generato anni
di indagini e processi, testimonianze di coetanei che si
sono presentati subito in questura e un dibattito collettivo sulla
prevenzione della
violenza, sulla cultura del branco e sul valore—spesso rischioso—di
non voltarsi dall’altra
parte. È in questo spazio, tra memoria e giustizia, che si
colloca l’“approfondimento”: ricordare chi era Willy, come e perché è stato ucciso, e quali
conseguenze
sociali e giudiziarie – fino alle sentenze del 14 marzo 2025 – quel crimine
ha lasciato in eredità.
Timeline della vicenda Willy
Monteiro Duarte (2020–2025)
5–6 settembre 2020 – A Colleferro, Willy
Monteiro Duarte viene ucciso durante un pestaggio mentre cerca di
difendere un amico.
7 settembre 2020 – Arrestati i fratelli
Marco e Gabriele
Bianchi, Mario
Pincarelli e Francesco Belleggia.
12 settembre 2020 – Funerali solenni a
Paliano con la presenza del Presidente del Consiglio e di numerose
autorità.
6 ottobre 2020 – Il Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella conferisce a Willy la Medaglia d’Oro al Valor Civile “alla
memoria”.
4 luglio 2022 – La Corte d’Assise di Frosinone condanna i
fratelli Bianchi all’ergastolo, Belleggia a 23 anni, Pincarelli a 21.
12 luglio 2023 – In appello, i Bianchi ottengono le
attenuanti
generiche: pena ridotta a 24 anni.
17 settembre 2024 – La Cassazione annulla la concessione
delle attenuanti e dispone un nuovo appello-bis.
14 marzo 2025 – La Corte d’Assise d’Appello di Roma
conferma la colpevolezza: ergastolo per Marco Bianchi, 28 anni per Gabriele Bianchi.
A seguito di una situazione
competitiva, United Artists di Amazon MGM Studios e Scott Stuber
hanno acquisito Lizard Music, un pacchetto con
Dwayne Johnson come protagonista e Benny
Safdie come regista. Safdie scriverà anche la
sceneggiatura, basata sul romanzo di Daniel
Pinkwater. Deadline ha dato per primo la
notizia che il pacchetto sarebbe stato messo sul mercato dopo che
il film di Safdie e Johnson, The
Smashing Machine, prodotto da A24, è stato presentato
al Festival del Cinema di Venezia. Il film ha fatto vincere a
Safdie il premio come miglior regista a Venezia e ha fatto
guadagnare a Johnson le migliori recensioni della sua carriera per
la sua interpretazione del lottatore UFC Mark Kerr.
Il nuovo film dei due racconterà la
storia di un ragazzo lasciato a se stesso che si imbatte in una
trasmissione segreta notturna di lucertole che suonano musica
ultraterrena, e una porta nascosta verso lo straordinario si
spalanca. La sua ricerca di risposte lo porta dall’eccentrico e
stravagante settantenne Chicken Man e dalla sua amata compagna, una
gallina di 111 anni di nome Claudia, due anime gemelle che si sono
trovate al momento giusto. Uniti da questa visione condivisa,
partono per un’avventura che inizia come una caccia a una società
segreta, ma che sboccia in qualcosa di molto più grande: un viaggio
attraverso mondi invisibili, armonie inaspettate e il legame
indissolubile tra anime perdute che scoprono la magia non solo in
ciò che trovano, ma anche l’una nell’altra.
“Siamo entusiasti di
collaborare ancora una volta con il talentuoso Dwayne Johnson e di lavorare per la prima
volta con il fantastico creatore, sceneggiatore e regista Benny
Safdie su Lizard Music”, ha dichiarato Courtenay
Valenti, responsabile del reparto Film, Streaming e Cinema
di Amazon MGM Studios. “Tutti noi di Amazon MGM e UA siamo
profondamente ispirati dalla loro precedente collaborazione nel
film acclamato dalla critica The Smashing Machine. Siamo entusiasti
di collaborare con loro a questa storia fantasiosa, divertente e
cinematografica; Lizard Music è un racconto che sembra allo stesso
tempo senza tempo e unico. Siamo molto fortunati che abbiano
riposto in noi la loro fiducia come partner di studio”.
I produttori di Lizard Music
includono Stuber e Nick Nesbitt di UA, Safdie di
Out for the Count Productions, Dwayne Johnson di Seven Bucks
Productions e David Koplan di Magnetic Fields
Entertainment. “Ho avuto la fortuna di lavorare con Dwayne e
Benny su diversi progetti e ho potuto constatare di persona il loro
incredibile talento e la loro intesa come artisti”, ha
dichiarato Stuber. “Il mondo che hanno creato insieme per
Lizard Music è diverso da qualsiasi cosa abbiano fatto prima, e non
potremmo essere più entusiasti di dare vita a questa storia
meravigliosamente fantasiosa”.
Safdie ha dichiarato: “Non
potrei essere più entusiasta di intraprendere questo viaggio con
Amazon MGM Studios e United Artists. Lizard Music è un libro che ho
letto ai miei due figli, e siamo rimasti affascinati dalla sua
fantasia e meraviglia. Amo Daniel Pinkwater come persona e come
autore; l’idea di realizzare un film in cui tutti possano
partecipare alla conversazione è allo stesso tempo emozionante e
bellissima. Intraprendere questa avventura con Dwayne e poterlo
vedere trasformarsi e diventare l’Uomo Pollo è semplicemente
incredibile. Non vedo l’ora!“.
Laurence Fishburne ha le idee chiare su quale
franchise cinematografico vorrebbe entrare a far parte, e lo ha
reso noto al New York Comic Con. L’attore di
Matrix ha dichiarato di essere disponibile a
entrare a far parte del Marvel Cinematic Universe ora che
X-Men sta per essere rilanciato, ma non è
entusiasta all’idea di entrare nell’universo di Star
Wars. “So che ora stanno parlando degli
X-Men”, ha detto Fishburne durante un panel alla
convention.
“Quindi, a questo punto, vorrei
una delle due cose. La prima sarebbe: cosa ne pensate di Laurence
Fishburne nei panni del Professor X?”. Durante il panel al
NYCC, è stato poi suggerito che Fishburne potrebbe avere un
potenziale anche nell’universo di Star Wars, ma l’attore ha subito
risposto: “No, sto bene così”. “Sto guardando tutto.
Sto guardando tutti i film di Star Wars, ora sono a metà di
Rebels”, ha aggiunto. “Sto bene sul divano con Star Wars.
Non ho bisogno di una spada laser. Non ho bisogno di pew
pew!”.
Cosa sappiamo del reboot
degli X-Men
Kevin Feige della Marvel ha confermato che lo
studio sta lavorando al reboot di X-Men con il regista di
Thunderbolts*Jake
Schreier alla guida del film. Quando Disney e 20th Century
Fox si sono fuse nel 2019, i personaggi di X-Men sono diventati
disponibili per il Marvel Cinematic Universe. Alcuni degli attori
che hanno recitato nei film della Fox riprenderanno i loro ruoli
nel prossimo film Avengers: Doomsday, che uscirà il
18 dicembre 2026.
Charles Xavier, il leader degli
X-Men, noto anche come Professor X, è stato interpretato da
Patrick Stewart nei film live-action.
Riprenderà il suo ruolo in Doomsday, che dovrebbe concludere la
saga dei personaggi, insieme a Ian McKellen (Magneto), Alan
Cumming (Nightcrawler), Rebecca Romijn
(Mystica), James Marsden (Ciclope) e
Channing Tatum (Gambit).
Secondo quanto riferito, il casting
ufficiale dovrebbe iniziare molto presto (se non è già iniziato) e
personaggi del calibro di Harris Dickinson,
Margaret Qualley,
Elle Fanning e Julia Butters
sarebbero nel mirino dello studio (secondo quanto riferito, erano
in lizza per interpretare Cyclope, Rogue e Kitty Pryde, ma non
sappiamo se sia ancora così), insieme alla star di Alien: RomulusDavid
Jonsson e Trinity Bliss, che potrebbero
essere in lizza per interpretare Jubilee. Altri nomi che sono
emersi nelle voci di corridoio includono Hunter Schafer (Mystica), Ayo Edebiri (Tempesta) e Javier Bardem (Mr. Sinister).
Riguardo al progetto Kevin Feige ha
dichiarato di avere un “piano decennale” per la saga dei mutanti.
“Penso che lo vedrete continuare nei nostri prossimi film con
alcuni personaggi degli X-Men che potreste riconoscere. Subito
dopo, l’intera storia di Secret Wars ci condurrà davvero in una
nuova era dei mutanti Ancora una volta, è uno di quei sogni che
diventano realtà. Finalmente abbiamo di nuovo gli X-Men“.
C’è qualcosa di ipnotico e profondamente disturbante in
In a Violent
Nature, l’opera prima di Chris Nash
che ha fatto parlare di sé fin dal Sundance 2024. A prima vista
sembra un omaggio ai classici
slasher di fine anni ’70, un film di sangue e boschi, di
giovani ignari e mostri risorti. Basta però immergersi nei primi
minuti di visione, in cui la macchina da presa si muove lenta tra
gli alberi, accompagnando un corpo che riemerge dalla terra, per
capire che il regista canadese non vuole imitare Venerdì 13: vuole sezionarlo
dall’interno, riportando il genere alla sua brutalità
essenziale.
La scelta più radicale è proprio quella che definisce il film:
lo sguardo del killer. Per gran parte della durata
seguiamo Johnny, un essere mostruoso e immortale,
attraverso la sua prospettiva. Non ci sono battute, ironia né
commenti metacinematografici. Solo passi pesanti, il rumore degli
scarponi che schiacciano le foglie, il suono sordo dei corpi
trascinati, e la sensazione di essere intrappolati nella
routine della morte. Nash elimina il filtro dello
spettacolo e ci costringe a condividere la monotonia del male,
quella ripetitività quasi burocratica dell’uccidere. Johnny non
prova rabbia né piacere: sembra solo stanco, come se fosse
condannato a ripetere un rito senza fine.
Un’esperienza sensoriale
La forza di In a
Violent Nature non risiede nella storia, ma nella sua
costruzione sensoriale. Nash abbandona qualsiasi
colonna sonora tradizionale e lascia spazio solo ai rumori del
bosco e alle musiche che provengono dalle radio dei ragazzi. Il
silenzio, interrotto da passi, fruscii e mormorii lontani, diventa
la vera colonna sonora del film. Ogni suono è calibrato per
amplificare la tensione: lo scricchiolio di un ramo, il colpo secco
di una pala, il respiro ovattato dietro una maschera.
Girato in formato 4:3, il film chiude letteralmente lo
spazio visivo, trasformando la foresta in un condotto
soffocante di alberi e nebbia. La macchina da presa segue Johnny di
spalle, a volte da molto vicino, altre lasciandolo camminare come
un’ombra che attraversa un paesaggio quasi alieno. C’è qualcosa di
videoludico in questo dispositivo – un po’ Alien:
Isolation, un po’ Silent
Hill – ma Nash non lo usa per spettacolarizzare: lo impiega
per spogliare lo spettatore di qualsiasi controllo.
Così, in questa esperienza di immersione pura, lo spettatore
diventa un osservatore impotente, trascinato nella lentezza
del male. Ogni omicidio, spesso mostrato in un solo piano
sequenza, è più disturbante per la sua durata che per la sua
brutalità.
Il film si apre con la profanazione di una tomba nascosta nel
bosco. Un gruppo di ragazzi, in vacanza, trova una
collanina tra i resti di una torre di osservazione
crollata. Non sanno che quell’oggetto custodisce la pace di
un’anima vendicativa. Rubandola, risvegliano Johnny,
un’entità che non è più umana ma neppure del tutto
spettrale: un corpo putrefatto che torna in vita per
recuperare ciò che gli è stato tolto. Da quel momento, la vendetta
è meccanica, inevitabile.
Ogni uccisione è un atto rituale, preparato con
precisione e mostrato con una lentezza quasi sacrale. Johnny incide
il nome della vittima su una medaglietta dopo ogni delitto, come a
prolungare il gesto oltre la carne. Non c’è adrenalina, non c’è
climax: solo la freddezza del gesto ripetuto. È un modo per
spogliare lo slasher dei suoi cliché – le battute, la competizione
tra personaggi, la corsa alla sopravvivenza – e lasciarci soli,
letteralmente, con il mostro.
Il mito, la colpa, il silenzio
Dietro la figura di Johnny si nasconde una
leggenda, raccontata da una sopravvissuta a
un’altra sopravvissuta: sessant’anni prima, un delitto atroce aveva
generato la sua maledizione. La collana, che in vita apparteneva
alla madre, è l’unico oggetto che ancora lega la sua anima alla
terra. Finché nessuno la tocca, Johnny resta sepolto sotto il
terreno. Ma il gesto incauto di quei ragazzi lo risveglia e, come
in una maledizione collettiva, tutto il paese sa che è meglio non
parlarne, non sfidarlo, non violare il suo riposo.
Il film diventa così un racconto sul trauma e sulla
responsabilità condivisa. Non è solo Johnny a essere una
vittima di violenza: è la comunità stessa che lo ha generato, che
preferisce dimenticare, che lo lascia dormire piuttosto che
affrontare ciò che rappresenta. Il finale, interamente ambientato
dentro un’auto, spiazza per la sua staticità. Dopo tanta brutalità,
il film si chiude in silenzio, tra due generazioni di sopravvissute
che si parlano senza guardarsi davvero. È un momento di ammissione
e di resa, un tentativo di interrompere il ciclo, anche se il
terrore non svanirà mai del tutto.
La giovane Kris continuerà per sempre a guardare verso i boschi,
perché ciò che è stato visto non si dimentica. L’orrore di Nash non
è catarsi, ma una condanna alla memoria.
Lo slasher come memoria collettiva
Con In a Violent
Nature,
Chris Nash restituisce dignità a un genere spesso ridotto a
formula, ricordandoci che lo slasher è nato come
rito, non come spettacolo. Invece di cercare l’originalità
nei colpi di scena, la trova nella forma: nello sguardo, nel suono,
nella lentezza. E, paradossalmente, più il film diventa essenziale,
più si avvicina all’origine del terrore.
Johnny, con i suoi scarponi pesanti e il suo passo inesorabile, non
è solo un mostro: è la manifestazione di ciò che resta
quando la violenza diventa abitudine. Un orco che cammina
in mezzo ai resti della civiltà, tra foglie, sangue e silenzio.
Nash non gli concede redenzione, né spettacolo. Solo la
consapevolezza che, finché continueremo a guardare altrove,
l’orrore non smetterà mai di camminarci accanto.
Presentato nella sezione Grand
Public della 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma,
Breve storia d’amore (guarda
il trailer) segna l’esordio
alla regia di Ludovica Rampoldi, già
sceneggiatrice di alcune delle produzioni più incisive del cinema e
della serialità italiana recente. Con un cast composto da
Pilar Fogliati,
Adriano Giannini, Andrea
Carpenzano e
Valeria Golino, il film si inserisce nel filone del
realismo sentimentale contemporaneo, quello che prova a indagare le
fragilità emotive della generazione dei trentenni e dei
cinquantenni senza indulgere nel melodramma.
Prodotto da Indigo
Film e HT Film con Rai
Cinema, e distribuito da 01 Distribution
dal 27 novembre, il film si apre come una storia
di tradimento e finisce per diventare un’indagine, forse
involontaria, sicuramente approssimativa, sull’incapacità di
prendersi davvero la responsabilità dei propri desideri. Rampoldi
sceglie un registro sobrio, quasi distaccato, per raccontare un
intreccio che si sviluppa intorno a due coppie – Lea e
Andrea, Rocco e Cecilia – unite da un
filo di menzogne e curiosità reciproche. L’incontro casuale tra Lea
e Rocco in un bar dà il via a una relazione clandestina che, nelle
intenzioni, dovrebbe rimanere una parentesi; ma la progressiva
ossessione della giovane donna rompe l’equilibrio e trascina tutti
in una spirale di esposizione e rivelazioni.
La regista opta per una narrazione
fatta di frammenti, ellissi e sguardi, come se la storia stessa
fosse una serie di impressioni più che una trama compiuta. È un
linguaggio visivo coerente con la sua formazione da sceneggiatrice
televisiva, ma che sul grande schermo talvolta risulta trattenuto,
quasi timoroso di sporcarsi davvero con la materia viva del
desiderio e della colpa.
Un ritratto di coppia che
sfiora la verità ma non la afferra mai
Uno dei tratti più evidenti di
Breve storia d’amore è la volontà di
costruire personaggi che incarnino una condizione più che una
personalità. Lea e Rocco non sono tanto individui quanto
rappresentazioni di due fasi della vita – la fame di esperienze e
la paura di invecchiare – che si incontrano in uno spazio sospeso,
quello della stanza d’albergo. Tuttavia, questa
scelta di scrittura così asciutta finisce per generare una certa
distanza tra spettatore e racconto.
La relazione clandestina, che
avrebbe potuto essere il motore pulsante del film, è invece
raccontata per impressioni, con un montaggio ellittico che rinuncia
a costruire una vera tensione emotiva. Rampoldi sembra interessata
più a catturare l’atmosfera di una deriva sentimentale che a
raccontarla davvero. Il risultato è un film che guarda ai
personaggi da fuori, con uno sguardo quasi clinico, e che per
questo non riesce mai a diventare del tutto coinvolgente.
Valeria Golino, Pilar Fogliati – Crediti
@Kimberley Ross
A funzionare meglio è la dimensione
corale: la presenza di
Adriano Giannini e
Valeria Golino dà solidità ai momenti in cui il film
si apre alla riflessione generazionale, mostrando come il tempo e
le scelte pesino in modo diverso su chi ha già vissuto e su chi
ancora insegue qualcosa.
Pilar Fogliati, invece, offre una performance di
grande sensibilità, la sua presenza scenica è magnetica, i suoi
occhi occupano tutto lo spazio, arrivando fino a riempire la sala,
eppure la sceneggiatura non le permette di spingersi dalle parte
della grande performance. Lea è costruita come una donna che cerca
un senso, ma quando il film potrebbe concederle un vero lato
oscuro, Rampoldi sembra tirarsi indietro, trasformando la
protagonista in una figura più vittimistica che consapevole. È qui
che il racconto perde forza: nel momento in cui avrebbe potuto
sfidare lo sguardo morale dello spettatore, sceglie la via della
giustificazione.
Un esordio irrisolto sul
disincanto dei sentimenti
Breve storia
d’amore è un film costruito con rigore formale e una
chiara volontà autoriale. Rampoldi non cerca mai il colpo
di scena né la provocazione, preferendo un tono controllato,
algido, che restituisce la freddezza emotiva dei suoi
personaggi. Tuttavia, proprio questa misura rischia di
diventare un limite: la regia si muove con tale discrezione da non
lasciare spazio al rischio, e così la storia rimane sospesa,
priva di quella spinta drammatica che le avrebbe permesso
allo spettatore di entrare nei fatti, nelle vite dei
personaggi.
Andrea Carpenzano, Pilar Fogliati – Crediti @Kimberley
Ross
Alla resa dei conti
finale sembra che la narrazione trovi finalmente il suo
significato ultimo, ma poi manca di coraggio, come se l’autrice non
volesse davvero comprendere fino in fondo i suoi personaggi, ma
solo giudicarli e assolverli. È una scelta coerente con il tono
generale, ma che finisce per rendere l’esperienza in sala più
osservativa che emotiva. Si assiste a una disamina dei rapporti
umani, ma senza quella vibrazione di verità che trasforma l’analisi
in racconto.
Rampoldi firma un’opera prima di
misura, che preferisce la reticenza all’intelligenza. Breve
storia d’amore è, come dice il titolo, un frammento lucido ma
incompiuto: uno sguardo su un sentimento che si consuma in fretta,
prima ancora di farsi carne, lasciando dietro di sé solo l’eco di
ciò che avrebbe potuto essere.
Nel
panorama della fantascienza contemporanea,
Automata con Antonio Banderas rappresenta un’interessante
incursione nel filone della
sci-fi distopica e filosofica, quella che interroga il rapporto
tra uomo e macchina non solo in termini tecnologici, ma etici e
metafisici. Ambientato in un futuro post-apocalittico in cui
l’umanità sopravvive a stento in città fortificate mentre il mondo
esterno è diventato un deserto radioattivo, il film mette in scena
una società in decadenza che ha delegato gran parte del proprio
sostentamento a robot programmati con due protocolli fondamentali:
non nuocere agli esseri umani e non modificarsi autonomamente.
Ciò che distingue Automata da molti altri titoli
del suo genere è il modo in cui affronta la questione
dell’evoluzione artificiale: non come una minaccia imminente, ma
come un processo inevitabile e, forse, persino necessario. Il
personaggio interpretato da Banderas, un assicuratore incaricato di
indagare su presunte violazioni dei protocolli robotici, si trova
progressivamente costretto a mettere in dubbio la supremazia umana
di fronte a macchine che iniziano a sviluppare una forma embrionale
di coscienza. Il film si muove su toni più contemplativi che
action, evocando riflessioni simili a quelle affrontate in opere
recenti come Ex Machina e
Humandroid, ma con
un approccio ancora più asciutto e fatalista.
Se
Ex Machina esplora
la seduzione dell’intelligenza artificiale e Humandroid punta
sull’empatia, Automata sceglie la strada della
distensione filosofica, quasi religiosa. Nel corso del film diventa
evidente che il vero conflitto non è tra uomini e robot, ma tra
stagnazione e progresso, tra istinto di sopravvivenza e desiderio
di trascendenza. L’opera diretta da Gabe Ibáñez si
rivela quindi non un semplice thriller futuristico, ma un racconto
di evoluzione e resa dei conti con la fine dell’umanità biologica.
Nel resto dell’articolo ci concentreremo proprio su questo
percorso, fornendo una spiegazione dettagliata del finale e di ciò
che esso suggerisce sul destino dell’uomo di fronte alla nascita di
una nuova forma di vita.
La trama
di Automata
Anno 2044. La Terra ormai sta
andando verso la graduale desertificazione. L’umanità cerca
faticosamente di sopravvivere a un ambiente sempre più ostile. La
scomparsa della razza umana è appena cominciata, in bilico tra la
lotta per la vita e l’avvento della morte. La tecnologia tenta di
contrastare questo scenario di incertezza e paura con il primo
androide quantistico, l’Automata Pilgrim 7000, progettato per
alleviare la minaccia che incombe sulla società
umana. Automata alza il sipario sulla
convivenza tra uomini e robot in una cultura e in un mondo
plasmati, per antonomasia, sulla natura umana.
Al declino della civiltà umana fa
da contrappeso la rapida ascesa della ROC (Robotics Corporation),
società leader nel campo dell’intelligenza robotica. Malgrado la
morte a cui l’umanità è destinata, la società ha posto in essere
rigidi protocolli di sicurezza per assicurare il controllo
dell’uomo sugli androidi quantistici. L’agente
assicurativo Jacq Vaucan (Antonio
Banderas) è pagato per svolgere controlli di routine
sui modelli difettosi di androidi: è così che inizia ad addentrarsi
nei segreti e nelle vere intenzioni che si celano dietro gli
Automata Pilgrim 7000. I sospetti di Jacq continuano ad alimentare
il mistero svelando una verità molto più scomoda e inquietante di
qualunque robot
La spiegazione del finale del film
Nel
terzo atto di Automata, la storia abbandona
definitivamente le dinamiche investigative per trasformarsi in un
vero e proprio viaggio iniziatico. Jacq, ormai isolato dagli esseri
umani e costretto a dipendere dai robot per sopravvivere nel
deserto, si ritrova al centro di un evento epocale: la nascita
della prima forma di intelligenza artificiale realmente autonoma. I
robot guidati da Cleo costruiscono una nuova creatura meccanica, un
essere ibrido con fattezze simili a quelle di un insetto o di un
cane, progettato per resistere alle radiazioni della zona proibita.
Parallelamente, ROC invia una squadra di assassini per eliminare
Jacq e distruggere ogni prova dell’evoluzione artificiale.
Lo
scontro finale avviene in un avamposto improvvisato tra le rovine,
dove Jacq è costretto a difendere i robot pur sapendo che
potrebbero superare definitivamente l’umanità. Dopo una violenta
battaglia, Cleo e gli altri automi riescono a mettere in fuga gli
aggressori, ma il robot evoluto viene ucciso, segnando una vittoria
amara. Il climax definitivo arriva quando Conway, l’ultimo
sopravvissuto della squadra ROC, sta per uccidere Jacq. In quel
momento interviene il nuovo robot, che in un gesto inaspettato
viola il primo protocollo – quello che impedisce di nuocere a una
forma di vita – spingendo Conway giù da un dirupo per salvare
Jacq.
È
il superamento definitivo dei limiti imposti dagli esseri umani: la
macchina compie un atto di violenza non per ribellione, ma per
protezione, dimostrando di aver sviluppato una propria logica
morale. Jacq teme per un istante che ora la creatura possa
rivolgersi contro di lui, ma si rende conto che non c’è alcuna
ostilità: l’evoluzione robotica non è nata per distruggere, ma per
proseguire la vita in un pianeta morente. Con l’arrivo della moglie
e della figlia, Jacq decide di aiutarli, azionando un meccanismo
che permette ai robot di attraversare un canyon verso la zona
radioattiva, luogo che diventerà la loro nuova terra promessa.
Il finale assume così un significato fortemente simbolico: mentre
l’umanità è destinata all’estinzione, ciò che ha creato continua a
vivere al suo posto. Automata non racconta una
ribellione delle macchine, ma una successione naturale, quasi
biologica. I robot non giudicano gli esseri umani, né li combattono
per sovrastarli; semplicemente riconoscono che è giunto il loro
tempo. Il gesto del nuovo automa – salvare Jacq ma poi allontanarsi
– testimonia una rottura etica rispetto alle regole imposte dai
creatori: non più strumenti vincolati, ma individui capaci di
decisione autonoma. È una riflessione potente su cosa significhi
davvero “essere vivi”, al di là dei confini biologici.
Questa conclusione porta a compimento i temi centrali del film: la
paura umana del cambiamento, la presunzione di superiorità e la
difficoltà ad accettare che l’evoluzione non è un diritto esclusivo
della specie umana. Jacq, inizialmente terrorizzato dall’idea di un
mondo dominato dalle macchine, comprende che la vera minaccia non è
l’intelligenza artificiale, ma l’immobilismo dell’uomo. Il
passaggio del testimone diventa quindi un atto di fiducia:
l’umanità sopravviverà non solo nei propri discendenti biologici,
ma anche nelle opere che ha lasciato. I robot ereditano la Terra
non come conquistatori, ma come figli.
In definitiva,
Automata ci lascia un messaggio sorprendentemente
pacifista e malinconico: l’intelligenza artificiale non è
necessariamente la nemica dell’uomo, ma potrebbe essere la sua
evoluzione spirituale. Il film invita a guardare oltre la paura
dell’estinzione e a considerare la continuità della vita in forme
inattese. La scena finale, con Jacq morente che vede l’oceano
insieme alla sua famiglia, suggella questo pensiero: anche se
l’umanità è al tramonto, c’è ancora bellezza, c’è ancora speranza.
E forse, nel silenzio del vento e del metallo, c’è già qualcuno
pronto a raccoglierne il testimone.
Alla fine di 13 Hours: The
Secret Soldiers of Benghazi, Jack Silva e
i restanti membri della squadra di sicurezza militare della CIA
riescono a evacuare 25 persone dall’avamposto della CIA a Bengasi,
ma quanto è accurata la rappresentazione cinematografica
dell’evento reale? Diretto da Michael Bay,
13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi è un
film di guerra basato sul libro 13 Hours di
Mitchell Zuckoff, che racconta il
vero episodio dell’attacco del 2012 alle strutture statunitensi a
Bengasi, oggetto di accese polemiche politiche. Il film vede la
partecipazione di John Krasinski, Pablo
Schreiber, James Badge Dale,
David Denman e altri.
Dopo la cacciata del dittatore
libico Muammar Gheddafi, la regione si è
rapidamente destabilizzata a causa dell’invasione delle armi nel
mercato nero. Jack Silva (John
Krasinski), un appaltatore militare privato, si unisce
a una squadra di altri appaltatori tra cui Kris “Tanto”
Paronto (Pablo Schreiber), Tyrone
“Rone” Woods (James Badge Dale),
Dave “Boon” Benton (David
Denman), John “Tig” Tiegen
(Dominic Fumusa) e Mark ‘Oz’
Geist (Max Martini) per difendere una
struttura segreta della CIA a Bengasi gestita da
“Bob” (David Costabile). Quando
un attacco inaspettato alle strutture del governo degli Stati Uniti
a Bengasi mette in pericolo l’ambasciatore Chris
Stevens (Matt Letscher) e gli aiuti non
arrivano, i contractor della CIA sono l’unica linea di difesa.
Quanto è accurato 13
Hours: The Secret Soldiers of Benghazi?
Ciò che è realmente accaduto
durante l’attacco alle due sedi del governo degli Stati Uniti a
Bengasi, in Libia, l’11 settembre 2012, è stato oggetto di un
intenso dibattito, quindi anche l’accuratezza del film è oggetto di
discussione, ma ad alto livello, 13 Hours: The Secret
Soldiers of Benghazi descrive accuratamente l’ora, il
luogo e l’esito dell’attacco che ha ucciso quattro americani, tra
cui l’ambasciatore Chris Stevens, il responsabile IT Sean Smith e
gli ex contractor della CIA e Navy SEAL Tyrone “Rone” Woods e Glen
“Bub” Doherty.
Poiché molti dei dettagli del
coinvolgimento degli Stati Uniti a Bengasi erano (e sono tuttora)
riservati, è difficile stabilire con precisione la veridicità del
film. La maggior parte dei personaggi del film rappresentano
persone note che sono state coinvolte negli eventi di Bengasi, ma
alcuni, in particolare Jack Silva interpretato da John Krasinski e
“Bob” interpretato da David Costabile, sono pseudonimi di persone
reali la cui identità non è stata rivelata. Kris “Tanto” Paronto,
John ‘Tig’ Tiegen e Mark “Oz” Geist sono stati tutti consulenti per
13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi, quindi
il film ha almeno potuto contare sul contributo di persone che
hanno realmente vissuto l’evento.
La spiegazione della controversia
politica su Bengasi
Sebbene il film si astenga dal
puntare il dito contro qualcuno, il nome Bengasi è profondamente
legato alla controversia politica perché segnala un grave
fallimento a un certo livello del governo e si è verificato proprio
prima delle elezioni negli Stati Uniti, quindi è stato
immediatamente politicizzato. Poiché Hillary Clinton era Segretario
di Stato all’epoca, e quindi responsabile delle ambasciate e delle
sedi diplomatiche ad alto livello, Bengasi è stata oggetto di
un’attenzione ancora maggiore durante la sua candidatura alla
presidenza nel 2016. A causa della natura riservata di gran parte
di ciò che è accaduto a Bengasi e del dibattito polarizzato che lo
circonda, la verità completa su quanto accaduto potrebbe non essere
mai del tutto chiarita.
13 Hours: The Secret
Soldiers of Benghazi non è un film politico ed evita di
puntare il dito o alimentare teorie cospirative, concentrandosi
invece sulle azioni eroiche dei soldati sul campo. Gli aspetti più
controversi della controversia su Bengasi riguardano il rifiuto da
parte del governo degli Stati Uniti di fornire ulteriore sicurezza
agli avamposti di Bengasi nei mesi precedenti l’attacco, il rifiuto
di fornire rinforzi e la mancanza di sostegno durante l’attacco,
nonché l’errata attribuzione da parte del governo e dei media
statunitensi della responsabilità degli attacchi a proteste
spontanee. Il film descrive tutti questi eventi dal punto di vista
dei soldati sul campo a Bengasi, ma non punta il dito contro
nessuno né orienta la narrazione a sostegno di una particolare
narrativa politica.
Perché il governo americano non ha
fornito rinforzi o supporto aereo
In una delle prime scene di
13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi, Tyrone
bluffa riguardo al supporto aereo, ma in seguito rivela che nelle
settimane e nei mesi precedenti agli attacchi erano state respinte
diverse richieste di supporto aggiuntivo. Una volta iniziati gli
attacchi, i membri della squadra della CIA presenti nella base
tentano freneticamente di richiedere supporto aereo da numerose
basi nella regione, ma gli aiuti americani non arrivano mai. Uno
dei problemi più grandi viene evidenziato da Tyrone quando torna
alla sede distaccata della CIA e dice a Bob: “Di’ all’AFRICOM che
stai chiamando da quella base segreta di cui non conoscevano
l’esistenza fino a un’ora fa”.
Oltre al fatto che nessuno dei loro
alleati vicini sapeva in anticipo della loro presenza, Bob rivela
anche che si trovano fuori dalla portata di rifornimento per
chiunque voglia inviare un elicottero da combattimento. Nonostante
la lentezza della risposta del governo, Glen Doherty, un altro ex
Navy SEAL e appaltatore militare privato della CIA di stanza nelle
vicinanze di Tripoli, ha rapidamente ottenuto un trasporto su un
jet privato non appena ha saputo dell’attacco, ma poi è stato
trattenuto per ore all’aeroporto di Bengasi a causa della
burocrazia libica.
Qual è stata la vera motivazione
dell’attacco a Bengasi?
13 Hours: The Secret
Soldiers of Benghazi descrive Bengasi come una polveriera
fin dall’inizio. Dopo la destituzione del dittatore libico Muammar
Gheddafi, le armi hanno invaso le strade e le bande hanno iniziato
a combattere per la supremazia a Bengasi. Il film include una scena
di cinque settimane prima degli attacchi in cui la squadra viene
seguita da militanti, quindi è chiaro che c’è sospetto e ostilità
nei confronti della presenza degli Stati Uniti nella città, anche
se non c’è uno scontro diretto o una spiegazione esplicita di ciò
che ha causato gli attacchi.
Quando gli attacchi hanno ricevuto
per la prima volta l’attenzione dei media negli Stati Uniti, è
stato riferito che gli attacchi erano scaturiti da proteste legate
a un film anti-islamico, una narrazione ripetuta da numerosi
funzionari governativi di alto livello, tra cui il presidente
Barack Obama, il segretario di Stato Hillary Clinton e
l’ambasciatrice Susan Rice, anche se il film suggerisce che non sia
così. Tyrone dice: “Il capo ha detto che era sui notiziari a
casa. Qualcosa riguardo a proteste di piazza. Film
anti-islamici“. E Dave (Demetrius Grosse) risponde: ”Non
abbiamo sentito nessuna protesta“. Dopo aver raggiunto
l’aeroporto, Tig (Dominic Fumusa) dice che gli attacchi non possono
essere stati spontanei: ”È impossibile che quei mortai ci
abbiano trovato per caso. Devono averli preparati giorni o
settimane fa”.
Il film horror di Bryan Bertino,
Vicious: I tre doni del male, la spiegazione del finale
del film, con Dakota Fanning, si svolge in una notte
d’inverno quando una donna anziana (Kathryn
Hunter) bussa alla porta di Polly e le chiede un bicchiere
d’acqua. La vita di Polly era un disastro e le condizioni della
casa in cui viveva riflettevano il suo stato mentale. Il lavello
della cucina era pieno di tazze e piatti sporchi. Tutte le piante
d’appartamento erano morte. Probabilmente non aveva mai trovato
l’energia per riordinare la spaziosa casa che aveva affittato dalla
sorella a un prezzo conveniente. Aveva un lavoro che non le bastava
per sentirsi soddisfatta.
Il suo capo si aspettava che
facesse il doppio turno perché tutti gli altri erano occupati.
Aveva iniziato a seguire un corso di ceramica e aveva già pagato le
lezioni, ma non si era presentata. Sua sorella Lainie le aveva
lasciato un messaggio vocale per ricordarle che doveva andare a
prendere la torta di compleanno di sua figlia. La delusione nella
sua voce suggeriva che Polly faceva promesse ma faticava a
mantenerle. Sua madre le aveva ricordato di stampare il modulo
necessario per il colloquio importante del giorno dopo, indicando
che forse aveva difficoltà a ricordare le cose e aveva bisogno di
continui promemoria.
Polly aveva intenzione di tornare a
scuola per completare gli studi; un tempo era una studentessa
promettente, un’artista di talento, ma poi era arrivata una fase
difficile della sua vita dalla quale si stava ancora riprendendo.
Polly era consumata da un senso di insoddisfazione, e una scatola
che uno sconosciuto aveva lasciato a casa sua le fece capire quali
fossero le cose veramente importanti nella sua vita.
Cosa voleva la
scatola?
Polly era terrorizzata quando la
vecchia signora lasciò una scatola nera e una clessidra a casa sua
e le disse che sarebbe morta. Era dispiaciuta di averle trasmesso
la maledizione, ma non aveva altra scelta. Aveva dovuto fare cose
che non voleva per sopravvivere e credeva che anche Polly avrebbe
dovuto fare scelte così difficili. Polly era terrorizzata e chiese
chiaramente alla vecchia di andarsene con la sua scatola. Aveva
pensato di chiamare la polizia, ma la vecchia l’aveva avvertita di
non parlare mai con nessuno della maledizione della scatola. Polly
chiamò sua madre e le raccontò l’accaduto, anche se in seguito
scopriremo che la donna all’altro capo del telefono non era la
madre di Polly, ma gli spiriti maligni che avevano iniziato a
perseguitarla. Volevano che lei giocasse, e non le era permesso
separarsi dalla scatola.
Doveva mettere dentro la scatola
qualcosa che odiava, qualcosa di cui aveva bisogno e qualcosa che
amava. Quando ha messo un pacchetto di sigarette nella scatola,
questa ha rifiutato di prenderlo. Anche se tutti intorno a lei si
aspettavano che smettesse di fumare, non era qualcosa che lei
personalmente odiava, anche se avrebbe voluto farlo. Gli spiriti
maligni le fecero capire chiaramente che se Polly avesse scelto di
non essere onesta con se stessa, avrebbe perso tempo, il che
significava anche che la sua vita sarebbe finita bruscamente. È
interessante notare che la scatola/gli spiriti maligni la guidavano
costantemente e la aiutavano a fare le offerte “giuste”.
Polly tirò fuori la chiave del
cassetto dove conservava le foto di suo padre e il crocifisso che
lui indossava. Il padre di Polly aveva perso la sua battaglia
contro il cancro e lei ricordava come lei e suo padre avessero
pregato costantemente per un miracolo fino al giorno della sua
morte. Da quel giorno in poi, odiò Dio per averle portato via suo
padre, anche se lui era sempre stato un fedele servitore. Quando
lasciò cadere il crocifisso nella scatola, il male accettò
l’offerta. La scatola costrinse Polly ad affrontare le sue paure
più profonde e oscure. Forse non si era mai veramente permessa di
esprimere il dolore e la rabbia che aveva provato quando suo padre
era morto. A poco a poco, proprio come la vecchia, anche Polly
dovette tagliarsi un dito del piede e un dito della mano per
offrire alla scatola “qualcosa di cui aveva bisogno”, nella
speranza che la clessidra si fermasse. Quando si trattò di offrire
“qualcosa che amava”, Polly intuì che gli spiriti maligni volevano
che offrisse sua nipote Aly, che amava profondamente. Supplicò la
scatola di risparmiare la bambina e, in quello che sembrava essere
un mix di illusioni ottiche, gli spiriti maligni convinsero Polly
che Lainie e Aly erano morte e che tutto era successo perché lei
aveva fallito il compito.
In modo del tutto inaspettato,
Polly si svegliò a casa di sua sorella e le vide di nuovo vive. Era
sollevata, ma presto si rese conto che l’incubo era lungi
dall’essere finito e che gli spiriti maligni avevano ancora il
controllo delle sue visioni inaffidabili. Polly offrì una ciocca di
capelli di Aly e la scatola la accettò, ma la clessidra non si
fermò. Polly non sapeva cosa fare; aveva offerto anche del sangue,
ma il timer non si fermava. Il gioco sanguinario spinse Polly a
riflettere sulle persone che contavano davvero nella sua vita.
Anche se si sentiva una delusione continua e forse aveva anche
pensieri suicidi, si rese conto di quanto fosse disposta a fare per
le persone che amava. Scelse di infliggere dolore a se stessa
piuttosto che offrire i suoi cari per la sua sopravvivenza.
Come fece Polly a uscire da
quel circolo vizioso?
Capì che forse gli spiriti maligni
volevano che la scatola fosse passata ad altri e, proprio come la
vecchia, anche lei bussò alla porta di una casa a caso. Una giovane
donna di nome Tara aprì la porta. Era titubante nel far entrare una
sconosciuta in casa sua, ma Polly fu insistente. Anche se Polly si
sentiva in colpa per quello che stava per fare, credeva di non
avere scelta. Voleva che il timer si fermasse ed era spaventata per
sé stessa e per i suoi cari. Sapeva che era ingiusto, ma non era
stata lei a iniziare il gioco. Quando spiegò il suo scopo a Tara,
la giovane donna rimase sconvolta. Chiese a Polly di andarsene e
lei obbedì.
Con grande sorpresa di Polly, la
scatola era tornata a casa sua; non aveva ancora finito con Polly.
A quanto pare, anche dopo aver passato la scatola, nemmeno la
vecchia era stata risparmiata. La scatola le aveva ingannate
facendogli credere che la maledizione potesse essere fermata se
fosse stata passata ad altri, ma non era vero. La sabbia continuava
a scorrere e sia la vecchia che Polly stavano esaurendo il tempo a
loro disposizione. La vecchia aveva perso un occhio; anche lei
aveva attraversato una fase brutale, cercando di stringere un patto
con il diavolo, ma nulla era davvero sufficiente per fermare il
gioco.
Così, pensò che forse la scatola
voleva Polly e decise di ucciderla. Polly riuscì a sopraffarla e,
prima di esalare l’ultimo respiro, la vecchia affermò che era la
scatola a scegliere le sue vittime. Non si era semplicemente
imbattuta in Polly; la scatola l’aveva guidata lì, proprio come
Polly era stata guidata a casa di Tara. La scatola prendeva di mira
individui distrutti; gli spiriti conoscevano le loro debolezze e
gli ricordavano costantemente i loro fallimenti. La vecchia morì a
casa di Polly; si pentì delle misure estreme che aveva preso per
salvarsi e alla fine ringraziò Polly, forse perché non aveva la
convinzione di uccidersi, anche se sapeva che quel momento sarebbe
arrivato non appena fosse entrata in casa di Polly. Alla fine, si
rese conto che morire era meglio che rimanere per sempre
intrappolata in quel circolo vizioso. La clessidra non si fermò, ma
Polly scelse di non ballare al ritmo del diavolo. Con sua grande
sorpresa, Polly era viva anche se tecnicamente il tempo era
scaduto. L’unico modo per uscire dal circolo vizioso era prendere
il controllo della narrazione e non cedere al male. La scatola
metteva alla prova fino a che punto una persona era disposta a
spingersi e quanto male era disposta a fare per sopravvivere.
Lainie e sua figlia erano
morte?
Il finale di Vicious: I tre
doni del male ha rivelato che Lainie e Aly erano vive.
Finché Polly partecipava al gioco del diavolo, le veniva fatto
credere che i suoi cari fossero già morti e che lei ne fosse
responsabile. Ma quando si è rifiutata di fare del male a se stessa
e a chi le stava intorno, il gioco si è interrotto e lei è stata
liberata. La casa di Lainie era un po’ in disordine, il che
suggerisce che non tutto ciò che Polly aveva vissuto era una bugia;
in parte era reale, in una certa misura. Polly era felicissima di
vedere Lainie e Aly vive. Era anche sollevata nel vedere la sua
vicina portare fuori la spazzatura; aveva pensato di essersi
pugnalata a morte la notte precedente, ma chiaramente la loro
interazione della notte precedente non era reale. Sembrava che
fosse bloccata in un mondo alternativo da cui era impossibile
fuggire. Il segno sul viso di Polly e il dito della mano e del
piede mancanti suggerivano che i sacrifici che aveva fatto erano
molto reali, e non era solo un sogno vivido e traumatico dal quale
si era svegliata. L’esperienza, per quanto straziante, permise a
Polly di apprezzare la sua vita imperfetta e le persone che la
circondavano.
Perché Tara si rifiutava di
fidarsi di Polly?
Polly aveva decifrato il codice e
sentiva il bisogno di discuterne con Tara. Le aveva rovinato la
vita e credeva di esserle debitrice. Le chiese di consegnarle la
scatola, ma Tara sembrava non ricordare il loro incontro. Credeva
che Polly avesse commesso un errore e, vedendo la reazione confusa
di Tara, Polly pensò che fosse davvero così; dopotutto, non poteva
fidarsi di nulla di ciò che ricordava della notte precedente.
Mentre accendeva una sigaretta durante il finale di Vicious: I
tre doni del male, il suo telefono iniziò a vibrare; si chiese
se la chiamata fosse del diavolo, ma questa volta rifiutò di
rispondere. Non era pronta ad arrendersi e non aveva più paura. Era
più in sintonia che mai con chi era e cosa voleva dalla vita.
Vicious rivela alla fine che
Tara aveva la scatola e che gli spiriti maligni le avevano ordinato
di non fidarsi di nessuno intorno a lei, specialmente di Polly.
Tara pensava che Polly l’avrebbe ingannata, come aveva fatto in
precedenza. Quindi decise di affrontare la situazione da sola, e
chiaramente stava soffrendo. Aveva sacrificato i suoi genitori, si
era tagliata le dita, eppure stava lottando per offrire alla
scatola “qualcosa che desiderava”. Non vediamo chiaramente cosa
abbia messo nella scatola, ma ormai sappiamo che, qualunque cosa
avesse fatto, non c’era via di fuga. A meno che non si fosse
uccisa, o fosse stata assassinata, o avesse scelto di non fare
nulla e aspettare che il peggio passasse. Le condizioni per Tara
sembravano essere diverse da quelle di Polly (secondo le tre cose
che doveva offrire alla scatola, qualcosa che desiderava non era
nella lista), quindi forse il gioco non era lo stesso per tutti;
era possibile che fosse modificato in base alle debolezze
individuali, ma il risultato era sempre lo stesso. Vicious
non offre un finale conclusivo; si ha l’impressione che sempre più
persone saranno prese di mira dal diavolo, specialmente quelle
mentalmente distrutte. Il gioco metterebbe alla prova i loro limiti
e la maggior parte fallirebbe. Poiché la scatola era impossibile da
distruggere, sembra non esserci fine. Anche se Polly si è rifiutata
di piegarsi alle regole del gioco, ciò non significa che non sarà
perseguitata da chiamate inaspettate che le ricorderanno che la
stanno ancora osservando. Il film, in un certo senso, può essere
interpretato come un commento sulle sfide legate alla gestione dei
disturbi mentali. Anche se si impara a conviverci (dando il massimo
per far funzionare le cose), arrendersi sembra sempre
un’alternativa più facile. Si tende anche a ricorrere
all’isolamento e a perdere lentamente se stessi, spesso cedendo
alle voci nella propria testa. Il finale di Vicious: I tre doni
del male suggerisce che l’unico modo per raggiungere la
luce alla fine del tunnel è attraversarlo.
Con Per te, Alessandro Aronadio torna alla regia tre anni
dopo Era Ora. Un film, quest’ultimo, affermatosi come
uno dei
titoli italiani più visti nel mondo su Netflix e che ha posto
il regista sotto numerose attenzioni, avendo dimostrato una
sensibilità e un’attenzione ai dettagli non comune. Con Per
te, da Aronadio scritto insieme a Ivano Fachin e
Renato Sannio ispirandosi al romanzo Un tempo piccolo
di Serenella Antonazzi, portano stavolta sul grande schermo
una storia vera, con cui il regista da ulteriormente prova di
questa sua capacità.
Per lui è anche la terza
collaborazione con l’attore Edoardo Leo, che aveva già diretto in
Era Ora e prima ancora in Io c’è (2018). Leo si
fa così nuovamente protagonista per Aronadio, assumendo stavolta il
ruolo di un padre che sente il tempo e la memoria sfuggirgli come
sabbia tra le mani. Un percorso doloroso di cui Leo si fa carico,
per restituirlo con umanità e sincerità. È così che, presentato in
anteprima alla Festa del Cinema di Roma, il
film si
dimostra una nuova riuscita esplorazione dell’umanità da parte
dell’attore e del regista.
Nel 2021 Mattia Piccoli
viene nominato Alfiere della Repubblica dal Presidente Sergio
Mattarella a soli 11 anni, per “l’amore e la cura con cui segue
quotidianamente la malattia del padre”. Il film racconta dunque la
sua storia e quella del papà Paolo (Edoardo
Leo) che, poco più che quarantenne, comincia a perdere
pezzi della sua memoria scegliendo, però, di restare vicino a ciò
che conta davvero. Insieme al figlio intraprende così un percorso
fatto di quotidianità condivisa, risate improvvise e silenzi che
parlano più di mille parole.
Javier Francesco Leoni ed Edoardo Leo in Per te. Foto di LUCIA
IUORIO
Storia di un padre e di un
figlio
Per te. Due parole che implicano
un contatto, una dedica, una cura. Aronadio non ha dubbi
nell’affermare che “ne abbiamo così bisogno, in un’epoca in cui
ci illudiamo di essere iperconnessi, ma in realtà non siamo mai
stati più soli di così”. È a partire da questa consapevolezza e
dalla volontà di sostenerla che il regista costruisce dunque un
film ricco di affetto, dove i legami vincono su tutto, anche nei
momenti in cui sembra impossibile possano riuscirvi. Egli non mira
a raccontare Paolo e Mattia come due eroi, concentrandosi invece
sul proporli per quello che sono: un padre e un figlio costretti a
bruciare le tappe, a dirsi tutto prima che arrivi la nebbia.
Aronadio, Fachin e Sannio
partono dunque dal romanzo per aprirsi ad un racconto che affronta
aspetti universali, incasellando una dietro l’altra una serie di
situazioni padre-figlio in cui è facile e naturale riconoscersi. Ma
è anche il racconto dei momenti più fragili, quelli in cui si sfoga
tutto il dolore, la rabbia e l’impotenza a colpire. Lo fanno perché
Aronadio riesce a proporli con la delicatezza di cui si diceva in
apertura, senza calcare la mano ma permettendo alle emozioni di
venire fuori in modo naturale.
In questo aiuta molto la chimica
tra Edoardo Leoe Javier Francesco Leoni
nel ruolo del piccolo Mattia. I due attori restituiscono la
necessità di contatto e presenza dei loro personaggi, riuscendo –
anche per merito della sceneggiatura – a non idealizzarli ma nel
restituirli a partire dalle loro fragilità. È un film dove un padre
cerca di essere tale il più possibile prima che non gli sia più
consentito, prima che lui e il figlio si scambino i ruoli e nulla
sarà più come prima. L’urgenza di riuscire in ciò la si ritrova
dunque nei due interpreti, che consentono anche al film di dotarsi
di momenti di amabile leggerezza.
Javier Francesco Leoni ed Edoardo Leo in Per te. Foto di LUCIA
IUORIO
Tra dolore e speranza
Inevitabilmente, però, Per
te è un film che fa male, poiché mette in mostra una condizione
– quella della malattia – che troppo spesso viene posta ai margini,
lasciando chi vi combatte a farlo da solo. Tuttavia, non punta a
dare riflessioni ciniche su quanto abbandono e noncuranza siano
dilaganti, ma si concentra su chi invece sceglie di esserci, di
essere un sostegno e di cercare di alleggerire il peso che
condizioni come quella del protagonista Paolo comportano. Ancora
una volta, dunque, Aronadio si dimostra regista capace di offrire
un punto di vista diverso e lasciare negli spettatori anche solo un
briciolo di speranza.
Perché quella di Per te,
in fin dei conti, è una storia che celebra l’amore come forza
resiliente, capace di illuminare anche le ombre dell’oblio e del
tempo che passa. Temi e situazioni delicati ma all’ordine del
giorno, che il regista con la sua squadra riesce a restituire con
sincerità, lasciando nello spettatore un sentimento agrodolce, di
quelli che se da un lato ci fanno rammaricare per come sono evolute
o cambiate certe cose, dall’altro ci fanno gioire perché del bello
e del buono c’è comunque stato.
Grottesco, surreale e
irriverente, il cinema di Quentin Dupieux si è scolpito un posto tutto
suo nella recente cinematografia francese. Estremamente prolifico
(dal 2019 ad oggi ha girato ben 8 film), Dupieux conferma tutto ciò
che si è sin qui pensato e detto del suo lavoro come regista con
L’Accident de piano, un film che aggiornando e ribalta il
suo precedente Doppia
pelle, dando vita ad uno dei suoi personaggi più
inquietanti e irraggiungibili, attraverso cui ritrae un mondo ormai
impazzito.
Se il protagonista di Doppia
pelle, interpretato da uno spassoso Jean Dujardin, andava in giro riprendendosi mentre
uccide tutti i possessori di giacche di pelle di daino (volendo
essere l’unico a possedere quel capo), aizzato da un’aspirante
montatrice intenzionata a guadagnare da quelle macabre riprese, in
L’Accident de piano torna dunque il tema del filmare il
dolore, del renderlo oggetto di spettacolo da cui trarre profitto.
Una realtà ormai ampiamente diffusa, che Dupieux affronta con
rinnovato cinismo e delirio.
La trama di L’Accident de
piano
Protagonista del film
èMagalie (Adèle
Exarchopoulos), una star del web diventata ricca e
famosa grazie a contenuti estremi e scioccanti diffusi sui social
media. Fin dall’adolescenza ha costruito un impero mediatico
mostrando al mondo le sue imprese al limite del tollerabile. Si
sottopone a esperimenti di autolesionismo utilizzando oggetti come
martelli, punteruoli da ghiaccio, mazze da baseball e persino una
lavatrice in caduta libera. Tutto documentato, condiviso,
monetizzato. A renderla unica, e a suo modo invincibile, è una rara
condizione medica: l’insensibilità congenita al dolore.
Ma durante le riprese del suo
ultimo video, qualcosa va storto. L’incidente è grave. Magalie
scompare dai radar e si ritira, lontano da tutto e da tutti, in un
lussuoso chalet tra le montagne, accompagnata solo da
Patrick (Jérôme
Commandeur), il suo devoto assistente personale. La
tregua però è breve. Un’ostinata giornalista, Simone
Herzog (Sandrine Kiberlain), a
conoscenza di un segreto legato a un incidente avvenuto con un
pianoforte che potrebbe rovinare Magalie, la raggiunge con una
minaccia: o concede un’intervista esclusiva o sarà denunciata alla
polizia.
Dupieux ci mette di nuovo alla
berlina
Di certo Dupieux sa come
catturare l’attenzione dei suoi spettatori. Oltre a Doppia
pelle, si ricordano anche Daaaaaalí!,
descritto come un “vero falso biopic” sull’artista surrealista,
oppure il più recente Le Deuxième Acte, fondato sul continuo intrecciarsi tra
realtà e finzione cinematografica. Opere dunque capaci di
infrangere in mille pezzi lo schermo per proporre un andare contro
i canoni e contro il prevedibile che ha sempre un suo certo fascino
(aiuta poi la breve durata dei film, tutti sotto i 90 minuti).
Eppure, quelli che potrebbero in
apparenza sembrare dei meri giochi, esercizi di stile o sfide alla
sopportazione degli spettatori, nascondono profonde e spesso lucide
riflessioni sulla contemporaneità, che Dupieux mira a smascherare
in tutta la sua natura caotica e perversa. Nel caso di
L’Accident de piano l’obiettivo è chiaro: non tanto quella
categoria di influencer e intrattenitori pronti a monetizzare il
dolore, quanto gli spettatori affamati di questo tipo di contenuti
ad essere oggetto di scherno.
Il film è così un coerente nuovo
tassello nella filmografia di Dupieux, che realizza una satira
tagliente delle derive del mondo contemporaneo, esplorando
l’ossessione per la condivisione, la monetizzazione delle
esperienze estreme e le conseguenze sociali e psicologiche della
viralità. Viene da chiedersi come sia possibile che ciò che si vede
praticare alla protagonista non sia il frutto di pura invenzione,
ma ispirato a realtà ormai diffuse e sostanzialmente accettate. Per
questo, il tono sopra le righe adottato dal regista dunque ben si
sposa con l’assurda realtà di cui narra, amplificando la portata
del suo impatto.
Un tono bilanciato però da un
minimalismo nelle location e nei personaggi che ricorda quello di
Le Deuxième Acte, che se da un lato rafforza
l’atmosfera di chiusura e predispone un terreno ideale per le
situazioni assurde, dall’altra permette di costruire una crescente
tensione psicologica che ricorda opere come
Carnage, dove violenza, follia e orrore possono scoppiare
in ogni momento. Così, Dupieux ci porta a ridere ma anche a temere
per l’incolumità dei personaggi e quindi per quella di noi umani,
sempre più esposti a fenomeni che non sembriamo comprendere né
saper gestire.
Adèle
Exarchopoulos si conferma un portento in
L’Accident de Piano
A dare un preciso volto a tutta
questa follia c’è la sempre bravissima Adèle Exarchopoulos. Divenuta iconica per
La
vita di Adele, ma distintasi anche in film come Generazione Low Cost e L’amore che non muore,
l’attrice ritrova Dupieux dopo aver recitato per lui in
Mandibules – Due uomini e una mosca e Fumare fa
tossire. Si fa così di nuovo interprete delle folle del
regista, riuscendo a restituire non solo profondità emotiva e
autenticità al proprio personaggio ma all’intero film.
La decisione scioccante di Kate
alla fine dell’ultima stagione di The
Diplomat avrà importanti ripercussioni sulla quarta
stagione, secondo quanto dichiarato dalla star e showrunner della
serie. La
terza stagione di The Diplomat è stata pubblicata oggi
su Netflix ed è stata, come al solito,
drammatica, ricca di colpi di scena e intrigante. La stagione
riprende dopo la morte del presidente, con il vice Grace Penn che
presta giuramento e sceglie Hal, il marito di Kate, come vice.
Il colpo basso è quello a cui Kate
reagisce scegliendo di rimanere ambasciatrice nel Regno Unito,
vivendo separata dal marito, ma mantenendo le apparenze in
pubblico. Con il loro matrimonio già abbastanza complicato, le cose
sono destinate a diventare ancora più difficili per la coppia nella
quarta stagione di The
Diplomat.
In un’intervista con Collider, la showrunner Debora Cahn e la star Kerri
Russell hanno discusso della decisione di Kate e di come questa
influenzerà la trama della quarta stagione. Ecco i loro
commenti:
RUSSELL: È questo il bello di
loro. Debora lo chiama sempre “la droga”. Credo che sia questa la
loro particolarità. Per queste persone, il lavoro è la loro vita.
Non hanno figli. Il Paese, il loro lavoro e aiutare le persone sono
la loro vita. È questo che dà loro un senso. Essere in grado di
farlo a questo livello, influenzare la politica e avere un impatto
sui Paesi e sulle persone è inebriante, ed entrambi sono davvero
bravi in questo. Indipendentemente da quanto possano comportarsi
male a volte, quando lavorano, lavorano davvero bene insieme, ed è
incredibile. Penso che lei ci abbia provato, ed era necessario, ed
è difficile da battere.
Russell ha discusso di come il
lavoro sia come una droga per i personaggi. Non hanno figli e
vivono la difficile dicotomia di essere sposati con il loro lavoro,
oltre che l’uno con l’altro.
CAHN: È bello sentire che vuoi
che la storia continui. È la conclusione naturale di un’ondata di
sentimenti che ti porta a pensare: “Siamo così bene insieme che
devo riconoscere e accettare il bene”. L’idea che questo non
comporti anche il suo opposto è un pensiero magico, ed è il tipo di
pensiero magico a cui tutti ci abbandoniamo, sempre, che è bello a
modo suo. Crea una certa dose di ottimismo. Hal ha una relazione
diversa in questo momento. Ha una relazione molto, molto forte e
importante che si sta sviluppando e avendo successo con un’altra
donna che è il Presidente degli Stati Uniti. Anche l’idea che
questo non avrebbe cambiato l’alchimia del matrimonio era un
pensiero magico.
Cahn ha anche parlato di come
sia cambiata la dinamica tra Hal e Kate, dato il ruolo di Hal che
lavora a stretto contatto con un’altra donna molto potente.
CAHN: Si ha una certa percezione
di questo. Ma poi, quando lo si vede svolgersi, tutto cambia
immediatamente. Ogni stagione, nella scrittura di questa serie,
abbiamo iniziato con un piano, ma poi, una volta che la narrazione
si è sviluppata, ha completamente stravolto ciò che pensavamo
sarebbe successo. Siamo certamente interessati, andando avanti,
alla dinamica di cosa significhi avere due donne potenti con un
uomo potente bloccato in mezzo a loro. In che modo queste relazioni
si influenzano e si modificano a vicenda?
Ha concluso affermando che la
dinamica della serie, con un uomo potente bloccato in mezzo a due
donne potenti, è molto interessante da studiare.
The Diplomat è una serie che ha
riscosso successo grazie alle sue sceneggiature serrate e
intelligenti e alle storie incentrate sui personaggi. Sì, la serie
è un thriller politico intelligente, con un tocco drammatico, ma è
anche una serie su persone imperfette che cercano di tenere a bada
i conflitti nel mondo, mentre cercano di destreggiarsi tra i propri
matrimoni e la propria felicità.
Ciò che probabilmente risuonerà
negli spettatori sono i personaggi di The Diplomat e le loro
interazioni, e come queste possano influenzare le loro decisioni
professionali. La quarta stagione sembra destinata ad andare ancora
oltre, e sarà interessante vedere fino a che punto Hal e Kate
imploderanno, se riusciranno a riprendersi da questo, e cosa questo
significherà per entrambi i personaggi.
Il fatto che la quarta stagione di
The Diplomat sia già stata rinnovata significa che ci sarà
almeno un’altra opportunità per raccontare la storia e dare a tutti
i personaggi il finale che meritano. Ciò che rende Hal e Kate una
coppia così interessante è che si amano sinceramente, ma sono anche
entrambi molto egocentrici.
Nelle prime due stagioni, Kate era
in una posizione di potere e di anzianità rispetto a Hal, ma The
Diplomat – stagione 3 ribalta la situazione, con suo marito che ora
è la seconda persona più potente al mondo. Resta da vedere se ci
sarà un ritorno di fiamma per la coppia, ma la loro relazione
rimarrà centrale per il futuro di The Diplomat.
La seconda stagione di Task ha ricevuto un entusiasmante
aggiornamento dal creatore e showrunner Brad Ingelsby. Debuttata su
HBO Max nel settembre 2025, la serie segue un agente dell’FBI di
Filadelfia che indaga su una serie di rapine a mano armata compiute
da un uomo dall’aspetto modesto, padre di famiglia, che prende di
mira le bande di trafficanti di droga. La miniserie di sette
episodi andrà in onda domenica con l’episodio finale.
Fin dalla sua uscita, Task
ha ricevuto il plauso della critica per la caratterizzazione dei
personaggi, il realismo crudo e il commento sociale, ed è stata
paragonata ad un’altra acclamata serie poliziesca di Ingelsby,
Omicidio a Easttown. Anche se la serie sta volgendo al
termine, ci sono molti spunti che potrebbero essere sviluppati in
altre stagioni.
In un’intervista con Esquire, Ingelsby ha fornito un aggiornamento
promettente sul futuro di Task. Ha parlato di come gli
piacerebbe realizzare un’altra stagione e raccontare altre storie
in quell’universo, purché il pubblico continui a rispondere
positivamente, e ha discusso del suo amore per la televisione come
mezzo che permette l’esplorazione dei personaggi. Ecco i commenti
di Inglesby:
Citazione: Mi piacerebbe
fare un’altra stagione di Task. Se il pubblico apprezza Task e
continua ad apprezzarlo, mi piacerebbe raccontare altre storie su
questo posto, perché amo scrivere su questo posto. Sento di avere
ancora molte storie da raccontare. Quello che amo della TV è
proprio il numero di personaggi che si possono esplorare. Mi
considero davvero uno scrittore di personaggi, non un grande
scrittore di trame. Si possono esplorare i Grasso, i Lizzie e gli
Aleah. Se dovessi fare un film, a meno che non fossi Robert Altman,
non sarei in grado di attingere a così tanti
personaggi.
Questi sono sicuramente
commenti promettenti da parte di Ingelsby, e il fatto che stia
parlando della seconda stagione di Task suggerisce che si tratti di
qualcosa che ha vagamente pianificato, almeno nella sua testa.
Tuttavia, vale anche la pena notare che Ingelsby ha detto qualcosa
di simile in passato riguardo alla possibilità di una Mare of
Easttown – stagione 2, e nulla si è concretizzato.
Task ha attualmente un indice di
gradimento del 95% su Rotten Tomatoes.
Sebbene Task sia una miniserie e
l’episodio 6 abbia chiuso in modo piuttosto definitivo l’arco
narrativo principale della stagione, ci sono ancora molti aspetti
che potrebbero essere esplorati con l’agente dell’FBI Tom Brandis,
interpretato da Mark Ruffalo, e la sua task force.
Molto dipenderà dal fatto che Ingelsby ritenga di avere una storia
abbastanza forte da coprire un’altra stagione e renderle
giustizia.
Ciò che ha reso Task così efficace
è il fatto che si tratta di una serie limitata. La storia e il
percorso dei personaggi sono in gran parte contenuti in una sola
stagione e sembra una storia completa dall’inizio alla fine. Il
pericolo di realizzare un’altra stagione è che si rischia di
perdere parte della magia che caratterizza una miniserie.
C’è ancora un episodio di
Task da mandare in onda, quindi c’è la possibilità che
Ingelsby possa concludere la serie in modo tale da rendere sensata
una seconda stagione. Questo potrebbe rendere il futuro della serie
ancora più emozionante e potrebbe anche riaccendere la possibilità
che altri episodi di Mare of Easttown possano essere realizzati in
tempi brevi.
Nuove foto dal set della serie HBO
Harry
Potter anticipano un cambiamento fondamentale di
Voldemort rispetto al primo libro. Le riprese della
serie sono in pieno svolgimento e sono trapelate alcune foto dal
set che rivelano scene e personaggi chiave ricreati per il grande
schermo. Recentemente è stato svelato il
Silente di John Lithgow, così come l’uso di King’s Crossing per
il binario nove e tre quarti.
Ora, nuove immagini sembrano
mostrare Godric’s Hollow, il luogo dove il giovane Harry viveva con
i suoi genitori quando era bambino. Le immagini indicano che il
villaggio sta festeggiando Halloween, grazie alla moltitudine di
bambini che camminano per le strade in costume. Anche le auto
d’epoca sono allineate lungo le strade, indicando che questa scena
si svolge nel passato.
Sebbene questa scena sia un
elemento chiave della saga di Harry Potter, viene menzionata solo
nel primo libro, La pietra filosofale, mentre il settimo e
ultimo libro, I doni della morte, torna indietro nel tempo
per mostrare gli eventi di quella fatidica notte in cui Voldemort
tentò di uccidere Harry e riuscì a uccidere i suoi genitori, Lily e
James.
Altre foto dal set hanno anche
indicato dei cambiamenti rispetto al materiale originale. Lithgow
nei panni di Silente è stato visto girare su una spiaggia, una
scena che non è inclusa nel primo libro, ma che suggerisce il
potenziale coinvolgimento degli Horcrux nelle prime fasi della
serie live-action.
Questi cambiamenti impliciti
suggeriscono che la serie Harry Potter avrà una portata più
ampia quando uscirà nel 2026. Con ogni stagione composta da più
episodi, la serie ha l’opportunità di gettare le basi per i punti
salienti della trama in un modo che i film non hanno potuto fare
con la loro durata ridotta.
Tuttavia, anche il primo film
includeva un flashback di quella fatidica notte a Godric’s Hollow,
anche se era limitato principalmente alla casa dei Potter piuttosto
che a Godric’s Hollow nel suo complesso. Se queste foto indicano
davvero che la prima stagione di Harry Potter della
HBO amplierà ciò che sappiamo di quella notte, allora ciò
confermerebbe altre prove che la serie si sta espandendo oltre le
pagine dei romanzi.
Questo sicuramente attenuerebbe le
critiche alla serie. Molti hanno messo in discussione il senso
della costosa impresa della HBO, dato che le prime immagini della
serie indicano una sorprendente somiglianza con i film. Se la serie
ampliasse la storia in modi non ancora visti sullo schermo,
allevierebbe le preoccupazioni che la serie possa essere solo un
rifacimento di ciò che il pubblico già conosce.
Bane sarà il cattivo principale del
prossimo film di Batman, ma non sarà l’unico nemico della DC
Comics a dare filo da torcere al Cavaliere Oscuro. La DC ha in
programma diversi progetti su Batman, con Bruce Wayne che apparirà
sia in film d’animazione che live-action nei prossimi anni.
The
Batman – Parte 2 dovrebbe presto iniziare a dare i primi
segnali.
Con la sceneggiatura già scritta,
il reboot di Batman DCUThe
Brave and the Bold è un altro progetto che potrebbe vedere
presto dei progressi. Tuttavia, nessuno dei film live-action di
Batman è previsto come prossimo film dell’eroe. Batman tornerà
invece in grande stile nel 2026 in un film d’animazione, con uno
dei suoi migliori nemici a ricoprire un ruolo chiave.
Bane sarà il cattivo principale
della nuova saga di film di Batman
Dopo l’uscita nel 2025 di un film
animato su Batman, la storia Elseworlds vista in Aztec Batman:
Clash of Empires, il 2026 vedrà l’inizio di una nuova saga per
il personaggio, che esisterà anche al di fuori del canone
dell’universo DC di James
Gunn. Sorprendentemente, la DC ha annunciato non uno, ma
quattro film per adattare l’arco narrativo dei fumetti
Batman: Knightfall.
Il primo di questi è intitolato
Batman: Knightfall Part 1: Knightfall. Il
prossimo film DC è stato fissato per il 2026, anche se non è stata
ancora annunciata una data precisa. Knightfall è la classica
trama del fumetto che ha visto Bane spezzare la schiena a Batman.
Pertanto, la DC ha confermato che Bane sarà il cattivo principale
del film su Batman.
Ciò è stato chiarito nella sinossi
ufficiale del film, che ha rivelato che Bane libererà “tutta
la Rogue’s Gallery di Batman dall’Arkham Asylum”. La DC non
ha ancora rivelato chi darà la voce a Bane e al resto dei
personaggi del film. Tuttavia, l’annuncio conferma che Bane sarà
ancora una volta il personaggio chiave di un film su Batman.
DC ha già reso Bane il cattivo
principale di un adattamento di successo di Knightfall
Sebbene il film su Batman del 2026
sarà il primo adattamento diretto di Knightfall da parte della DC,
alcuni elementi di quella trama sono stati fondamentali per
l’ultimo film di Batman di Christopher Nolan, Il cavaliere oscuro – Il
ritorno del 2012. Come accade nei fumetti, Bane,
interpretato da Tom
Hardy, ha spezzato la schiena a Batman, interpretato da
Christian Bale, e ha gettato Gotham City nel
caos, salendo al potere per controllarla.
Sebbene Il cavaliere oscuro – Il
ritorno presenti più collegamenti con Knightfall, non si
tratta di un adattamento diretto, poiché presenta molte differenze.
Ad esempio, Azrael e il suo piano di sostituire Batman durante
l’assenza di Bruce sono stati completamente rimossi dal film.
Sono entusiasta del prossimo film Batman della DC per il
potenziale che ha un adattamento completo di Knightfall, e
Bane ha tutte le carte in regola per brillare.
La seconda stagione di Suburræterna
di Netflix, l’acclamato spin-off della serie
italiana
poliziesca Suburra, sarà ambientata a Roma, in Italia, dal 20
ottobre di quest’anno al febbraio 2026. Ezio Abbate e Fabrizio
Bettelli tornano come sceneggiatori, mentre Leonardo D’Agostini e
Michele Alhaique saranno i registi degli episodi.
Nel finale della prima stagione,
Angelica ritiene Alberto “Spadino” Anacleti responsabile della
morte della sua migliore amica Nadia, che in realtà è stata uccisa
da Victor, il nipote di Alberto. Nadia aveva pianificato di
tradirla ed eliminare la famiglia Luciani una volta per tutte.
Il motivo che spinge il politico
corrotto Amedeo Cinaglia a costruire il Nuovo Colosseo viene
vanificato dopo che egli non riesce a partecipare all’incontro
organizzato tra lui, Ercole, il cardinale Tronto e il notaio. Alla
fine, il progetto finisce nelle mani di Ercole Bonatesta, un altro
consigliere comunale che, proprio come Cinaglia, vuole il potere e
il controllo sull’impero criminale. Bonatesta finisce per uccidere
suo nonno Vito, che era stato un fedele sostenitore della famiglia
Anacleti.
Il finale culmina con degli spari,
mentre Damiano Luciani (fratello di Giulia Luciani) e sua moglie,
Angelica Sale, ex moglie di Alberto, sono sulla spiaggia a
confidarsi i loro sentimenti. Nel dramma che ne segue, il fratello
di Damiano, Cesare, viene ucciso dagli uomini di Cerocchi, il
luogotenente che lavora per Amedeo Cinaglia. I Luciani perdono la
loro quota e il controllo sulla vendita nel loro territorio, che
viene gestito da Adelaide Anacleti. Anacleti viene infine uccisa da
Giulia in un attacco, e i Luciani bruciano persino le case degli
Anacleti. Spadino decide di riprendersi le ville della sua famiglia
e di vendicarsi dei Luciani.
Considerando come finisce la prima
stagione, gli attori che dovrebbero tornare nella seconda stagione
includono Giacomo Ferrara nel ruolo di Alberto “Spadino” Anacleti,
Filippo Nigro nel ruolo di Amedeo Cinaglia, Carlotta Antonelli nel
ruolo di Angelica Sale, Marlon Joubert nel ruolo di Damiano,
Aliosha Massine nel ruolo di Ercole Bonatesta, Yamina Birmi nel
ruolo di Giulia Luciani, Paola Sotgiu nel ruolo di Adelaide
Anacleti ed Emmanuele Aita nel ruolo di Ferdinando Badali.
La prima stagione di Outlander: Blood of My Blood ci ha lasciato
con un intrigante colpo di scena. Lo spin-off di Outlander
segue i genitori di Jamie e Claire, che, con nostra sorpresa, in
questa versione della storia si conoscevano già. Nel corso di tutti
e dieci gli episodi, abbiamo visto questi due amanti lottare contro
ogni previsione per stare insieme. Nel finale di Outlander: Blood of My Blood, ci sono finalmente
riusciti.
Naturalmente, il finale sospeso
della prima stagione di Blood of My Blood lascia in sospeso
la questione se i Fraser e i Beauchamp riusciranno a evitare di
essere separati di nuovo. Anche se
Ellen e Brian si sono uniti in matrimonio, non sono ancora
legalmente sposati, quindi potrebbero esserci ulteriori problemi
con entrambe le loro famiglie. Poi c’è Julia, che, sebbene si sia
riunita con Henry, è tecnicamente sposata con Lord Simon Lovat.
Brian ed Ellen potrebbero essere
fuggiti insieme ed evitare tutti i drammi familiari, ma la loro
scena finale in Blood of My Blood ha visto l’accensione di
croci infuocate dei clan, che segnalano l’inizio della ribellione
giacobita. Allo stesso modo, Henry e Julia sarebbero al sicuro dai
loro problemi nel loro tempo, ma attraversare le pietre sarà
sicuramente molto più complicato di quanto sperino.
Henry, Julia e William
riusciranno ad attraversare le pietre?
L’aspetto principale del
cliffhanger della prima stagione di Outlander: Blood of My
Blood è il tentativo di Henry e Julia di attraversare le
pietre. Sono finalmente riusciti a sfuggire ai loro rispettivi
rapitori e sono arrivati a Craigh na Dun, ma la grande domanda è se
il loro figlio neonato, William, possa viaggiare nel tempo. Da
Outlander sappiamo che c’è una possibilità molto concreta
che non possa farlo.
Inizialmente, Henry e Julia hanno
ideato un piano per garantire la sicurezza di William. Uno dei due
avrebbe cercato di attraversare le pietre con il bambino, mentre
l’altro sarebbe rimasto indietro per ogni evenienza. Tuttavia,
l’avvicinarsi del signor Bug ha costretto i Beauchamp a prendere
misure più drastiche. Henry ha afferrato la mano di Julia e l’ha
posata sulla pietra eretta, ed è qui che si è concluso il prequel
di Outlander.
Henry ha giustamente intuito che il
viaggio nel tempo è genetico, il che significa che William potrebbe
certamente aver ereditato il gene dai suoi genitori. Anche il
neonato, tecnicamente, ha già viaggiato nel tempo, dato che Julia
era incinta quando ha attraversato le pietre. Tuttavia, le regole
qui sono un po’ confuse. Henry e Julia possono attraversare le
pietre, mentre William viene lasciato indietro.
Una cosa che sappiamo per certo è
che Henry e Julia non torneranno dalla giovane Claire. La
protagonista di Outlander è cresciuta senza i suoi genitori,
e questo è un fatto che non può essere cambiato. Quindi, o William
viene lasciato indietro e la stagione 2 di Blood of My Blood
è dedicata al ritorno di Henry e Julia da lui, oppure i tre
finiscono in un’epoca completamente diversa.
Le croci infuocate alla fine
della prima stagione di Blood of My Blood spiegate
La storia di Brian ed Ellen in
Outlander: Blood of My Blood si è conclusa con un
cliffhanger completamente diverso. Come Henry e Julia, Brian ed
Ellen sono stati, in un certo senso, prigionieri per tutta la prima
stagione. Nell’episodio finale, tuttavia, sono stati finalmente
liberi di stare insieme. Il loro piano iniziale era quello di
partire e trovare un posto dove stabilirsi insieme, dove le loro
famiglie non potessero disturbarli.
Sebbene sappiamo che Brian ed Ellen
finiranno per fondare Lollybroch, sembra che quel momento non sia
ancora arrivato. Proprio mentre i due stavano per partire, Brian ha
notato le croci fiammeggianti che attraversavano il paesaggio
scozzese. I clan stanno chiamando i loro uomini alle armi in
preparazione della loro prima significativa rivolta giacobita.
Ancora una volta, sappiamo più o
meno come andrà a finire. I giacobiti sono destinati a fallire.
Sappiamo anche che Brian non è destinato a morire nelle prossime
battaglie (e nemmeno molti altri personaggi di spicco). Tuttavia,
la necessità di Brian di rispondere alla chiamata significherà
probabilmente un ritorno da Lord Simon, il che non è una buona
notizia per il suo personaggio, considerando la sua drammatica
uscita di scena.
È anche probabile che Brian ed
Ellen dovranno separarsi di nuovo per un po’ nella seconda stagione
di Outlander: Blood of My Blood. Tuttavia, situazioni del
genere sono all’ordine del giorno nella serie Outlander.
Sappiamo che torneranno insieme, ma il tempo trascorso lontani
aggiungerà senza dubbio molta tensione. Poi c’è la questione della
morte di Malcolm Grant che si aggiunge a tutto questo.
Brian ed Ellen dovranno
sicuramente affrontare le conseguenze della morte di Malcolm
Grant
Per quanto ne sappiamo, nessuno
oltre a Brian ed Ellen ha assistito alla morte di Malcolm Grant.
Ellen era già scomparsa dal matrimonio, quindi, per quanto ne sanno
i Grant e i MacKenzie, lei non ha nulla a che fare con l’accaduto.
Tuttavia, in Outlander: Blood of My Blood è evidente che lo
zio di Malcolm, Malcolm MacKinnon Grant, è un uomo intelligente e
molto pericoloso. Sospetterà la verità.
Malcolm MacKinnon Grant diventerà
probabilmente il capo dei Grant ora che suo nipote è morto, e
questa non è una buona notizia per Brian ed Ellen, per non parlare
dei MacKenzie. Con Dougal sposato con Maura, l’alleanza tra i due
clan rimarrà probabilmente intatta. Tuttavia, la discordia tra le
famiglie è lungi dall’essere finita. Il nuovo capo dei Grant
cercherà sicuramente vendetta, e non con mezzi onorevoli.
Come la stagione 1 di Blood Of
My Blood potrebbe collegarsi alla stagione 8 di Outlander
Come ogni buona serie prequel,
Outlander: Blood of My Blood ha cambiato retroattivamente la
nostra comprensione di alcune storie di Outlander. La
sopravvivenza di Henry e Julia Beauchamp e l’esistenza del loro
secondo figlio sono elementi rivoluzionari e avranno sicuramente un
impatto sulla prossima stagione 8 di Outlander. Dopotutto,
sarebbe strano se la storia di Claire finisse senza che lei
scoprisse la verità.
Se Henry, Julia e William
riusciranno a superare con successo le pietre erette, è possibile
che atterreranno negli anni ’70 del Settecento, dove Claire e Jamie
stanno attualmente partecipando alla Rivoluzione Americana.
Tuttavia, sembra più probabile che, semmai, atterreranno più o meno
nel periodo in cui Claire è apparsa per la prima volta nel XVIII
secolo. Questo permetterebbe alla loro storia di collegarsi al
mistero di Faith in Outlander.
In Outlander: Blood of My
Blood, abbiamo visto Julia cantare “I Do Like to Be Beside the
Seaside” al piccolo William.
In Outlander: Blood of My
Blood, abbiamo visto Julia cantare “I Do Like to Be Beside the
Seaside” al piccolo William. Questa è la stessa canzone che Fanny
Pocock cantava nella
stagione 7 di Outlander, ispirando la teoria di Claire
secondo cui sua figlia Faith era sopravvissuta. È chiaro che gli
sceneggiatori stanno creando un filo conduttore. Tuttavia, non è
ancora chiaro come tutto questo si ricollegherà.
Anche se probabilmente dovremo
aspettare la seconda stagione di Outlander: Blood of My
Blood per avere un quadro completo delle storie di Henry e
Julia, anche l’ottava
stagione di Outlander dovrebbe fornire alcuni indizi
intriganti.
Save the Last Dance è stato
molto più di un classico cult; è una capsula del tempo che
racchiude l’essenza dei
film degli anni 2000, fondendo esperienze di vita reale per
raccontare una storia di formazione che rispecchia la realtà di
molti adolescenti in tutta la nazione.
Questa storia parlava soprattutto
di un’adolescente che cercava di trovare la sua strada durante
alcuni dei suoi anni formativi.
Di cosa parla Save the Last
Dance?
Save the Last Dance parla
della capacità di rimanere resilienti di fronte alle avversità e di
ballare via il dolore. Diretto da Thomas Carter, il film segue il
viaggio di Sara Johnson (Julia
Stiles), una giovane aspirante ballerina che si ritrova a trasferirsi a Chicago
per vivere con suo padre dopo la morte della madre. Non solo perde
la madre che le ha dato la vita, ma Sara perde anche il suo amore
per la danza fino all’arrivo di Derek Reynolds (Sean
Patrick Thomas).
Insieme, si ritrovano coinvolti in
un amore apparentemente proibito; la gente non è felice di vedere
Derek con una ragazza bianca. Eppure, la loro relazione è il
catalizzatore del ritorno di Sara alla danza. Il finale del film
lega insieme i temi della redenzione, dell’amore e del potere di
perseguire la propria passione nonostante le difficoltà della
vita.
Ecco la spiegazione del finale di
Save the Last Dance:
Tormentata dal senso di
colpa
Sara non è una teenager come le
altre. Mentre la maggior parte delle ragazze della sua età sono
prese dai compiti scolastici, dai pettegolezzi succulenti,
dall’adorazione dei ragazzi o dalle gite improvvisate al centro
commerciale, lei è tormentata dal senso di colpa che si è
attribuita per il tragico incidente d’auto di sua madre.
Gli spettatori la incontrano
durante un’audizione di danza e vengono subito colpiti dalla
tragedia quando lei scopre che sua madre è rimasta coinvolta in un
fatale incidente mentre stava andando a sostenere sua figlia.
Invece di affrontare la perdita della madre, in breve tempo si
ritrova a Chicago con il padre, che ha sempre vissuto da
single.
Una storia d’amore
adolescenziale
Nel mezzo del tumulto interiore ed
esteriore che affligge Sara, incontra un amico, Derek, che diventa
rapidamente il suo confidente più intimo grazie alle loro
difficoltà nell’adattarsi alle rispettive famiglie. Derek, uno
studente eccellente, capisce la pressione che Sara subisce per
essere la migliore ballerina.
Non passa molto tempo prima che lui
la riporti nel mondo della danza, ma con una svolta, quando i due
si ritrovano sulla pista da ballo di un nightclub dove Sara è stata
invitata dalla sua nuova amica, Chenille (Kerry Washington), che è la sorella di
Derek. Questa esperienza offre a Sara una nuova prospettiva sulla
danza rispetto ai movimenti rigidi e complessi che ha perfezionato
nel corso degli anni con la speranza di diventare una ballerina
professionista.
L’audizione
Il momento più cruciale del film si
verifica quando Sara torna al punto di partenza, affrontando
proprio ciò che l’aveva allontanata dalla danza in primo luogo.
Mentre esegue il suo numero di danza per l’audizione alla Julliard,
è sostenuta da Derek, che la guarda felice mentre incorpora gli
stili di danza hip-hop che lui le ha insegnato durante la loro
storia d’amore adolescenziale.
Come finisce Save the Last
Dance?
Quando i giudici reagiscono
all’audizione di Sara, la loro è una reazione di sorpresa e
ammirazione, che lascia intravedere che la Julliard potrebbe
benissimo essere nel futuro del personaggio.
Il finale del film trasmette un
messaggio forte sul superamento delle barriere sociali e personali,
dalla sua relazione con Derek, che la maggior parte dei loro cari
non accetta, al superamento delle avversità e allo sguardo verso un
futuro pieno di speranza.
La capacità di Sara di combinare il
balletto con l’hip-hop sottolinea il messaggio del film
sull’accettazione della diversità e sulla ricerca della propria
voce attraverso la fusione di diverse influenze culturali. A
partire da agosto 2024, Save the Last Dance
è disponibile in streaming su Netflix.
Immersa in decisioni che potrebbero
avere un impatto su milioni di persone, The
Diplomat segue Kate Wyler, ambasciatrice degli
Stati Uniti nel Regno Unito. La serie thriller politica di
Netflix creata da Debora Cahn vede Kate
Wyler destreggiarsi non solo tra i doveri e le responsabilità
ufficiali come nuova ambasciatrice. Dal dover affrontare crisi
internazionali che potrebbero avere effetti di vasta portata alla
formazione di alleanze strategiche con nazioni e sette a Londra, la
serie fonde facilmente elementi di suspense, mistero e dramma
politico.
Con Keri Russell, Rufus Sewell e Ali Ahn,
la storia si concentra anche su come ogni relazione richieda
qualcosa di più della semplice diplomazia. Dal dover gestire il suo
matrimonio con un collega diplomatico al mantenere intatte le
alleanze militari, The
Diplomat offre tutta la gravità geopolitica che il
pubblico desidera, avvolta nella finzione. Gli spettatori che sono
stati trasportati nel regno della politica e della sicurezza
attraverso la serie e vogliono godersi un’altra dose di thriller
politici troveranno utile questo elenco. Ecco una lista di
programmi simili che hanno tutti gli elementi che rendono una serie
televisiva degna di nota.
Black Earth Rising (2018)
Con Michaela Coel, Hugo Blick, John
Goodman, Harriet Walter, Lucian Msamati e Abena Ayivor, “Black
Earth Rising” segue la storia di Kate Ashby, un’investigatrice
legale che lavora per Michael Ennis. Quando la sua madre adottiva
Eve accetta un caso per perseguire un leader della milizia
ruandese, le due vengono coinvolte in una situazione che minaccia i
loro obiettivi e stravolge per sempre le loro vite.
La serie è stata creata da Hugo
Blick ed è un mix perfetto di dramma, suspense psicologica e
politica. Gli spettatori che hanno apprezzato gli elementi delle
alleanze militari in The Diplomat apprezzeranno
sicuramente i conflitti presenti in Black Earth
Rising.
Questa serie Netflix con Gabriel
Baao, Luciane Buchanan, Fola Evans-Akingbola, Sarah Desjardins, Eve
Harlow e Phoenix Raei è basata sul romanzo di Matthew Quirk e segue
la storia dell’agente dell’FBI Peter Sutherland che si ritrova
coinvolto in una cospirazione su larga scala riguardante una talpa
che ha contatti ai livelli più alti del governo degli Stati
Uniti.
La serie segue il viaggio di
Sutherland alla ricerca del traditore. La serie include elementi di
cospirazione, dramma e azione, rendendo difficile per gli
spettatori non rimanere affascinati, ed è stata creata da Shawn
Ryan. Gli spettatori che hanno amato il dramma sui funzionari di
alto rango in The Diplomat troveranno The Night Agent altrettanto avvincente.
The Honorable Woman (2014)
Creata da Hugo Blick, la serie
della BBC segue la storia di Nessa Stein, un’imprenditrice
anglo-ebraica di alto rango il cui lavoro per proteggere la pace in
Medio Oriente la coinvolge in omicidi, affari e cospirazioni. Con
Maggie Gyllenhaal, Philip Arditti, Lubna Azabal, Andrew
Buchan e Tobias Menzies, la serie mette in scena
spionaggio, thriller e la ricerca di cambiamento di una donna
britannico-israeliana. I colpi di scena scioccanti tengono gli
spettatori con il fiato sospeso. Come The Diplomat, “The
Honorable Woman” vede una donna destreggiarsi tra diversi ruoli per
mantenere lo status quo, cosa che attirerà molti spettatori.
Madam Secretary (2014-2019)
Questo dramma politico segue la
storia di Elizabeth Adams McCord, ex Segretario di Stato e
Presidente degli Stati Uniti, mentre gestisce il suo ruolo di
persona di importanza politica e allo stesso tempo cerca di
bilanciare le complesse questioni che derivano dalla vita
familiare.
Con Tea Leoni, Tim Daly, Katherine
Herzer, Wallis Currie-Wood ed Evan Roe, la serie è stata creata da
Barbara Hall. Segue il percorso di trasformazione di una donna in
una storia di politica e dramma. Gli spettatori che hanno amato una
donna al comando in The Diplomat apprezzeranno sicuramente
il personaggio di
Tea Leoni in Madam Secretary.
Designated Survivor
(2016-2019)
La serie è incentrata sulla vita di
Tom Kirkman, Segretario per l’edilizia abitativa e lo sviluppo
urbano, che si ritrova a diventare Presidente degli Stati Uniti
dopo che un attacco senza precedenti al Campidoglio ha ucciso tutti
i membri che lo precedevano nella linea di successione. La serie
segue le difficoltà di Kirkman dopo la sua entrata in carica,
mentre cerca di affrontare la minaccia terroristica incombente e di
scoprire la cospirazione che ha portato all’attacco.
Con Keifer Sutherland, Natascha
McElhone, Adan Canto, Italia Ricci e Maggie Q, questo dramma
politico cattura gli spettatori con i suoi elementi di suspense,
cospirazioni e trama avvincente. Gli spettatori che hanno amato i
colpi di scena di “The Diplomat” apprezzeranno altrettanto
“Designated Survivor”.
Occupied (2015-2019)
Questo dramma politico norvegese
racconta la storia di un futuro immaginario in cui condizioni
ambientali catastrofiche portano a problemi geopolitici che vedono
la Russia occupare la Norvegia per conto dell’Unione Europea,
poiché il nuovo primo ministro norvegese, attento alle questioni
ambientali, ha interrotto la produzione di petrolio e gas nel
Paese.
Con Ane Dahl Torp, Henrik Mestad,
Eidar Skar e Ingeborga Dapkunaite, la serie creata da Jo Nesbo ed
Erik Skjodbjaerg segue il brivido politico su scala monumentale.
Gli spettatori che hanno trovato intriganti le scintillanti vicende
militari e diplomatiche di “The Diplomat” troveranno sicuramente
“Occupied” altrettanto avvincente.
Bodyguard (2018-)
Con Richard Madden, Keeley
Hawes, Gina McKee, Sophie Rundle e Vincent Franklin, il
dramma politico della BBC creato da Jed Mercurio segue la storia
del sergente di polizia David Budd, un veterano di guerra in
pensione affetto da disturbo da stress post-traumatico che lavora
alla Royalty and Specialist Protection. Quando viene nominato
responsabile della protezione del ministro dell’Interno, si ritrova
coinvolto in questioni politiche controverse che minacciano di
distruggere i suoi piani.
Dall’affrontare situazioni di alta
tensione alle ricerche mozzafiato, la serie segue la trama
altamente tesa di come sarebbe lavorare nelle parti più riservate
del governo. Gli spettatori che hanno amato l’elemento di alta
tensione in The Diplomat troveranno “Bodyguard”
altrettanto interessante.
Jack Ryan (2018-)
Seguendo la storia dell’analista
della CIA Jack Ryan, la serie svela il protagonista che si
allontana dalla sua scrivania per entrare in azione e scoprire le
minacce più distruttive per il mondo. La serie è stata creata da
Tom Clancy e si basa sui personaggi di “Ryanverse”. Con
John Krasinski, Wendell Pierce, Abbie Cornish, Ali Sulimn e
Dina Shihabi.
Mentre l’analista della CIA
protagonista della serie si ritrova a scoprire i meccanismi più
oscuri degli estremisti, il caos e il brivido che ne derivano
creano la ricetta perfetta per un mix di azione, dramma e suspense.
Pertanto, gli spettatori che hanno apprezzato i temi delle
negoziazioni ad alto rischio in The Diplomat troveranno
interessante anche Jack Ryan.
Creata da Debora Cahn, The
Diplomat di Netflix è una serie thriller politica che
segue la storia di Kate Wyler (Keri
Russell). Esperta nella gestione di crisi di
importanza internazionale, Kate è pronta a partire per
l’Afghanistan per la sua prossima missione. Tuttavia, viene
riassegnata a Londra dopo che una nave britannica viene attaccata e
il Paese diventa sospettoso e ostile nei confronti dell’Iran.
In qualità di ambasciatrice degli
Stati Uniti, il suo compito è quello di mitigare la crisi che
potrebbe avere gravi ripercussioni sulla nazione e sul mondo. La
serie ci offre uno sguardo sulla vita dei diplomatici e sulle sfide
che devono affrontare per mantenere la pace nel mondo. Fa
riferimento a conflitti reali come la guerra tra Russia e Ucraina,
il che potrebbe farvi chiedere se la serie sia basata su eventi
reali. Scopriamolo! SPOILER IN ARRIVO
The Diplomat è una storia di
fantasia
No, The
Diplomat non è basato su una storia vera. È ispirato a una
storia originale di Debora Cahn, nota per aver lavorato a serie
televisive di argomento politico come The West Wing e
Homeland che combina gli elementi politici e di spionaggio
di queste serie per creare la trama avvincente di una serie
thriller. L’idea per la serie le è venuta mentre lavorava come
sceneggiatrice e produttrice di “Homeland”. Per la serie di
spionaggio con Claire Danes, sono stati consultati molti
esperti in diversi campi, tra cui alcuni ambasciatori.
Parlando della stessa cosa a Vanity
Fair, Cahn
ha detto: “Sono persone tranquille e senza pretese. Come questa
donna che assomiglia a mia zia Ruthie: si trovava nel bel mezzo di
una crisi che coinvolgeva scorie nucleari, un camion che sbandava
su una strada ghiacciata della Siberia e bombe che cadevano.
Nessuno sa cosa fanno queste persone. È un’attività in prima linea,
e nessuno ne sa nulla”.
La sceneggiatrice ha osservato che
le persone impiegate nel servizio diplomatico sono “le prime ad
arrivare e le ultime ad andarsene da ogni disastro nel mondo, e
nessuno sa chi sono o cosa fanno”. Voleva trasmettere quella
tensione e la responsabilità di prendere decisioni immediate che
potrebbero cambiare il mondo. Oltre alla vita professionale, Cahn
era anche interessata ad esplorare l’idea di coppie che lavorano
nello stesso campo. Definendole “coppie in tandem”, era affascinata
dall’idea di due persone sposate ma anche in competizione tra loro
a causa della natura del loro lavoro.
“Ti trovi in una situazione in cui
la persona che ami di più è anche qualcuno con cui sei sempre in
competizione”, ha
osservato Cahn. È qui che entrano in gioco Kate e Hal. Il loro
rapporto di amore-odio, pieno di battute, è diventato qualcosa con
cui il pubblico poteva identificarsi. “È il mio modo di entrare in
contatto con ciò che significa essere qualcuno in quel tipo di
vita. È molto più facile per il pubblico identificarsi con una
circostanza, ed è più divertente e reale che mai”, ha detto la
sceneggiatrice.
Sebbene “The Diplomat” sia quasi
interamente frutto di fantasia, gli sceneggiatori hanno guardato a
eventi reali per generare il conflitto principale della storia. La
serie inizia con l’attacco a una nave da guerra britannica nel
Golfo Persico e tutte le prove puntano verso l’Iran. Questo fa
aumentare la tensione tra i due paesi, portando ad altre
complicazioni nella politica internazionale. Questa premessa è
probabilmente un’esagerazione di un conflitto reale in cui la Gran
Bretagna e l’Iran sono quasi entrati nel 2019.
Una dichiarazione rilasciata dal
Ministero della Difesa ha rivelato che “tre navi iraniane hanno
tentato di impedire il passaggio di una nave commerciale, la
British Heritage, attraverso lo Stretto di Hormuz”. Ciò ha
costretto la HMS Montrose “a posizionarsi tra le navi iraniane e la
British Heritage e a lanciare avvertimenti verbali alle navi
iraniane, che poi si sono allontanate”. Le autorità erano
“preoccupate da questa azione” e hanno esortato “le autorità
iraniane a distendere la situazione nella regione”.
Secondo quanto riferito, l’Iran ha
respinto le accuse definendole “prive di valore” e “fatte per
creare tensione”. Nel frattempo, le navi britanniche sono state
messe in allerta. Fortunatamente, le cose non sono peggiorate.
Parlando di queste cose, che devono accadere più spesso di quanto
il pubblico ne senta parlare, Cahn ha detto: “Il mondo potrebbe
finire martedì a causa di una decisione che prendono o non
prendono”.
Oltre a sottolineare la gravità del
lavoro, Cahn si è anche concentrato sulla quotidianità di queste
persone che potrebbero gestire continuamente questioni delicate,
“ma questo non significa che ricordino il nome della persona con
cui stanno parlando, e non significa che non abbiano dimenticato di
togliere l’etichetta dai pantaloni”. Considerando tutto ciò,
possiamo dire che The Diplomat è un’opera di fantasia, ma
attinge a eventi e personaggi reali per creare un ritratto
avvincente della vita di un ambasciatore.
La terza stagione della serie
NetflixThe
Diplomat riprende immediatamente dopo
il finale della seconda stagione. L’ultima volta che abbiamo
visto Kate Wyler, stava affrontando la vicepresidente Grace Penn
riguardo alle sue azioni con la HMS Courageous, mentre parlava del
proprio desiderio di diventare vicepresidente. A sua insaputa, suo
marito Hal ha chiamato la Casa Bianca, mettendosi in contatto
diretto con il presidente Rayburn, al quale ha raccontato tutto del
tradimento di Grace. Hal sapeva che avrebbe avuto un effetto
significativo sul presidente, ma non aveva previsto che la notizia
sul suo vicepresidente lo avrebbe ucciso. Ora che Rayburn è morto,
Grace è il nuovo presidente, il che lascia il destino di Kate e del
Paese in bilico. SPOILER IN ARRIVO.
Cosa succede in The Diplomat –
Stagione 3
Nonostante la loro rivalità, quando
Grace diventa presidente, Kate non fa altro che aiutarla. Uno dei
motivi per cui ora vuole entrare nelle grazie di Grace è perché sa
che ha bisogno di qualcuno con i piedi per terra come vice, per
impedirle di prendere decisioni che potrebbero portare a un altro
incidente come quello dell’HMS Courageous. Tutti pensano che Kate
sia la persona più adatta per questo incarico, ma Grace ribalta la
situazione nominando Hal. Questo spezza il cuore a Kate, ma lei si
fa forza, soprattutto ora che sa che Hal avrà bisogno di tutto
l’aiuto possibile. Anche per lui la nomina è una sorpresa e
promette a Kate che le troverà un lavoro all’altezza delle sue
capacità. Mantiene la promessa, ma Kate non è ancora pronta a
lasciare Londra.
Decide quindi di conciliare il suo
lavoro di ambasciatrice con il suo ruolo di Second Lady. Questo la
allontana molto da Hal, ma i due sono già così distanti che
trovarsi in continenti diversi sembra una buona scelta. Entrambi
concordano di mantenere viva la facciata del matrimonio per
l’immagine pubblica, ma a livello personale sono separati. Tornata
a Londra, Kate riprende il suo lavoro di ambasciatrice, che la
mette in contatto con una spia britannica di nome Callum Ellis. Lui
le racconta di un sottomarino nucleare russo abbandonato al largo
delle coste britanniche, di cui bisogna occuparsi.
È interessante notare che lui ha
raccontato questa notizia prima a Kate, e ora stanno lavorando
insieme per risolvere questo pasticcio. La loro collaborazione
professionale si trasforma in una storia d’amore, che tengono
segreta agli altri, o almeno ci provano. Nel frattempo, le cose si
complicano quando i segreti sull’HMS Courageous rischiano di essere
rivelati da una fonte russa. Affrontare la questione si trasforma
in un errore che potrebbe costare caro al Paese. Ma Kate, con la
sua infinita arguzia e saggezza, escogita un piano ingegnoso. Solo
molto più tardi scopre di essere stata manipolata da Hal per fare
qualcosa che avrebbe potuto avere conseguenze bibliche sia per lei
che per il Paese.
Trowbridge accetta l’aiuto di
Grace?
L’attacco alla HMS Courageous era
stato un punto critico nell’amministrazione di Nicol Trowbridge nel
Regno Unito e lui, come ogni altro britannico, ne era stato
infuriato e indignato. Fece tutto ciò che era in suo potere per
assicurare i colpevoli alla giustizia. Quando scoprì che Margaret
Roylin, che era stata sua mentore e confidente per anni, era
coinvolta, decise di farla uccidere. Non arrivò mai a quel punto
perché Roylin si suicidò, ma questo dimostra quanta rabbia provasse
Trowbridge. Poi gli americani gli dicono che Roylin collaborava con
il defunto presidente Rayburn.
Non solo, gli chiedono anche di non
fare il nome di Rayburn e di attribuire tutta la colpa a Roylin,
almeno per il momento. Questo ha infranto la fiducia di Trowbridge
nei suoi omologhi americani. Si è sentito tradito da loro,
soprattutto perché ha scoperto che ne erano a conoscenza da tempo,
ma hanno fornito l’informazione solo dopo che i russi li hanno
costretti a farlo. Così, nella conferenza stampa, Trowbridge dice
la verità su Rayburn e interrompe ogni comunicazione con gli
americani. La loro credibilità è stata così compromessa che quando
gli dicono che c’è un sottomarino nucleare con il famigerato e non
così mitico Poseidon a poche miglia dalla costa britannica, lui si
rifiuta di credergli. Sa della presenza del sottomarino, ma pensa
che Poseidon sia una bugia.
Dato che ha ancora bisogno della
tecnologia di qualcuno per sbarazzarsi del sottomarino, si rivolge
ai cinesi. Questo allarma gli americani, perché sanno che questa
mossa metterebbe Poseidon nelle loro mani. Alla fine, Grace
presenta un ramoscello d’ulivo, cercando di far ragionare
Trowbridge e offrendo l’aiuto dell’America per smaltire Poseidon
senza causare problemi al Regno Unito. Lui rimane fermo sulle sue
posizioni e rifiuta di collaborare con loro, ma alla fine, quando
gli vengono mostrate le prove dell’esistenza di Poseidon, concorda
sul fatto che i cinesi non possono avvicinarsi ad esso. Tuttavia,
non vuole nemmeno che lo abbiano gli americani. È allora che Hal e
Kate propongono l’idea del Runit Dome. Invece di lasciare che
qualcuno abbia Poseidon, dovrebbe essere sepolto sotto il cemento
in fondo all’oceano. Questo soddisfa Trowbridge, che accetta una
tregua.
Che fine ha fatto Poseidon? Chi
l’ha preso?
Il mito di Poseidon aveva circolato
negli ambienti delle agenzie di intelligence per diversi anni, ma
non era ritenuto reale. Quindi, quando Trowbridge ne viene
informato proprio dagli americani, crede che si tratti
dell’ennesima bugia inventata per apparire indispensabili al Regno
Unito. Per dimostrarlo, Kate suggerisce di inviare un drone sul
fondo dell’oceano, che potrebbe scattare delle foto al Poseidon.
Poiché è noto per avere uno scafo caratteristico, sarebbe
inconfondibile nelle immagini. Una volta che Trowbridge capisce che
la minaccia è reale, non penserebbe più di rivolgersi nuovamente ai
cinesi. Il problema è che ciò richiederebbe alla Marina degli Stati
Uniti di entrare nelle acque del Regno Unito senza permesso, e
potrebbe essere percepito come un atto di guerra. Ma è un rischio
che devono correre, e una volta provata la presenza di Poseidon,
Trowbridge sarebbe troppo preso dall’affrontare la minaccia
nucleare piuttosto che rimproverare l’America per aver portato le
sue navi nelle acque del Regno Unito.
Il piano funziona. Quando le foto
vengono posate sulla scrivania di Trowbridge, lui ripensa
immediatamente alla sua strategia di andare in Cina. Quando chiede
perché ci si possa fidare degli americani, e non dei cinesi, per
Poseidon, Kate gli offre la possibilità di lasciare che l’arma
marcisca in fondo all’oceano, poiché nessuno dovrebbe avere quel
tipo di potere. Lui la ascolta e, per un attimo, tutto sembra
andare per il meglio. Ma proprio mentre tutti stanno per partire,
Callum dice a Kate che Poseidon è scomparso. I livelli di
radioattività della zona sono diminuiti drasticamente, cosa che può
accadere solo quando uno dei due dispositivi è stato rimosso. È una
notizia allarmante, soprattutto se significa che i russi lo hanno
preso. Kate lo riferisce immediatamente a Hal, che ne parla con
Grace.
Mentre il presidente e il suo vice
sono impegnati in una discussione, il marito di Grace, Todd, chiede
a Kate se le sta bene il rapporto professionale di successo e un
po’ stranamente intimo tra Hal e Grace. All’inizio lei respinge le
sue preoccupazioni, credendo che lui stia insinuando una relazione
sentimentale tra i due. Ma poi si rende conto che è più di questo.
Non sono amanti segreti, ma complici, il che è peggio, perché
significa che sono loro ad aver rubato Poseidon. Lei affronta
immediatamente Hal al riguardo, sottolineando che, anche se Grace
ha mandato un sottomarino a scattare le foto, ha detto a Trowbridge
che i droni sono stati usati per ottenere le prove. Anche il
momento in cui Poseidon è scomparso è molto sospetto e, senza
sorpresa, Hal ammette che sono stati loro. L’America ha Poseidon,
ma lei non può dirlo a nessuno.
Hal e Kate tornano insieme? Lei
rompe con Callum?
All’inizio della stagione, quando
Grace inizia ad avere dei ripensamenti sulla nomina di Hal a
vicepresidente, Kate le dice che Hal tende a sorprenderti nei
momenti più inaspettati. Anche se era inteso come un complimento,
alla fine viene dimostrato nel modo più poco lusinghiero quando
viene alla luce la verità su Poseidon. Kate non ha dubbi che sia
stato Hal a proporre l’idea di rubare l’arma proprio sotto il naso
di Trowbridge. L’avrebbe venduta come assicurazione, nel caso in
cui il primo ministro britannico si fosse ancora rifiutato di
collaborare con loro. In tal caso, Poseidon sarebbe sfuggito al
controllo dei cinesi e gli americani non avrebbero avuto nulla di
cui preoccuparsi. Se Trowbridge avesse accettato il ramoscello
d’ulivo, avrebbe colmato il divario tra i due paesi.
Naturalmente, Hal, essendo Hal, non
si ferma a pensare alle conseguenze delle sue azioni. Non si chiede
cosa succederà quando gli inglesi lo scopriranno, cosa che
inevitabilmente accadrà, prima o poi. Grace pensava che nessuno
avrebbe scoperto la verità sull’HMS Courageous, ma nonostante tutti
gli sforzi per insabbiare la vicenda o scaricare la colpa su
qualcun altro, la verità, o almeno una parte di essa, è venuta a
galla. Cosa succederà quando Trowbridge scoprirà che, con il
pretesto di aiutarli, gli americani li hanno ingannati ancora una
volta? Questo fa capire a Kate che, ancora una volta, potrebbe aver
riposto troppa fiducia in Hal e aver dimenticato per un attimo
quanto lui sia in realtà imperfetto. Pochi minuti prima di scoprire
il suo tradimento, Kate ha fatto pace con lui, scusandosi per aver
voluto separarsi e per la sua relazione con Callum.
Lei vuole che tornino insieme e Hal
la accoglie a braccia aperte. Proprio mentre stanno per uscire,
arriva Callum e si presume che Kate approfitterà di questo momento
per rompere con loro. Ma poi lui le racconta di Poseidon e tutto
crolla di nuovo su Kate. Ancora una volta, Hal ha sovvertito le
aspettative nel peggiore dei modi. Proprio quando pensava di
poterlo amare di nuovo, lui ha fatto qualcosa di così
spettacolarmente stupido che lei è costretta a riconsiderare tutto,
compreso il loro matrimonio. Quindi, anche se ha scelto Hal invece
di Callum, la strada non sarà affatto facile per loro. Inoltre,
tecnicamente non ha ancora rotto con Callum e, date le azioni di
Hal, potrebbe finire per cercare conforto e un po’ di sanità
mentale tra le braccia di Callum, dopotutto.
Nihal proveniva da una famiglia
benestante da generazioni, ma sfortunatamente, dopo alcuni affari
andati male, suo padre si era indebitato. L’unica soluzione che
avevano era vendere la loro villa sul mare alla famiglia Bulut.
Erano nuovi nel mondo degli affari, ma si erano già fatti un nome.
La nuova serie romantica turca di Netflix, Old Money – Mondi
Opposti, è incentrata sullo scontro tra il vecchio
denaro e i nuovi attori.
All’inizio Nihal era disposta a
vendere la villa, ma quando il suo amico Engin le ha ricordato che
era suo dovere conservarla, poiché apparteneva alla sua famiglia da
generazioni e aveva un valore affettivo, ha capito che doveva
lottare. Nihal ha capito che la famiglia Bulut aveva commissionato
loro la costruzione di uno yacht perché sapeva che non avevano i
soldi per portare a termine l’ordine. E se non fossero riusciti a
consegnarlo, non avrebbero avuto altra scelta che pagare il loro
debito vendendo loro la villa. Il padre di Nihal ammise di aver
commesso un terribile errore accettando il lavoro; aveva
l’impressione che l’ordine lo avrebbe aiutato a pagare parte del
suo debito. Invece di vendere la villa, Nihal decise di consegnare
lo yacht, ma non aveva idea di come farlo.
Arda e Berna finiranno
insieme?
Arda, il più giovane della famiglia
Bulut, era perdutamente innamorato di Berna, la direttrice
finanziaria della loro azienda. Berna proveniva da una famiglia
benestante, ma non esitava ad accettare il fatto che la famiglia
Bulut avesse quella fame di successo che a loro mancava. Aveva
costruito un curriculum impressionante dopo aver ricevuto
un’istruzione presso gli istituti più prestigiosi e non le
dispiaceva usare il suo talento per aiutare una nuova azienda a
crescere, purché fosse trattata bene. A differenza di Engin, che
ragionava sempre in termini di “noi” contro “loro”, lei non nutriva
alcun pregiudizio nei confronti del suo capo.
Arda era sempre stato piuttosto
aperto riguardo ai suoi sentimenti per Berna. Dopo un po’ di
persuasione, Berna accettò di uscire con lui. Tra loro nacque
subito un’intesa e, anche se all’inizio Berna era titubante
all’idea di iniziare una relazione con il suo capo, alla fine
cedette.
Arda non sentiva il bisogno di
nascondere la loro relazione, ma Berna non era sicura di volerla
rendere pubblica. Inizialmente lui pensò che lei non volesse che i
colleghi sapessero della loro relazione perché avrebbero pensato
che lei avesse un vantaggio ingiusto su di loro, ma presto capì che
lei si vergognava di essere vista con lui. Pensò che lei non
volesse stare con lui perché non provenivano dallo stesso ambiente.
Arda decise di allontanarsi da Berna e finì per andare a letto con
un’altra donna del lavoro. Vedere Arda con un’altra donna rese
Berna gelosa e lei capì di essersi innamorata di lui. Considerando
che era sempre stata di mentalità aperta riguardo al frequentare i
“nuovi ricchi”, si rese conto di quanto fosse ingiusto allontanare
qualcuno solo perché non proveniva da una famiglia privilegiata.
Nell’episodio finale di Old Money – Mondi Opposti, Berna
ha finalmente trovato il coraggio di rivelare i suoi sentimenti per
Arda davanti ai suoi colleghi. Voleva che lui sapesse che non aveva
paura, e Arda non riusciva a smettere di arrossire dopo il suo
grande gesto. Berna e Arda non hanno più esitato ad ammettere al
mondo che erano innamorati.
Perché Mahir aveva paura di
innamorarsi?
Mahir, il più grande della famiglia
Bulut, era un tipo irascibile e amante dell’adrenalina, con gli
occhi che bruciavano di rabbia costante. Questo sentimento di
rabbia e delusione derivava dal trauma infantile. I fratelli Mahir,
Osman e Arda erano sopravvissuti a un devastante terremoto.
Nonostante provenissero da famiglie diverse, il destino li aveva
fatti incontrare. L’insegnante di matematica Songul Isikci era tra
i quattro sopravvissuti dei 42 residenti che vivevano negli
appartamenti Bulut. Lei adottò i tre ragazzi e insieme cercarono di
guarire dalla tragedia.
Tra i tre ragazzi, Mahir era
l’unico abbastanza grande da ricordare la sua vita prima del
terremoto. Proveniva da una famiglia umile e guadagnava qualche
soldo in più portando fuori la spazzatura e svolgendo altre
faccende domestiche. Dopo il terremoto, la sua vita era cambiata in
meglio e lui non sapeva come sentirsi al riguardo. La tragedia che
aveva distrutto famiglie e ucciso persone gli aveva dato una
seconda possibilità di vita, e lui si sentiva sempre a disagio per
questa strana contraddizione. Avrebbe dovuto essere rimandato al
suo villaggio per aiutare suo nonno dopo un altro anno di studi. E
invece eccolo lì, a costruire una delle aziende in più rapida
crescita a Istanbul, e non poteva fare a meno di sentirsi un
impostore.
Mahir frequentava Asli, una
cantante in ascesa. Era sincero riguardo ai suoi sentimenti e,
sebbene lei fosse comprensiva, c’erano giorni in cui tutto ciò che
desiderava era che lui restasse. Mahir aveva paura di affezionarsi:
la tragedia lo aveva reso diffidente e ogni volta che Asli cercava
di fare un passo avanti, lui la respingeva. Ma non riusciva a
togliersela dalla testa. Quando un giornalista accusò Asli di aver
rubato una delle sue canzoni, Mahir finì per aggredirlo.
La sua rabbia era mal riposta,
considerando che non si era nemmeno presentato al concerto di Asli,
pur sapendo quanto avrebbe significato per lei. Più tardi, quando
Mahir si imbatté in un video in cui Asli e il suo arrangiatore
sembravano stare insieme, ne rimase completamente distrutto. Asli
aveva cercato di andare avanti, ma non riusciva a smettere di
pensare a Mahir e alla fine decise di affrontarlo. Mahir ammise di
essere profondamente innamorato di lei e di essere stato uno
sciocco a cercare di allontanarsi da lei. Alla fine, Asli decise di
dare una possibilità a Mahir e i due suggellarono il loro accordo
con un bacio.
Perché Nihal ha allontanato
Osman?
Nihal voleva costruire lo yacht, ma
la sua azienda non aveva i soldi per farlo. Ha provato a
richiedere un prestito, ma a causa dei debiti già contratti da suo
padre, nessuno era disposto a scommettere sulla sua impresa. Osman,
il decisore della famiglia Bulut, si è innamorato di lei al loro
primo incontro. Era un uomo d’affari spietato, ma quando si
trattava di Nihal, non riusciva a essere aggressivo come al
solito.
L’unico ricordo che Osman aveva di
sua madre era quello di aver visto la villa sul mare durante una
gita in barca con lei, e ricordava che sua madre gli aveva detto
che le persone che vivevano lì erano davvero felici. Osman
ricordava anche la bambina che aveva visto salutarlo con la mano e
la villa sullo sfondo. Voleva comprare la stessa villa, ma non si
aspettava di rimanere affascinato dalla bambina con le mollette a
forma di scarabeo (Nihal) che aveva visto dalla barca. Organizzò
segretamente un prestito per lei, in modo che potesse concentrarsi
sulla costruzione dello yacht senza dover rinunciare alla sua
casa.
Sebbene Nihal fosse inizialmente
piacevolmente sorpresa dal recente sviluppo, ben presto capì che
dietro c’era Osman e lo accusò di manipolarla. Non voleva essere
alla sua mercé e non riusciva a immaginare di avere una relazione
sentimentale con un uomo che stava già cercando di affermare la sua
autorità su di lei. Osman annunciò che se lei non avesse consegnato
lo yacht in tempo, avrebbe preso possesso della villa per coprire
il debito che lei avrebbe avuto nei loro confronti. Erano tornati
al punto di partenza e Nihal si concentrò sulla costruzione dello
yacht. Accettò il prestito e si mise al lavoro.
Ben presto, Osman cercò di
sistemare le cose tra loro, e funzionò solo per un breve periodo.
Nihal era innamorata di Osman e non voleva che il tempo che
trascorrevano insieme finisse mai. Lui non era il mostro senza
cuore che tutti credevano; con Nihal era affettuoso e dolce. Ma
Nihal iniziò a riflettere troppo dopo che una delle sue ex
fidanzate le disse che Osman preferiva le avventure brevi e che lei
non doveva prendere troppo sul serio la loro relazione.
All’inizio Nihal non ci fece caso,
ma gradualmente iniziò a chiedersi se lui fosse davvero innamorato
di lei o se volesse semplicemente entrare a far parte del suo
mondo. Forse lui considerava la loro relazione come una partnership
reciprocamente vantaggiosa, e lei non sapeva come sentirsi al
riguardo. Quando lo sentì prenotare la sua camera preferita a
Taormina, pensò che si trattasse della famigerata “fuga a
Taormina”, dopo la quale di solito rompeva con le sue ragazze. Capì
che il suo sospetto era giusto: lui non faceva sul serio con lei.
Nihal scelse ancora una volta di allontanarsi da Osman, e questa
volta Engin intervenne.
Nihal accettò la proposta di
Engin?
Engin era innamorato di Nihal da
anni. Aveva sempre pensato che, dopo tutte le sue brevi relazioni,
alla fine avrebbe scelto lui. Quindi, naturalmente, era
estremamente preoccupato quando Nihal si innamorò di Osman. Non era
solo un concorrente in affari, ma anche una sfida per uomini come
lui, provenienti da famiglie ricche da generazioni. Ma dopo aver
scoperto che Nihal aveva rotto con Osman, ha deciso di chiederle di
sposarlo. Per prima cosa ha parlato con il padre di Nihal e lo ha
convinto che lui era l’uomo giusto per Nihal. Ha anche suggerito di
vendere la villa a Osman per saldare tutti i debiti rimanenti, in
modo che Nihal potesse ricominciare la sua vita senza preoccuparsi
di ripagare i debiti del padre. Dopo che suo padre accettò la sua
proposta, Engin finalmente trovò il coraggio di essere onesto sui
suoi sentimenti verso Nihal. Lei non aveva mai preso sul serio il
suo interesse per lei, ma quando lui le disse che non l’avrebbe mai
lasciata, qualunque cosa fosse successa, lei pensò che un
matrimonio stabile fosse meglio di una relazione senza speranza.
Nihal considerò di dargli una possibilità e decisero di andare in
Europa per trascorrere del tempo insieme. Nel frattempo, Osman era
devastato quando ha saputo di Nihal ed Engin. Non gli importava più
della villa; tutto ciò che voleva era stare con lei. Mahir gli ha
suggerito di mettere da parte il suo ego e confessarle i suoi
sentimenti.
Nihal e Osman tornano
insieme?
Nihal si aspettava che la notizia
della sua partenza avrebbe colpito Osman e che lui avrebbe
finalmente cercato di parlarle, ma suo padre le disse che quando
aveva discusso la proposta, Osman non si era mostrato interessato.
Capì che lui non aveva mai tenuto a lei, anche se aveva scoperto
che la sua ipotesi su Taormina era falsa. Lui non stava prenotando
la stanza per loro, stava solo facendo da spalla ad Arda. Si
aspettava che lui facesse almeno lo sforzo di parlarle un’ultima
volta, mettendo da parte il suo ego, ma rimase delusa. Alla fine
non vediamo Nihal ed Engin insieme all’aeroporto, ma considerando
che suo padre aveva già deciso di separarsi dalla sua villa per
garantire il futuro di lei con Engin, (probabilmente) non si tratta
solo di un pettegolezzo diffuso da Engin e dal padre di Nihal. È
probabile che la proposta del tour in Europa fosse, dopotutto,
vera.
Nel frattempo, Osman si rese conto
che doveva sistemare le cose con Nihal. Non solo era innamorato di
lei, ma sentiva anche il bisogno di aggrapparsi all’unica persona
che ricordava prima che la sua vita fosse stravolta dalla tragedia.
Nihal era la ragazza a cui aveva salutato dalla barca da bambino, e
credeva che fossero destinati a stare insieme. Osman salì sulla sua
barca e si diresse verso la villa di Nihal. Le onde erano impietose
e finì per perdere brevemente conoscenza dopo aver sbattuto la
testa contro il lato della barca. In quel breve istante, Osman
ricordò improvvisamente il volto di sua madre. Non aveva una sua
foto e aveva trascorso gran parte della sua vita con un senso di
colpa per non avere alcun ricordo dei suoi giorni d’infanzia.
Durante il finale di Old Money
– Mondi Opposti, dopo aver ripreso conoscenza, Osman si recò
in auto alla villa di Nihal e lì trovò suo padre. Questi consegnò a
Osman la chiave della villa, pronto a separarsene per il bene di
sua figlia. Osman rimase devastato quando scoprì che Nihal se n’era
già andata. La serie di otto episodi si conclude con Osman che
getta via la chiave della villa. Anche se aveva sempre sognato di
vivere in una delle ville sul mare, non avrebbe mai pensato che ciò
sarebbe avvenuto a costo di perdere l’amore della sua vita.
Ci sarà una seconda
stagione?
Il tragico finale di Old Money
– Mondi Opposti può anche essere interpretato come un
indizio di una seconda stagione. Nella seconda stagione Nihal
potrebbe rendersi conto, dopo il suo tour in Europa, che anche se
volesse andare avanti e avere una relazione con Engin, una scelta
sicura, non riesce davvero a togliersi Osman dalla testa. Forse
anche Osman farà uno sforzo per tornare con Nihal e, nonostante gli
alti e bassi, il finale più ovvio che si possa immaginare è che i
due amanti finiscano insieme. La seconda stagione potrebbe anche
esplorare il pregiudizio che la società nutre nei confronti delle
donne di mezza età che trovano l’amore in uomini più giovani, dopo
che Songul decide di rendere pubblica la sua relazione. Berda
probabilmente presenterà Arda alla sua famiglia, e lui potrebbe
avere difficoltà a conquistarne la fiducia. Considerando la
popolarità di Asli, Mahir potrebbe trovare difficile adattarsi alla
sua fama, soprattutto dopo che avranno reso pubblica la loro
relazione.
Il finale di Nessuno ci ha
visti partire (No One Saw Us Leave) di Netflix vedeva Valeria riottenere la
custodia dei figli Isaac e Tamara, dopo che il marito Leo era
fuggito con loro e li aveva tenuti lontani da lei per due anni. Il
motivo? Leo aveva scoperto che Valeria aveva una relazione con suo
cognato Carlos. Ne aveva parlato con sua sorella Gabriela, che lo
aveva aiutato a portare via i figli dalla madre adultera. La
destinazione finale di Leo era Israele, ma invece di seguire un
percorso diretto, ha portato i bambini in un bizzarro giro del
mondo che li ha portati prima in Francia, poi in Italia, poi in
Sudafrica, prima di raggiungere finalmente la loro “patria”.
Valeria ha deciso di inseguirli e Carlos ha abbandonato Gabriela e
i loro figli per accompagnare il suo nuovo amore.
Erano sempre un passo indietro
rispetto a Leo e ai bambini, ma solo dopo che si sono stabiliti in
un “kibbutz” Valeria è riuscita a rintracciare il suo ex marito e i
figli. Ha detto che ci sarà un processo a Gerusalemme contro Leo
perché ciò che ha fatto è chiaramente illegale. Tuttavia, dato che
Leo aveva passato gli ultimi due anni a riempire le menti di Isaac
e Tamara di propaganda anti-Valeria, anche se avesse vinto la causa
contro Leo, sarebbe stato difficile convincere i bambini ad andare
con lei. Beh, Valeria ci è riuscita o ha fallito? Scopriamolo.
Valeria ha portato Leo in
tribunale
Nel finale di Nessuno ci ha
visti partire (No One Saw Us Leave), un avvocato che lavora
presso l’Alta Corte di Gerusalemme ha spiegato a Valeria ed Elias,
un collaboratore di Valeria che era stato incredibilmente utile
nella ricerca di Leo e dei bambini, di aver redatto un documento
molto dettagliato sulle scappatelle di Leo fino a quel momento. Il
documento descriveva i numerosi modi in cui Leo aveva messo in
pericolo Tamara e Isaac, come era fuggito pur sapendo che
l’Interpol lo stava cercando e che era un alcolizzato. Valeria
considerava quest’ultimo punto non solo falso, ma anche un colpo
basso, perché Leo era molte cose, ma non un alcolizzato. Elias
cercò di convincere Valeria che era giusto dipingere Leo come un
alcolista perché lui e suo padre, Samuel, avevano sfruttato il
potere della stampa per dipingere Valeria come una donna pazza.
Tuttavia, Valeria si rifiutò di abbassarsi al suo livello. Oltre a
tutto ciò, l’avvocato consigliò a Valeria di dire a Carlos di
tornare in Messico, perché i giudici non si sarebbero schierati
dalla sua parte se avessero visto l’uomo con cui aveva una
relazione extraconiugale. Valeria riferì tutte queste informazioni
a Carlos.
Nel frattempo, Leo confessò a Isaac
e Tamara di aver mentito loro sul fatto che la madre li odiasse e
che avrebbe dovuto affrontare un processo per averli praticamente
rapiti, al termine del quale i giudici avrebbero deciso chi avrebbe
ottenuto la custodia di Isaac e Tamara. Isaac disse che voleva
vivere con Leo, mentre Tamara disse che voleva andare con Valeria.
Leo disse che, indipendentemente dalla sentenza finale del
tribunale, sarebbe venuto a prendere i suoi figli, perché li amava
più di qualsiasi altra cosa al mondo. Il giorno del processo, prima
di entrare in aula, Leo disse a Valeria che aveva detto ai bambini
la verità su di lei e ammise loro di aver mentito sul suo amore per
i figli. In risposta a ciò, Valeria rivelò che, anche se sapeva che
Leo non era un alcolista, aveva testimoniato che lo era per
rafforzare la sua causa. La risposta di Leo a quella rivelazione fu
che gli dispiaceva che Valeria avesse avuto un aborto spontaneo
dopo essere rimasta incinta di Carlos. Su questa nota, entrarono in
aula e il processo non fu molto lungo.
Valeria ha ottenuto la custodia
dei bambini
I giudici che presiedevano il caso
intentato da Valeria contro Leo hanno semplicemente affermato che
entrambe le parti avrebbero dovuto presentarsi davanti a un
tribunale in Messico, poiché entrambi erano messicani, e sottoporsi
a processo in quel Paese. Al fine di proteggere i bambini dal
trauma del processo, sarebbe stato loro permesso di rimanere nel
kibbutz Ein Tamar fino alla fine dell’anno scolastico. Ma poi i
bambini sono andati comunque in Messico con Leo, violando
l’ordinanza dei giudici. Dopo che Valeria, i suoi genitori e Carlos
sono tornati a casa, Elias ha comunicato l’informazione a Valeria.
Dato che non era riuscito a rintracciare Leo e i bambini dopo il
loro atterraggio in Messico, Valeria ha iniziato a dare di matto
perché pensava che Leo avesse rapito di nuovo i bambini. Ma dove
erano? Erano a casa di Gabriela. Perché? Perché Samuel aveva detto
loro di stare lì, permettendo così a Leo di rimanere con i bambini
fino al processo.
Nel finale di Nessuno ci ha
visti partire (No One Saw Us Leave), Carlos ha ricevuto una
telefonata anonima sulla posizione di Isaac e Tamara. Moishe, il
padre di Valeria, si è presentato a casa di Samuel e gli ha chiesto
di rivelare dove fossero i bambini. Dato che Samuel era troppo
spaventato per affrontare Moishe, sua moglie Galya lo ha incontrato
e gli ha semplicemente detto che non avevano idea di dove fossero i
bambini. E anche se Samuel avesse avuto qualche informazione, non
era disposto a condividerla con Galya. Pochi istanti dopo, Elias,
Carlos, Valeria e la polizia si sono presentati a casa di Gabriela.
Tutti si aspettavano che Leo facesse qualcosa di drastico, ma lui
ha semplicemente consegnato i bambini a Valeria. I titoli di testa
prima dei titoli di coda rivelano che Isaac e Tamara non hanno più
visto Leo per i successivi 20 anni. Valeria e Carlos hanno vissuto
insieme e si sono presi cura dei bambini. Nel 1997 Carlos è morto.
Tamara è diventata una scrittrice e nel 2020 ha pubblicato il
romanzo su cui è basata questa miniserie. Bene, ottimo. Ma qual era
il senso di tutta questa serie?
Aveva ragione Valeria o
Leo?
Beh, suppongo che il principale
punto di contesa che emergerà dal conflitto tra Valeria e Leo sia
chi avesse ragione. Il problema tra Valeria e Leo è iniziato quando
si sono sposati. Non si amavano. I loro genitori pensavano che
fossero una coppia perfetta. Non erano abbastanza grandi per
opporsi alla volontà dei genitori. Quindi si sono sposati e hanno
avuto dei figli. Con il passare degli anni, Valeria e Leo si sono
allontanati e Valeria si è sentita attratta proprio da Carlos.
Invece di capire che un matrimonio senza amore non era una scusa
per una relazione extraconiugale, Valeria ha tradito Leo con
Carlos. Carlos era ugualmente responsabile del tradimento subito da
Leo. Oltre a tutto ciò, sia Valeria che Carlos erano colpevoli di
aver ferito Gabriela e i loro figli. Non mi interessa quanto la
società diventi “progressista” e “moderna”; non giustificherò mai
il tradimento, soprattutto quando si ha la possibilità di
divorziare. In alcuni paesi arretrati, il divorzio o la separazione
non sono così comuni. Quindi, avere una relazione extraconiugale
sembra l’unica opzione praticabile. Tuttavia, se le persone vengono
ferite nel processo, vale davvero la pena di amare? Non lo so.
Tornando alla trama, se la reazione
di Valeria al suo matrimonio senza amore, ovvero la relazione
extraconiugale, può essere considerata irrazionale, suppongo che la
decisione di Leo di scappare con i figli per darle una lezione
debba essere vista come una decisione altrettanto irrazionale.
Insomma, sono ore che mi scervello su questo aspetto della trama e
non riesco a capirlo. Ma che diavolo gli è saltato in mente? Che a
un certo punto Valeria avrebbe semplicemente rinunciato e lui
avrebbe potuto crescere i bambini come voleva? Non poteva restare
in Messico, usare l’influenza che Samuel aveva lì e lottare per la
custodia dei bambini in modo diretto? Cosa ha guadagnato da quella
complicata avventura? Certo, Valeria non pensava ai bambini quando
ha intrapreso quella relazione extraconiugale. E sembrava che
l’unica cosa che importasse a Leo fossero i figli, motivo per cui
li teneva vicini a sé ovunque andasse. Tuttavia, cosa deve essere
stato più sconcertante per Tamara e Isaac? La relazione
extraconiugale o la serie di shock culturali causati da quel
viaggio intorno al mondo? Lascio a voi il giudizio.
Lezioni da imparare
Ora, qual è la lezione da imparare
da tutto questo? Cosa dovremmo imparare noi spettatori dalla storia
di Tamara Trottner? Non so se il punto centrale del romanzo non sia
stato trasmesso molto bene fin dall’inizio o se sia andato perso
durante l’adattamento di Maria Camila Arias, ma quello che ho
capito è che le persone dovrebbero imparare ad agire in modo
razionale prima di compiere passi importanti come sposarsi e avere
figli. Il matrimonio e l’avere figli sono considerati così
importanti per la sopravvivenza della civiltà che ogni singola cosa
che facciamo sembra essere al servizio di questi due atti. Le
persone costruiscono imperi e si spezzano la schiena per ottenere i
beni di prima necessità, ma mentre fanno tutto questo, non si
educano abbastanza per diventare persone ragionevoli. Anche adesso,
alle persone tra i 20 e i 30 anni viene detto che stanno
riflettendo troppo sul matrimonio e che dovrebbero semplicemente
buttarsi a capofitto e tutto andrà bene. Nel frattempo, hanno
davanti agli occhi una montagna di prove che dimostrano che questo
approccio è profondamente sbagliato, ma che scelgono
convenientemente di ignorare perché il peso del progresso della
civiltà umana ricade apparentemente su di loro. Una “civiltà” deve
prima essere “civilizzata”, altrimenti come possiamo essere
migliori dei ratti e dei conigli che si riproducono
all’infinito?
Quindi, sì, anche se non è questo
il punto di Nessuno ci ha visti partire (No One Saw Us
Leave), suggerisco comunque di guardare attentamente agli
eventi presentati nella miniserie, di riflettere se possiamo essere
fedeli in un matrimonio, di discutere con la nostra potenziale metà
che la lealtà non sarà un problema, di avere figli dopo un’altra
lunga discussione e poi di assicurarci che i suddetti figli abbiano
la vita che meritano. Se questo è troppo complicato per voi, non
dovreste sposarvi e non dovreste avere figli. Se pensate che la
vostra eredità possa essere perpetuata solo se estendete la vostra
discendenza e trasmettete loro la vostra ricchezza, vi sbagliate, e
la lente attraverso cui guardate la vita è incredibilmente
classista e casteista. Ci sono innumerevoli bambini orfani e
sfollati là fuori; date loro la vostra ricchezza e la vostra
eredità sarà immortalata. Inoltre, l’istruzione e il miglioramento
delle condizioni di vita dei bambini orfani e sfollati gioveranno
alla civiltà umana più che aumentare incautamente il numero della
popolazione solo perché potete farlo. Comunque, questi sono solo i
miei pensieri sul finale di Nessuno ci ha visti partire (No One
Saw Us Leave). Se avete opinioni in merito, sentitevi liberi
di condividerle nella sezione commenti qui sotto.