Home Blog Pagina 12

Sandokan: un funerale nella prima clip della serie con Can Yaman

0
Sandokan: un funerale nella prima clip della serie con Can Yaman

È online la prima clip ufficiale di Sandokan, la serie evento internazionale diretta da Jan Maria Michelini e Nicola Abbatangelo con protagonista Can Yaman nel ruolo della leggendaria Tigre della Malesia. La sequenza mostra un funerale carico di mistero, preludio al tono epico e drammatico che attraverserà la produzione, tra avventura, sentimento e libertà.

Prodotta da Lux Vide, società del gruppo Fremantle, in collaborazione con Rai Fiction, Sandokan nasce da un’idea di Luca Bernabei ed è un nuovo adattamento della storica saga di romanzi di Emilio Salgari, sviluppata per la televisione da Alessandro Sermoneta, Scott Rosenbaum e Davide Lantieri. La serie andrà in onda dal 1° dicembre 2025 su Rai1, per poi arrivare prossimamente su Disney+, e sarà distribuita in tutto il mondo da Fremantle e in Spagna da Mediterráneo Mediaset España Group.

Le riprese si sono svolte tra l’isola di Réunion, il Lazio, la Toscana e la Calabria, dove – con il sostegno della Calabria Film Commission – è stata costruita a Lamezia Terme la spettacolare colonia inglese di Labuan. Un lavoro scenografico imponente che restituisce il fascino esotico e la dimensione epica del romanzo salgariano, a cinquant’anni dalla celebre serie Rai che rese Sandokan un’icona popolare grazie a Kabir Bedi.

Il cast di Sandokan

Nel cast, accanto a Can Yaman, figurano Alanah Bloor, Alessandro Preziosi, Ed Westwick, Madeleine Price e John Hannah. Il racconto è ambientato nel Borneo del 1841, dove il pirata Sandokan solca i mari con il fedele amico Yanez finché l’incontro con Marianna Guillonk, la “Perla di Labuan”, lo spinge verso un destino inaspettato tra amore e ribellione. Sul suo cammino si frappone Lord James Brooke, l’affascinante “cacciatore di pirati” deciso a catturarlo e a conquistare il cuore della stessa Marianna.

In occasione della presentazione alla Festa del Cinema di Roma, al MAXXI sarà inaugurata una mostra immersiva che trasporterà il pubblico nel cuore dell’universo di Sandokan: sarà possibile ammirare la ricostruzione a grandezza reale del Praho, i costumi originali, oggetti di scena e un video di making of. L’esposizione sarà visitabile dal 18 al 26 ottobre, con ingresso libero.

Con questa prima clip, Sandokan si conferma uno dei progetti televisivi italiani più ambiziosi degli ultimi anni, capace di riportare sul piccolo schermo un eroe senza tempo e di far rivivere, tra mari, giungle e battaglie, il mito della Tigre della Malesia.

La camera di consiglio: recensione del film che racconta il backstage del Maxiprocesso – #RoFF20

0

C’è qualcosa di profondamente necessario in La camera di consiglio, il nuovo film di Fiorella Infascelli, presentato nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma e in uscita il 20 novembre con Notorious Pictures. Dopo anni di cinema che ha guardato alla mafia come a un tema di superficie, Infascelli sceglie di tornare al cuore della questione: la responsabilità. Non quella del criminale, ma quella di chi deve giudicarlo. Il film racconta la camera di consiglio più lunga della storia giudiziaria: trentasei giorni di isolamento in cui otto giurati, chiusi in un appartamento-bunker all’interno del carcere dell’Ucciardone di Palermo, dovettero decidere condanne e assoluzioni per 470 imputati del Maxiprocesso.

Ambientato alla fine degli anni Ottanta, La camera di consiglio si muove dentro una dimensione sospesa, dove la tensione storica del Maxiprocesso si intreccia con la dimensione privata, umana e morale dei protagonisti. È un film che lavora sul tempo e sull’immobilità, sull’eco delle decisioni e sul peso della parola “giustizia”.

La sceneggiatura, firmata dalla stessa Infascelli insieme a Mimmo Rafele e con la collaborazione di Francesco La Licata, si avvale della consulenza di Pietro Grasso, che di quella camera di consiglio fu testimone diretto come giudice a latere del Maxiprocesso. Il risultato è un racconto che possiede il rigore della ricostruzione storica e la tensione del dramma morale. Non un film “di mafia”, ma un film sulla democrazia, sull’atto più difficile del vivere civile: giudicare.

La camera di consiglio, un teatro chiuso dove si decide il destino

Girato interamente in interni, La camera di consiglio adotta un’impostazione scenica quasi teatrale, nella quale i confini dello spazio coincidono con i confini della coscienza. La macchina da presa esplora ogni angolo dell’appartamento-bunker, restituendone la pesantezza e l’aria satura, mentre la luce filtra come un respiro difficile, mai completamente libero. In questa cornice, gli attori si muovono come figure costrette a confrontarsi non solo con la legge, ma con sé stesse. Ed è in questo secondo faccia a faccia che la regista riesce a trovare anche della leggerezza.

Sergio Rubini, nei panni del Presidente della giuria, è il fulcro del racconto: il suo personaggio incarna la lucidità, il rispetto per il principio di legalità, la resistenza alla tentazione emotiva. Il suo sguardo è quello di chi cerca di rimanere fedele alla ragione in un contesto dove la pancia, l’istinto e la rabbia potrebbero sembrare vie più facili e in qualche modo giustificate. È inevitabile il rimando a La parola ai giurati: come Henry Fonda, anche Rubini porta sullo schermo un’idea di giustizia che non è vendetta, ma responsabilità. Accanto a lui, Massimo Popolizio nel ruolo del Giudice a latere rappresenta il contraltare, la voce della legge che deve restare ferma anche quando la pressione morale diventa insostenibile.

Il film si nutre della forza del suo cast corale: Betti Pedrazzi, Roberta Rigano, Anna Della Rosa, Stefania Blandeburgo, Rosario Lisma e Claudio Bigagli danno vita a un gruppo eterogeneo di giurati, ciascuno portatore di una propria storia, di un proprio conflitto interiore. L’opera di Infascelli non li usa come funzioni narrative, ma come coscienze in movimento, che si osservano e si scontrano in un continuo processo di ridefinizione.

Ciò che colpisce è la precisione della regia: la macchina da presa non invade mai, osserva, ascolta, accompagna accentuando l’impianto teatrale del film. L’isolamento è palpabile e il tempo si dilata, diventando quasi un personaggio. Infascelli costruisce un ritmo ipnotico, dove la tensione non esplode, ma cresce per stratificazione. Le pareti dell’Ucciardone diventano una prigione fisica e mentale, e il fuori mondo, con le sue urla e i suoi fantasmi, resta solo evocato. Tuttavia, in questo spazio chiuso, la regista riesce a inserire momenti di respiro poetico: la ricerca del cielo da una finestra che non si apre mai, o la comparsa di un gatto sulle alte mura del carcere, presenze simboliche che aprono brecce nel realismo e suggeriscono la speranza di un altrove. In questi momenti, i giurati respirano, si aprono al futuro, fanno entrare l’ironia e la leggerezza che vanno di pari passo con il senso di responsabilità.

Infascelli scava con delicatezza dentro le paure dei suoi personaggi. Ogni dialogo pesa come una testimonianza, ogni silenzio contiene la fatica del giudizio. La scelta di alternare toni realistici a momenti sospesi, quasi metafisici, arricchisce il film di una dimensione ulteriore, dove la storia collettiva si intreccia con la ricerca di senso individuale.

Giustizia, memoria e umanità

Ciò che rende La camera di consiglio interessante è la sua capacità di unire il rigore civile all’intimità del dubbio umano. In quei trentasei giorni di isolamento, Infascelli trova il laboratorio perfetto per interrogare il rapporto tra individuo e istituzione, tra emozione e legge, tra giustizia e verità. Ogni personaggio porta con sé la propria misura di paura e di fede, e la regia sa restituirla con pudore, senza proclami.

Il film parla di una democrazia sotto pressione, di uno Stato che deve riconoscere la propria forza senza perdere la propria umanità. La condanna collettiva di Cosa Nostra, che nel Maxiprocesso segnò una svolta storica, diventa metafora di una nazione che finalmente sceglie di guardare in faccia il male, di riconoscerlo come sistema e non come eccezione. Ma il merito di Infascelli è quello di riportare questo passaggio epocale su una scala umana: otto persone, chiuse in una stanza, che devono scegliere tra giustizia e vendetta, tra dovere e compassione.

Nel linguaggio asciutto e nel ritmo contenuto, La camera di consiglio ritrova quella tradizione del cinema civile italiano che sapeva essere politico senza mai rinunciare alla sensibilità narrativa. È un film che non cerca l’applauso, ma il confronto, che si rivolge allo spettatore come a un cittadino, chiedendogli di partecipare, di ricordare, di prendere posizione.

Rubini e Popolizio offrono due interpretazioni complementari e magnetiche, sostenute da un ensemble coeso che restituisce la coralità del racconto. E mentre l’ambientazione chiusa potrebbe sembrare una limitazione, in realtà diventa la chiave per capire il senso più profondo dell’opera: la giustizia nasce sempre in uno spazio ristretto, in un luogo interiore dove si deve imparare a scegliere.

Fiorella Infascelli firma un film sobrio, intenso, profondamente civile, capace di parlare al presente senza perdere il legame con la Storia. La camera di consiglio non urla, ma lascia un’eco lunga, fatta di silenzi, di sguardi e di coscienze in conflitto. È un cinema che crede ancora nella memoria come forma di resistenza, nella giustizia come gesto umano, e nella responsabilità come atto d’amore verso il Paese.

Wolf Man, spiegazione del finale: chi ha attaccato la famiglia e perché quel personaggio è morto

Il finale cupo di Wolf Man (2025) è molto potente, dato il modo in cui collega la morte più importante del film con i temi generali della storia. Wolf Man è l’ultima rivisitazione dell’iconico The Wolf Man di Lon Chaney Jr., che reinterpreta il concetto e lo trasferisce in un contesto completamente nuovo con personaggi e temi inediti. Wolf Man è un thriller familiare incentrato su Blake, Charlotte e la loro figlia Ginger, che lottano per sopravvivere alla notte mentre sono braccati da una temibile creatura notturna.

Dopo aver portato con sé la sua famiglia per sistemare gli affari di suo padre, Blake e i suoi cari rimangono intrappolati nella casa della sua infanzia da una creatura brutale che non è proprio un lupo, ma sicuramente non è un uomo normale. Nel caos, Blake si ritrova contagiato da una malattia della creatura, trasformandosi rapidamente in qualcosa che sua moglie e sua figlia riescono a malapena a riconoscere. Nonostante i classici tropi horror in gioco, Wolf Man fa un ottimo lavoro nel modernizzare le idee per raccontare una storia spaventosa molto specifica sulla famiglia che non si sente obbligata a creare sequel del franchise.

La morte di Blake nel finale di Wolf Man spiegata

La morte di Blake è il climax emotivo di Wolf Man

Dopo essere diventato il mostro del titolo, Blake non sopravvive al finale di Wolf Man, ma la natura della sua morte è più agrodolce che tragica. Blake è di fatto il protagonista di Wolf Man, alle prese con il trauma di essere stato cresciuto da un padre militante, mentre piange la morte dell’uomo e cresce la propria famiglia. Dopo essere stato infettato dall’attacco di una misteriosa creatura, Blake trascorre gran parte del film perdendo lentamente se stesso a causa di una malattia apparente e trasformandosi in uno stato animalesco simile. Sebbene diventi sempre meno umano, Blake conserva in modo notevole alcuni elementi della sua personalità e prospettiva umana.CorrelatiL’ispirazione horror del Wolf Man del 2025 dovrebbe alleviare le preoccupazioni sul nuovo aspetto del mostroIl Wolf Man di Leigh Whannell ha tratto ispirazione da un classico dell’horror per il suo personaggio principale, e questo spiega il suo aspetto controverso.Di Adrienne Tyler22 novembre 2024

Nonostante abbia acquisito alcune abilità grazie alla sua trasformazione (come sensi potenziati e maggiore resistenza), Blake non diventa improvvisamente inarrestabile nella sua forma di Wolf Man. Conserva persino abbastanza di sé stesso da implorare silenziosamente sua moglie di porre fine alle sue sofferenze, costringendola alla fine a premere il grilletto quando è con le spalle al muro. La morte di Blake è tragica in Wolf Man, ma dimostra anche che la sua umanità ha avuto la meglio sui suoi impulsi più brutali. Blake si lascia uccidere per salvare i suoi cari, conferendo al film un finale cupo che dimostra che Blake è rimasto un uomo piuttosto che un lupo.

Chi è l’uomo lupo che attacca la famiglia di Blake? Identità e colpo di scena spiegati

Christopher Abbott in Wolf Man
© Nicola Dove/Universal Pictures

Un mistero all’inizio di Wolf Man riemerge in modo straziante

Inizialmente, non è chiaro chi sia l’uomo lupo che attacca Blake e la sua famiglia. Blake aveva visto una creatura simile durante la sua infanzia mentre cacciava con suo padre, e la creatura non mostra mai alcun senso di sé o personalità. Tuttavia, il fatidico duello di Blake con la creatura si conclude con la rivelazione che in realtà si tratta del padre di Blake, infettato dalla stessa malattia. Ciò viene rapidamente confermato da un’inquadratura di un tatuaggio distintivo sul lupo mannaro, esattamente uguale a quello che Blake aveva notato su suo padre durante la sua giovinezza.

Il padre di Blake era impegnato a dare la caccia alla creatura nella foresta, rendendo il suo destino finale di trasformarsi in una bestia simile un’amara ironia.

Da un lato, il padre di Blake era impegnato a dare la caccia alla creatura nella foresta, rendendo il suo destino finale di trasformarsi in una bestia simile un’amara ironia. Il fatto che abbia minacciato la sua famiglia dopo aver chiarito quanto volesse proteggere Blake è una svolta oscura rispetto alle sue motivazioni precedenti. Blake che uccide suo padre e si rende conto della verità solo dopo il fatto è il momento che sembra spezzare anche Blake, portandolo a ritirarsi all’esterno e a completare la sua trasformazione fisica, un abbraccio simbolico della brutalità che Blake aveva sperato di risparmiare a sua figlia.

Cosa succederà a Ginger e Charlotte dopo la fine di Wolf Man?

wolf-man-famiglia
© Nicola Dove/Universal Pictures

Due dei personaggi principali di Wolf Man sopravvivono al film

Charlotte e Ginger sopravvivono agli eventi di Wolf Man. Anche se non hanno subito ferite fisiche durante gli eventi della storia, Wolf Man attira l’attenzione sul modo in cui le ferite mentali possono persistere. È improbabile che Charlotte o Ginger dimentichino il trauma di ciò che è successo. Data la carriera di Charlotte come giornalista in una grande città e la loro esperienza negativa nella natura selvaggia, è probabile che torneranno in città. Anche se non c’è un modo chiaro per loro di contattare i soccorsi o raggiungere la civiltà nel cuore della notte, probabilmente avranno più fortuna durante il giorno.

In particolare, Charlotte trascorre il primo atto di Wolf Man chiedendosi se stesse perdendo il vero legame con sua figlia. Sebbene il film metta in evidenza questa mancanza di connessione (come quando Ginger crede con rabbia che Charlotte abbia abbandonato Blake), il film sottolinea anche il loro legame mostrando fino a che punto Charlotte è disposta ad arrivare per proteggere sua figlia, arrivando persino a uccidere suo marito. Anche se Wolf Man non ha necessariamente un lieto fine per Charlotte e Ginger, dà loro la speranza di un nuovo giorno alla fine del film.

Il finale di Wolf Man non prepara il terreno per un sequel

Non c’è alcun accenno a un sequel o a un teaser dopo i titoli di coda in Wolf Man

Nonostante i film moderni spesso facciano di tutto per creare un potenziale franchise in tutti i film, Wolf Man evita questo impulso e rimane una storia decisamente autonoma. Il film non termina con alcun cliffhanger o anticipazione sul futuro, a parte la possibilità che altre persone siano state infettate dal Volto del Lupo che si aggira nelle remote foreste dell’Oregon. Il finale del film è invece più incentrato sui personaggi e si conclude in modo definitivo per Blake. Anche se Charlotte o Ginger potrebbero tornare in eventuali sequel, non ci sono ragioni evidenti o trame in sospeso che ne giustifichino il ritorno.

Leigh Whannell, che ha diretto Wolf Man ed è stato uno degli sceneggiatori del film, ha anche diretto Invisible Man del 2020, un altro reboot di un classico film della Universal Monster.

L’unico motivo per cui sono venuti in Oregon era Blake, e la sua morte significa che non c’è motivo di tornare. Blake non conclude il film con una finta morte, e la morte di suo padre all’inizio del film non suggerisce che ci sia alcuna immortalità o qualità di resurrezione nell’equivalente della maledizione del lupo mannaro di Wolf Man. Dal punto di vista tematico, Wolf Man si conclude con una nota soddisfacente, con Blake che supera i fallimenti di suo padre e accetta volontariamente la morte per proteggere la sua famiglia.

Come il finale di Wolf Man si confronta con altri film su Wolf Man

Wolf Man condivide una connessione tematica con The Wolf Man e The Wolfman, anche se hanno un finale diverso

Wolf Man è il terzo film con questo titolo. The Wolf Man, con Lon Cheney, debuttò nel 1941. Poi ci fu The Wolfman del 2010, con Benecio Del Toro. Wolf Man del 2025 è una storia drasticamente diversa, priva di molti degli elementi condivisi dai primi due film. Questo vale anche per il finale. L’elemento comune più importante di tutti e tre i film è il fatto che il lupo mannaro protagonista viene ucciso nel momento culminante della rispettiva pellicola. Sebbene l’interesse amoroso, i temi e le trame generali di ciascuna versione siano diversi, c’è un elemento tematico comune degno di nota.

Sebbene ogni Wolf Man includa un confronto tra padre e figlio e la morte del figlio, tutti si svolgono in modo diverso. Nell’originale del 1941, il padre di Larry Talbot non crede alle affermazioni del figlio di essere maledetto e lo uccide inavvertitamente mentre è trasformato. Nel film del 2010, Lawrence Talbot scopre che anche suo padre è un lupo mannaro e i due ingaggiano una battaglia che si conclude con la morte del Talbot senior. Mentre Blake uccide suo padre in forma di lupo, in modo simile alla versione di Talbot di Del Toro, alla fine muore per mano di sua moglie, volontariamente.

Il vero significato di Wolf Man

Un film horror sui mostri che i genitori possono diventare accidentalmente

Wolf Man è un film horror sorprendentemente emozionante, incentrato sul trauma che può crescere tra le persone care. Nella narrazione del film, gli impulsi più animaleschi vengono spesso mostrati come pericolosi su più livelli. Anche quando non sono fisicamente minacciosi e non sono compiuti da un lupo mannaro, il film mette in evidenza il dolore emotivo che può lasciare un genitore quando aggredisce un figlio. Il rapporto tra Blake e suo padre va in pezzi man mano che lui cresce, e Blake chiarisce che non vuole diventare lo stesso tipo di genitore che è stato suo padre.

Anche se il padre di Blake può aver agito per amore, il suo atteggiamento severo e la sua rabbia incontrollata hanno chiaramente lasciato un segno su Blake.

Questo è ciò che rende così significativi gli sforzi di Blake per controllarsi con la sua famiglia e spiega perché alla fine del film sceglie la morte piuttosto che ferirli. Wolf Man mette in evidenza l’umanità nel controllo e fino a che punto l’amore ci spinge, anche a sfidare i nostri impulsi animaleschi o i nostri complessi personali. Wolf Man utilizza i tropi di una storia di lupi mannari per esplorare una storia complessa e stratificata sulle responsabilità familiari.

Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness ), la spiegazione del finale

Diretto da Agustín Díaz Yanes, Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness ) di Netflix segue Amaia, una giovane ufficiale della Guardia Civil spagnola che da un decennio vive nel sud della Francia come agente sotto copertura all’interno dei ranghi dell’ETA, il gruppo separatista basco. Dopo essere entrata gradualmente nei circoli più profondi del gruppo, la protagonista usa tutto il suo potere per portare a termine la sua missione e scoprire i segreti custoditi dall’organizzazione terroristica. Tuttavia, questa doppia vita, unita all’orrore di cui è testimone come membro dell’ETA, inizia a pesare su Amaia. Questo thriller di spionaggio esplora in profondità come i confini tra giusto e sbagliato diventino sfumati quando i percorsi della violenza e della giustizia si fondono, con conseguenze per la persona che si trova al bivio. Man mano che la fine della missione si avvicina, gli eventi prendono nuovamente una piega inaspettata, gettando Amaia in una situazione di vita o di morte.

Cosa succede in Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness) ?

Il film inizia con Amaia che consegna le chiavi a due uomini in un’auto, che poi escono in strada e assassinano un personaggio politico in pieno giorno. Amaia, un’insegnante, è scioccata da questo sviluppo, e la spirale che ne segue riporta indietro il tempo di quasi due anni. Scopriamo che la sua vera identità è Amaya Mateos Gines e che è un’agente della Guardia Civil spagnola diventata spia. Il suo compito è quello di infiltrarsi nelle file del gruppo terroristico noto come ETA, il cui obiettivo finale è la separazione dei Paesi Baschi dalla Spagna. Il suo obiettivo principale, a tal fine, diventa Begona Landaburu, una leader dell’ETA che gestisce anche una scuola, dove Amaia trova lavoro. Da lì, le due entrano gradualmente in contatto e la protagonista diventa parte del gruppo terroristico con il compito di collegare elementi e strategie essenziali. Durante questo periodo, mantiene regolarmente i contatti con la polizia, scambiando informazioni attraverso sacchi della spazzatura.

Man mano che l’operazione segreta si intensifica, Amaia si ritrova sempre più coinvolta nelle attività dell’ETA, che spesso portano alla morte di diversi personaggi famosi e politici. Desiderosa di rendersi utile, la protagonista individua il prossimo obiettivo del gruppo, un sergente che in realtà è stato selezionato e addestrato dalla Guardia Civil. Nel tentativo fallito di assassinio che segue, Amaia viene quasi sconfitta dal sergente e deve sparargli al petto. L’uomo sopravvive, ma l’incidente la lascia scossa e dubbiosa sulla sua nobile causa, spingendola ad abbandonare prematuramente la missione e l’ETA. Questa separazione, tuttavia, è di breve durata, poiché in poco tempo si ritrova nuovamente coinvolta nell’organizzazione. Questa volta la posta in gioco è ancora più alta e, con molti membri arrestati a destra e a manca, Amaiya e Begona sono costrette a fuggire in Francia, che era il piano della Guardia Civile fin dall’inizio.

Una volta in Francia, Amaia assume il ruolo di autista, trasportando uno dopo l’altro i membri importanti dell’ETA in luoghi sempre più appartati. Comincia a disegnare mappe mentali di queste occasioni, individuando la posizione di molti dei nascondigli e dei membri. Tuttavia, le perdite crescenti costringono l’ETA a riconsiderare la possibilità che ci sia una talpa sotto copertura. Prima che le cose tornino ad Amaiya, viene scoperta un’altra talpa, che lavora per i servizi segreti, e viene uccisa brutalmente proprio davanti a lei. Tuttavia, questo non impedisce ad Amaia di continuare le sue coraggiose immersioni nei segreti dell’ETA, che la portano alle coordinate esatte del più grande nascondiglio dell’ETA, chiamato Txernobel. Questo, insieme all’arresto di diversi nomi importanti, porta il gruppo a rendersi conto che ci sono ancora nemici all’interno e, di conseguenza, il tempo stringe per Amaia.

La spiegazione del finale: Amaia viene catturata dall’ETA? Sopravvive?

Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness) film netflix

Nella sequenza finale di Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness), Amaia rischia di essere scoperta come la talpa che ha creato problemi all’ETA fin dall’inizio. Dopo una lunga indagine all’interno dei propri ranghi, Anboto scopre che la protagonista, che lavora come autista del gruppo terroristico, ha fornito informazioni alla Guardia Civile spagnola. Questa rivelazione richiede un’azione immediata e Anboto invia uno dei suoi mercenari per portare a termine il lavoro con il pretesto di un nuovo incarico di guida. Tuttavia, ciò che salva la vita di Amaia in questo scenario quasi fatale è il sistema prestabilito di codici di avvertimento ideato dal colonnello Sanchez, il suo capo e responsabile. In una scena precedente, aveva spiegato che la canzone italiana “Parole Parole” sarebbe stata trasmessa alla fine del programma radiofonico mattutino se la copertura di Amaia fosse stata scoperta. Quando arriva il momento della verità, Sanchez anticipa i tempi e trasmette la canzone nel bel mezzo del programma radiofonico, causando un’interruzione della comunicazione. Pensando rapidamente, fa seguire la versione francese della canzone trasmessa da una radio locale, allertando Amaia.

L’arrivo del mercenario coincide con il momento in cui Amaia sente la canzone e si rende conto della gravità della sua situazione. A quel punto, le sue opzioni si riducono sempre più, costringendola a fuggire di nascosto dalla casa e a correre a perdifiato verso la foresta. Quando il suo avversario se ne accorge, è già troppo tardi. Mentre Amaia corre attraverso la fitta vegetazione, la canzone aiuta a collegare diverse altre scene, trasformando la sequenza in un ricordo di tutto ciò che la protagonista ha sopportato. Dopo una corsa estenuante che spinge Amaia al limite, lei finalmente raggiunge di nuovo la strada e si ferma per riprendere fiato. La distanza che si è creata tra lei e l’ETA, insieme ai loro mezzi di trasporto limitati, indica che Amaia è ora libera, con la possibilità di tornare in Spagna che diventa sempre più credibile.

Mentre il colonnello Sanchez promette di catturare Amaia, l’incertezza della sua futura posizione nella Guardia Civil rende più ambigua la traiettoria della protagonista. È probabile che lei riesca ad arrivare al confine e ottenga l’aiuto della polizia spagnola e francese, potenzialmente allertandole su altri segreti che l’ETA custodisce al suo interno. Con il suo ritorno imminente, Amaia è destinata a tornare alle sue perenni domande sull’identità, questa volta con un passato inquietante ad esse legato. In una scena precedente, rivela la sua persistente solitudine e il suo desiderio di stringere nuove amicizie e riaccendere vecchi legami. Anche se la fine della sua operazione sotto copertura le offre la possibilità di fare tutto questo, il bagaglio emotivo e psicologico che ne deriva rende le cose ancora più complicate. Il fatto che Amaia continui a far parte della Guardia Civile o metta in discussione i metodi duri che spesso impiegano dipende interamente dalle trasformazioni che ha subito nel corso degli anni.

L’ETA cade? Anboto e Dagoki vengono arrestati?

Il fatto che Amaia riesca probabilmente a sfuggire alla loro presa è uno dei tanti colpi devastanti per l’ETA, che ne segnano l’imminente caduta. Nelle schede informative che seguono la scena finale, apprendiamo che la missione segreta, chiamata “Operazione Mayhem”, ha svolto un ruolo fondamentale nel portare alla luce molte delle debolezze dell’organizzazione terroristica. In particolare, le sue informazioni sulla posizione dei nascondigli dell’ETA privano il gruppo di gran parte della sua capacità offensiva. Questo processo di indebolimento è accelerato dall’arresto di diversi pianificatori e dirigenti di alto livello all’interno dell’ETA. Il conseguente colpo ai loro numeri e alla loro logistica diventa un fattore determinante nella loro caduta finale, come confermano le schede informative. Anche se non ci viene mostrato il momento esatto in cui l’ETA crolla o viene sconfitta dalle forze di polizia, la traiettoria stabilita supporta questa idea.

L’imminente sconfitta dell’ETA è esemplificata dall’arresto di Anboto e Dagoki, due dei leader e principali ideatori del gruppo terroristico, che vengono catturati in rapida successione. La sequenza si svolge parallelamente alla fuga di Amaia, legando narrativamente i due eventi. All’inizio del film, Sanchez rivela il suo piano di intercettare prima o poi la casa di Anboto, e lo sforzo di salvare la vita della protagonista probabilmente gioca un ruolo in questa rapida missione. Con le menti dell’ETA ora dietro le sbarre, il gruppo è sbilanciato e questi disordini interni portano a ulteriori conflitti esterni, non solo nei Paesi Baschi ma in molte parti d’Europa e oltre. Tuttavia, l’arresto di Anboto ha anche una dimensione microscopica, poiché sconvolge l’intero caso che il leader terrorista aveva costruito contro Amaia. Ritenendola troppo perfetta, Anboto ha tenuto costantemente d’occhio la protagonista, ma con l’arresto del primo, quella dinamica contorta giunge a una conclusione fuori dallo schermo.

Cosa succede al colonnello Sanchez? Viene processato per tortura?

Mentre il colonnello Sanchez ha aperto la strada al lavoro di Amaia come poliziotta e agente sotto copertura, la sua stessa consapevolezza di produrre informazioni viene messa in discussione. In particolare, un episodio del suo passato torna alla ribalta quando Sanchez viene a sapere di essere processato per tortura e abuso. In precedenza nel film, viene mostrato che la vasta conoscenza di Sanchez sui meccanismi interni dell’ETA deriva dal fatto che ha catturato uno dei suoi leader più importanti, Joseba Landaburu. Sua moglie conferma in seguito che le torture inflittegli sono state la potenziale ragione del suo suicidio. In questo modo, le accuse contro Sanchez chiudono il cerchio della storia, offrendo una critica equilibrata alla dimostrazione di atti disumani su tutta la linea. Tuttavia, dopo questa rivelazione, non abbiamo modo di conoscere la vita interiore e le lotte di Sanchez, il che rende il suo destino in qualche modo ambiguo.

Poiché Fantasmi di guerra (She Walks in Darkness) si conclude con Sanchez che mette sotto controllo alcuni dei membri e dei nascondigli più importanti dell’ETA, c’è una forte possibilità che le accuse contro di lui vengano ritirate alla luce dei suoi successi. Tuttavia, dato che ciò va contro i principi narrativi del film, una conclusione del genere è improbabile. Ha invece più senso che l’arresto dei terroristi sia un momento di chiusura per il colonnello, che porta al suo processo per tortura come conseguenza delle misure contorte intraprese. Ciò che rende la situazione più complessa è il suo innegabile amore per la sua nazione, ma ciò non giustifica né scusa gli orribili atti di violenza che compie sui prigionieri come Joseba per ottenere informazioni. In quanto tale, la conclusione del colonnello rappresenta un momento di riflessione che si applica alla storia più ampia, comprese le decisioni di Amaia.

La scioccante storia vera dietro al film documentario Netflix The Perfect Neighbor

The Perfect Neighbor, disponibile su Netflix dal 17 ottobre, è un documentario su una donna bianca della Florida che nel 2023 ha sparato e ucciso la sua vicina, una madre nera di quattro figli, ricostruito utilizzando le riprese delle telecamere indossate dagli agenti di polizia.

Non ci sono interviste, solo due anni di registrazioni delle interazioni della polizia con la responsabile della sparatoria, la sessantenne Susan Lorincz, che spesso si lamentava dei rumori causati dai bambini del quartiere mentre giocavano in un terreno libero vicino alla sua casa di Ocala, in Florida, e filmati delle telecamere indossate dagli agenti durante le interviste ai vicini. Nel 2024, Lorincz è stata giudicata colpevole di omicidio colposo con arma da fuoco e sta ora scontando una pena detentiva di 25 anni.

Ecco come una disputa tra vicini si è trasformata in una tragedia mortale.

Una vicina “spaventata”

Lorincz ha chiamato ripetutamente la polizia per segnalare dei bambini rumorosi del quartiere che, secondo lei, stavano “violando la sua proprietà”, urlandole continuamente contro, dicendole di stare zitta e minacciando di ucciderla. Lorincz diceva alla polizia che era stata aggredita e che “temeva per la sua vita”. Nel film, gli spettatori vedranno le registrazioni che lei faceva dei bambini che giocavano per poterle mostrare alla polizia. Il titolo del film, The Perfect Neighbor (Il vicino perfetto), deriva da un commento fatto da Lorincz alla polizia: “Sono come il vicino perfetto”.

Il filmato rivela che gli agenti hanno ripetutamente risposto con scetticismo alle chiamate di Lorincz perché era l’unica residente a presentare queste lamentele. I bambini non stavano tecnicamente giocando nella proprietà della Lorincz, ma nel giardino del suo vicino di casa. Quest’ultimo li incoraggiava a venire da lui e insegnava loro a giocare a calcio. La Lorincz aveva chiesto al suo padrone di casa di mettere un cartello con la scritta “vietato l’accesso” sul suo prato per dividere l’area tra la sua proprietà e il giardino del vicino.

I vicini hanno affermato che la Lorincz urlava parolacce ai loro figli e si sono sentiti disturbati nell’apprendere che lei li stava registrando. I bambini hanno detto alla polizia che stavano solo giocando a nascondino nel terreno e che la Lorincz li molestava, insultandoli e brandendo un ombrello o una pistola contro di loro.

Una volta, i bambini hanno detto che lei aveva persino lanciato loro dei pattini a rotelle, anche se la Lorincz sostiene di aver restituito un paio di pattini lasciati sul suo prato. Dicono che la Lorincz li abbia accusati di aver cercato di rubare il suo furgone. “Abbiamo 11 anni!”, si sente dire uno dei bambini nel documentario. Hanno soprannominato la Lorincz “Karen”, slang che indica donne bianche di mezza età arrabbiate che possono essere razziste nelle loro lamentele.

Dalle telefonate alla tragedia

Il film è incentrato su un incidente avvenuto il 2 giugno 2023, quando Lorincz ha affermato che dei ragazzi stavano violando la sua proprietà e, quando lei ha detto loro di andarsene, hanno risposto che avrebbero chiamato la madre. Lorincz ha chiamato la polizia e un operatore ha detto che gli agenti sarebbero arrivati a breve.

Poi Lorincz sostiene di essere stata dentro casa sua quando Ajike Owens, una manager di McDonald’s che viveva nel suo quartiere, si è presentata e ha iniziato a bussare alla sua porta. Così ha preso una pistola e ha sparato attraverso la porta, senza rendersi conto che il figlio di Owens era proprio accanto a lei. “Pensavo che mi avrebbe ucciso”, ha detto Lorincz alla polizia, insistendo ripetutamente che non si è trattato di un atto intenzionale e premeditato. Quando la polizia le ha dato la possibilità di scrivere una lettera di scuse dopo essere stata interrogata, lei ha accettato l’offerta, scusandosi con i bambini e spiegando che aveva “agito per paura”, temendo che la loro madre la avrebbe uccisa.

Le leggi della Florida “Stand Your Ground” consentono l’uso della forza letale se sussiste un presunto stato di paura. Gli omicidi che coinvolgono tiratori bianchi e vittime di colore sono più facilmente giudicati giustificabili rispetto a quelli che coinvolgono tiratori di colore e vittime bianche. Il caso più famoso è quello di George Zimmerman, un uomo bianco che nel 2013 è stato assolto per aver sparato a Trayvon Martin, un ragazzo di colore di 17 anni disarmato.

Tuttavia, nel filmato dell’interrogatorio della polizia a Lorincz, gli investigatori dicono di non capire perché abbia estratto una pistola solo due minuti dopo che un operatore del 911 aveva detto che la polizia stava arrivando sul posto. Come ha detto uno di loro, “le decisioni che prendi non sono ragionevoli”. Durante la sentenza del 2024, il giudice che presiedeva ha sostenuto che Lorincz ha agito più per rabbia che per paura.

Il documentario presenta alcuni frammenti della copertura televisiva nazionale del caso. Lorincz e il reverendo Al Sharpton hanno persino tenuto l’elogio funebre al funerale della Owens, lodando le sue azioni e rivolgendosi direttamente ai suoi figli: “Se lei avesse permesso alle persone di umiliarvi, sareste cresciuti con la sensazione di essere qualcosa che può essere umiliato”.

Il messaggio da trarre da The Perfect Neighbor

“Se non testimoniamo crimini come questo, se distogliamo lo sguardo, se non li portiamo alla luce, continueranno a rimanere nell’ombra”, dice la regista Geeta Gandbhir a TIME.

Esaminando due anni di filmati delle telecamere indossate dai poliziotti, Gandbhir sperava di trasformare uno strumento destinato a proteggere la polizia in uno strumento che ne smascherasse i difetti.

Gandbhir, la cui famiglia era vicina agli Owens, si chiede perché la polizia non abbia chiamato un assistente sociale o un altro tipo di mediatore per placare la situazione.

E pensa che la polizia avrebbe dovuto intervenire prima contro Lorincz, vista la presenza di armi nella sua casa e le numerose chiamate ai servizi di emergenza per situazioni non urgenti.

“La polizia non deve necessariamente arrivare sparando e picchiando le persone per aver comunque deluso la comunità”, sostiene. “Se sei in grado di impugnare una pistola per risolvere una banale disputa con il tuo vicino, di cos’altro sei capace?”

The Diplomat – stagione 4: tutto quello che sappiamo

The Diplomat – stagione 4: tutto quello che sappiamo

Il cuore emotivo della serie imperdibile di Netflix The Diplomat è il rapporto appassionato e complicato tra l’ambasciatrice statunitense Kate Wyler (Keri Russell) e suo marito Hal (Rufus Sewell), un uomo dalla moralità discutibile. Alla fine della terza stagione, che ha mostrato sia l’inizio della coppia che la loro breve separazione (a seguito del nuovo ruolo di Hal come vicepresidente), Kate torna da suo marito e si impegna nuovamente come sua complice.

Ma questo prima che un grave tradimento che coinvolge la presidente Grace Penn (Allison Janney) cambi tutto. Con tutti gli episodi della terza stagione in uscita il 16 ottobre, gli spettatori potrebbero chiedersi se il rapporto tra Kate e Hal tornerà mai come prima (e, ovviamente, se la terza guerra mondiale sia alle porte). Di seguito, riportiamo tutto ciò che sappiamo finora sul futuro di The Diplomat. (Se state cercando un’analisi completa del finale della terza stagione di The Diplomat, abbiamo ciò che fa per voi).

La serie “The Diplomat” è stata rinnovata per la quarta stagione?

Sì! Netflix ha annunciato il rinnovo anticipato del thriller politico nel maggio 2025, cinque mesi prima dell’arrivo della terza stagione sulla piattaforma. La lieta notizia è stata rivelata durante la presentazione Upfront dello streamer a New York City, come riportato da Variety.

Potrebbe interessartiLa terza stagione di The Diplomat torna questo autunno con Kate Wyler che tiene d’occhio la presidente Grace PennAnalisi di tutti i colpi di scena del finale della terza stagione di The Diplomat, compresa la scioccante verità sul Poseidon“The Diplomat” torna con la terza stagione il mese prossimo: ecco cosa ricordare del cast stellare e dei loro legami con West Wing.

Quando uscirà la quarta stagione di The Diplomat?

Netflix non ha ancora annunciato una data di uscita per la quarta stagione di “The Diplomat”, dato che la terza stagione è appena arrivata, e al momento non si sa se la serie manterrà il suo ritmo annuale. Finora, The Diplomat è stata una delle rare serie Netflix a debuttare con una nuova stagione ogni anno, con la stagione 1 arrivata nell’aprile 2023, la stagione 2 nell’ottobre 2024 e la stagione 3 nell’ottobre 2025. Tuttavia, questo rapido ritorno ha richiesto un programma di produzione insolito, in cui le riprese della stagione 3 sono iniziate prima ancora che la stagione 2 fosse trasmessa.

Secondo What’s on Netflix, le riprese della quarta stagione inizieranno a novembre e potrebbero continuare fino all’estate del 2026. Poiché la serie richiede un paio di mesi per la post-produzione, è più probabile che la quarta stagione debutterà sulla piattaforma all’inizio del 2027 piuttosto che alla fine del 2026.

Quali membri del cast torneranno per la quarta stagione di The Diplomat?

Diplomat, preparatevi a vedere molto più spesso i Penn! Netflix ha rivelato che Allison Janney (la presidente Grace Penn) e Bradley Whitford (Todd Penn) sono stati promossi a personaggi fissi della quarta stagione. Dopo il finale sospeso della terza stagione e l’unica scena domestica carina che abbiamo visto con la coppia presidenziale, siamo entusiasti di vedere altri ex membri del West Wing!

Oltre a Janney e Whitford, si prevede che tutto il cast principale tornerà per la quarta stagione di The Diplomat, compresi Keri Russell (Kate Wyler), Rufus Sewell (Hal Wyler), Ato Essandoh (Stuart Hayford), Ali Ahn (Eidra Park), Nana Mensah (Billie Appiah), David Gyasi (Austin Dennison), Rory Kinnear (Nicol Trowbridge).

Nel frattempo, resta ancora da vedere se la star di Poldark Aidan Turner e l’ex protagonista di The Pitt Tracy Ifeachor torneranno nei loro ruoli rispettivamente di Callum Ellis e Thema.

Dennison (al centro a sinistra) presenta la sua nuova moglie Thema (Tracy Ifeachor, al centro a destra) agli americani. Nella foto, da sinistra: Todd Penn (Bradley Whitford), Grace, Hal e Kate.

Di cosa parlerà la quarta stagione di The Diplomat?

Presidente Grace in The Diplomat - Stagione 4
Clifton Prescod/Netflix

Il finale della terza stagione di The Diplomat si conclude con alcune manovre tutt’altro che diplomatiche da parte della minacciosa squadra composta dalla presidente degli Stati Uniti Grace Penn e dal vicepresidente Hal Wyler. Dopo che Trowbridge accetta il compromesso di Kate e decide di seppellire il Poseidon, un’arma russa “apocalittica” al largo delle coste inglesi, l’ambasciatrice euforica (che nell’episodio 7 ha capito di aver forse incolpato Hal per i propri problemi) dichiara di volersi unire a Hal a Washington per dare un’altra possibilità alla loro collaborazione. Poco dopo, Callum informa Kate che la testata è misteriosamente scomparsa. Basta qualche suggerimento paranoico da parte di Todd perché lei colleghi i puntini: Grace e Hal hanno rubato il Poseidon, il che farà sicuramente infuriare il Regno Unito e la Russia. Hal fa promettere a Kate di tenere la bocca chiusa, e gli spettatori rimangono a chiedersi cosa farà ora la nostra eroina tradita.

La delegazione statunitense, da sinistra: Billie Appiah (Nana Mensah), la presidente Grace e il vicepresidente Hal.

Parlando con Tudum, la creatrice Deborah Cahn è stata piuttosto minacciosa mentre anticipava cosa succederà nella serie. Alla domanda se gli spettatori dovrebbero preoccuparsi per ciò che accadrà, ha risposto: “Dovrebbero essere preoccupati. Ci sono molti motivi per preoccuparsi… Hal e Grace stanno giocando con il fuoco nella casa di qualcun altro. Le ripercussioni non si limiteranno all’America, ma si estenderanno anche ad altri paesi. Questo renderà davvero infelici molte persone”.

Sulla base di ciò, sembra che la quarta stagione seguirà Kate mentre affronta sia il tradimento etico di Hal sia la prospettiva che due elementi incontrollabili stiano governando l’America. (Ricordiamo che Grace era dietro l’esplosione dell’HMS Courageous e Hal è, beh, Hal). “[Loro] sono due persone davvero potenti e dinamiche che si alimentano a vicenda con la loro intelligenza e intensità”, ha aggiunto Cahn. “Quando due persone premono l’acceleratore contemporaneamente e nessuno ha il piede sul freno, è spaventoso”.

Gli sporcelli (The Twits), spiegazione del finale: cosa è successo al signor e alla signora Twit?

Il nuovo film d’animazione di Netflix Gli sporcelli (The Twits)è una divertente commedia d’avventura incentrata sulle persone “più cattive, più disgustose e più puzzolenti” del mondo, il signor e la signora Twit. Odiavano tutti e tutto, specialmente l’un l’altro. Erano sposati da 47 anni e trascorrevano la maggior parte delle loro giornate a prendersi in giro a vicenda. Era diventato il loro linguaggio d’amore e provavano piacere nell’intrattenersi con stupidi scherzi. Un giorno, hanno pensato di dedicare tutte le loro energie e la loro intelligenza alla costruzione di un parco divertimenti. E così, hanno inaugurato Twitlandia, il “parco divertimenti più disgustoso, più pericoloso e più idiota” con bagni chimici, materassi usati e altra spazzatura. Erano sicuri che avrebbero guadagnato bene, ma sfortunatamente il parco è stato chiuso subito dopo la messa in onda degli spot promozionali in televisione. Così, quando due bambini, Beesha e Bubsy, arrivarono per esplorare il parco, i Twits si sentirono pieni di speranza.

Come fece Beesha a smascherare i Twits?

Dopo che la polizia ha chiuso a tempo indeterminato il loro parco divertimenti, i Twits hanno deciso di escogitare un piano per punire la città. Hanno rubato un camion che trasportava carne liquida per hot dog, hanno caricato la carne nel serbatoio dell’acqua e l’hanno fatta esplodere. La città di Triperot è stata invasa da un’alluvione di carne liquida per hot dog e la gente comune era furiosa. Il sindaco, Wayne John John-John, era un inutile idiota che ha sfruttato l’attenzione dei media per chiedere voti nelle imminenti elezioni. L’intera vicenda ebbe un effetto tremendo su Bubsy. Stava per essere adottato, ma la coppia rifiutò di prenderlo dopo aver scoperto che aveva bevuto acqua contaminata. Beesha, che era diventata la sorella maggiore di Bubsy all’orfanotrofio, si sentì malissimo, quindi decise che i responsabili dell’inondazione dovevano essere puniti. Beesha e Bubsy arrivarono a Twitlandia e notarono il camioncino della carne liquida per hot dog parcheggiato fuori dalla loro residenza.

La coppia ammise con orgoglio il crimine che aveva commesso e Beesha usò una telecamera nascosta per registrare la loro confessione. Mentre lasciavano Twitlandia, i bambini notarono tre strane creature rinchiuse in una gabbia. Erano i Muggle-Wumps, che la coppia di astuti ladri aveva rubato da Loompaland, una terra magica piena di strane bestie. All’inizio Beesha e Bubsy non capivano la lingua dei Muggle-Wumps, ma gradualmente capirono cosa stavano cercando di comunicare. La narratrice della storia (Pippa, una cavalletta, racconta la storia dei Twits a suo figlio) dice al pubblico che i bambini estremamente empatici sono in grado di capire gli animali. Beesha e Bubsy erano determinati a salvare i Muggle-Wumps, quindi dovevano trovare la chiave della gabbia. Dopo che i canali di informazione hanno mandato in onda il video della confessione registrato da Beesha, i Twits sono stati arrestati e i bambini hanno finalmente avuto la possibilità di entrare nella loro casa e trovare le chiavi. Ma, a quanto pare, il signor Twit portava le chiavi al collo.

Come sono diventati famosi Gli sporcelli (The Twits)?

Nel frattempo, i Twits avevano guadagnato un discreto seguito dopo aver affermato di aver scoperto la formula per rendere Triperot di nuovo grande (capite cosa intendo). Le famiglie a basso reddito e della classe media avevano difficoltà ad arrivare a fine mese dopo che la città aveva smesso di attrarre turisti. Triperot era un tempo conosciuta come la capitale mondiale del divertimento, ma dopo che il lago Tripe si era prosciugato (a causa dell’inquinamento), il numero di turisti aveva iniziato a diminuire. Di conseguenza, le attività commerciali avevano chiuso e la disoccupazione era in aumento. La gente aveva bisogno di qualcosa/qualcuno in cui credere, e i bugiardi e intriganti signori Twit erano diventati la loro unica speranza.

Anche se Twitlandia era un cumulo di spazzatura, erano convinti che se il parco divertimenti fosse stato autorizzato ad aprire, la città si sarebbe sviluppata e le loro vite sarebbero cambiate drasticamente. Queste persone pagarono la cauzione per il signor e la signora Twit e, non appena furono rilasciati, i Twit capirono (come veri politici) che potevano facilmente giocare con le emozioni del pubblico, fare false promesse che non avevano alcuna intenzione di mantenere e estorcere loro denaro. Chiesero ai loro sostenitori di pagare loro 1000 dollari e, in cambio, avrebbero guadagnato un miliardo dopo il successo del parco divertimenti. Dopo che i Twits tornarono a casa, Beesha e Bubsy riuscirono a rubare le chiavi e salvarono la famiglia Muggle-Wump.

Come hanno fatto i Twits a vincere le elezioni?

I Twits erano disperati di riavere le creature magiche, poiché usavano le loro lacrime come carburante per far funzionare il parco. Una volta capito che avrebbero avuto l’autorità di entrare nell’orfanotrofio di Beesha e Bubsy solo se fossero diventati sindaci, decisero di candidarsi alle elezioni. Come previsto, ricorsero a mezzi sleali e prepararono una torta con sostanze tossiche per il sindaco Wayne John John-John. Durante un dibattito televisivo, il sindaco mangiò la torta e, beh, il suo sedere esplose in pubblico! I Twits avevano raccolto un buon numero di sostenitori che li seguivano ciecamente ed erano pronti a fare qualsiasi cosa chiedessero nella speranza che un giorno le loro vite sarebbero migliorate. Beesha si sentiva senza speranza, soprattutto dopo aver visto gli adulti incolpare lei per la chiusura di Twitlandia, l’unica soluzione a tutti i loro problemi. Nel frattempo, poiché il sindaco Wayne John John-John era stato ricoverato in ospedale per un intervento chirurgico di sostituzione del sedere, il signor e la signora Twit furono dichiarati sindaci di Triperot.

Come hanno ingannato Beesha i Twits?

Beesha aveva deciso di sorvegliare l’orfanotrofio di notte, poiché i Twits avevano espresso la loro disperazione nel voler riavere la famiglia Muggle-Wump. Quando ricevette una telefonata dal signor Napkin, responsabile della sorveglianza dell’orfanotrofio, che le diceva che i suoi genitori erano tornati e volevano riportarla a casa, Beesha si emozionò. Abbandonò la sua postazione fuori dall’orfanotrofio e si recò alla pista da bowling dove le era stato chiesto di incontrare i suoi genitori. Ben presto scoprì che si trattava di una trappola. Il signor Twit aveva usato un dispositivo per modificare la voce per imitare quella del signor Napkin e attirare Beesha alla pista da bowling. Beesha si sentì in imbarazzo; si odiava per essere stata così ingenua. Beesha riuscì a liberarsi, ma quando raggiunse l’orfanotrofio, tutto era sparito.

I Twit avevano rubato l’orfanotrofio (i loro sostenitori avevano letteralmente sollevato l’edificio e lo avevano portato a Twitlandia), lasciando solo il rospo Sweet-Toed. Lui le spiegò cosa era successo e, quando sentì Beesha incolpare se stessa, le ricordò che la sua famiglia aveva bisogno di lei. Il cuore di Beesha si spezzò quando sentì la parola “famiglia”; i suoi genitori l’avevano lasciata all’orfanotrofio e per tutti questi anni aveva sperato che tornassero a prenderla per portarla a casa. Stava lentamente accettando il fatto che forse non sarebbero mai tornati, e questo era piuttosto devastante per lei. Il rospo conosceva la sua storia, ma credeva che lei avesse già una famiglia che l’amava immensamente. Anche se non erano legati da vincoli di sangue, l’amore che condividevano era sufficiente perché lei li considerasse la sua famiglia. Beesha si rese conto che il rospo aveva ragione e che, invece di sentirsi triste per ciò che non aveva, doveva concentrarsi sulla protezione di coloro che le stavano accanto.

Cosa spinse i Twits a confessare la verità?

Beesha e il rospo dai piedi dolci hanno interrotto la festa di inaugurazione a Twitlandia. Quando i Twits sono saliti sul palco, il rospo è intervenuto e, come era già stato stabilito, se si bacia il piede del rospo, si diventa il proprio opposto. I Twits, in questo caso, sono diventati onesti e amorevoli. Hanno confessato di aver mentito ai loro sostenitori e di aver usato tutti i soldi che avevano contribuito per i fuochi d’artificio. I loro sostenitori erano furiosi, ma prima ancora che potessero reagire, i Twits hanno lanciato una dozzina di fuochi d’artificio che hanno finito per distruggere il parco divertimenti. Beesha era riuscita a liberare i Muggle-Wumps e tutti i suoi amici dall’orfanotrofio. Proprio mentre stavano per andarsene, Beesha si rese conto che i Twits sarebbero sempre stati una minaccia nella loro vita. Piuttosto che fuggire, decise che doveva affrontarli una volta per tutte.

Durante il finale di Gli sporcelli (The Twits), Beesha e i suoi amici si intrufolarono nella casa dei Twits e la ridecorarono per farla sembrare capovolta. Mentre la coppia stava per entrare in casa, due bambini versarono della colla sulle loro teste senza che loro si rendessero conto di cosa stesse succedendo. I Twits erano ancora un po’ intontiti dopo l’effetto magico del rospo. Quando hanno visto che la loro casa era sottosopra, hanno pensato che se si fossero messi a testa in giù, tutto sarebbe andato bene. Non appena si sono messi a testa in giù, sono rimasti incollati al pavimento. Beesha e i suoi amici hanno finalmente ottenuto la vendetta che desideravano e lei ha creduto che il mondo sarebbe stato un posto molto migliore senza i Twits.

Perché Beesha e Bubsy hanno liberato Gli sporcelli (The Twits)?

Dopo essere tornati all’orfanotrofio, si chiesero cosa sarebbe successo ai Twits. Beesha e Bubsy pensarono che forse avrebbero subito il temuto restringimento: i loro corpi si sarebbero rimpiccioliti fino a scomparire del tutto. Mentre ridevano e festeggiavano la loro vittoria, Beesha e Bubsy si resero improvvisamente conto che non riuscivano più a capire cosa dicessero i Muggle-Wumps. Poiché non erano riusciti a mostrare empatia verso i Twits, avevano perso il potere di comunicare con gli animali. I bambini capirono che invece di cercare vendetta e vivere nell’odio, dovevano sempre scegliere il perdono, anche quando non era facile. Tornarono a casa dei Twits e li liberarono. Ma ovviamente il loro grande gesto non ebbe alcun effetto sui Twits. Non appena furono liberati, tentarono di attaccare Beesha e Bubsy!

Dove finirono il signor e la signora Twit?

Il signor Napkin riuscì a riportare l’orfanotrofio nella sua posizione originale; le occasionali leccate di dita di rospo contribuirono ad aumentare la sua fiducia. I Muggle-Wumps vendettero la loro formula per le lacrime a una multinazionale, ponendo fine alla dipendenza mondiale dai combustibili fossili. I Muggle-Wumps guadagnarono MOLTI soldi e ne usarono una parte per acquistare l’orfanotrofio e adottare Bessha, Bubsy e tutti gli altri bambini. Vissero insieme come una grande famiglia! Il signor Napkin fu anche assunto come au pair part-time.

Nel frattempo, Beesha fu premiata per i suoi sforzi nel liberare la città dai Twits, e la sua idea di riempire il lago Tripe con florbnorbles (i batuffoli di cotone che Marty Muggle-Wump rilasciava ogni volta che era ansioso) ebbe un grande successo, attirando turisti e rendendo Triperot nuovamente la capitale mondiale del divertimento! Ma i Twits non fecero alcun sforzo per cambiare; cercarono invece di trovare una soluzione per sbarazzarsi degli effetti collaterali dei Dreaded Shrinks.

Decisero di appendersi a un gruppo di palloncini e finirono per fluttuare in giro per il mondo e atterrare a Loompaland, dove furono immediatamente accolti da una varietà di bestie. Sembra che gli Gli sporcelli (The Twits) impareranno finalmente che bisogna pagare un prezzo pesante per aver causato problemi! Il finale conferma anche che Pippa e suo figlio vivevano nella barba del signor Twit e, nel momento in cui lui è partito con il pallone aerostatico, madre e figlio sono finalmente riusciti a fuggire!

Daredevil: Rinascita – Stagione 2: rivelata la data di uscita!

0
Daredevil: Rinascita – Stagione 2: rivelata la data di uscita!

Disney+ ha ufficialmente rivelato la data di uscita della seconda stagione di Daredevil: Rinascita. Daredevil: Rinascita ha segnato il trionfale ritorno in TV di Matt Murdock, interpretato da Charlie Cox, dopo l’ingiusta cancellazione di Daredevil e dei suoi compagni Defenders su Netflix nel 2018. Sebbene la serie rinnovata abbia incontrato alcuni ostacoli durante la produzione, la prima stagione di Daredevil: Rinascita si è rivelata una delle storie più sanguinose del Marvel Cinematic Universe.

Ora, Daredevil e i suoi alleati si preparano alla battaglia della loro vita contro le forze anti-vigilanti del sindaco Fisk (Vincent D’Onofrio), con la seconda stagione in anteprima su Disney+ il 4 marzo 2026, esattamente un anno dopo il debutto della prima stagione. Sebbene si vociferasse già da tempo di una data di uscita all’inizio di marzo, la notizia è stata ora pubblicata sul sito stampa Disney Daredevil: Rinascita.

La data di uscita ufficiale significa che Daredevil: Rinascita – stagione 2 sarà la seconda serie Disney+ MCU a debuttare il prossimo anno. Wonder Man di Yahya Abdul-Mateen II, originariamente previsto per dicembre, è stato posticipato al 27 gennaio. Anche VisionQuest di Paul Bettany è previsto per il 2026, anche se la data esatta di uscita non è ancora stata rivelata.

La seconda stagione di Daredevil: Rinascita sarà composta da otto episodi, con altri in arrivo nella terza stagione già confermata.

Cox sarà affiancato dalla collega Netflix Defender Jessica Jones, con Krysten Ritter che tornerà ufficialmente nei panni della detective privata lunatica e dai superpoteri. Torneranno anche Karen Page di Deborah Ann Woll, che avrà un ruolo più significativo in questa stagione, Punisher di Jon Bernthal, Fisk di Vincent D’Onofrio e persino Foggy Nelson di Elden Henson, ucciso a colpi di pistola nel traumatico episodio pilota di Daredevil: Rinascita.

Mentre la prima stagione di Daredevil: Rinascita è stata meticolosamente assemblata da diverse produzioni e sceneggiature – cosa particolarmente evidente nell’episodio divertente ma un po’ irrilevante in cui Matt incontra il padre di Ms. Marvel durante una rapina in banca – la prossima stagione è stata libera di costruire il suo arco narrativo da zero. Il produttore esecutivo Jesse Wigutow ha recentemente rivelato che la seconda stagione ha una “chiarezza di visione”, poiché la rabbia di Fisk minaccia l’intera città preferita di Matt Murdock.

“Penso che ciò che interessa alle persone siano questi due personaggi e il conflitto in cui sono coinvolti, quanto profondamente si odiano e quanto profondamente hanno bisogno l’uno dell’altro”, ha spiegato Wigutow.

Il potere e l’influenza di Fisk possono essere enormi, ma Matt Murdock può davvero perdere, con Jessica Jones e gli altri suoi alleati al suo fianco? (Ricordate, anche altri due Defenders potrebbero potenzialmente presentarsi per aiutare a salvare la situazione). Lo scopriremo presto, quando la seconda stagione di Daredevil: Born Again debutterà il prossimo anno.

Daredevil: Rinascita uscirà il 4 marzo 2026, in esclusiva su Disney+.

Anemone, la spiegazione del finale: il passato traumatico di Ray

Anemone, la spiegazione del finale: il passato traumatico di Ray

Anemone è un ritorno straziante per Daniel Day-Lewis, con il dramma irlandese che culmina in un finale tranquillo ma potente. Diretto da Ronan Day-Lewis, Anemone segna il ritorno di Daniel Day-Lewis al mondo della recitazione dopo il suo ritiro dal campo nel 2017. È una performance impressionante che lo ha catapultato nella corsa alla stagione dei premi.

Anemone è un film prevalentemente meditativo, con pochi personaggi e un arco emotivo tragico. Con Ray che vive in isolamento da anni, gran parte del film è costruito sulla curiosità di Jem, la cupa accettazione di Nessa e la rabbia di Brian per la decisione di lasciare la sua famiglia. Il motivo per cui Ray se n’è andato è straziante e ripaga i temi e le immagini del film.

Perché Ray è rimasto solo per così tanto tempo

L’isolamento di Ray in Anemone è stato causato dal suo dolore e dal suo rimpianto, con il trauma delle sue azioni durante i Troubles in Irlanda che alla fine lo hanno spinto ai margini della società. Per gran parte di Anemone, non è chiaro esattamente perché Ray abbia abbandonato sua moglie Nessa e il loro figlio Brian.

Ray si scontra e si lega in egual misura a suo fratello Jem quando questi viene a cercarlo, sperando che Ray possa incontrare suo figlio per rimediare al suo comportamento dopo aver brutalmente picchiato un altro giovane. Per gran parte del film, Ray ignora le richieste di Jem e rifiuta di leggere la lettera che Nessa gli ha inviato, implorandolo di tornare.

Una notte, Ray rivela qualcosa in più su ciò che lo ha allontanato da Nessa e da tutti gli altri: raccontando il suo periodo come soldato durante i Troubles, Ray rivela che l’indagine del suo plotone su un fabbricante di bombe per l’IRA si è conclusa quando l’uomo e il suo apprendista sono rimasti feriti mortalmente in un’esplosione accidentale.

Esaminando le rovine dell’edificio, Ray ha trovato l’apprendista in fin di vita. Ritenendo che il giovane fosse ferito mortalmente e non avesse alcuna possibilità di essere evacuato in tempo in ospedale per salvarlo, Ray gli sparò per porre fine alle sue sofferenze. Tuttavia, poiché all’epoca era disarmato, questo è considerato un crimine di guerra.

Ray rimase incredibilmente scosso dall’esperienza, che fu solo esacerbata quando i suoi ufficiali superiori cercarono di aiutarlo a insabbiare l’incidente. Ray abbandonò la società, apparentemente avendo perso la fiducia nell’umanità. In particolare, Ray rivela che con il passare del tempo non riesce a ricordare la sua esatta motivazione per aver ucciso l’apprendista.

Mentre spiega in lacrime, Ray ricorda di aver guardato il ragazzo morente e di aver incrociato il suo sguardo pieno di odio. Tuttavia, non riesce a ricordare nello specifico il suo stato emotivo in quel momento. Sembra che, nel suo senso di colpa, Ray non riesca a ricordare se abbia sparato al giovane per pietà, necessità, crudeltà o semplicemente perché sì. Questo tormenta Ray e lo ha allontanato dalle altre persone.

Il vero significato di The Hail Storm

La notte dopo che Ray si è confidato con Jem riguardo al suo tumulto interiore, scoppia una grandinata davvero violenta. Questa grandinata, accennata sottilmente all’inizio del film attraverso indizi su una tempesta invernale in arrivo, rappresenta le sfide travolgenti che possono improvvisamente schiacciare le persone.

Enormi chicchi di grandine cadono sulla città vicina, lasciando i residenti locali come Nessa e Brian a guardare con stupore la portata del fenomeno. Dopo aver scoperto una misteriosa creatura che sembra fatta d’acqua (essa stessa apparentemente una metafora del mondo naturale di solitudine che si è creato), Ray attacca Jem.

Prima che Jem possa andarsene, la grandinata si intensifica e costringe i due uomini a rifugiarsi nella casa di Ray. È un momento improvviso che spazza via il conflitto che era esploso tra loro. Questo legame con la misteriosa bestia acquatica sembra confermato quando, la mattina seguente, Ray trova un enorme pesce che galleggia a valle dopo essere stato ucciso dalla tempesta.

Questo suggerisce che il significato della tempesta è quello di rafforzare l’importanza dei legami. Ray potrebbe aver trovato la bellezza solo nella natura selvaggia, lontano dall’umanità che ha scatenato un conflitto in cui ha perso la sua umanità. Tuttavia, senza di essa, un giorno sarebbe stato proprio come il pesce nel fiume.

Nonostante tutta la sua forza e indipendenza, Ray sarebbe stato solo un altro corpo che galleggiava. Non sarebbe stato altro che un mostro morto, la sua umanità ignorata da una città e da una famiglia che non lo conoscevano più. È un momento emotivamente intenso, che porta Ray ad accettare la richiesta di Jem e a tornare a casa con lui per incontrare Brian.

Il vero significato di Anemone

anemone film

Anemone è una storia dolorosamente incentrata sui personaggi che evidenzia quanto le relazioni umane siano cruciali per la sopravvivenza. Brian è sempre più furioso per la mancanza di legame con suo padre, anche se finisce per litigare per difenderlo. La sua amica Hattie gli tende la mano, creando uno dei pochi momenti di sincera empatia di Brian nel film.

Nessa può anche avere il cuore spezzato, ma continua a sperare che un giorno lui possa venire a conoscere loro figlio. È anche circondata da altre persone quando arriva la grandinata, triste ma tenace. La fede di Jem in Dio è una parte importante del suo carattere, soprattutto per come influisce sulle sue interazioni con qualcuno come Ray, che è profano. Tuttavia, Jem non perde mai la speranza per lui.

Per Ray, l’arco emotivo del film consiste nel riconoscere che la sua umanità non è stata abbandonata da lui. Potrà anche aver commesso un atto terribile che lo ha spinto ai margini della società, ma è ancora tormentato dal ricordo perché è ancora dolorosamente umano. Questa consapevolezza è ciò che lo porta finalmente a incontrare Brian.

Sebbene la loro prima conversazione non venga mostrata, è evidente che Ray mostra un momento di vulnerabilità quando vede Brian. È calmo come non lo era mai stato prima, quasi in pace, vedendo un nuovo giovane. Non è una coincidenza che Brian abbia più o meno l’età dell’adolescente ucciso da Ray e che anche lui stia valutando la possibilità di arruolarsi nell’esercito.

Per molti versi, Brian è sulla strada per diventare come Ray. Il ritorno di Ray promette almeno una possibilità di rafforzare l’umanità di entrambi. Anche se il pubblico potrebbe non sapere dove andrà a finire, Anemone parla dell’innegabile umanità che continua a vivere, anche dopo un trauma, un abbandono e un lutto.

Couture, recensione del film con Angelina Jolie – #RoFF20

Couture, recensione del film con Angelina Jolie – #RoFF20

Couture, diretto da Alice Winocour, racconta una storia al femminile ambientata nel mondo della moda parigina, dove la bellezza diventa pretesto per parlare di fragilità, sogni e resistenza.

Il titolo stesso suggerisce la chiave di lettura del film: secondo l’Oxford Dictionary, “couture” indica “l’arte della moda; ogni attività estetica e commerciale connessa con la moda femminile ad alto livello”. E proprio in questa definizione si inserisce la trama, in cui la moda è cornice e metafora di un racconto più profondo.

Tre donne guidano la narrazione: Maxine (Angelina Jolie), regista americana giunta a Parigi per dirigere un corto destinato a introdurre una sfilata; Ada (Anyier Anei), modella sud-sudanese scelta come protagonista del film e della passerella; e Angèle (Ella Rumpf), make-up artist che, dietro le quinte, si prende cura delle modelle e sogna di dare voce alle loro vite attraverso le pagine di un libro.

Le tre protagoniste si incontrano e intrecciano i loro destini durante la settimana della moda, dando vita a un mosaico di esperienze che esplora il confine tra finzione e realtà, immagine e identità.

Donne, lavoro e visioni: la costruzione del racconto in Couture

Il film si apre con Maxine, regista di fama, pronta a realizzare il suo progetto. Accanto a lei c’è Anton (Louis Garrel), videomaker francese che la aiuta nella realizzazione del corto, dove Maxine sceglie di rappresentare una donna vampira che fugge da creature che vogliono catturarla. La decisione suscita polemiche: perché una storia così cupa per introdurre una sfilata di moda?

Ma è proprio in questa scelta che si rivela il senso del film. Il vampiro diventa simbolo della condizione femminile contemporanea: un essere che deve nascondere la propria natura per sopravvivere in un mondo di sguardi predatori. Attraverso la moda e l’immagine, Couture mostra il peso delle aspettative e la difficoltà di conciliare successo, desiderio e identità.

Maxine, Ada e Angèle incarnano tre sfumature di questa tensione: la donna affermata che teme di perdere il controllo sulla propria vita; la giovane che si affaccia al mondo con entusiasmo e paura; la professionista silenziosa che osserva e raccoglie le storie degli altri, con la speranza di poter, un giorno, pubblicare un libro al riguardo. Tre percorsi diversi, uniti da una medesima ricerca: quella di essere viste per davvero.

Anyier Anei in Couture

Le storie personali dietro la finzione

La forza emotiva di Couture nasce anche dal legame con la realtà. Il personaggio di Maxine, rappresentato con sensibilità, riecheggia esperienze personali di Angelina Jolie, rendendo la sua interpretazione toccante e autentica. La paura di non avere abbastanza tempo, di dover lasciare ciò per cui si è lottato, attraversa le scene come una confessione velata. Magistrale l’interpretazione di Vincent Lindon, qui in un ruolo secondario ma di grande intensità, capace di restituire in poche scene un senso di presenza silenziosa e umanità profonda.

Anche la storia di Ada trova radici nel vissuto dell’attrice Anyier Anei, modella e attivista sud-sudanese. Come nel film, Anei ha lasciato il suo Paese dopo aver studiato farmacia, e il suo percorso di emancipazione è diventato un simbolo di riscatto femminile. La sua presenza in Couture aggiunge una dimensione geopolitica e sociale, ricordando le profonde disuguaglianze che ancora segnano il mondo della moda e non solo.

Una delle sequenze più significative è quella del dialogo tra Ada e una collega ucraina proveniente da Zaporija: due donne di paesi lacerati, due destini che si avvicinano solo quando riconoscono le proprie ferite. Qui il film abbandona la passerella e tocca corde universali, raccontando la solidarietà e la fatica di appartenere a un mondo che si muove troppo in fretta.

Couture e la verità nascosta dietro la bellezza

Girato anche negli spazi reali del salone Chanel di Parigi – primo film di finzione a ottenere tale permesso – Couture restituisce la magia e la precisione del lavoro sartoriale, svelandone il lato invisibile. Il vestito “Christine”, realizzato dall’omonima sarta (interpretata da Garance Marillier), diventa quasi simbolo di armonia e collaborazione: ogni perla cucita e ogni tessuto drappeggiato rappresentano un frammento di vita condivisa.

Winocour firma un racconto delicato e corale, in cui la moda non è superficie ma sostanza, e la bellezza si intreccia alla vulnerabilità. Le sue protagoniste non sono eroine né vittime: sono donne che cercano di esistere in uno spazio che spesso le ignora, trovando nella solidarietà reciproca una forma di salvezza.

Con interpretazioni intense e un racconto stratificato, Couture si rivela un film sulla resilienza e sulla verità nascosta dietro ogni sguardo. Un inno alla creatività, al coraggio e alla potenza della rappresentazione femminile.

Cinque Secondi: Paolo Virzì, Valerio Mastandrea e Valeria Bruni Tedeschi sul red carpet della Festa di Roma

Paolo Virzì, in compagnia dei suoi protagonisti in Cinque secondi, Valerio Mastandrea e Valeria Bruni Tedeschi, ha sfilato sul red carpet della Festa del Cinema di Roma 2025. Ecco gli scatti:

Leggi la nostra recensione di Cinque Secondi

Chi è quel tipo dall’aria trascurata che vive da solo nelle stalle ristrutturate di Villa Guelfi, una dimora disabitata e in rovina? Passa le giornate a non far nulla, fumando il suo mezzo-toscano ed evitando il contatto con tutti. E quando si accorge che nella villa si è stabilita abusivamente una comunità di ragazze e ragazzi che si dedicano a curare quella campagna e i vigneti abbandonati, si innervosisce e vorrebbe cacciarli.

Sono studenti, neolaureati, agronomi, e tra loro c’è Matilde, che è nata in quel posto e da bambina lavorava la vigna con il nonno Conte Guelfo Guelfi. Anche loro sono incuriositi da quel signore misantropo dal passato misterioso: perché sta lì da solo e non vuole avere contatti con nessuno? Mentre avanzano le stagioni, arriva la primavera, poi l’estate e maturano i grappoli, il conflitto con quella comunità di ragazze e ragazzi si trasforma in convivenza, fino a diventare un’alleanza. E Adriano si troverà ad accudire nel suo modo brusco la contessina Matilde, che è incinta di uno di quei ragazzi…

Il cast di 40 secondi sfila sul red carpet della Festa di Roma 2025

Vincenzo Alfieri e il suo cast di giovani attori di 40 secondi hanno sfilato sul tappeto rosso della cavea dell’Auditorium Parco della Musica in occasione della Festa del Cinema di Roma 2025. Con il regista, gli interpreti del film, tra cui Francesco Gheghi e Francesco Di Leva che, dopo la loro fortunata collaborazione in Familia, tornano a condividere lo schermo per un’altra storia terribile, raccontata in maniera magistrale nel film.

40 Secondi è un film del 2025 diretto da Vincenzo Alfieri con Francesco Gheghi, Francesco Di Leva, Enrico Borello, Sergio Rubini, Josafat Vagni, Maurizio Lombardi.

Leggi la nostra recensione di 40 secondi

Un litigio per un semplice equivoco si trasforma in un pestaggio di una violenza inaudita ai danni di Willy Monteiro Duarte, un ragazzo di ventuno anni che, in 40 secondi, viene ucciso.  Ispirato a una storia vera, il film ripercorre le ventiquattro ore che precedono il tragico evento, in cui si intrecciano incontri casuali, rivalità e tensioni latenti: un viaggio attraverso la banalità del male che indaga la natura umana e i suoi condizionamenti.

Il film è prodotto e distribuito da Eagle Pictures, con il contributo del Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo, il patrocinio della Città di Guidonia Montecelio e la concessione del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia – Parco archeologico Cerite e via degli Inferi.

Senza nome e senza regole: la spiegazione del finale del film

Senza nome e senza regole: la spiegazione del finale del film

Senza nome e senza regole è uno dei film più significativi della fase internazionale della carriera di Jackie Chan, uscito nel 1998 nel pieno della sua transizione da star del cinema hongkonghese a icona globale dell’action comedy. Diretto e interpretato dallo stesso Chan, il film rappresenta un perfetto punto di incontro tra la spettacolarità acrobatica dei suoi lavori sul kung fu e l’impostazione narrativa più occidentale tipica delle produzioni hollywoodiane di quegli anni. Come altri titoli coevi, anche questo punta su un mix di comicità fisica, coreografie marziali ingegnose e un ottimismo di fondo che caratterizza da sempre la sua filmografia.

Il film appartiene al genere action con forti componenti spy e thriller, ma viene costantemente alleggerito dal tono comico e dal carisma ingenuo del protagonista. La storia ruota attorno a un agente segreto che, dopo aver perso la memoria in seguito a un incidente, si ritrova a vagare in Africa senza sapere chi sia, costretto a ricostruire la propria identità mentre viene braccato da diverse fazioni. La struttura narrativa dell’uomo senza passato permette a Jackie Chan di giocare sia sul registro dell’azione che su quello dell’ironia, creando una figura di eroe vulnerabile ma astuto, capace di cavarsela con inventiva più che con la forza bruta.

Tra le particolarità del film spiccano le incredibili sequenze di stunt eseguite senza controfigure – celebre quella in cui Chan scivola giù dalla facciata di un grattacielo a Rotterdam – e l’ambientazione internazionale che alterna Africa, Europa e Asia. I temi principali ruotano attorno alla ricerca dell’identità, al senso di giustizia e alla resilienza individuale, trattati però con la leggerezza tipica del suo cinema. Nel resto dell’articolo ci concentreremo sulla spiegazione del finale del film, analizzando come questa avventura rocambolesca arrivi alla sua conclusione e cosa rappresenti per il personaggio di Jackie Chan.

Jackie Chan in Senza nome e senza regole

La trama di Senza nome e senza regole

Creduto morto, ma in realtà unico sopravvissuto di una task force multinazionale spedita in Africa per una missione segretissima, salvato da una tribù indigena dopo essere caduto da un aereo in volo (con conseguente perdita della memoria), Jackie Chan è nel mirino dei servizi deviati della CIA asserviti alle losche trame di un generale fellone. Costui ha ordito il rapimento di tre ingenui scienziati al lavoro su certi frammenti di meteorite capaci di produrre un’energia smisurata ed ostinati a volerne sfruttare le potenzialità per il bene dell’umanità piuttosto che per produrre un’arma micidiale. L’inossidabile Chan rischia personalmente l’osso del collo per alimentare la sua acrobatica popolarità.

La spiegazione del finale del film

Nel terzo atto del film, Jackie riesce finalmente a scoprire l’identità dei veri responsabili del complotto che lo ha visto vittima. Infiltratosi nel grattacielo Willemswerf di Rotterdam, affronta una serie di scontri spettacolari con gli scagnozzi di Morgan e del Generale Sherman, mettendo in mostra tutte le sue abilità acrobatiche in un climax tipicamente “alla Jackie Chan”. Proprio mentre i tre orchestratori dell’operazione criminale stanno concludendo un accordo con il mercante d’armi Armano per la vendita del composto extraterrestre, Jackie coglie l’occasione per sabotare la transazione: ruba il disco con i dati scientifici e dirotta il trasferimento bancario destinato ai criminali verso l’organizzazione umanitaria Save the Children.

Questo gesto non solo manda all’aria i loro piani, ma scatena la loro ira, innescando un inseguimento frenetico per recuperare il disco. La tensione raggiunge il culmine durante la fuga finale, quando Jackie viene nuovamente braccato dai mercenari, prima all’interno del grattacielo e poi sul celebre ponte Erasmus. Qui, mentre affronta i sicari superstiti, viene trovato anche da Morgan, che finge ancora una volta di volerlo aiutare. Ma la verità è ormai chiara: l’agente della CIA è sempre stato parte della cospirazione. Jackie, ormai consapevole del tradimento, prova ad affrontarlo direttamente, ma viene ostacolato dai nuovi rinforzi inviati da Sherman e Armano. Nonostante ciò, riesce ancora una volta a difendersi, mantenendo il possesso del disco.

Senza nome e senza regole cast

Solo l’arrivo di Christine e dei rinforzi della CIA porta ordine nella situazione: Morgan viene finalmente arrestato, mentre Jackie – con un gesto simbolico – getta il disco nel fiume, scegliendo di rinunciare alle prove pur di chiudere definitivamente la vicenda. Questo gesto conclusivo ha un valore fondamentale per comprendere il significato del finale. Gettando via il disco, Jackie rifiuta la logica del potere, del controllo e della vendetta che ha animato tutti i suoi antagonisti. Pur essendo stato vittima di un complotto e privato della sua identità, non cerca riscatto attraverso la gloria o il riconoscimento ufficiale. Al contrario, decide di sottrarsi ai giochi politici e di tornare alla semplicità, scegliendo di ricongiungersi alla tribù africana che lo aveva accolto quando non sapeva chi fosse.

È una presa di posizione morale chiara: meglio vivere come un uomo libero e anonimo che restare intrappolato in un sistema corrotto. Allo stesso tempo, il finale chiude coerentemente il tema centrale del film: la ricerca dell’identità. La domanda “Who Am I?” non trova risposta in un nome o in un dossier recuperato dai servizi segreti, ma nelle azioni compiute dal protagonista lungo il percorso. Jackie dimostra che la vera identità non è un dato anagrafico, ma qualcosa che si costruisce attraverso le scelte. Egli diventa “qualcuno” non perché scopre il suo passato, ma perché afferma un presente fatto di lealtà, altruismo e integrità.

Il finale ribalta quindi la struttura classica del thriller di spionaggio: non conta scoprire chi sei, conta decidere chi vuoi essere. In ultima analisi, Senza nome e senza regole ci lascia un messaggio sorprendentemente maturo per un film d’azione: l’eroismo non sta nel vincere, ma nel restare fedeli a se stessi. Jackie Chan costruisce un protagonista che non trionfa grazie alla forza, ma grazie alla coerenza morale. Il film invita lo spettatore a riflettere su quanto il riconoscimento esterno sia effimero rispetto alla pace interiore. E forse è proprio per questo che, ancora oggi, il finale rimane impresso: perché invece di chiudersi con un’esplosione, sceglie il silenzio di un uomo che sorride e torna verso il luogo dove, per la prima volta, aveva trovato un senso alla sua esistenza.

L’uomo di neve: la spiegazione del finale del film

L’uomo di neve: la spiegazione del finale del film

Harry Hole probabilmente avrebbe dovuto sospettare che l’assassino in L’uomo di neve (qui la nostra recensione) fosse qualcuno vicino a lui, e il finale chiarisce gran parte del mistero che circonda il colpevole. Il thriller britannico del 2017 segue Harry che lavora con Katrine Bratt per risolvere il mistero di un assassino che uccide donne e lascia dietro di sé un pupazzo di neve. Harry lavora instancabilmente per risolvere il caso, prendendo in considerazione molti sospetti lungo il percorso, ma senza arrivare al fondo degli omicidi fino alla fine del film. Il film è basato sull’omonimo romanzo del 2007 di Jo Nesbø. Purtroppo, non ha ricevuto gli stessi elogi del romanzo, nonostante fosse molto atteso dai fan.

Il film è ambientato in un paesaggio innevato, che aggiunge il tema degli omicidi del pupazzo di neve. L’uomo di neve è stato girato in Norvegia, principalmente a Oslo, mettendo in mostra le bellissime montagne innevate della città. Durante tutto il film, Harry affronta anche la separazione da Rakel, per la quale sembra provare ancora dei sentimenti. Harry combatte con l’alcolismo, ma la sua passione per la risoluzione del caso lo riporta sulla strada giusta nella sua vita. Harry e Katrine avanzano molte ipotesi durante il film, ma trascurano una persona molto vicina a Harry, che alla fine si rivela essere il colpevole. Il finale necessita di una spiegazione completa a causa della sua complessità.

Chi è il killer in L’uomo di neve

Il finale di L’uomo di neve ha rivelato che il killer era il chirurgo Mathias, che utilizzava la sua reputazione professionale per nascondere le sue attività omicide. Harry e Katrine sospettano di molti potenziali killer nel corso della trama, da Arve Støp a Idar Vetelsen. Tuttavia, alla fine del film, Harry scopre che Mathias Lund-Helgesen è stato il killer fin dall’inizio. Harry e Mathias hanno diverse scene insieme nel corso del film, ma Harry non riesce mai a mettere insieme gli indizi. Mathias è un chirurgo rinomato, il che lo fa sembrare un professionista premuroso incapace di fare del male a qualcuno. Chiaramente, si trattava solo di una facciata, poiché Mathias era in realtà un pericoloso assassino.

L'Uomo di Neve

Il movente del killer

L’uomo di neve  si apre con una scena che vede protagonisti un ragazzino, sua madre e il suo padre biologico. Il ragazzo era il frutto di una relazione extraconiugale e quando sua madre minaccia di dire la verità alla moglie di suo padre, lui fugge con la sua auto. La madre del ragazzo lo segue con lui sul sedile del passeggero, ma finisce fuori strada su un lago ghiacciato. Il ragazzo esce dall’auto e dice a sua madre di fare lo stesso, ma lei non lo fa. Rimane in macchina mentre il ghiaccio si rompe e l’auto affonda nell’acqua ghiacciata. Dalle scoperte di Harry e della sua squadra diventa chiaro che Mathias è il ragazzino della scena iniziale del film.

Mathias è rimasto orfano dopo la morte della madre e la fuga del padre, e ha trascorso il resto della sua vita provando rabbia e risentimento per quanto accaduto. Tuttavia, la rabbia di Mathias è mal riposta. Mathias crede che sua madre non lo amasse e che per questo abbia scelto di morire in macchina. Spinto dall’odio che prova per sua madre, inizia ad uccidere donne che hanno abortito o che non conoscono il padre dei loro figli. Alla fine di L’uomo di neve, Harry gli dice che ha sbagliato tutto nella sua vita. Non era sua madre a non volerlo, ma suo padre.

Come il killer è collegato a Harry Hole

La vita personale di Harry lo porta a scoprire l’identità del killer alla fine di L’uomo di neve , e il detective è scioccato dal fatto che il killer gli sia noto e abbia un legame con il suo passato. Harry sa chi è l’assassino perché Mathias sta frequentando Rakel, l’ex di Harry. Durante tutto il film, è ovvio che Rakel e Harry provano ancora qualcosa l’uno per l’altra, anche se lei sembra aver voltato pagina. Mathias e Harry sono cordiali l’uno con l’altro, poiché lui è ancora nella vita di Rakel perché è come una figura paterna per il figlio di Rakel, Oleg, che non sa chi sia il suo padre biologico.

Tuttavia, c’è anche una certa tensione tra Mathias e Harry a causa del passato di Harry con Rakel. Mathias dice a Harry che quando lo ha visto per la prima volta, ha pensato che avesse una famiglia perfetta, anche se la vita di Harry è piena di difetti. Mathias prova risentimento verso Harry perché Rakel e Oleg lo amano entrambi, mentre lui non ha nessuno.

Rebecca Ferguson e Michael Fassbender in L'uomo di neve

In che modo Katrine è collegata a Rafto?

Tra i tanti misteri presenti in L’uomo di neve , uno dei più sconcertanti è il legame tra Katrine, interpretata da Rebecca Ferguson, e Gert Rafto, interpretato da Val Kilmer. Harry scopre che anni prima c’era stato un caso di omicidio simile, quindi va a incontrare Gert Rafto, uno degli agenti che si era occupato del caso. Tuttavia, scopre presto che Rafto è morto otto anni prima in un presunto suicidio. Mentre si trova nella baita di Rafto, Harry scopre una giacca e una fotografia e scopre che Rafto è il padre di Katrine. Si rende conto che Katrine sta lavorando con lui al caso perché crede che suo padre sia stato assassinato e vuole scoprire chi lo ha ucciso.

Arve Støp è colpevole?

Rafto potrebbe essersi suicidato diversi anni prima degli eventi narrati in L’uomo di neve, ma la sua morte finisce per diventare un altro tassello del complesso puzzle. Katrine è convinta che l’uomo d’affari corrotto Arve Støp abbia ucciso suo padre. Tuttavia, non riesce mai a provare che lui sia collegato alla morte di suo padre o ai nuovi omicidi su cui Harry sta indagando.

Nonostante i suoi altri affari loschi, Støp è innocente in termini di omicidio e non ha ucciso Rafto. Tuttavia, è coinvolto in un giro di prostituzione insieme a Vetelsen, un medico che tutte le vittime hanno visitato ad un certo punto. Vetelsen diventa presto lui stesso vittima di un omicidio, e l’ultima scena di Støp è quando Katrine cerca di sedurlo. Støp non compare più e, a parte essere corrotto, L’uomo di neve non suggerisce che sia colpevole di altro.

l'uomo di neve

Cosa succede a Katrine?

Dopo che Katrine ha tentato di sedurre Støp, lui le dice di incontrarlo nella sua stanza d’albergo. Lei cerca di coglierlo in flagrante nella stanza e provare la sua colpevolezza. Invece, viene catturata dall’assassino. L’assassino droga e uccide Katrine, poi le taglia il dito destro e lo usa per sbloccare il suo tablet di lavoro. Harry trova il cadavere di Katrine nella sua auto, con un pupazzo di neve disegnato sul tetto. Quando Mathias viene rivelato come l’assassino, il dito di Katrine viene visto inchiodato alla sua porta.

Il vero significato del finale di L’uomo di neve

Sebbene, come riconosce il regista, L’uomo di neve non sempre sia lineare, il film trasmette un messaggio forte su come i traumi infantili e il risentimento possano far impazzire una persona. Non tutti coloro che hanno vissuto difficoltà durante la crescita o hanno serbato rancore diventeranno assassini, ma questo è ciò che è successo a Mathias. Non ha mai superato ciò che i suoi genitori gli hanno fatto e lo ha usato per alimentare la sua serie di omicidi da adulto. Il finale tocca anche il modo in cui la società spesso incolpa le donne e le madri, mentre lascia impuniti i padri.

Mathias provava più rabbia verso sua madre per la sua morte che verso suo padre per averlo abbandonato. Anche se in L’uomo di neve ha ucciso degli uomini, la maggior parte delle sue vittime erano donne in situazioni di vulnerabilità, come quelle che non conoscevano il vero padre dei loro figli. Il finale rivela anche come il risentimento porti inevitabilmente alla rovina, poiché Mathias finisce per cadere nel lago ghiacciato, morendo esattamente come sua madre.

LEGGI ANCHE: L’uomo di neve: tutto quello che c’è da sapere sul film

Cinque secondi: recensione del film di Paolo Virzì, tra consapevolezza e possibilità di rinascita – #RoFF20

0

Con Cinque secondi, Paolo Virzì torna a raccontare l’Italia contemporanea attraverso la lente che gli è più congeniale: quella dell’intimità emotiva e della trasformazione umana. Dopo gli affreschi corali e le commedie agrodolci che hanno definito la sua poetica, il regista livornese sceglie una storia più raccolta, immersa in un paesaggio rurale che diventa metafora della rinascita, della possibilità di rimettere radici dopo un lungo inverno dell’anima.

Il film si apre tra le rovine di Villa Guelfi, una dimora nobile ormai abbandonata, dove il burbero Adriano (un intenso Valerio Mastandrea) ha scelto di isolarsi dal mondo. Vive in una stalla ristrutturata, fuma mezzo-toscano e coltiva la propria misantropia come fosse l’ultimo lusso rimasto. È un uomo chiuso, segnato da un passato che si intuisce tragico, circondato da oggetti che non significano più nulla.

Tutto cambia quando un gruppo di ragazze e ragazzi, studenti, agronomi e idealisti, occupa abusivamente la villa per riportare in vita i vigneti dimenticati. Tra loro c’è Matilde (una luminosa Galatea Bellugi), cresciuta in quei luoghi, nipote del defunto conte Guelfo. Il contrasto iniziale tra Adriano e i giovani — che lui percepisce come un’invasione nel proprio silenzio — si trasforma lentamente in un fragile equilibrio di convivenza. Ed è proprio questa metafora tra l’uomo e la terra che il film trova la sua verità più profonda: il gesto agricolo come atto di cura e rinascita, una semina simbolica che coincide con il rifiorire interiore del protagonista.

Solitudine, comunità e la terra come metafora

Così, in Cinque secondi convivono due dimensioni complementari: il dramma della solitudine e il ritmo ciclico della natura, che diventa specchio dell’animo umano. La scrittura di Virzì, solida e calibrata, costruisce un racconto in cui la terra stessa sembra respirare con i personaggi. Le stagioni scorrono, i campi si trasformano, i grappoli maturano: è un tempo naturale che contrasta con quello interiore di Adriano, immobile e contratto.

Crediti Antonello&Montesi

La metafora agricola della rinascita attraversa tutto il film. La villa decadente si fa corpo ferito da curare, il terreno abbandonato diventa simbolo di una speranza che, pur se faticosa, può rifiorire. Il lavoro dei giovani agricoltori, pur rappresentato con qualche ingenuità, agisce come un detonatore: costringe il protagonista a sporcarsi le mani, a riattivare un contatto con la materia, con la vita.

Eppure, Virzì non si lascia sedurre dalla retorica della “campagna che salva”. Al contrario, ne mette in luce la ambiguità: i ragazzi che si dedicano alla terra appaiono spesso più mossi dal bisogno di dare un senso alle proprie vite precarie che da una reale conoscenza di quel mondo. Il regista tratteggia con ironia le loro utopie ecologiste, e in questo scarto si avverte la sua cifra più sottile: la consapevolezza che la rinascita, come la coltivazione, è sempre un processo imperfetto, pieno di errori, ma proprio per questo autentico.

In questo equilibrio fragile tra realismo e allegoria, Cinque secondi diventa un racconto di metamorfosi. Il vigneto che torna a vivere è lo stesso terreno interiore che Adriano dissoda, lentamente, attraverso la presenza di Matilde e il contatto con quella giovinezza che può tornare a proteggere e accudire.

Mastandrea e Bellugi tra ferite e germogli

Come spesso accade nel cinema di Virzì, la profondità del racconto passa attraverso i volti dei suoi interpreti. Valerio Mastandrea è straordinario nel dare corpo a un personaggio che comunica più con i silenzi che con le parole. Il suo Adriano è un uomo che ha smesso di attendere, prigioniero di un dolore che non viene mai spiegato del tutto ma che si intuisce in ogni sguardo. Mastandrea lo interpreta con un minimalismo magnetico, fatto di piccoli gesti, posture chiuse, improvvisi scarti di dolcezza.

Accanto a lui, Galatea Bellugi dona al film la sua grazia naturale, una presenza che incarna la speranza senza mai cadere nel sentimentalismo. Matilde non è soltanto la giovane che riporta la vita nella villa, ma la rappresentazione stessa di quella forza vitale che resiste nonostante tutto. È l’aratro che scava e prepara la terra, inconsapevole del proprio potere rigenerante.

Nel cast brilla anche Valeria Bruni Tedeschi, che con poche ma intense scene aggiunge profondità emotiva al racconto. La sua presenza restituisce al film la dimensione del passato che non può essere dimenticato ma che va affrontato: è le che insiste parlando con Adriano, dicendogli: “Racconta la tua storia”. 

Cinque Secondi è un film maturo, catartico e profondamente umano

Nel suo insieme, Cinque secondi è un film maturo e catartico, costruito con equilibrio tra scrittura e sentimento. Virzì non cerca il colpo di scena, ma la trasformazione silenziosa, quella che avviene dentro le persone e non davanti allo spettatore. È forse troppo prudente in alcuni passaggi, come se temesse di spingersi oltre la soglia dell’intimo per non perdere il controllo del racconto. Ma questa misura diventa anche la sua forza: un rispetto profondo per i personaggi, per il loro dolore, per il tempo necessario alla guarigione.

Crediti Antonello&Montesi

Il titolo, Cinque secondi, racchiude l’essenza dell’opera: un istante, una frazione di tempo in cui qualcosa può cambiare per sempre, in cui lui forse, consapevolmente, sceglie di lasciar(si) andare, pagando poi per tutta la vita il prezzo della più alta forma di compassione.

Alla luce del significato di quei CINQUE SECONDI, il finale trova la sua piena quadratura emotiva. Il gesto di accudire Matilde — e con lei la nuova vita che porta dentro di sé — diventa l’immagine più limpida della rinascita: la terra, come l’uomo, può tornare fertile solo se qualcuno ha il coraggio di coltivarla di nuovo.

Nonostante qualche eccesso didascalico nella rappresentazione dei giovani idealisti e un’ironia talvolta ambigua, Cinque secondi resta un film profondo e sincero.

Can Yaman e il cast di Sandokan sul red carpet della Festa di Roma 2025

Le Tigri della Malesia hanno invaso la cavea dell’Auditorium in occasione della premiere internazionale di Sandokan, la nuova serie Rai che vede protagonista Can Yaman, l’attore turco idolo delle folle che, insieme al cast della serie, ha sfilato alla Festa del Cinema di Roma 2025.

Leggi la recensione dei primi due episodi di Sandokan

Insieme a Can, sul tappeto rosso dell’Auditorium, anche il co-regista della serie, Nicola Abbatangelo, Alessandro Preziosi nel ruolo di Yanez, Ed Westwick nei panni del perfido Lord Brooke e l’esordiente Alanah Bloor che presta i suoi lineamenti a una ribelle Lady Marianne Guillonk.

La trama di Sandokan con Can Yaman

Borneo, metà del 1800. Un paradiso abitato dalle tribù native dei Dayak, che vivono secondo le loro antiche tradizioni, ma dominato dalla spietata legge degli inglesi, all’apice del loro potere coloniale. Sandokan vive alla giornata, senza schierarsi: combatte per se stesso e per la sua ciurma di pirati, tra cui il fidato Yanez. Ma la sua vita cambia quando, durante un’incursione, incontra Marianna, la bella figlia del console britannico di Labuan. È l’inizio di una storia d’amore impossibile tra due anime inaspettatamente simili: Marianna, di sangue nobile, ma con lo spirito selvaggio di chi è cresciuto in un paradiso tropicale, e Sandokan, leader pirata e avventuriero, che porta in sé il sangue di re guerrieri. Sulle loro tracce si metterà il leggendario cacciatore di pirati, Lord James Brooke, che non si fermerà davanti a niente pur di catturare Sandokan e conquistare il cuore di Marianna.

Sandokan è un racconto di avventura e di amore, in cui i protagonisti scopriranno se stessi e capiranno di appartenere a una storia molto più grande, fatto di rivoluzione, di amore per la natura e di lotta per la libertà.

Hedda: recensione del film con Tessa Thompson – #RoFF20

0
Hedda: recensione del film con Tessa Thompson – #RoFF20

In un pervasivo clima di eccessi e segreti, Hedda è l’adattamento cinematografico del dramma teatrale Hedda Gabler di Henrik Ibsen. Il film, scritto e diretto da Nia Dacosta (Ms. Marvel, The Marvels), segue le vicende di una giovane mulatta, figlia illegittima di un importante generale. La pellicola è stata presentata in anteprima mondiale al Toronto Film Festival lo scorso sette settembre, per poi essere proiettato anche al London Film Festival e di recente alla Festa del Cinema di Roma. Nel cast si ritrovano tante figure già note nel panorama cinematografico internazionale: Tessa Thompson (Charlotte Hale in Westworld, Men in black-international) qui interpreta la protagonista Hedda. Al suo fianco ritroviamo Imogen Poots (The father- nulla è come sembra, V per vendetta) e Nina Hoss (Tàr) rispettivamente nei ruoli di Thea ed Eileen Lovborg.  Tra le figure maschili emergono maggiormente Tom Bateman (Assassinio sul Nilo, Assassinio sull’Orient express), marito di Hedda, e Nicholas Pinnock (Capitain America- il primo vendicatore, Here).

Hedda: un party in crescendo

Da poco di ritorno da una lunga luna di miele, Hedda decide di organizzare insieme al marito George una stravagante festa nella loro nuova casa piena di fasti: lo scopo di tale evento sembra essere ben preciso per entrambi. George punta a impressionare il professore Grenwood, così da ottenere una cattedra all’università, mentre il solo intento di Hedda è di rivedere la sua amata Eileen, la quale sembra essere l’unico motivo per cui la donna riconsidera il suo tentato suicidio.

All’arrivo dei primi invitati, l’atmosfera sembra essere molto calma e sofisticata: nonostante la presenza degli stravaganti amici di Hedda. Niente sembrava andare storto, almeno fino all’arrivo di Thea, una misteriosa figura sbucata all’improvviso, e poi successivamente di Eileen, una brillante dottoressa considerata però negativamente in società per il proprio orientamento sessuale e stile di vita dissoluto. Dopo aver intrapreso una relazione con Thea, Eileen era riuscita a mettere a freno la propria indole disfattista: tutto però finirà in frantumi proprio per Hedda. Non potendo avere la propria amata, Hedda tenta prima di riconquistarla riportandola al suo vero essere, per poi covare risentimento e vendetta nei confronti di Eileen a un suo rifiuto.

Il tutto avviene in una festa che diviene un continuo crescendo di lussi e suspense che finirà per esplodere con le prime luci dell’alba.

Una moderna femme fatale

Il film viene interamente costruito attorno alla figura di Hedda, una donna fuori dal comune, soprattutto per l’epoca. Figlia illegittima del generale Gabler, ha abbandonato la propria vita ai lussi e ad un’esistenza totalmente disinibita che l’ha portata proprio nelle braccia di Eileen; per la mancanza di coraggio di Hedda di vivere la loro relazione alla luce del sole, le due finiranno per separarsi, non senza alcun dramma. Hedda cercherà di uccidere la propria amata senza però riuscirci.

Per quanto Hedda sia una donna intelligente e manipolativa, la codardia la accompagna per tutto l’arco narrativo, bloccandola nelle prime scene dal suicidarsi e dal riuscire ad uccidere Eileen. Per quanto lei stessa si renda conto di essere più felice con la sua amata, sceglie di sposare il noioso George, per paura di compromettersi definitivamente.

Thea: la salvezza di Eileen

Se da un lato Hedda sembra essere una vera purosangue indomabile, dall’altro abbiamo Thea: una donna umile, docile, dall’aspetto quasi angelico. Thea lascia il marito, si compromette per poter vivere a pieno il suo rapporto con Eileen, tenta di risollevarla dal baratro nel quale la dottoressa stava pian piano affondando. Grazie a Thea, Eileen ha ricostruito parte della propria reputazione, smesso di bere e portato a termine una ricerca di una vita; tutto questo impegno viene spazzato via in una sera da Hedda.

In questa contrapposizione tra bene (Thea) e male (Hedda), quest’ultima avrà la meglio su Eileen.

Un climax di eccessi

Tutto l’intreccio narrativo di Hedda si svolge nell’arco di una serata, di una festa a casa dei Tesman; se inizialmente l’ambiente sembra essere molto sofisticato, pian piano questa eleganza verrà meno, lasciando spazio a eccessi di ogni tipo. Si parte dai balli, poi aumentando con l’alcol, il bagno in piscina, fino ad arrivare a tresche tra invitati nel labirinto in giardino. Con l’aumentare della sfrenatezza della festa, sembra aumentare la tensione del film, con la sparizione del manoscritto di Eileen e due pistole di troppo tra i commensali.

Hedda sembra essere una pellicola molto accattivante, che mantiene l’attenzione dello spettatore. Grande merito per la buona riuscita del film si deve all’ottima interpretazione della stessa Thompson, la quale riesce a regalarci una protagonista così densa di sfaccettature.

Sandokan: recensione dei primi due episodi della serie – #RoFF20

Sandokan: recensione dei primi due episodi della serie – #RoFF20

Se Emilio Salgari potesse guardare oggi il nuovo Sandokan, ne sarebbe soddisfatto. È vero: Kabir Bedi, negli anni ’70, ha fatto la storia del personaggio più iconico dello scrittore veronese. E la sfida di Can Yaman era tutt’altro che semplice. Ma è innegabile che, guardando i primi due episodi della serie prodotta da Lux Vide, l’attore turco abbia vinto la sua scommessa. Il progetto aveva cominciato a prendere forma già nel 2021, per poi essere messo in stand-by.

Ha preso davvero vita nel 2024, quando in Calabria – nell’area industriale di Lamezia Terme – sono iniziate le riprese di quella che è stata subito definita una serie evento internazionale. E così è: non solo per il cast, composto da interpreti più che convincenti, ma anche per la sua portata visiva, in cui lo sforzo produttivo è tangibile e, va detto, ha dato i suoi frutti. Sandokan è stato presentato alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, e noi lo abbiamo visto in anteprima nella suggestiva cornice della Sala Sinopoli. Con la regia di Jan Maria Michelini e Nicola Abbatangelo, andrà in onda su Rai 1 dal 1° dicembre. Nel cast l’esordiente Alanah Bloor, Alessandro Preziosi ed Ed Westwick.

Sandokan, la trama dei primi due episodi

Agli inizi dell’Ottocento, il Borneo – cuore selvaggio dell’arcipelago malese – viene devastato dalle fiamme. La tribù dei Dayak tenta disperatamente di difendersi, mentre un bambino osserva terrorizzato il proprio padre lanciarsi tra le braci, per proteggere il suo popolo. Anni dopo, nelle stesse acque che bagnano quell’isola, una ciurma di pirati guidata da Sandokan assalta una nave inglese. Il bottino è importante, ma lo è ancor di più la causa: combattere in nome della libertà. Tra i prigionieri, Sandokan incontra un sopravvissuto di una delle tribù dell’isola, che riconosce in lui lo “spirito della tigre” e gli rivela che il suo popolo è stato ridotto in schiavitù dagli inglesi.

Il pirata comprende così che la sua sete d’avventura è in realtà una missione: raggiungere la colonia britannica di Labuan e vendicarsi. Ma il destino lo precede. La sua nave viene colpita dai cannoni inglesi e lui si ritrova naufrago sulle coste di Labuan, soccorso da Marianne, figlia del governatore Lord James Guillonk. Per sopravvivere, però, si finge mercante. Nel frattempo, la sua ciurma – compreso il fidato Yanez – è stata catturata ed è in attesa di essere impiccata. Sandokan deve salvarli, senza farsi tradire dai sentimenti che nascono per Marianne e sfuggendo alla caccia spietata di Lord Brooke, il più temuto cacciatore di pirati del Regno.

Sandokan

Un’epica piratesca dal cuore italiano

La sigla firmata dagli Oliver Onions irrompe subito sullo schermo, fino a lasciare spazio alla prima inquadratura: un mare blu baciato dal sole asiatico. È lì che il racconto prende vita, senza preamboli, entrando nel vivo di una storia destinata a imprimersi. L’ingresso in scena del protagonista – che assalta una nave inglese mostrando abilità e destrezza da vero pirata – è già una dichiarazione d’intenti, perché ci fa intuire il tono della serie: ritmato, battagliero, dallo spirito famelico.

Se tra i due episodi il primo appare leggermente più debole – forse per la necessità di introdurre pubblico e ambientazione – è nel secondo che la narrazione prende slancio. Dimostrando piena consapevolezza di sé, di ciò che vuole raccontare e soprattutto del messaggio che intende veicolare: la libertà. Sandokan rappresenta questo. L’essere liberi, indomabili. Il non farsi imbrigliare da nessuna catena, né fisica né simbolica.

Una produzione estremamente curata

Lux Vide dimostra ancora una volta di saper ricreare le giuste atmosfere (I Medici ne sono un bellissimo altro esempio.) Merito non solo di una CGI ben dosata, mai eccessiva, ma anche dell’accuratezza maniacale nelle scenografie. La ricostruzione della Colonia di Labuan, per citare una location, è così credibile da far dimenticare che ci troviamo nel cuore della Calabria. Le coste della regione, con la loro bellezza selvaggia, insieme a quelle dell’isola di Reunion, diventano cornice ideale per le galoppate di Sandokan e Marianna, regalando allo spettatore l’impressione di trovarsi davvero su una spiaggia della Malesia.

Un effetto amplificato da una regia che sa valorizzare ambienti e ritmo, senza mai cedere all’artificiosità. Grande merito anche a Can Yaman, spesso sottovalutato, ma qui decisamente convincente. È credibile nei duelli, espressivo nei momenti di tensione emotiva, capace di restituire al personaggio sfumature e profondità. Se il confronto con Kabir Bedi poteva incutere timore, lui non cerca di replicare, ma di reinterpretare. Donando al nuovo Sandokan una fisicità carismatica, ma anche una dimensione interiore sfaccettata. Così riesce nell’impresa: rendere il personaggio originale e contemporaneo, senza tradire lo spirito dell’originale.

Sandokan serie

Un cast con alti e bassi

Diverso il discorso per i suoi comprimari. Alanah Bloor, al suo esordio come attrice, tenta di restituire a Marianna una miscela di dolcezza e ribellione. Ma il risultato è una figura troppo simile alla Elizabeth Swann dei Pirati dei Caraibi: una copia poco incisiva, fragile e ben poco convincente. La chimica con Sandokan resta blanda, mentre più interessante, invece, è l’interazione con Ed Westwick, che nel ruolo di Lord Brooke offre un’interpretazione ammaliante e torbida.

Un antagonista dal grande fascino, che funziona per contrasto e arricchisce le dinamiche narrative. Sorprende anche Alessandro Preziosi nei panni di Yanez. La sua interpretazione a tratti istrionica rende il suo Yanez attraente e divertente, dando modo anche all’attore di calarsi in un ruolo molto più sopra le righe, da cui ne esce vincitore. Promette così gran divertimento nel prosieguo della storia. Soprattutto quando interagisce con Sandokan.

Con questi primi due episodi, Sandokan si affaccia al pubblico con grinta, determinazione e un’idea chiara di ciò che vuole essere. Un’operazione perfettamente in bilico tra l’omaggio al passato, ma anche lo sguardo al futuro, parlando alle nuove generazioni senza tradirne la natura.

Anemone: recensione del film dei Day-Lewis, il ritorno del padre e la nascita del figlio – Alice nella Città

0

Presentato in anteprima italiana a Alice nella Città 2025, in occasione della Festa del Cinema di Roma, dove lo abbiamo visto, Anemone segna un doppio evento cinematografico di rara intensità: il ritorno alla recitazione di Daniel Day-Lewis, dopo otto anni da Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, e l’esordio alla regia del figlio Ronan, che firma anche la sceneggiatura insieme al padre. L’incontro tra le due generazioni Day-Lewis si traduce in un’opera solenne, un film che vive di silenzi, sguardi e lente rivelazioni, e che fa della memoria e del perdono i suoi cardini più profondi.

Un ritorno che non è solo professionale, ma quasi spirituale, perché in Anemone Daniel non interpreta semplicemente un personaggio, ma un riflesso di sé stesso, un uomo che — come lui — riemerge dal silenzio per affrontare il tempo e la memoria.

Il ritorno del padre

Ambientato nel nord dell’Inghilterra, tra foreste cupe e brughiere battute dal vento, Anemone racconta la storia di Ray (Daniel Day-Lewis), un uomo che ha scelto di isolarsi dopo un trauma familiare, e di Jem (Sean Bean), il fratello che decide di ritrovarlo dopo decenni di lontananza. Il film prende forma dal loro incontro, da un ritorno che è al tempo stesso fisico, emotivo e simbolico: Jem cerca Ray, ma Ray deve prima ritrovare sé stesso per poterlo salvare.

Ronan Day-Lewis costruisce così una doppia storia: quella di un figlio che dirige il padre nella finzione, e quella di un padre che, nella finzione, torna alla vita per salvare il figlio. È un gioco di specchi tenero e vertiginoso, in cui la realtà familiare si riflette nella finzione cinematografica fino a confondersi.

Già dalle prime inquadrature, Ronan dimostra una sorprendente maturità visiva. Il suo cinema procede come una marea: lento, costante, solenne, capace di sommergere lo spettatore senza mai travolgerlo. Ogni immagine è misurata, ogni respiro pesa. È un film che cresce dentro, che continua a espandersi anche dopo la visione, come un’eco silenziosa che resta nel petto.

Un film di silenzi e confessioni: la regia del dolore e della rinascita

anemone film

In Anemone, la regia di Ronan Day-Lewis si impone per la sua eleganza e per la capacità di trasformare il dolore in linguaggio visivo. Ogni inquadratura è un quadro in movimento, illuminato da una luce lattiginosa e incerta, come se tutto fosse immerso in una perenne aurora. La foresta diventa un luogo dell’anima, un labirinto di rami e nebbia dove il passato ritorna sotto forma di presenze invisibili. È lì che i due fratelli si cercano, si perdono, si confessano.

Il ritmo è solenne e inesorabile, scandito da silenzi più eloquenti di qualsiasi parola. La tensione non nasce dal conflitto esterno, ma da quello interno: la difficoltà di guardare in faccia chi ci somiglia troppo. In questa lentezza controllata, Ronan trova la sua voce: un tono dolce e crudele insieme, che non concede distrazioni.

Daniel Day-Lewis, tornato davanti alla macchina da presa dopo anni di ritiro, offre un’interpretazione che va oltre il mestiere. Il suo Ray è un uomo spezzato, che ha smesso di credere nella possibilità del perdono. Ma è anche un padre, e sarà proprio l’amore — o il ricordo di esso — a costringerlo a riemergere dal suo esilio. In questa parabola c’è qualcosa di profondamente meta-cinematografico: come Ray torna alla vita per il figlio, così Daniel torna al cinema per suo figlio Ronan, mettendo in scena, con la grazia che lo contraddistingue, la potenza del legame che li unisce.

L’attore si muove tra dolore e dignità, trasformando ogni sguardo in una confessione. È una performance scarnificata, quasi mistica, che parla del tempo, della memoria e dell’impossibilità di tornare davvero indietro.

Accanto a lui, Sean Bean restituisce a Jem una vulnerabilità nuova, una dolcezza inaspettata. Il suo personaggio rappresenta il mondo che preme ai confini della foresta, la vita che continua anche quando ci si rifiuta di parteciparvi. Samantha Morton, in un ruolo laterale ma determinante, incarna la voce del passato, la memoria di un affetto mai guarito.

A legare tutto c’è un sound design magistrale, fatto di assenze e di echi. In Anemone il suono non accompagna l’immagine, ma la costruisce. Non c’è musica tradizionale, ma un paesaggio sonoro composto da fruscii, respiri e vento. È come se la natura stessa partecipasse al dolore dei personaggi, rendendo l’esperienza cinematografica profondamente immersiva e sensoriale.

Daniel Day-Lewis e Sean Bean in Anemone
Daniel Day-Lewis e Sean Bean in Anemone. Cortesia di Focus Features

Memoria, identità e eredità: un film che parla di vita e di cinema

Anemone è molto più di un dramma familiare. È un film che interroga il tempo, la memoria e il senso stesso del racconto. Ronan Day-Lewis utilizza la storia dei due fratelli per parlare del rapporto tra generazioni, tra chi ha già detto tutto e chi deve ancora trovare la propria voce. È un film sul ritorno, ma anche sulla trasmissione: ciò che un padre lascia a un figlio, non come eredità materiale, ma come gesto d’amore e di arte.

C’è qualcosa di straordinariamente commovente nel vedere Daniel Day-Lewis diretto da suo figlio. Lì, davanti alla macchina da presa, non c’è solo un attore che torna a recitare, ma un padre che offre il proprio volto e la propria voce per raccontare la nascita di un nuovo sguardo. Ronan, dal canto suo, restituisce tutto con una delicatezza che sorprende. Non sfrutta il mito del padre: lo accoglie, lo abbraccia, e attraverso di lui trova il proprio linguaggio.

La metafora dell’anemone, il fiore che si chiude al minimo contatto, attraversa il film in ogni suo gesto. Ray è come quel fiore: fragile, ferito, incapace di aprirsi se non nel momento della resa. E in quella fragilità, in quel piccolo movimento verso la luce, c’è tutto il senso del film. Nel finale, non ci sono abbracci o parole risolutrici. C’è solo un gesto — minimo, concreto, umano — che racchiude la possibilità del perdono. È lì che Anemone trova la sua verità più profonda: la vita può tornare, anche dopo il silenzio più lungo.

Con Anemone, Ronan Day-Lewis firma un esordio maturo e potente, che unisce il respiro classico del grande cinema britannico alla sensibilità contemporanea. È un film che parla di padri e figli, ma anche di cinema e rinascita, di memoria e identità. Un film che cresce lentamente dentro chi lo guarda, come un fiore ostinato che continua a fiorire anche dopo la tempesta. Un debutto che non è solo una promessa, ma un atto d’amore.

40 secondi: recensione del film che racconta le ultime ore di Willy Duarte Monteiro – #RoFF20

0

Visto in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, nella suggestiva Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, 40 secondi di Vincenzo Alfieri è una di quelle opere che ti costringono a restare seduto anche dopo i titoli di coda, in silenzio, con un peso che non è solo dolore, ma anche consapevolezza. Presentato all’interno del Concorso Progressive Cinema, il film nasce dall’omonimo libro di Federica Angeli e si propone come una ricostruzione asciutta, a tratti quasi documentaria, delle ventiquattr’ore che precedono l’omicidio di Willy Duarte Monteiro, il ventunenne capoverdiano ucciso a Colleferro, nella notte del 6 settembre 2020, mentre tentava di difendere un amico.

Alfieri sceglie di non cedere al sentimentalismo, ma di affidarsi a un linguaggio che alterna tensione e contemplazione, cercando di restituire non solo il fatto, ma il clima che lo precede. È un film che cerca il senso nascosto della violenza, la catena invisibile di sguardi e atteggiamenti che, in una notte qualunque, possono trasformarsi in tragedia. 40 secondi non è solo la misura temporale di un pestaggio, ma il simbolo di tutto ciò che precede e segue quel tempo sospeso: un istante che contiene la banalità del male e il suo potere di distruzione.

Fin dall’inizio Alfieri imposta un racconto che si muove su più piani, costruendo una rete di incontri e situazioni apparentemente casuali. Ogni gesto quotidiano diventa un indizio di ciò che accadrà. C’è un realismo che si avvicina alla cronaca, ma la messa in scena lo trasforma in qualcosa di più profondo: una riflessione sulla responsabilità, sull’inerzia e sulla paura che attraversa la nostra società.

Una regia che scava nei volti: l’estetica del reale e il magistero pasoliniano

Il grande merito di 40 secondi è la regia di Alfieri, capace di alternare la freddezza dell’osservazione al calore dell’empatia. La macchina da presa è quasi sempre vicinissima ai volti, come a volerli decostruire. Alfieri ci entra dentro, li guarda da dietro la pelle, li mette a nudo per mostrarne le contraddizioni, la rabbia trattenuta, la paura di essere deboli. Questo lavoro minuzioso di introspezione visiva costruisce un film in cui ogni movimento di macchina è pensato per restituire allo spettatore la fisicità di quella tensione che esploderà di lì a poco.

Quando la storia si concentra su Willy, invece, la regia cambia tono: la camera si apre, il respiro si allarga, e la luce si fa più naturale, l’atmosfera operosa e piena di speranza. È come se Alfieri costruisse due film dentro lo stesso racconto: da un lato l’inferno della violenza, dall’altro la possibilità di un’umanità diversa, fatta di lavoro, amicizia e sogni semplici. In questa contrapposizione si avverte chiaramente la lezione di Pier Paolo Pasolini, non tanto citato quanto riletto e reinterpretato. C’è in Alfieri una stessa tensione verso il reale, lo stesso desiderio di capire “come sia possibile” un tale orrore, senza mai compiacersene.

i fratelli Bianchi in 40 Secondi
Cortesia di Eagle Pictures

Il lavoro sugli attori è un altro punto di forza. Accanto ai volti già noti di Francesco Gheghi e Francesco Di Leva, spiccano i giovani selezionati attraverso lo street casting, che portano sullo schermo un’energia ruvida, istintiva, non addomesticata. La loro presenza conferisce autenticità e potenza al racconto, trasformando il film in un vero esperimento di cinema del reale. Alfieri li dirige con attenzione quasi documentaristica, lasciando emergere le sfumature di ciascun personaggio senza giudicarlo apertamente, ma sicuramente non assolvendo.

Anche dal punto di vista tecnico, 40 secondi è un film curatissimo. La fotografia gioca con il contrasto tra le ombre delle strade e le luci calde dei luoghi familiari, mentre la colonna sonora si mantiene discreta, accompagnando i momenti di maggiore intensità senza mai sovrastarli. Il risultato è un equilibrio raro tra forma e sostanza, tra estetica e verità emotiva.

C’è qualcosa, in questo film, che ricorda le operazioni di cinema civile degli anni Settanta, ma aggiornate alla contemporaneità: un lavoro di ricostruzione certosina che non cerca solo la verosimiglianza, ma un senso morale. In questo senso, la produzione Eagle Pictures sembra proseguire un percorso già intrapreso con film come Il ragazzo dai pantaloni rosa, in cui la tragedia vera diventa occasione per una riflessione collettiva.

Tra emozione e retorica: il coraggio e i limiti di 40 secondi

In alcuni momenti Alfieri sembra farsi prendere troppo dal dolore, indugiando sulle emozioni fino a renderle quasi programmatiche. Alcune scelte narrative, come quella di inserire nel finale la testimonianza dei fratelli Bianchi, risultano incomprensibili o, quantomeno, discutibili: un gesto che sposta l’attenzione dall’elaborazione del dolore alla cronaca giudiziaria, rischiando di indebolire la forza simbolica del racconto.

Eppure, anche in questi limiti, il film conserva la sua onestà. 40 secondi è un’opera che si espone, che non cerca scorciatoie né consolazioni, ma prova a raccontare un dolore collettivo con rispetto e lucidità. Nel finale, quando la storia torna a Willy e alla sua figura luminosa, la pellicola ritrova il suo cuore più autentico: quello di un ragazzo che rappresenta la parte migliore di un Paese spesso distratto, quella che lavora, che sogna, che tende la mano invece di colpire.

40 Secondi film 2025Il film si chiude con un senso di impotenza, ma anche di urgenza. Alfieri non pretende di dare risposte, ma ci obbliga a fare i conti con una domanda: come può la violenza esplodere così, in quaranta secondi, dentro una notte qualsiasi?. Ed è in questa domanda che il film trova la sua ragion d’essere.

Nonostante qualche passaggio retorico, la forza della pellicola resta intatta e ci riporta al centro della questione morale e sociale della nostra epoca. La banalità del male, di cui parlava Hannah Arendt, diventa qui un concetto cinematografico: un movimento di macchina, un respiro trattenuto, un silenzio prima del colpo.

Ciò che rimane di 40 secondi è un sentimento di perdita, ma anche di consapevolezza. È un film che chiede rispetto, che invita al ricordo e alla riflessione, e che ci ricorda, con una lucidità dolorosa, quanto sia sottile la linea che separa la normalità dalla barbarie. Alfieri non cerca di consolare, ma di capire. E nel farlo, consegna al pubblico un’opera imperfetta ma profondamente umana, capace di trasformare la cronaca in cinema e il cinema in memoria.

Colombiana: la spiegazione del finale del film

Colombiana: la spiegazione del finale del film

Il film Colombiana del 2011 ha avuto un finale ricco di azione che è riuscito a concludere molte delle trame del thriller. Coprodotto da Luc Besson e diretto da Olivier Megaton, la sceneggiatura di Colombiana era basata su Mathilda, originariamente scritta come sequel di Léon del 1994 da Besson, autore sia dell’iconico dramma poliziesco che del thriller d’azione del 2011. Molti dei temi di Colombiana e Leon si sovrappongono, con la storia di Cataleya che ricorda in modo inquietante quella di Mathilda, accolta dallo zio Emilio dopo che l’omicidio dei suoi genitori a Bogotá la costringe a fuggire negli Stati Uniti e la spinge a imparare a diventare un’assassina in questo intenso film con Zoe Saldana.

Il viaggio a Chicago avrebbe potuto darle la possibilità di lasciarsi alle spalle la vita di suo padre Fabio in Colombia, ma Cataleya (Zoe Saldana) non avrebbe mai potuto dimenticare Don Luis che uccideva brutalmente sua madre e suo padre davanti ai suoi occhi. La sua fuga precipitosa da Marco e dai suoi scagnozzi ha dimostrato le capacità di Cataleya all’inizio di Colombiana, ma ciò non significava necessariamente che dovesse intraprendere il gravoso compito di farla pagare a Don Luis. Tuttavia, lo zio Emilio e i suoi insegnamenti hanno fatto sì che Cataleya ricordasse di cosa era capace, affinando le sue abilità con un’istruzione accademica e garantendole il successo nel vendicarsi alla fine di Colombiana.

Come Cataleya ottiene finalmente vendetta su Don Luis

Sebbene non avesse mai pianificato che Emilio e Mama pagassero le conseguenze delle sue scelte, Cataleya ha sempre saputo che avrebbe fatto pagare a Don Luis l’omicidio dei suoi genitori e ha messo in atto il suo piano ancora prima di iniziare a lasciare messaggi sui corpi delle sue vittime. La lotta particolarmente violenta contro Marco e la fuga di Don Luis potrebbero averli indotti a credere che non fosse riuscita a vendicarsi, ma tutti i pezzi del puzzle che aveva creato si sono incastrati perfettamente quando Don Luis è riuscito a sfuggirle per un soffio. I cani di Cataleya erano infatti apparsi all’inizio del film, dimostrando come fossero sempre stati inclusi nel suo brutale piano di vendetta.

Dal momento in cui Marco ha affrontato Cataleya subito dopo l’omicidio dei suoi genitori, lui e la sua banda hanno dimostrato di averla sottovalutata. Non solo è riuscita a sfuggirgli, ma è anche riuscita a ingannare Marco e Don Luis facendoli andare da lei, cosa che hanno fatto solo perché credevano di poterla uccidere facilmente. Cataleya invece ha approfittato del loro errore di valutazione, sapendo che Don Luis l’avrebbe chiamata per ricordarle che era troppo forte per essere sconfitto, firmando così la sua condanna a morte, poiché quella telefonata era l’unico modo per Cataleya di ordinare ai suoi cani di aggredirlo e ucciderlo. La loro sottovalutazione di Cataleya ha reso possibile la sua vendetta.

Zoe Saldana in Colombiana
Zoe Saldana in Colombiana. Foto di Carlos Somonte – © 2011 CTMG, Inc. All Rights Reserved.

Cosa significa davvero la telefonata di Cataleya a Danny nel finale

Se Danny non avesse mai mostrato la foto di Cataleya al suo amico, lei non sarebbe mai stata trovata dall’FBI. Anche se lui non sapeva cosa avrebbe potuto significare mostrare quella foto per la vita di Cataleya, la loro ultima conversazione prima di quella alla fine di Colombiana si è conclusa bruscamente e con lei in fuga per salvarsi la vita, e Danny non sapeva cosa fosse successo a Cataleya, soprattutto perché era stato portato in centrale per essere interrogato. Il fatto che Cataleya abbia chiamato Danny e gli abbia raccontato parte della verità significava che lo aveva perdonato, anche se le sue azioni le avevano causato molti problemi, perché lui non aveva intenzione di farlo e Cataleya alla fine credeva che lui meritasse di conoscere la verità.

Cosa succede a Cataleya dopo il finale di Colombiana

Sebbene il finale di Colombiana non spieghi cosa riserverà la vita a Cataleya dopo la sua vendetta su Don Luis, la sua telefonata a Danny ha lasciato un barlume di speranza per loro, soprattutto perché lei gli ha detto il suo vero nome e voleva fargli sapere che stava bene. Ogni vittima uccisa da Cataleya era stata scelta per attirare l’attenzione di Don Luis, in modo da poterlo trovare e uccidere, e alla fine ci è riuscita alla fine di Colombiana, chiudendo finalmente quel capitolo della sua vita iniziato con il brutale omicidio dei suoi genitori. La telefonata di Cataleya a Danny da un telefono pubblico in una stazione di servizio ha anche lasciato intendere che è riuscita a sfuggire all’FBI.

Infatti, sebbene Ross e l’FBI sapessero di più su di lei e sulla sua attività criminale, Cataleya è riuscita comunque a sfuggirgli due volte, e la prima volta è stato anche inaspettato, poiché non sapeva di essere seguita dall’amico di Danny. Con il finale di Colombiana che garantisce a Cataleya la sua vendetta su Don Luis, le sue energie non saranno più spese nel tentativo di catturarlo, rendendo più facile continuare a ingannare la polizia per tenerla lontana. Considerando come Colombiana abbia dimostrato le eccezionali abilità di Cataleya nel corso del film, è improbabile che l’FBI riesca a trovarla, soprattutto perché probabilmente smetterà di uccidere ora che Don Luis è morto.

Perché Emilio e Mama vengono uccisi nel finale di Colombiana

La scoperta del nascondiglio di Cataleya da parte dell’FBI avrebbe potuto impedirle di sorvegliare Emilio e sua madre, ma lei li aveva già evitati per anni in modo che non potessero risalire a lei. Tuttavia, dato che era stato lo zio Emilio a procurarle il lavoro e che lei inviava messaggi a Don Luis tramite i corpi delle sue vittime, era solo questione di tempo prima che Marco e Don Luis scoprissero Emilio e sua madre. La morte di Emilio e della mamma è stata il catalizzatore che ha spinto Cataleya a ricattare Ross e a scoprire dove si trovava Don Luis, ma avrebbe potuto evitarla solo se Cataleya avesse abbandonato i suoi piani di vendetta, cosa che purtroppo non è mai riuscita a fare.

Ofelia Medina e Zoe Saldana in Colombiana
Ofelia Medina e Zoe Saldana in Colombiana. Foto di Carlos Somonte – © 2011 CTMG, Inc. All Rights Reserved.

Il padre di Cataleya, Fabio, si è assicurato di addestrare Cataleya in modo che potesse sfuggire a Don Luis, e sebbene fosse lungimirante nel farle sapere come difendersi, ha anche involontariamente costretto Cataleya a vendicare i suoi genitori dopo che lei li aveva visti morire. Addestrarla da solo non avrebbe portato Cataleya a promettere a se stessa di uccidere Don Luis per vendicarsi, ma Fabio le aveva anche detto di andare da suo fratello Emilio a Chicago se fosse successo qualcosa a lui e alla madre di Cataleya. Emilio disse a Cataleya più di una volta che non voleva quella vita per lei, ma lei era stata originariamente indirizzata su quella strada da Fabio.

Come l’atto finale di Fabio ha reso inevitabile il finale di Colombiana

Infatti, quando Cataleya arrivò a Chicago, Emilio era chiaramente coinvolto con le gang, e Fabio lo aveva scelto per prendersi cura di sua figlia. La scelta di Fabio di mandare Cataleya da Emilio rafforzò il suo desiderio di vendetta, poiché sarebbe rimasta comunque vicina alle attività criminali, anche se lui e sua moglie erano stati uccisi proprio perché volevano lasciarsi alle spalle quella vita e Don Luis insieme a Cataleya. Avendo assistito in prima persona al raccapricciante omicidio dei suoi genitori, Cataleya non avrebbe potuto evitare di seguire la strada di Fabio ed Emilio, poiché era tutto ciò che conosceva.

Il finale di Colombiana chiude il cerchio della storia di Cataleya

La storia di Cataleya in Colombiana è stata violenta fin dalla prima scena del film d’azione, rendendo ancora più probabile che sarebbe finita con il raccapricciante omicidio di Don Luis. Tuttavia, vendicarsi di Don Luis ha essenzialmente garantito la pace a Cataleya, poiché tutto ciò che l’aveva spinta a uccidere per la maggior parte della sua vita era finalmente finito con la morte di Don Luis. In questo modo, Colombiana ha dato a Cataleya la possibilità di ricominciare da capo lontano dalla violenza che aveva sempre conosciuto, suggerendo una possibile felicità nel futuro di Cataleya.

LEGGI ANCHE: Colombiana: dal cast al sequel, le curiosità sul film con Zoe Saldana

Abandoned: la spiegazione del finale del film

Abandoned: la spiegazione del finale del film

Diretto dal regista esordiente Spencer Squire, Abandoned (anche noto come La fattoria maledetta) è un film horror psicologico del 2022. La storia ruota attorno a una giovane coppia, Sara (Emma Roberts) e Alex (John Gallagher Jr.), che si trasferisce in una fattoria isolata insieme al loro bambino Liam. Sono originari della città, ma Sara ha avuto difficoltà dopo la nascita di Liam, quindi Alex ha pensato che un cambiamento di ambiente avrebbe fatto bene a entrambi. Ma dopo essere arrivati nella loro nuova casa, la famiglia scopre il suo tragico passato e decide comunque di stabilirvisi. Tuttavia, Sara inizia presto a vedere quelli che crede essere i fantasmi dei precedenti proprietari, il che mette a dura prova il suo rapporto con la famiglia. Ecco tutto quello che c’è da sapere sul finale di Abandoned.

La trama di Abandoned

Sara e Alex vivono in città dall’inizio della loro relazione. Ma dalla nascita del figlio Liam, Sara ha iniziato a soffrire di depressione post-partum. Sperando che un cambiamento di ambiente possa aiutarla, Sara e Alex acquistano una proprietà isolata in campagna e lasciano la città. La loro agente immobiliare, Cindy (Kate Arrington), non fornisce molte informazioni sulla storia della proprietà. Ma notando da quanto tempo rimane invenduta, Sara chiede il motivo. Cindy è riluttante a rivelarne la ragione e Alex è riluttante a farla sapere a Sara, ma viene rivelato che la casa era precedentemente occupata dalla famiglia Solomon. Anna Solomon ha ucciso suo padre e sua figlia prima di suicidarsi.

Desiderosi di ricominciare da capo, Sara e Alex acquistano comunque la casa e vi si trasferiscono. Tuttavia, non passa molto tempo prima che si rendano conto che avrebbero dovuto ispezionare la casa un po’ più accuratamente prima di acquistarla. Trovano una stanza con le porte chiuse a chiave e un armadio posizionato in modo strano che nasconde un’altra porta chiusa a chiave dietro di esso. Le finestre della camera della figlia sono chiuse ermeticamente. Sara e Alex incontrano il loro strano vicino, Renner (Michael Shannon), che irrompe in casa quando nessuno risponde al suo bussare e sostiene che è così che si fa in quella parte del paese.

Forse l’aspetto più inquietante di Abandoned è il pianto incessante di Liam. Questo aumenta il senso di terrore che sembra essere sempre presente nella nuova casa di Sara e Alex. Sara non ha mai sentito un forte legame con suo figlio. Allattare il bambino al seno sembrava aiutare, ma solo marginalmente. Inoltre, per poter allattare Liam, deve smettere di prendere i farmaci antipsicotici, il che, come prevedibile, inizia ad avere effetti negativi.

Alex è un veterinario. Trasferirsi in un nuovo posto significa che deve acquisire una nuova clientela. Dato che ora vive praticamente in mezzo al nulla, la maggior parte dei suoi clienti sono agricoltori che vivono a chilometri di distanza da lui e gli uni dagli altri. Questo fa sì che Alex sia assente la maggior parte del tempo, lasciando Liam con Sara nella loro nuova casa. Quando Sara inizia a sentire strani rumori in casa e alcune cose iniziano a sparire, diventa ossessionata dai Solomon e presto inizia a vederli in giro per casa.

Kate Arrington, John Gallagher Jr. ed Emma Roberts in Abandoned
Kate Arrington, John Gallagher Jr. ed Emma Roberts in Abandoned

La spiegazione del finale del film

Forse la domanda più ricorrente alla fine del film è se la casa sia infestata. Sara sopporta queste cose orribili per tutto il film, ma rimane l’unica persona a farlo. Alex convive con lei nella casa, ma non vede mai le cose che vede lei. Diventa sempre più evidente che l’aspetto horror di Abandoned è del tutto allegorico, inteso a sottolineare la depressione post-partum di Sara. Con il suo fisico esile e i capelli biondi, Sara assomiglia molto ad Anna. Il suo cervello sembra agganciarsi a questa informazione e le fa credere che i fantasmi di Anna e Robert siano ancora lì. Il film chiarisce abbastanza presto che Sara soffre di depressione post-partum, ma la sua gravità viene rivelata solo più tardi.

Indossa un elastico al polso per affrontare i suoi problemi di ansia e distinguere tra reale e irreale. Durante una delle sue allucinazioni, Liam rischia di cadere dalle scale. Fortunatamente, Alex esce dalla camera da letto in tempo e salva il bambino. Sara butta via anche il latte. Temendo per la sicurezza di suo figlio, Alex decide che non può lasciare Liam da solo con Sara. Organizza un incontro con uno psichiatra. Il dottor Carver prescrive farmaci antipsicotici, che Sara non prende, ma mente ad Alex dicendogli di averlo fatto.

Nella scena culminante, Sara convince Alex ad andarsene dopo aver ricevuto una chiamata di emergenza da uno dei suoi clienti, assicurandogli che lei e Liam staranno bene perché ha preso la droga. Poco dopo che lui se n’è andato, lei inizia ad avere delle allucinazioni. Questa volta non si tratta di Anna o del padre violento e sessualmente abusivo, ma dei due selvaggi fratelli Solomon che lei crede vivano ancora nella casa. Fino a quel momento, il suo subconscio si era manifestato sotto forma di aggressore, ma questa volta i due ragazzi agiscono come protettori, accusando Sara di abusare di suo figlio e dicendole che Liam ora appartiene a loro.

Questo sembra implicare che tutte le volte che vediamo Liam piangere quando lui e Sara sono soli in casa siano il risultato della negligenza o del vero e proprio abuso da parte della madre. La psicosi di Sara si è manifestata in modo tale che lei non ricorda ciò che ha fatto a suo figlio e ha creato nella sua mente l’intera esperienza di essere perseguitata. È la stessa mente che ora la mette sotto processo, minacciando di separarla da Liam. Affrontando questi problemi, sembra finalmente instaurare un vero legame con suo figlio. Quando arriva il mattino e Alex ritorna, Sara ha esorcizzato i suoi demoni. Questo probabilmente non significa che sia completamente guarita. La depressione non funziona in questo modo. Ma ora è almeno pronta ad affrontare i suoi problemi.

Emma Roberts in Abandoned
Emma Roberts in Abandoned

Sara è incinta?

La sequenza finale del film si svolge alcuni anni dopo che Sara e Alex si sono trasferiti nella casa. Liam è cresciuto e Sarah non ha più l’elastico al polso, segno che ha fatto molta strada. L’ultima scena del film rivela che Sara è incinta del secondo figlio di Alex. La vita della coppia è chiaramente migliorata. Hanno finalmente trasformato la loro casa in una vera famiglia.

Tuttavia, proprio prima che venga rivelata la sua gravidanza, Sara sembra turbata in una breve inquadratura del suo viso. Probabilmente è preoccupata che la depressione post-partum possa tornare, il che non è una paura infondata. La ricorrenza della depressione post-partum è piuttosto comune. Può derivare da molteplici fattori, tra cui la prospettiva di doversi prendere cura di più figli. Quindi, sarà importante che Alex sostenga sua moglie in tutto ciò di cui ha bisogno, proprio come ha fatto l’ultima volta.

Cosa è successo alla famiglia Solomon? Chi è Renner?

Come accennato in precedenza, Cindy informa con riluttanza Sara e Alex che nella proprietà c’è stato un omicidio-suicidio. Anna Solomon ha ucciso suo padre e sua figlia prima di togliersi la vita. In seguito si scopre che Anna aveva un fratello, Andrew. La loro madre morì quando Andrew aveva un anno. Robert iniziò ad abusare sessualmente di sua figlia. Ad un certo punto, Anna ha dato alla luce una figlia. Sopraffatta dagli abusi e dalla vergogna per come era stata concepita sua figlia, Anna ha commesso un omicidio-suicidio.

Tuttavia, Andrew è sopravvissuto ed è stato affidato a una famiglia adottiva. Anni dopo, è tornato. Anche se usava il nome Chris Renner, tutti nella zona sapevano chi era. Quando ha iniziato a vivere accanto alla sua vecchia casa, glielo hanno permesso. Questo è continuato fino a quando Sara e Alex hanno comprato la casa. Gli altri ragazzi di cui parla Renner sono stati probabilmente uccisi da Robert, che ha lasciato i corpi nella stanza nascosta. Ecco perché ha messo l’armadio davanti, in modo che nessuno tranne lui potesse accedervi.

Quelli che mi vogliono morto: il film è tratto da una storia vera?

Diretto da Taylor Sheridan (I segreti di Wind River), Quelli che mi vogliono morto è un film d’azione che ruota attorno a Hannah (Angelina Jolie), una vigile del fuoco che non riesce a salvare tre ragazzini da un incendio boschivo. Tormentata dal senso di colpa, inizia gradualmente a perdersi nell’alcol e nell’autolesionismo. Nel frattempo, un ragazzino di nome Connor (Finn Little) fugge da Jacksonville, in Florida, con suo padre dopo che il capo di quest’ultimo è stato assassinato. Il loro obiettivo è raggiungere lo zio materno di Connor, Ethan (Jon Bernthal), un agente di polizia del Montana.

Tuttavia, il padre di Connor viene trovato e ucciso da due assassini professionisti, Jack (Aidan Gillen) e Patrick (Nicholas Hoult). Connor riesce a scappare e incontra Hannah. Dopo aver appreso la sua situazione, Hannah decide di proteggere il ragazzo dagli assassini e dal terrificante incendio boschivo che hanno appiccato. Dopo la sua uscita, il film ha ricevuto recensioni per lo più positive, con i critici che hanno elogiato la sua rappresentazione dell’incendio boschivo e della vita dei vigili del fuoco paracadutisti. Se vi state chiedendo se Quelli che mi vogliono morto sia ispirato a eventi reali, ecco cosa dovete sapere.

Quelli che mi vogliono morto Angelina Jolie Jon Bernthal

Quelli che mi vogliono morto è basato su una storia vera?

No, Quelli che mi vogliono morto non è basato su una storia vera. È l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo giallo contemporaneo del 2014 dello scrittore americano Michael Koryta. La sceneggiatura del film è stata scritta da Koryta, Sheridan e Charles Leavitt e differisce in modo significativo dal libro originale. Ad esempio, il protagonista più giovane del libro è Jace, mentre, come già detto, nel film è Connor. Dopo aver assistito a un omicidio, Jace si iscrive con una falsa identità a un programma di sopravvivenza nella natura selvaggia per adolescenti con problemi.

Il programma è gestito da Ethan e sua moglie Allison. Anche Hannah appare nel libro ed è uno dei personaggi principali, ma la sua partecipazione non è così importante come nel film. Questi cambiamenti sono probabilmente dovuti al coinvolgimento della Jolie. Sebbene la storia raccontata dal film sia di fantasia, la sua rappresentazione degli incendi boschivi è piuttosto accurata. Il film mostra che gli incendi boschivi possono aumentare di velocità, specialmente quando si muovono in salita o in discesa. Descrive anche, sebbene brevemente, la vita pericolosa dei vigili del fuoco paracadutisti.

Quelli che mi vogliono morto Finn Little Angelina Jolie
Finn Little e Angelina Jolie in Quelli che mi vogliono morto

In America, gli smokejumper fanno parte del servizio forestale, un’unità di vigili del fuoco che riceve un addestramento esclusivo su come affrontare un incendio boschivo dopo essere atterrati sul luogo con un paracadute. Il film d’azione e thriller del 1998 “Firestorm” è un altro film che ha come protagonista uno smokejumper. Ambientato nel Wyoming settentrionale, il film racconta la storia di Jesse Graves (Howie Long), che deve salvare Jennifer (Suzy Amis), un’ornitologa, da un gruppo di detenuti evasi, affrontando contemporaneamente due incendi boschivi.

Un altro aspetto importante di Quelli che mi vogliono morto riguarda assassini professionisti, politici corrotti e funzionari governativi assassinati. La corruzione è dilagante ovunque e l’America non fa eccezione. Nel corso degli anni, numerosi membri del Congresso sono stati costretti a dimettersi dopo che le loro attività illegali sono venute alla luce. Alcuni sono stati persino mandati in prigione. È possibile che almeno alcune di queste persone influenti e potenti assumano assassini per uccidere chiunque indaghi su di loro. Quindi, è comprensibile che si possa pensare che Quelli che mi vogliono morto sia basato su eventi reali, ma chiaramente non è così.

LEGGI ANCHE: Quelli che mi vogliono morto: la spiegazione del finale del film

Festa del Cinema di Roma: Pilar Fogliati, Edoardo Leo e le star italiane sul red carper

Ecco le immagini dal red carpet della Festa del Cinema di Roma 2025, che nella serata di giovedì 16 ottobre ha offerto il suo lungo percorso della cavea ai protagonisti di Per te, su tutti Edoardo Leo, e Breve Storia d’amore, esordio alla regia di Ludovica Rampoldi, con Pilar Fogliati, Adriano Giannini e Andrea Carpenzano.

VisionQuest: lo showrunner parla del ruolo di Ultron nella serie

0
VisionQuest: lo showrunner parla del ruolo di Ultron nella serie

VisionQuest concluderà la trilogia iniziata con WandaVision e proseguita lo scorso anno con Agatha All Along. C’è grande fermento intorno a ciò che questo significa per l’MCU, in particolare con Avengers: Doomsday all’orizzonte. La serie affronterà probabilmente lo status di Scarlet Witch dopo la sua apparente scomparsa in Doctor Strange nel Multiverso della Follia. Per quanto riguarda Vision, si ricongiungerà con i suoi figli, Billy e Tommy Maximoff, e con alcune IA familiari del suo passato e di quello dell’MCU (che, secondo recenti voci, si nascondono a Madripoor dopo aver assunto in qualche modo forma “umana”).

Ci sono state alcune preoccupazioni tra i fan riguardo al fatto che Ultron di James Spader, ad esempio, sia stato ritratto in questo modo per risparmiare sui costi degli effetti speciali. Il design del cattivo in Avengers: Age of Ultron del 2015 era stato un argomento piuttosto controverso all’epoca, e i fan hanno aspettato più di un decennio per vedere l’androide tornare in piedi. Parlando con Phase Hero, lo showrunner di VisionQuestTerry Matalas, ha confermato che vedremo Ultron nella sua vera forma. “Si vede il robot Ultron, ma si vedono anche molto James Spader e Paul Bettany insieme”, ha anticipato. “Sono davvero il cuore pulsante della serie”.

Ha aggiunto che la serie funge da “veicolo per Bettany e Spader” ed è evidente che VisionQuest affronterà finalmente ciò che è successo dopo lo scontro finale tra Vision e Ultron nel bosco alla fine di Avengers: Age of Ultron. Questo è stato lasciato volutamente ambiguo; anche se sembrava probabile che Vision avesse distrutto suo “padre”, è stato a lungo ipotizzato che potesse averlo lasciato libero (o che Ultron avesse trovato un modo per fingere la sua morte). Il cattivo è stato chiaramente molto impegnato, circondandosi di una sorta di famiglia a Madripoor.

Ci sono ancora molte cose che non sappiamo su VisionQuest e, secondo Matalas, possiamo aspettarci che ogni episodio sia completamente unico. “Tutti”, ha risposto dopo che gli è stato chiesto se avesse un episodio preferito. “Ad essere onesti, sono tutti molto diversi. Ognuno di essi è un tipo di film diverso, quindi di ognuno potrei dire: ‘Non vedo l’ora di vederlo, non vedo l’ora di vederlo’. Sono tutti così diversi, ma tutti hanno dei momenti che preferisco”.

Stranger Things – Stagione 5, Finn Wolfhard rivela: “temo un finale criticato come Il Trono di Spade”

0

Con l’avvicinarsi della fine per la banda di Hawkins, nell’Indiana, Finn Wolfhard spera di dare a Stranger Things un addio degno. L’attore ha ammesso di essere “piuttosto preoccupato” che la quinta e ultima stagione della serie fantascientifica di Netflix possa essere “fatta a pezzi”, proprio come è successo con il tanto atteso finale di Il Trono di Spade nel 2019, che ha lasciato il pubblico diviso.

Onestamente, penso che tutti fossero piuttosto preoccupati”, ha detto Wolfhard a Time. “Visto il modo in cui Game of Thrones è stato fatto a pezzi in quell’ultima stagione, ci siamo tutti avvicinati a questo progetto pensando: ‘Speriamo che non succeda una cosa del genere’. Ma poi abbiamo letto le sceneggiature. Abbiamo capito che era qualcosa di speciale”.

Stranger Things – Stagione 5, i dettagli sulla nuova stagione

Il cast della quinta stagione vedrà il ritorno di tutti i volti principali. Millie Bobby Brown sarà ancora Undici, pronta a usare i suoi poteri in una battaglia decisiva. Fanno poi parte del cast Finn Wolfhard (Mike), Noah Schnapp (Will), Gaten Matarazzo (Dustin), Caleb McLaughlin (Lucas), Sadie Sink (Max) e Natalia Dyer (Nancy), Joe Keery (Steve), Charlie Heaton (Jonathan), Maya Hawke (Robin), Winona Ryder (Joyce) e David Harbour (Hopper). Grande attesa anche per il ritorno di Jamie Campbell Bower nel ruolo di Vecna/Henry, ancora più potente e vendicativo.

Netflix sta suddividendo la quinta stagione della serie in tre uscite distinte: i primi quattro episodi debutteranno il 26 novembre, durante le vacanze del Ringraziamento, con “Sorcerer” che fungerà da finale di metà stagione. I successivi tre episodi debutteranno a Natale e il finale, “The Rightside Up”, debutterà a Capodanno. Insieme ai fratelli Duffer, gli episodi sono stati diretti dal produttore esecutivo Shawn Levy e dal regista Frank Darabont (“Le ali della libertà”).

40 Secondi: la storia vera dietro il film ispirato a Willy Monteiro Duarte

40 Secondi è un film che nasce per raccontare la violenza, la paura e il coraggio di un ragazzo che, nel tentativo di difendere un amico, ha perso la vita. Diretto da Vincenzo Alfieri e prodotto da Eagle Pictures, il film si ispira alla tragica vicenda di Willy Monteiro Duarte, avvenuta nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 a Colleferro.

Con un cast guidato da Justin De Vivo, Francesco Gheghi, Francesco Di Leva, Sergio Rubini e Maurizio Lombardi, 40 Secondi è un’opera che unisce cinema civile e dramma corale, riflettendo sulla brutalità e sull’indifferenza che possono consumare una vita in pochi istanti.

Cosa succede in 40 Secondi

Il film si apre con una giornata come tante: amici che si incontrano, discussioni che si accendono, un sabato sera che sembra destinato a finire senza sorprese. Ma nel giro di quaranta secondi – il tempo di uno sguardo, di una parola di troppo, di un pugno – tutto cambia.

40 Secondi racconta le ultime ore di Willy, intrecciando i punti di vista dei ragazzi coinvolti e delle persone che gravitano attorno a quella notte. L’approccio non è sensazionalistico, ma intimo e osservativo: la violenza non è spettacolo, ma trauma collettivo.

Alfieri sceglie di alternare momenti di luce – i sogni, la musica, la speranza – con quelli di buio e caos, costruendo una tensione crescente che culmina nell’aggressione finale. Ogni dettaglio, ogni gesto, è scandito da una regia che punta a mostrare quanto il male possa essere banale e rapido, come la durata del titolo stesso: quaranta secondi che cambiano tutto.

La storia vera di Willy Monteiro Duarte

i fratelli Bianchi in 40 Secondi
Cortesia di Eagle Pictures

Willy Monteiro Duarte aveva 21 anni. Nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, a Colleferro (provincia di Roma), intervenne per difendere un amico coinvolto in una lite davanti a un locale. In pochi istanti – quei “quaranta secondi” che il titolo del film trasforma in dispositivo narrativo – fu pestato a calci e pugni da più persone fino a perdere la vita. L’omicidio scosse il Paese e portò a quattro arresti: Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti originari di Artena.

Il procedimento giudiziario ha avuto tappe decisive. Il 4 luglio 2022, in primo grado, la Corte d’Assise di Frosinone ha condannato i fratelli Bianchi all’ergastolo, Belleggia a 23 anni e Pincarelli a 21. Nel luglio 2023, in appello, ai Bianchi sono state riconosciute le attenuanti generiche con la riduzione a 24 anni; le pene per Belleggia e Pincarelli sono state confermate. Il 17 settembre 2024, la Corte di Cassazione ha annullato la decisione limitamente alle attenuanti concesse ai Bianchi, imponendo un nuovo giudizio d’appello (“appello-bis”).

L’appello-bis si è concluso a Roma il 14 marzo 2025: la Corte d’Assise d’Appello ha stabilito l’ergastolo per Marco Bianchi e 28 anni di reclusione per Gabriele Bianchi (con attenuanti generiche); le responsabilità penali per l’omicidio di Willy risultano così definitivamente riaffermate nella parte sostanziale, dopo l’intervento della Cassazione. È la fotografia giudiziaria più recente del caso.

La dimensione civile della vicenda è stata immediata e profonda. Ai funerali del 12 settembre 2020 parteciparono autorità e centinaia di persone, mentre l’episodio aprì un confronto pubblico sulla violenza di gruppo e sull’importanza di chi sceglie di intervenire per fermarla. Nei mesi e negli anni successivi, la memoria di Willy è stata tenuta viva da iniziative istituzionali e territoriali, a partire dalla piazza a lui intitolata nel luogo dell’uccisione inaugurata a Colleferro il 6 settembre 2023.

Sul piano simbolico, la Repubblica ha riconosciuto il gesto di Willy: il 6–7 ottobre 2020 il Presidente Sergio Mattarella gli ha conferito la medaglia d’oro al Valor Civile “alla memoria”, definendolo un “luminoso esempio” di coraggio e altruismo per le giovani generazioni. Questo onore sottolinea il nucleo etico della storia: l’idea che un atto di solidarietà spontanea possa – e debba – essere un riferimento per la comunità.

Nel racconto filmico, quei pochi secondi diventano il punto di non ritorno: un tempo brevissimo in cui si incrociano destini, responsabilità e omissioni. Nella cronaca reale, invece, la stessa manciata di secondi ha generato anni di indagini e processi, testimonianze di coetanei che si sono presentati subito in questura e un dibattito collettivo sulla prevenzione della violenza, sulla cultura del branco e sul valore—spesso rischioso—di non voltarsi dall’altra parte. È in questo spazio, tra memoria e giustizia, che si colloca l’“approfondimento”: ricordare chi era Willy, come e perché è stato ucciso, e quali conseguenze sociali e giudiziarie – fino alle sentenze del 14 marzo 2025 – quel crimine ha lasciato in eredità.

Timeline della vicenda Willy Monteiro Duarte (2020–2025)

  • 5–6 settembre 2020 – A Colleferro, Willy Monteiro Duarte viene ucciso durante un pestaggio mentre cerca di difendere un amico.

  • 7 settembre 2020 – Arrestati i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia.

  • 12 settembre 2020 – Funerali solenni a Paliano con la presenza del Presidente del Consiglio e di numerose autorità.

  • 6 ottobre 2020 – Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella conferisce a Willy la Medaglia d’Oro al Valor Civile “alla memoria”.

  • 4 luglio 2022 – La Corte d’Assise di Frosinone condanna i fratelli Bianchi all’ergastolo, Belleggia a 23 anni, Pincarelli a 21.

  • 12 luglio 2023 – In appello, i Bianchi ottengono le attenuanti generiche: pena ridotta a 24 anni.

  • 17 settembre 2024 – La Cassazione annulla la concessione delle attenuanti e dispone un nuovo appello-bis.

  • 14 marzo 2025 – La Corte d’Assise d’Appello di Roma conferma la colpevolezza: ergastolo per Marco Bianchi, 28 anni per Gabriele Bianchi.

Dwayne Johnson e Benny Safdie di nuovo insieme per Lizard Music

0
Dwayne Johnson e Benny Safdie di nuovo insieme per Lizard Music

A seguito di una situazione competitiva, United Artists di Amazon MGM Studios e Scott Stuber hanno acquisito Lizard Music, un pacchetto con Dwayne Johnson come protagonista e Benny Safdie come regista. Safdie scriverà anche la sceneggiatura, basata sul romanzo di Daniel Pinkwater. Deadline ha dato per primo la notizia che il pacchetto sarebbe stato messo sul mercato dopo che il film di Safdie e Johnson, The Smashing Machine, prodotto da A24, è stato presentato al Festival del Cinema di Venezia. Il film ha fatto vincere a Safdie il premio come miglior regista a Venezia e ha fatto guadagnare a Johnson le migliori recensioni della sua carriera per la sua interpretazione del lottatore UFC Mark Kerr.

Il nuovo film dei due racconterà la storia di un ragazzo lasciato a se stesso che si imbatte in una trasmissione segreta notturna di lucertole che suonano musica ultraterrena, e una porta nascosta verso lo straordinario si spalanca. La sua ricerca di risposte lo porta dall’eccentrico e stravagante settantenne Chicken Man e dalla sua amata compagna, una gallina di 111 anni di nome Claudia, due anime gemelle che si sono trovate al momento giusto. Uniti da questa visione condivisa, partono per un’avventura che inizia come una caccia a una società segreta, ma che sboccia in qualcosa di molto più grande: un viaggio attraverso mondi invisibili, armonie inaspettate e il legame indissolubile tra anime perdute che scoprono la magia non solo in ciò che trovano, ma anche l’una nell’altra.

Siamo entusiasti di collaborare ancora una volta con il talentuoso Dwayne Johnson e di lavorare per la prima volta con il fantastico creatore, sceneggiatore e regista Benny Safdie su Lizard Music”, ha dichiarato Courtenay Valenti, responsabile del reparto Film, Streaming e Cinema di Amazon MGM Studios. “Tutti noi di Amazon MGM e UA siamo profondamente ispirati dalla loro precedente collaborazione nel film acclamato dalla critica The Smashing Machine. Siamo entusiasti di collaborare con loro a questa storia fantasiosa, divertente e cinematografica; Lizard Music è un racconto che sembra allo stesso tempo senza tempo e unico. Siamo molto fortunati che abbiano riposto in noi la loro fiducia come partner di studio”.

I produttori di Lizard Music includono Stuber e Nick Nesbitt di UA, Safdie di Out for the Count Productions, Dwayne Johnson di Seven Bucks Productions e David Koplan di Magnetic Fields Entertainment. “Ho avuto la fortuna di lavorare con Dwayne e Benny su diversi progetti e ho potuto constatare di persona il loro incredibile talento e la loro intesa come artisti”, ha dichiarato Stuber. “Il mondo che hanno creato insieme per Lizard Music è diverso da qualsiasi cosa abbiano fatto prima, e non potremmo essere più entusiasti di dare vita a questa storia meravigliosamente fantasiosa”.

Safdie ha dichiarato: “Non potrei essere più entusiasta di intraprendere questo viaggio con Amazon MGM Studios e United Artists. Lizard Music è un libro che ho letto ai miei due figli, e siamo rimasti affascinati dalla sua fantasia e meraviglia. Amo Daniel Pinkwater come persona e come autore; l’idea di realizzare un film in cui tutti possano partecipare alla conversazione è allo stesso tempo emozionante e bellissima. Intraprendere questa avventura con Dwayne e poterlo vedere trasformarsi e diventare l’Uomo Pollo è semplicemente incredibile. Non vedo l’ora!“.

Laurence Fishburne interessato a interpretare Charles Xavier nel reboot di X-Men

0

Laurence Fishburne ha le idee chiare su quale franchise cinematografico vorrebbe entrare a far parte, e lo ha reso noto al New York Comic Con. L’attore di Matrix ha dichiarato di essere disponibile a entrare a far parte del Marvel Cinematic Universe ora che X-Men sta per essere rilanciato, ma non è entusiasta all’idea di entrare nell’universo di Star Wars. “So che ora stanno parlando degli X-Men”, ha detto Fishburne durante un panel alla convention.

Quindi, a questo punto, vorrei una delle due cose. La prima sarebbe: cosa ne pensate di Laurence Fishburne nei panni del Professor X?”. Durante il panel al NYCC, è stato poi suggerito che Fishburne potrebbe avere un potenziale anche nell’universo di Star Wars, ma l’attore ha subito risposto: “No, sto bene così”. “Sto guardando tutto. Sto guardando tutti i film di Star Wars, ora sono a metà di Rebels”, ha aggiunto. “Sto bene sul divano con Star Wars. Non ho bisogno di una spada laser. Non ho bisogno di pew pew!”.

Cosa sappiamo del reboot degli X-Men 

Kevin Feige della Marvel ha confermato che lo studio sta lavorando al reboot di X-Men con il regista di Thunderbolts* Jake Schreier alla guida del film. Quando Disney e 20th Century Fox si sono fuse nel 2019, i personaggi di X-Men sono diventati disponibili per il Marvel Cinematic Universe. Alcuni degli attori che hanno recitato nei film della Fox riprenderanno i loro ruoli nel prossimo film Avengers: Doomsday, che uscirà il 18 dicembre 2026.

Charles Xavier, il leader degli X-Men, noto anche come Professor X, è stato interpretato da Patrick Stewart nei film live-action. Riprenderà il suo ruolo in Doomsday, che dovrebbe concludere la saga dei personaggi, insieme a Ian McKellen (Magneto), Alan Cumming (Nightcrawler), Rebecca Romijn (Mystica), James Marsden (Ciclope) e Channing Tatum (Gambit).

Secondo quanto riferito, il casting ufficiale dovrebbe iniziare molto presto (se non è già iniziato) e personaggi del calibro di Harris Dickinson, Margaret Qualley, Elle Fanning e Julia Butters sarebbero nel mirino dello studio (secondo quanto riferito, erano in lizza per interpretare Cyclope, Rogue e Kitty Pryde, ma non sappiamo se sia ancora così), insieme alla star di Alien: Romulus David Jonsson e Trinity Bliss, che potrebbero essere in lizza per interpretare Jubilee. Altri nomi che sono emersi nelle voci di corridoio includono Hunter Schafer (Mystica), Ayo Edebiri (Tempesta) e Javier Bardem (Mr. Sinister).

Riguardo al progetto Kevin Feige ha dichiarato di avere un “piano decennale” per la saga dei mutanti. “Penso che lo vedrete continuare nei nostri prossimi film con alcuni personaggi degli X-Men che potreste riconoscere. Subito dopo, l’intera storia di Secret Wars ci condurrà davvero in una nuova era dei mutanti Ancora una volta, è uno di quei sogni che diventano realtà. Finalmente abbiamo di nuovo gli X-Men“.

In a Violent Nature: recensione del film horror di Chris Nash

In a Violent Nature: recensione del film horror di Chris Nash

C’è qualcosa di ipnotico e profondamente disturbante in In a Violent Nature, l’opera prima di Chris Nash che ha fatto parlare di sé fin dal Sundance 2024. A prima vista sembra un omaggio ai classici slasher di fine anni ’70, un film di sangue e boschi, di giovani ignari e mostri risorti. Basta però immergersi nei primi minuti di visione, in cui la macchina da presa si muove lenta tra gli alberi, accompagnando un corpo che riemerge dalla terra, per capire che il regista canadese non vuole imitare Venerdì 13: vuole sezionarlo dall’interno, riportando il genere alla sua brutalità essenziale.

La scelta più radicale è proprio quella che definisce il film: lo sguardo del killer. Per gran parte della durata seguiamo Johnny, un essere mostruoso e immortale, attraverso la sua prospettiva. Non ci sono battute, ironia né commenti metacinematografici. Solo passi pesanti, il rumore degli scarponi che schiacciano le foglie, il suono sordo dei corpi trascinati, e la sensazione di essere intrappolati nella routine della morte. Nash elimina il filtro dello spettacolo e ci costringe a condividere la monotonia del male, quella ripetitività quasi burocratica dell’uccidere. Johnny non prova rabbia né piacere: sembra solo stanco, come se fosse condannato a ripetere un rito senza fine.

Un’esperienza sensoriale

La forza di In a Violent Nature non risiede nella storia, ma nella sua costruzione sensoriale. Nash abbandona qualsiasi colonna sonora tradizionale e lascia spazio solo ai rumori del bosco e alle musiche che provengono dalle radio dei ragazzi. Il silenzio, interrotto da passi, fruscii e mormorii lontani, diventa la vera colonna sonora del film. Ogni suono è calibrato per amplificare la tensione: lo scricchiolio di un ramo, il colpo secco di una pala, il respiro ovattato dietro una maschera.

Girato in formato 4:3, il film chiude letteralmente lo spazio visivo, trasformando la foresta in un condotto soffocante di alberi e nebbia. La macchina da presa segue Johnny di spalle, a volte da molto vicino, altre lasciandolo camminare come un’ombra che attraversa un paesaggio quasi alieno. C’è qualcosa di videoludico in questo dispositivo – un po’ Alien: Isolation, un po’ Silent Hill – ma Nash non lo usa per spettacolarizzare: lo impiega per spogliare lo spettatore di qualsiasi controllo.

Così, in questa esperienza di immersione pura, lo spettatore diventa un osservatore impotente, trascinato nella lentezza del male. Ogni omicidio, spesso mostrato in un solo piano sequenza, è più disturbante per la sua durata che per la sua brutalità.

Una scena di In a Violent Nature
Una scena di In a Violent Nature – © IFC FILMS / SHUDDER

L’orrore come routine

Il film si apre con la profanazione di una tomba nascosta nel bosco. Un gruppo di ragazzi, in vacanza, trova una collanina tra i resti di una torre di osservazione crollata. Non sanno che quell’oggetto custodisce la pace di un’anima vendicativa. Rubandola, risvegliano Johnny, un’entità che non è più umana ma neppure del tutto spettrale: un corpo putrefatto che torna in vita per recuperare ciò che gli è stato tolto. Da quel momento, la vendetta è meccanica, inevitabile.

Ogni uccisione è un atto rituale, preparato con precisione e mostrato con una lentezza quasi sacrale. Johnny incide il nome della vittima su una medaglietta dopo ogni delitto, come a prolungare il gesto oltre la carne. Non c’è adrenalina, non c’è climax: solo la freddezza del gesto ripetuto. È un modo per spogliare lo slasher dei suoi cliché – le battute, la competizione tra personaggi, la corsa alla sopravvivenza – e lasciarci soli, letteralmente, con il mostro.

Il mito, la colpa, il silenzio

Dietro la figura di Johnny si nasconde una leggenda, raccontata da una sopravvissuta a un’altra sopravvissuta: sessant’anni prima, un delitto atroce aveva generato la sua maledizione. La collana, che in vita apparteneva alla madre, è l’unico oggetto che ancora lega la sua anima alla terra. Finché nessuno la tocca, Johnny resta sepolto sotto il terreno. Ma il gesto incauto di quei ragazzi lo risveglia e, come in una maledizione collettiva, tutto il paese sa che è meglio non parlarne, non sfidarlo, non violare il suo riposo.

Il film diventa così un racconto sul trauma e sulla responsabilità condivisa. Non è solo Johnny a essere una vittima di violenza: è la comunità stessa che lo ha generato, che preferisce dimenticare, che lo lascia dormire piuttosto che affrontare ciò che rappresenta. Il finale, interamente ambientato dentro un’auto, spiazza per la sua staticità. Dopo tanta brutalità, il film si chiude in silenzio, tra due generazioni di sopravvissute che si parlano senza guardarsi davvero. È un momento di ammissione e di resa, un tentativo di interrompere il ciclo, anche se il terrore non svanirà mai del tutto.

La giovane Kris continuerà per sempre a guardare verso i boschi, perché ciò che è stato visto non si dimentica. L’orrore di Nash non è catarsi, ma una condanna alla memoria.

Lo slasher come memoria collettiva

Con In a Violent Nature, Chris Nash restituisce dignità a un genere spesso ridotto a formula, ricordandoci che lo slasher è nato come rito, non come spettacolo. Invece di cercare l’originalità nei colpi di scena, la trova nella forma: nello sguardo, nel suono, nella lentezza. E, paradossalmente, più il film diventa essenziale, più si avvicina all’origine del terrore.

Johnny, con i suoi scarponi pesanti e il suo passo inesorabile, non è solo un mostro: è la manifestazione di ciò che resta quando la violenza diventa abitudine. Un orco che cammina in mezzo ai resti della civiltà, tra foglie, sangue e silenzio. Nash non gli concede redenzione, né spettacolo. Solo la consapevolezza che, finché continueremo a guardare altrove, l’orrore non smetterà mai di camminarci accanto.