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Outer Banks 4, la spiegazione della storia vera di Edward Teach e la leggenda del tesoro di Barbanera

Outer Banks 4 vede i Pogues – John B, Sarah, Kiara, Pope, JJ e Cleo – alla ricerca del tesoro di Edward Teach, alias il famigerato pirata Barbanera. La serie teen drama d’azione e avventura di Netflix, creata da Josh Pate, Jonas Pate e Shannon Burke, segue un gruppo di Pogue nelle Outer Banks, ovvero appartenenti alla classe operaia (i genitori di Kiara sono Kooks (residenti benestanti) ma lei si identifica come Pogue, e Cleo è una Pogue onoraria dopo la terza stagione di Outer Banks). I personaggi si ritrovano a fare delle cacce al tesoro e la loro avventura nella quarta stagione coinvolge Barbanera.

Il finale della terza stagione di Outer Banks fa un salto in avanti di 18 mesi dopo che i Pogue hanno trovato El Dorado, e un uomo di nome Wes Genrette si avvicina a John B., Sarah, Kiara, Pope, JJ e Cleo durante la cerimonia in onore della loro scoperta. Ha una proposta per loro: collaborare con lui per trovare il tesoro di Barbanera. Genrette ha il diario di bordo del capitano di Barbanera del 1718 e, come si è visto nella quarta stagione, i Pogue accettano di aiutarlo. Di conseguenza, la quarta stagione è incentrata sui personaggi delle Outer Banks alla ricerca del tesoro del pirata. Più precisamente, sono alla ricerca dell’amuleto mancante della moglie di Barbanera, Elizabeth.

La vera storia di Edward Teach nei panni del pirata Barbanera spiegata

Secondo il Royal Museums Greenwich, Edward Teach, meglio conosciuto come Barbanera, è nato nel 1680, presumibilmente in Gran Bretagna. L’eredità di Barbanera è quella di uno dei pirati più temibili della storia, che lo rende una delle ispirazioni più popolari per i pirati immaginari in libri, film e programmi televisivi. Tuttavia, Barbanera è stato anche ritratto da attori sullo schermo: Taika Waititi ha interpretato il pirata in Our Flag Means Death e Ray Stevenson in Black Sails sono alcune delle rappresentazioni più recenti.

Sfortunatamente, non si sa molto della vita di Barbanera prima che diventasse un pirata, il che permette alla serie TV di Netflix di avere una certa libertà creativa durante la creazione della storia della quarta stagione di Outer Banks. Durante la Guerra di Successione Spagnola, all’inizio del 1700, Teach era un corsaro, ovvero saccheggiava le navi spagnole per conto degli inglesi nelle Indie Occidentali. Dopo la fine della guerra, Teach non era pronto ad abbandonare la vita da pirata, così lavorò per il capitano Benjamin Hornigold fino a raggiungere il grado di capitano.

Intorno al 1717, Teach catturò una nave e la chiamò Queen Anne’s Revenge. Con il suo nuovo vascello, il capitano salpò per i Caraibi, dove continuò a saccheggiare, a terrorizzare i cittadini e ad abbracciare la vita del pirata con il suo equipaggio di 300 uomini. Teach divenne una figura rinomata nella comunità dei pirati e si guadagnò presto il soprannome di Barbanera per la sua inconfondibile barba nera e il suo aspetto minaccioso. Si dice anche che accendesse delle micce nei capelli per rendere il suo aspetto ancora più spaventoso. Tuttavia, le avventure di Barbanera sui mari non erano destinate a durare per sempre.

Come morì Barbanera e cosa si dice ci sia nel suo tesoro nascosto

Barbanera spostò le sue operazioni sulle coste della Carolina del Nord e del Sud, dove catturò l’attenzione del governatore della Virginia, Alexander Spotswood. Il governatore si impegnò a catturare il pirata e, con la sua squadra di cacciatori, Spotswood riuscì a trovare Barbanera e i suoi uomini vicino all’isola di Ocracoke, nella Carolina del Nord. Barbanera si oppose, ma quando lui e la sua ciurma salirono a bordo della nave del tenente Robert Maynard, caddero in un’imboscata delle truppe di Maynard. Il famigerato pirata fu ucciso durante lo scontro il 22 novembre 1718 e Maynard avrebbe appeso la testa di Barbanera all’albero della sua nave.

Dopo la morte di Barbanera, iniziarono a diffondersi voci sul suo presunto tesoro nascosto. I resoconti sostenevano che il tesoro comprendeva un’ingente fortuna sotto forma di oro. Naturalmente molti cercarono di trovarlo, ma a tutt’oggi nessuno ha scoperto il tesoro di Barbanera. Ma se c’è qualcuno che può trovarlo (almeno nel mondo fittizio della TV), sono John B., Sarah, Kiara, Pope, JJ e Cleo nella quarta stagione di Outer Banks.

Barbanera potrebbe aver seppellito il suo tesoro sull’isola di Ocracoke, nelle Outer Banks

Molti credono che Barbanera abbia sepolto il suo tesoro sull’isola di Ocracoke, nella Carolina del Nord, vicino agli Outer Banks. Secondo lo Smithsonian Magazine, nel giugno del 1718 Barbanera fece scontrare la Queen Anne’s Revenge con un banco di sabbia al largo della costa di Beaufort, nella Carolina del Nord, costringendoli ad abbandonarla mentre affondava in fondo al mare. Il pirata e il suo equipaggio si ritirarono a Ocracoke Island a bordo dell’Adventure, dove il tenente Robert Maynard e le sue truppe trovarono e uccisero Barbanera. Di conseguenza, alcuni ritengono che Barbanera abbia seppellito il suo tesoro a Ocracoke durante il suo soggiorno. Tuttavia, nessuno ha mai dimostrato la veridicità di questa teoria.

Quello che si ritiene essere il relitto della Queen Anne’s Revenge è stato scoperto vicino alla costa di Atlantic Beach, nella Carolina del Nord, nel novembre 1996. Naturalmente, negli anni successivi il relitto è stato parzialmente scavato e perlustrato, ma non è stato trovato alcun tesoro a bordo (anche se l’uscita della stagione 4, parte 1, di Outer Banks suggerisce il contrario). Sono stati rinvenuti manufatti, tra cui un cannone da segnalazione, vetri di finestre, una spada e cannoni, molti dei quali hanno portato gli archeologi a credere che il relitto sia effettivamente quello della Queen Anne’s Revenge (anche se nulla può essere completamente confermato).

La storia di Edward Teach nelle Outer Banks spiegata

Tenendo conto della storia di Barbanera e del tempo trascorso vicino alle Outer Banks dopo l’affondamento della Queen Anne’s Revenge, non sorprende che gli sceneggiatori di Outer Banks stiano preparando la quarta stagione intorno al famigerato pirata e al suo presunto tesoro sepolto. Ogni stagione della serie teen drama di Netflix si è concentrata su misteri diversi. È logico che i Pogues vadano a caccia di tesori nella loro città natale in Outer Banks 4. La ricerca del tesoro di Barbanera permette inoltre agli sceneggiatori di stabilire ulteriori collegamenti tra i personaggi e le figure storiche.

Barbanera ha trascorso diversi mesi al largo della costa della Carolina del Nord, il che significa che le possibilità relative alle sue imprese (e a quelle dei suoi uomini) durante quel periodo sono infinite per la storia di Outer Banks. Anche il coinvolgimento di Barbanera nel blocco di Charles Town (alias Charleston, South Carolina) viene menzionato e utilizzato per approfondire il mistero. Nel complesso, la prima parte di Outer Banks 4 di Netflix sfrutta gli spostamenti dei pirati nella Carolina del Nord e del Sud per sviluppare la storia della caccia al tesoro. Tuttavia, la rappresentazione della storia di Barbanera è basata più sulla finzione che sulla realtà.

Quello che Outer Banks 4 sbaglia sulla vera storia di Barbanera

Forse, quando si parla della storia di Barbanera, non si dovrebbe fare riferimento a Outer Banks 4. Purtroppo, gli sceneggiatori hanno inventato gran parte della storia del pirata per portare avanti la narrazione, compreso il suo stato civile. Secondo quanto riportato, Barbanera non era sposato con una donna di nome Elizabeth al momento della sua morte e non fu giustiziato insieme a lui. La sua ultima moglie sarebbe stata Mary Ormond, ma non è chiaro che fine abbia fatto. Di conseguenza, l‘amuleto di Elizabeth che Wes Genrette chiede ai Pogues di recuperare nella stagione 4, episodio 2, di Outer Banks è fittizio.

Anche la Corona Blu che Lightner e Dalia stanno cercando è falsa. Dal momento che il tesoro di Barbanera è per lo più oggetto di dicerie, gli sceneggiatori del teen drama d’azione e avventura di Netflix hanno dovuto inventarsi gli oggetti di grande valore che il pirata nascondeva nella Carolina del Nord e nei dintorni. Quindi, l’amuleto della moglie di Barbanera e la Corona Blu in Outer Banks 4 non sono reali. Inoltre, anche la storia della morte di Barbanera a Outer Banks è falsa.

Chi ha veramente ucciso Barbanera e dove è naufragata la sua nave vicino alle Outer Banks

Wes Genrette spiega ai Pogues in Outer Banks 4 di essere un discendente diretto di Francis Genrette, l’ufficiale britannico che catturò e uccise Barbanera. Tuttavia, nella vita reale, questo non è vero. Francis è un personaggio fittizio creato per lo show. Tuttavia, Francis è apparentemente basato sul reale esecutore di Barbanera, il tenente della Royal Navy Robert Maynard. Wes rivela anche che, dopo aver decapitato Barbanera (il che è in qualche modo vero, perché Maynard tagliò la testa del pirata), Francis uccise anche la moglie di Barbanera, Elizabeth. Come già detto, Elizabeth non è una persona reale, quindi anche questa parte della storia è falsa.

Per quanto riguarda il luogo in cui Barbanera fece naufragare l’Adventure, non è chiaro cosa sia successo alla nave fino ad oggi. La Guardia Costiera ha localizzato e scavato la Queen Anne’s Revenge vicino ad Atlantic Beach, nella Carolina del Nord, a circa 94 miglia dalle Outer Banks. Tuttavia, la posizione dell’Adventure, la nave affondata che JJ e Kiara cercano per trovare l’amuleto di Elizabeth nella quarta stagione di Outer Banks, è apparentemente sconosciuta.

Barbanera non è l’unica storia vera usata da Outer Banks

All’inizio della serie, Outer Banks non era necessariamente basato su una storia vera. Tuttavia, per quanto riguarda l’atmosfera, lo slang e il rapporto tra chi ha e chi non ha, si è basato sull’esperienza dei creatori Josh e Jonas Pate, cresciuti a OBX. “Èsicuramente uno show di evasione”, ha dichiarato Cline (via WWD). “Rappresenta quello che tutti vorrebbero fare in questo momento, ovvero stare sull’acqua, su una barca, senza dover stare in casa. Vivere in stile Pogue, insomma”.

Tuttavia, ci sono anche delle differenze. Non c’è nessuna faida tra Kooks e Pogues nel vero OTX, poiché è stato creato appositamente per la serie in streaming. Tuttavia, sebbene questi gruppi non esistano in queste forme, sull’isola esiste un forte senso di separazione di classe. Detto questo, non ci sono lotte tra le classi sociali.

Denmark Terry non è una persona reale, ma è basato su Denmark Vesey.

Il personaggio di Denmark Tanny di Outer Banks è invece più in linea con l’utilizzo di Barbanera nella storia. La serie si è concentrata molto sul suo omonimo e sulla sua eredità riguardo ai tesori nascosti. Denmark Terry non è una persona reale, ma è basato su Denmark Vesey. Vinse una lotteria nel 1799, acquistò la libertà e avviò un’attività di successo. Tentò di guidare una rivoluzione contro i proprietari di schiavi, ma fu catturato e giustiziato.

Un’altra ispirazione reale per Outer Banks è il Mercante Reale. Nella prima stagione, i Pogues cercano il Royal Merchant, che si credeva fosse andato perduto al largo degli Outer Banks nel 1829, con Denmark Tanny come unico superstite. Una vera Royal Merchant è stata persa in mare mentre salpava dalla Spagna nel 1641. Alcuni ritengono che il Royal Merchant fosse pieno di oro e tesori e che nessuno abbia mai ritrovato la nave. Il vero capitano di quella nave era John Limbrey, e Carla Limbrey di Outer Banks è la sua discendente nello show.

My Old Ass: recensione del film con Maisy Stella e Aubrey Plaza

Cosa chiederesti al tuo te del futuro? E se invece potessi parlare con il te del passato, che consigli gli daresti? Nel primo caso, probabilmente, vorresti sapere come sta andando la tua vita, cosa si è concretizzato e cosa no, se sei diventato ricco, se hai una bella famiglia o se hai viaggiato tanto quanto ti eri ripromesso. Nel secondo, invece, potresti voler dare alcuni consigli, offrire una prospettiva diversa sulla vita data l’esperienza in più, come ad esempio godersi di più il tempo con le persone care. È esattamente ciò che avviene in My Old Ass, il nuovo film della regista Megan Park (meglio nota come attrice ma fattasi notare nel 2021 con la sua prima regia, La vita dopo – The Fallout). 

Da lei anche scritto (e prodotto da Margot Robbie), il film ci pone dinanzi ad entrambe queste possibilità, configurandosi come un coming of age tanto semplice e delciato quanto capace di parlare dritto al cuore. My Old Ass non è infatti interessato a fornire particolari dettagli su come le due Elliott riescano a comunicare, né ambisce ad altri possibili risvolti fantasy. Piuttosto, si muove a partire da questo incontro per poi spostarsi subito oltre, verso un racconto “piccolo” ma nel quale si racchiudono tutta una serie di emozioni, stati d’animo e atmosfere che ci portano a ricordare quelle lezioni imparate troppo tardi o quei momenti del passato che avremmo voluto stringere di più a noi, se solo ne avessimo avuto una consapevolezza diversa.

La trama di My Old Ass

Il “vecchio culo” del titolo è quello della trentanovenne Elliott (Aubrey Plaza), che appare davanti ad un’incredula Elliott diciottenne (Maisy Stella) mentre è in preda alle allucinazioni causate da alcuni funghi ingeriti insieme alle sue due migliori amiche. La giovane Elliott è infatti in procinto di partire per Toronto, lasciandosi alle spalle la famiglia per intraprendere una vita nuova e diversa da quella fino a quel momento conosciuta. La serata di svago organizzata con le sue amiche prende però una piega inaspettata quando appunto incontra la sé stessa del futuro. Ciò che questa le dirà la spingerà a riconsiderare il tempo che trascorre con i suoi cari, ma la metterà anche in guardia da un misteriso Chad (Percy Hynes White).

Come scorre veloce il tempo

Chi ricorda l’ultima volta che si è usciti a giocare con i propri amici? Viene chiesto anche nel film. Nessuno pare ricordarlo e nell’accorgersene il cuore sembra stringersi un po’ dalla malinconia. È questo il sentimento che My Old Ass evoca mentre il suo racconto progredisce, con la sua protagonista sull’orlo di un grande cambiamento di vita. Un cambiamento che, come spesso accade, oscura tutto ciò che di contorno ad esso c’è, portandoci a perdere di vista quei piccoli dettagli in cui invece andrebbe riposto il nostro cuore. Perché lì dove c’è una figlia che si affaccia alla vita adulta, ci sono anche una madre e un padre che la guardano dirigersi nel mondo e allontanarsi da loro.

Ed è dunque il tempo il principale antagonista del film, più volte menzionato, maledetto e pregatodi fermarsi o anche solo rallentare un po’. Di quanto sia crudele Elliott ne è consapevole da subito, senza che occorra nessuna sé del futuro a dirglielo, anche se la cosa le verrà ribadita ugualmente. Ma per quanto lo si supplichi il tempo continua ad ignorarci e procede dritto nella sua corsa. Ciò che si può fare, dunque, è cercare di vivere al meglio possibile ogni attimo che si ha a disposizione. Motivo per cui se prima Elliott tiene un conto alla rovescia dei giorni che la separano dalla partenza, ben presto inizierà a vivere quella scadenza con tutt’altro stato d’animo.

In particolare, su consiglio della sé del futuro, inizia a spendere del tempo con la propria famiglia, riscoprendo la gioia di quei legami che troppo spesso si riscoprono e rimpiangono quando ormai hanno “cessato” di esistere. My Old Ass si compone così dei timidi avvicinamenti di Elliott ai fratelli, al padre e in particolar modo a quella madre definita “seccante”, ma grazie alla quale si avrà quella che è senza dubbio la scena più emotivamente forte del film, nella quale si ritrova uno dei frammenti del cuore di questo racconto. Una scena che contribuisce a far emergere tutta la prorompente vitalità del film, sprigionando emozioni che investono lo spettatore rimasto nel mentre senza alcuna difesa.

Maisy Stella è un autentico dono

È dunque l’assoluto presente il campo di indagine del film, che non a caso del futuro da cui proviene l’adulta Elliott non ci dice o mostra nulla (tranne alcune allarmanti sirene e l’invito a ripararsi nel seminterrato che sentiamo durante una telefonata tra le due, nulla di buono dunque). Elliott ha l’incredibile opportunità di dare più valore al suo presente, di imparare a cogliere quell’attimo fuggente che può rendere straordinaria la sua vita. La regista, dunque, si lascia alle spalle i toni cupi e drammatici del suo precedente film per dar vita ad un’opera seconda che è tra le cose più belle successe al genere coming of age negli ultimi anni.

Un’opera semplicissima la sua, con pochi essenziali personaggi, una manciata di ambienti e nessun distraente virtuosismo, dove si lascia che siano i personaggi a portare avanti il racconto con le loro parole, le loro speranze e le inevitabili paure. Ecco perché, al termine della visione, sanno rimanere nel cuore e nella mente dello spettatore. Personaggi con i quali si sviluppa subito un’amicizia per la spontaneità con cui sono raccontati, con grande attenzione a quelle “imperfezioni” che li rendono umani. Il merito, però, sta anche nella bravura degli interpreti, dal primo all’ultimo.

Se Aubrey Plaza prosegue nel suo anno d’oro dopo Megalopolis e Agatha All Along, la vera scoperta è Maisy Stella, cantante e attrice divenuta celebre per la serie Nashville e qui al suo primo ruolo da protagonista di un film. La sua generosità nei confronti del suo personaggio è commovente, per la grazia con cui affronta i momenti più leggeri e quelli più drammatici del racconto, giungendo sempre al cuore dello spettatore con questo suo ritratto di una ragazza in cui è facilissimo potersi riconoscere. Non per nulla, è stata candidata come Miglior esordiente ai Gotham Awards 2024.

La meraviglia di essere giovani e stupidi

Si è parlato di “momenti drammatici”, perché ce ne sono e arrivano in modo così naturale e imprevisto da far rimanere spiazzati. Ma questa è la vita e il segreto per affrontarla anche nei suoi lati peggiori è quella magica combinazione di giovinezza e stupidità, che Elliott rivendica fino all’ultimo. E allora via alla frenesia, tra lo spensierato cazzeggio, una vivace colonna sonora e il susseguirsi di una serie di splendidi ambienti che si fanno specchio della libertà della protagonista. Libertà che, sappiamo, potrebbe perdersi nel momento in cui si trasferirà in città. Una frenesia che si ritrova ovviamente anche nell’amore che lentamente nasce tra Elliott e Chad e che ben rievoca la meraviglia degli amori giovanili.

Perché l’altra grande linea narrativa del film è quella che lega Elliott a Chad, che ha dunque a che fare con l’amore e ciò che questo sentimento può farci scoprire di noi. My Old Ass è, in via definitiva, un viaggio di scoperta, durante il quale si può anche incappare nel dolore, che Elliott capirà però di non voler evitare. Perché se è vero che un giorno questo dolore ti sarà utile (come recita il titolo di un bel romanzo di formazione), allora proteggersene non sarà di alcun aiuto, come si comprende in un finale rapido ma di grande impatto. Meglio aprirsi alla vita, e nel dirci ciò My Old Ass è un puro dono, una carezza allo spettatore e un grintoso, divertente e commovente invito a dare più valore al proprio tempo.

Don’t move: recensione del nuovo film con Finn Wittrock

Il tema del rapimento sembra essere stato estremamente sviluppato nel corso degli anni nel panorama cinematografico. Si tratta talvolta di pellicole molto avvincenti, dense di suspense e successivamente vincitrici anche di diversi riconoscimenti, quali Il silenzio degli innocenti.

Don’t move presenta un pattern simile a molti altri film dello stesso genere: il rapimento di una giovane donna da parte di un sociopatico. Diretto da Brian Netto e Adam Schindler e prodotto da Sam Raimi (Spider man), Don’t move presenta un cast formato da attori ben noti nel panorama cinematografico internazionale: Finn Wittrock (La grande scommessa, acque profonde) interpreta qui il protagonista Richard, mentre Kelsey Asbille (FargoYellowstone) è nel ruolo di Iris.

Don’t move: il rapimento

E’ mattina presto: Iris lascia il suo letto quando ancora tutti dormono con il solo scopo di dire addio a questo mondo. L’improvvisa morte de figlio Mateo ha fatto si che lei non riuscisse ad avere più alcuna gioia nel continuare a vivere. E proprio nel momento in cui sta per buttarsi giù dallo stesso dirupo da cui era caduto il suo bambino un giovane la convince a continuare a vivere.

Una volta scesi dalla  montagna però, lui la addormenta con un taser e la rapisce: qui ha inizio l’incubo di Iris. Per quanto la donna riesca a liberarsi e a scappare dal proprio aguzzino, la potente droga che lui le aveva iniettato le avrebbe bloccato le funzioni motorie in meno di venti minuti. Inizia così una terribile corsa per salvarsi la vita.

Le occasioni per scappare, salvarsi o essere salvata sembrano essere diverse per Iris, ma Richard sembra sempre avere la meglio.

Don’t move: una nuova voglia di vivere

Primo elemento interessante che si riscontra in Don’t move è come, mentre all’inizio del film Iris è sul punto di togliersi la vita, nel momento in cui Richard la rapisce per essere lui a ucciderla lei scappa. Certo, è da considerare che, trattandosi di un killer psicopatico, l’assassinio di Iris sarebbe stato solo l’atto finale. Ciononostante, la donna ha diverse occasioni per raggiungere il suo intento iniziale, ma non si suicida.

Da quando Richard la rapisce è come se Iris avesse recuperato la voglia di vivere, e proprio per questo lotta con ogni sua forza per cercare di sfuggire al terribile destino che l’assassino gli vuole riservare.

Questo diventa quindi un punto di riflessione sulla stessa psiche umana: nel vedere mettere a rischio seriamente la propria vita, lo spirito di sopravvivenza prende il sopravvento. Don’t move non si differenzia in molto da altre pellicole più o meno famose sullo stesso genere, se non per questo elemento.

Giocare a fare Dio

Don’t move si focalizza totalmente su Iris e Richard, delineando gli stati d’essere di entrambi. Di conseguenza, permette allo spettatore di comprendere meglio anche il modo di pensare di Richard. L’assassino sembra essere un chiaro esempio di psicopatia: ha un deficit della mentalizzazione altrui, ovvero non riesce a provare empatia, non è un soggetto delirante, agisce senza alcun senso di colpa, vedendo gli altri esseri umani come meri oggetti da usare a proprio piacimento.

Richard sembra agire sistematicamente, avendo un modus operandi ben chiaro: sappiamo che il suo target sono solo donne, lui stesso afferma di non aver mai ucciso un uomo. Sceglie i fine settimana per divertirsi nelle sue sevizie perché passa il resto della settimana con sua moglie e sua figlia: ciò indica che solitamente vive una vita normale, all’insaputa di tutti.

Il motivo per cui lo fa ci viene spiegato direttamente dalle sue parole. Dopo la morte di Chloe, lui si finalmente sentito “ricollegato”: vederla morire ha sbloccato qualcosa in lui, qualcosa che aveva sentito rimanere latente fino a quel momento. Poter vedere una persona morire lo aveva emozionato a tal punto da voler rivivere quello stato d’animo. Il punto focale della sua perversione è proprio “giocare a fare Dio”, ovvero avere la vita di una persona tra le proprie mani, per poi vederla morire.

Don’t move è in definitiva un thriller molto forte, caratterizzato da un clima di crescente suspense e tensione. Partendo da un silenzio quasi inquietante nei primi minuti del film, già con l’inizio dei titoli di testa il cuore degli spettatori fa un sobbalzo. Così le prime scene in cui Richard riesce a convincere Iris a non suicidarsi e i due scendono insieme come due amici giù dalla montagna restano solo un ricordo lontano.

Outer Banks 4 – Parte 2, la spiegazione del finale: quel personaggio importante è davvero morto?

Outer Banks 4 – Parte 2 conclude la penultima puntata dello show, portando i Pogues in Marocco alla ricerca della Corona Blu, incontrando diversi nemici e facendo i conti con perdite scioccanti. Il finale della stagione 4, parte 1 di Outer Banks ha lanciato la notizia bomba della vera identità di JJ, rivelando che è il figlio di Chandler Groff e Larissa Genrette. Questa rivelazione ha portato a molti momenti importanti nella quarta stagione di Outer Banks 4 – parte 2, con JJ e Groff che hanno scoperto la loro tumultuosa relazione mentre il resto del cast di Outer Banks cerca di salvare la loro casa dai Kooks.

Mentre JJ si deteriora in un comportamento antisociale, la sua relazione con Groff porta Outer Banks alla sua ultima stagione, mentre Pope fa i conti con il suo futuro prima di impegnarsi nella vita dei Pogue. Mentre John B. e Sarah ricevono una grande notizia, i Pogue si riuniscono in una missione in Marocco per recuperare la Corona Blu, un artefatto che potrebbe salvare la loro casa e scagionare i loro presunti crimini nel caso in cui il perfido Groff venisse catturato. Quest’avventura comprende diversi momenti importanti, che definiscono la storia della quinta stagione di Outer Banks attraverso un tesoro perduto, mercenari letali e la morte di un personaggio importante che porta alla promessa di vendetta.

JJ è davvero morto in Outer Banks 4 – Parte 2?

Nella scena finale della quarta stagione di Outer Banks 4 – Parte 2 Chandler Groff ritorna dopo essere stato intrappolato in un pozzo da Rafe Cameron. Groff prende in ostaggio Kiara, puntandole un coltello al collo. Nel tentativo di salvare la sua ragazza, JJ convince Groff a liberarla. Tuttavia, Groff accoltella JJ allo stomaco per vendicarsi del fatto che quest’ultimo e i suoi amici lo hanno lasciato nel pozzo. Alla fine di Outer Banks 4 – Parte 2, JJ muore e i Pogues organizzano un funerale in onore del loro amico.

Sebbene Outer Banks abbia avuto la tendenza a riportare in vita personaggi precedentemente creduti morti, sembra che questa sia la fine per JJ. Diversi momenti del finale della stagione 4, parte 2, di Outer Banks fanno pensare a questo, dalla triste rappresentazione dei Pogues che piangono JJ al funerale che è stato organizzato per lui. Per un po’ di tempo sono circolate voci che l’attore Rudy Pankow si stesse preparando a lasciare la serie, e la morte di JJ significa sicuramente che non seguirà le orme di Ward Cameron e Big John Routledge tornando dalla morte nella quinta stagione di Outer Banks.

Caccia al tesoro della stagione 4 di Outer Banks: Chi riceverà la corona blu e l’assetto della stagione 5: ecco come si spiega

L’obiettivo principale della quarta stagione di Outer Banks è stata la caccia alla Corona Blu, un manufatto presumibilmente magico legato alla storia del pirata Barbanera e dei suoi numerosi amici e nemici. Outer Banks 4 – Parte 2 porta l’equipaggio lontano dall’OBX, in Nord Africa. Lì, i Pogues sperano di trovare la Corona Blu, di venderla al giusto acquirente e di utilizzare il denaro per salvare la loro nuova casa, soprannominata Poguelandia 2.0. Per farlo, però, dovranno fare i conti con il gruppo di mercenari chiamato Lupine Corsairs e con Chandler Groff.

Dopo una serie di ostacoli, John B. e Sarah scoprono che la Corona Blu deve trovarsi all’interno di una statua situata in cima a una collina attorno alla quale è costruita la fittizia città marocchina di Agapenta. Prendendo l’iniziativa, JJ si arrampica fino alla cima della statua, recuperando la Corona Blu e preparando apparentemente i Pogues a una vita di lusso e pace. Purtroppo, la ricomparsa di Groff porta JJ alla difficile decisione di salvare la vita di Kiara. Per farlo, JJ consegna a Groff la Corona Blu, poco prima che quest’ultimo accoltelli il primo.

Groff dice a Rafe che il suo acquirente della Corona Blu si trova a Lisbona, in Portogallo.

Nel finale di Outer Banks 4 – Parte 2 Groff ha la Corona Blu e JJ è morto. Ciò dà il via alla storia della quinta stagione diOuter Banks: i Pogues seguiranno Groff a Lisbona, sia per recuperare – e successivamente vendere – la Corona Blu, sia per ottenere giustizia per la morte di JJ. Con la quinta stagione di Outer Banks destinata a essere l’ultima dello show, il confronto con Groff e il destino della Corona Blu saranno senza dubbio l’epilogo della serie di successo di Netflix.

Il cambiamento del personaggio di Rafe e le sue conseguenze per la quinta stagione di Outer Banks

In Outer Banks 4 – Parte 2 i Pogues trovano aiuto da una fonte improbabile: Rafe. La storia di Rafe fino a questo momento lo ha visto opporsi regolarmente ai Pogue, maOuter Banks 4 – Parte 2, vede i loro interessi allinearsi. L’accordo che Rafe ha stretto con Hollis Robinson nella quarta stagione di Outer Banks, parte 1, fa parte del piano di Groff per assicurarsi Goat Island. Rafe lo scopre presto e giura di rintracciare Groff per recuperare il suo denaro. Questo avviene mentre i Pogues vengono mostrati in fuga dai poliziotti di OBX.

Rafe e i Pogues collaborano per convincere lo sceriffo Shoupe a lasciarli andare in Marocco a condizione che riportino Groff, scagionando i Pogues, salvando il lavoro di Shoupe e permettendo a Rafe di riavere i suoi soldi. Per questo motivo, Rafe si unisce con riluttanza ai Pogues, riconciliandosi infine con Sarah. Questo trasforma Rafe in un antieroe nel finale della quarta stagione di Outer Banks, parte 2, quando aiuta i Pogue a combattere i Corsari di Lupine nella ricerca della Corona Blu.

Dato che Groff fugge con la Corona Blu nella quarta stagione di Outer Banks, sembra che il cambiamento di Rafe continuerà nella quinta stagione. È Rafe il primo a proporre l’idea che i Pogues diano la caccia a Groff per vendicarsi. Sebbene ciò sia probabilmente radicato nel desiderio di Rafe di riavere i suoi soldi da Groff, egli è stato certamente utile a John B. e alla sua banda nel finale della stagione 4, parte 2, diOuter Banks, preparandolo a un altro ruolo eroico nella stagione finale dello show.

Il grande colpo di scena di John B. e Sarah in Outer Banks 4 – Parte 2

Una delle più grandi rivelazioni di Outer Banks 4 – Parte 2 è che Sarah è incinta. Questo porta Sarah a essere protetta un po’ di più dai Pogues durante il loro viaggio in Marocco, il che significa un grande cambiamento per la quinta stagione. La quinta stagione di Outer Banks chiarirà che la sicurezza di Sarah è della massima importanza ora che è incinta, e darà anche a John B. un motivo in più per riprendersi la Blue Crown da Groff nel tentativo di dare alla sua famiglia in crescita la casa che merita.

Cosa è successo a Dalia, Lightner e ai Lupine Corsair in Outer Banks 4 – Parte 2?

Gli antagonisti secondari di Outer Banks 4 – Parte 2 erano i Corsari di Lupine, i mercenari incaricati di trovare la Corona Blu. Nel finale della quarta stagione di Outer Banks, parte 2, il loro destino non è ancora chiaro. Lightner, il principale soldato del gruppo, sembra essere stato ucciso da Pope e Cleo per vendicare la morte di Terrence. Per quanto riguarda Dalia e gli altri uomini, invece, non sono stati visti dopo la morte di JJ, il che probabilmente significa che torneranno nella quinta stagione di Outer Banks, quando la caccia alla Corona Blu si intensificherà.

Il vero significato del finale di Outer Banks 4 – Parte 2

Il monologo finale di Outer Banks 4 – Parte 2 riassume il vero significato del suo finale. Mentre JJ muore, si sente John B. che gli fa l’elogio funebre, affermando che il suo amico ha racchiuso così tanto in soli 20 anni di vita. John B. afferma che JJ è il miglior amico che i Pogues potessero avere, e da questo si può dedurre il vero significato del finale di Outer Banks 4 – Parte 2. In generale, lo show parla di amicizia ma, soprattutto, di vivere la vita al massimo, come John B. ricorda JJ.

Inoltre, un altro elemento che il finale di Outer Banks 4 – Parte 2 esplora riguarda il divario di classe che è stato prevalente in tutto lo show. I Pogues vengono mostrati letteralmente costretti a morire per mantenere una cosa semplice come la loro casa, mentre i Kooks dell’OBX mostrano scarsa considerazione per chiunque sia considerato al di sotto di loro. La loro ricchezza e il potere che ne deriva garantiscono loro qualsiasi cosa, mentre i Pogues sono costretti a mettersi in pericolo per vivere liberamente. Questo aspetto sarà ulteriormente approfondito nella quinta stagione di Outer Banks, quando inizierà la ricerca finale della Corona Blu.

Uno Rosso: recensione del film con Dwayne Johnson e Chris Evans

Oggi, 7 dicembre 2024, arriva in sala un’esplosiva commedia d’azione natalizia che promette di scaldare le feste: Uno Rossofilm diretto e co-prodotto da Jake Kasdan, ci trasporta infatti in una elettrizzante avventura ai confini del Polo Nord. Un nuovo capitolo all’interno del personale universo d’avventura del regista, noto per aver diretto Jumanji – Benvenuti nella giungla e il suo sequel Jumanji: The Next Level.

La sceneggiatura, firmata da Chris Morgan, ci presenta un cast stellare guidato da Dwayne ‘The Rock’ Johnson e Chris Evans. Per la prima volta sullo stesso schermo, i due attori danno vita a un improbabile duo incaricato di salvare il Natale. Al loro fianco, un ricco ensemble di attori tra cui Lucy LiuKiernan ShipkaBonnie Hunt e Wesley Kimmel. A interpretare il mitico Babbo Natale è invece J. K. Simmons, che dopo aver prestato la voce a Santa Clause nel film d’animazione Klaus, torna a vestire oggi gli stessi panni.

Prodotto da Amazon MGM StudiosUno Rosso è distribuito da Prime Video.

La trama di Uno Rosso

Polo Nord. Vigilia di Natale. L’atmosfera festosa viene improvvisamente turbata da un evento sconvolgente: Babbo Natale è stato rapito. Conosciuto con il codename “Rosso”, il vecchio è sparito nel nulla a poche ore dalla notte della consegna dei doni. E per far fronte all’emergenza, viene attivata la Task Force dell’ELF, un’unità d’élite incaricata di proteggere il Polo Nord.

A guidare la missione di salvataggio è Callum Drift (Dwayne Johnson), un agente speciale dalla tempra d’acciaio e dalla grande esperienza in operazioni clandestine. Al suo fianco, con l’obiettivo di fornire aiuto esterno alla complicata operazione segreta, viene invece selezionato Jack O’Malley (Chris Evans), famigerato ladro, dotato di straordinarie abilità da segugio che gli consentono di rintracciare chiunque, ovunque si nasconda.

Insieme, Drift e O’Malley si imbarcheranno in un lungo viaggio in giro per il mondo e a contatto con l’ignoto. In una corsa contro il tempo che, tra indizi da scovare, ostacoli da superare e nemici da sconfiggere, li porterà a svelare l’oscuro complotto che minaccia di rovinare per sempre la festa più amata dai bambini. Riusciranno i due “eroi” a salvare Babbo Natale e a ripristinare la gioia nel mondo?

Jake Kasdan e la poetica dello sgraffignare

Era chiaro fin dai tempi di Jumanji – Benvenuti nella giunglaJake Kasdan è sempre stato un abile borseggiatore. Quasi come il Jack O’Malley di questo suo nuovo Uno Rosso, ingaggiato con urgenza per salvaguardare il Natale. O forse addirittura più scaltro, quasi chirurgico nelle sue scelte. E se nel caso del reboot/sequel del 2017 le principali reference erano da ricercarsi all’interno del filone videoludico/avventura modellato da Tron ed eredi fin dagli anni ’80 (passando per eXistenZ e similari, ma senza dimenticare l’influenza dell’allora neonato Jurassic World), per quest’ultimo progetto il regista rivolge invece lo sguardo altrove.

Indiscutibilmente conscio del materiale a disposizione e ben consapevole del target di un’opera di questo genere – inevitabilmente destinata a un pubblico per lo più composto da famiglie e giovani o giovanissimi – Kasdan decide infatti di pescare da buona parte dell’immaginario mainstream degli ultimi trent’anni. A partire dalla celebre serie di Santa Clause a cavallo tra anni ’90 e 2000 (da cui Uno Rosso trafuga soprattutto le atmosfere del Santa Clause è nei guai di Michael Lembeck) e arrivando a mescolare con discreta naturalezza diverse componenti dello spy e del buddy movie. Per quanto l’epicentro del terremoto narrativo del film rimanga innanzitutto il solito e insostituibile The Rock – ormai quasi feticcio di Kasdan.

Uno Rosso è The Rock

A fronte di un Chris Evans che, abbandonata la purezza del Captain America del MCU, torna qui a vestire i panni del “cattivo” ed affascinante cazzone (già sondati in occasione del primo Knives Out di Rian Johnson, nel 2019), l’ipertrofia muscolare di The Rock, estesa in questo caso anche al Babbo Natale dell’ottimo J. K. Simmons, rappresenta il restante 50% della coppia. La metà che tuttavia, forse inevitabilmente, finisce per catalizzare ogni attenzione.

Ti sembro umano?” domanda del resto il personaggio di Dwayne Johnson in uno dei rari momenti di respiro della missione. E nel quesito risiede probabilmente l’essenza di una delle icone più significative del cinema muscolare degli ultimi vent’anni. Quasi che, più che di organi, sangue e tessuti, l’indistruttibile corazza dell’attore sia più che altro frutto della fusione delle tensioni superomistiche dei tanti personaggi a cui ha prestato il corpo (dal Re Scorpione, a Luke Hobbs e Black Adam). E che dunque, memore del monologo del tarantiniano Bill – nel film che dal suo villain prende il nomeDwayne Johnson sia il vero alter ego di The Rock, e non il contrario.

Di certo per Kasdan il Natale è questione seria, anzi serissima. E merita di essere difeso dai migliori. Sebbene il film, per lo più commedia godibile e dalle buone trovate, si perda qua e là in un discorso fin troppo prolisso ed esteticamente traballante.

The Day Of The Jackal dall’8 novembre su SKY e NOW

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Un uomo dai mille volti, un assassino insospettabile e altamente qualificato infallibile nel suo lavoro: è lo Sciacallo, spietato cacciatore che diventa preda quando, portato a termine l’ennesimo incarico di alto profilo, si ritrova nel mirino dei servizi segreti inglesi. Il racconto della sua leggendaria fuga e della caccia all’uomo in giro per l’Europa che ne seguirà è al centro della nuova serie Sky Original The Day Of The Jackal, dall’8 novembre in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW.

Rivisitazione contemporanea in 10 episodi dell’influente romanzo di Frederick Forsyth “Il giorno dello sciacallo” e del successivo pluripremiato film del 1973 della Universal Pictures, la serie vede protagonisti il vincitore del premio Oscar®, del Tony e del BAFTA Award Eddie Redmayne (The Good Nurse, La Teoria del Tutto), la vincitrice del BAFTA Rising Star Award Lashana Lynch (Bob Marley: One Love, The Woman King, No Time To Die) e la star internazionale Úrsula Corbero (La Casa di Carta).

Assassino solitario, sfuggente e implacabile, lo Sciacallo (Eddie Redmayne) si guadagna da vivere uccidendo su commissione. Ma mentre è al lavoro per il suo prossimo incarico, si trova ad affrontare un avversario inaspettato, Bianca (Lashana Lynch), una tenace agente dell’MI6, l’intelligence britannica, che si impegnerà in una implacabile caccia all’uomo in giro per l’Europa per riuscire a catturarlo.

Nel cast anche Charles Dance (Il Trono di Spade, The King’s Man) nel ruolo di Timothy Winthrop,Richard Dormer (Blue Lights, Fortitude, Il Trono di Spade) in quello di Norman, Chukwudi Iwuji (Guardiani della Galassia Vol.3, The Split) nei panni di Osita Halcrow, Lia Williams (The Capture, The Crown) in quelli di Isabel Kirby, Khalid Abdalla (The Crown, Il Cacciatore di Aquiloni) che nella serie è Ulle Dag Charles, Eleanor Matsuura (The Walking Dead, I Used To Be Famous) nel ruolo di Zina Jansone, Jonjo O’Neill (Andor, Bad Sisters) in quello di Edward Carver, Nick Blood (Slow Horses) che interpreta Vince e Sule Rimi (Classified, Andor) e  Florisa Kamara (Eastenders) nei ruoli di, rispettivamente, Paul e Jasmin Pullman.

Prodotta da Carnival Films, parte di Universal International Studios, una divisione di Universal Studio Group, The Day Of The Jackal è stata commissionata da Sky Studios e Peacock. La serie è scritta e adattata dallo showrunner Ronan Bennett, creatore e sceneggiatore dell’acclamata Top Boy. Lead director della serie è Brian Kirk, regista pluripremiato a livello internazionale (Il Trono di Spade, Luther, Boardwalk Empire).

Gareth Neame e Nigel Marchant sono produttori esecutivi per Carnival Films. Redmayne e Lynch sono anche, rispettivamente, produttore esecutivo e co-produttrice esecutiva. Sam Hoyle è produttrice esecutiva per Sky Studios. Sue Naegle è produttrice esecutiva e Marianne Buckland è co-produttrice esecutiva. Christopher Hall è produttore, Emily Shapland è co-produttrice. Frederick Forsyth è consulting producer.

La serie arriverà su Sky e NOW nel Regno Unito, in Irlanda, in Italia, in Germania, in Svizzera e in Austria e su Peacock negli Stati Uniti. NBCUniversal Global TV Distribution si occupa delle vendite internazionali.

Lavennder, il film: parlano i produttori e l’autore Giacomo Bevilacqua

Nei giorni di Lucca Comics & Games, durante il primo panel ufficiale di Bonelli Entertainment – la divisione multimediale della Sergio Bonelli Editore – è stato annunciato l’adattamento cinematografico di Lavennder, graphic novel dalle tinte mistery realizzata da Giacomo Bevilacqua nel 2017 e prima collaborazione dell’autore di A Panda Piace con la storica casa editrice milanese.

Abbiamo incontrato Michele Masiero e Vincenzo Sarno, rispettivamente Direttore Editoriale e Responsabile Multimedia dell’azienda, per farci raccontare qual è lo stato dei lavori di Bonelli Entertainment, a partire dal lancio del nuovo lungometraggio.

Dragonero: i Paladini, Legs Weaver e I misteri di Mystère

Legs Weaver serie animata

Nel corso dei mesi passati era già stata resa nota l’entrata in produzione della seconda stagione di Dragonero: i Paladini, che, a giudicare dal materiale proiettato nel corso del panel, appare già in uno stato decisamente  avanzato delle lavorazioni. C’è poi la serie animata di Legs Weaver, di cui è stato svelato il tesser poster dall’ironico titolo “Legs Weaver odia i cartoni animati”, e il podcast I misteri di Mystère in collaborazione con OnePodcast e per il quale è già disponibile il primo episodio.

Ma la fucina di Via Buonarroti appare in piena attività e Michele Masiero ci tiene specificare: “Tra i vari progetti che stiamo realizzando, questi sono quelli che possiamo rivelare, ma abbiamo diversi titoli in lavorazione.”

Il cinema continua però a dimostrarsi il gioiello della corona dell’industria dell’intrattenimento e il nuovo film Bonelli Entertainment è il progetto che ha destato maggiore interesse da parte del pubblico partecipante. Come mai è stato deciso di adattare proprio Lavennder?

Vincenzo Sarno“Come Casa Editrice siamo specializzati in racconti di generi ben distinti dalle storie sorprendenti ma iscritte all’interno di cornici ben definite. E Lavennder, l’isola che dà il titolo all’opera di Bevilacqua ci ha offerto l’arena perfetta per i personaggi che vogliamo mettere in scena, soprattutto per la protagonista, che non esito a definire la Final Girl definitiva.  Ma soprattutto eravamo affascinati dalla narrazione di Giacomo che in ogni suo tratto, ogni sua inquadratura, ha già un notevole sapore cinematografico. E poi, lasciami dire che il grande twist che accompagna il finale della storia, dando un senso straordinario a tutto, per noi è stato fin dal primo momento un high concept irresistibile.”

Giacomo Bevilacqua, autore di Lavennder, partecipa alla writers room

Qual è il coinvolgimento attuale di Giacomo al momento?

Michele Masiero“Bonelli Entertainment nasce per portare i fumetti Bonelli nella multimedialità, che sia la serialità televisiva, l’animazione, i film, i videogiochi. Tutto nasce dalla creatività del fumetto e poi diventa altro. Ci siamo posti come obbiettivo fondativo di essere co-produttori di ognuna di queste operazioni, affinché il lavoro dei nostri autori e del nostro linguaggio venga rispettato, ovviamente con le modifiche che l’adattamento richiede.

Partiamo da opere di autori con cui abbiamo a che fare ogni giorno, come Giacomo e Lavennder appunto, sarebbe assurdo esautorarli da questa collaborazione. Partiamo da un confronto interno per capire quali possono essere produttivamente e creativamente le cose da salvare, da cambiare, da tagliare, da adattare e lo facciamo con un dialogo costante con gli autori.”

“Certo, non è detto che l’autore del fumetto venga per forza coinvolto anche in tutte le fasi di scrittura del film – continua Masiero – Nel caso di Dampyr, però, Mauro Boselli, co-creatore del personaggio di Harlan Draka insieme a Maurizio Colombo, ha realizzato il soggetto dell’opera cinematografica e ha collaborato con gli sceneggiatori del film, che pure sono autori Bonelli. Per Lavennder, Giacomo Bevilacqua fin dal primo momento ha partecipato alla writers room in cui, insieme al regista, abbiamo posto le basi del progetto.”

L’arco di vita di Dampyr – il film

Dampyr scena finaleAvete nominato Dampyr. Nel 2018 il film è stato annunciato al Lucca Comics, nel 2022 è stato proiettato, pronto per la sala. Ne parliamo ora come di un film che ha compiuto un arco vitale completo, passando dal mondo delle idee e dei propositi, alla sala cinematografica, fino ad arrivare sulle piattaforme di tutto il mondo e ottenendo un notevole successo internazionale decisamente sorprendente dopo i primi tiepidi risultati al botteghino. Qual è il vostro percepito del film alla luce di questo percorso?

Masiero“Non ci nascondiamo dietro a un dito, ci aspettavamo un percorso diverso soprattutto nel lancio in Italia. Il film è nato in era pre-COVID e ha dovuto fare i conti con un mondo completamente diverso, con la crisi delle sale cinematografiche, con l’avvento massiccio delle piattaforme. Era stato pensato per il cinema e noi siamo super orgogliosi di averlo presentato lì perché era quella la sua dimensione. Ha avuto una falsa partenza, ma poi ci è esploso tra le mani in una maniera per noi molto incoraggiante e inaspettata. Abbiamo una fan base in giro per il mondo molto al di là delle nostre aspettative.

A questo punto, non so se possiamo definire il percorso di Dampyr finito, spero di no – continua – Nasceva come un film che avrebbe dovuto dire anche altre cose, lo stesso finale dimostra che dovrebbe essere così e stiamo cercando di dargli una vita ulteriore… non tanto al film quanto al progetto Dampyr, tenendo presente, per l’appunto, come dicevo prima, che che rispetto a come eravamo partiti nelle intenzioni creative, produttive e distributive del 2019, adesso il mondo è completamente cambiato e siamo ripatiti con condizioni diverse.”

Sembra quindi che sentiremo ancora parlare di Dampyr, se non al cinema quindi, magari in altre forme, forse più vicine alla serialità delle piattaforme? Su Netflix USA, d’altronde, il film ha spopolato, raggiungendo il podio della Top 10 nella settimana del Ringraziamento, negli Stati Uniti.

Le nuove regole post-COVID

Nessuno dei due si sbottona, in merito, ma Vincenzo Sarno precisa: “Il COVID ha segnato un prima e un dopo nella storia recente, e per quanto ci sembri distante adesso, ha cambiato per sempre regole che credevamo inscalfibili. Su quelle regole avevamo costruito il ciclo di vita di Dampyr, ma ora ne abbiamo altre e le stiamo percorrendo. Abbiamo imparato sulla nostra pelle che ogni film vive un suo proprio personale percorso proprio su quelle piattaforme che all’inizio venivano tacciate di ‘bruciare’ i contenuti, ma che oggi si rivelano vere e proprie teche che custodiscono cataloghi preziosissimi. In quel mare di offerta, Dampyr ha imparato a nuotare da solo e ora come un figlio che è andato via di casa e in ogni posto dove viene accolto sta costruendo il suo essere ‘cult’”.

Insomma, una palestra per quello che sarà il lavoro su Lavennder… Come navigate in queste regole? Com’è lavorare nel mondo produttivo italiano?

Sarno“Viviamo un momento di ricerca verso nuove strade, nella misura in cui le disposizioni di legge in materia di sostegno ai Produttori e la pluralità del mercato dello streaming, offrono vie ed opportunità che prima non esistevano. Fino a poco tempo fa le serie televisive erano prodotte da Rai, poi si è unita Mediaset, adesso i player in campo sono tantissimi. Le leggi sul Tax Credit danno la possibilità al Produttore di scegliere quali storie seguire. Prima era necessario andare a fare grandi pitch a grandi studios, ora siamo noi lo studio, e per questo dobbiamo ringraziare l’infrastruttura culturale in cui viviamo. Così ci viene dato lo strumento per coccolare i nostri personaggi.”

dragonero i paladini serie tvBonelli è l’unica media company in Italia che produce a 360 gradi per il mondo dell’intrattenimento: film, serie, fumetti, videogiochi, podcast e tanto altro. Com’è far parte di questa realtà così grande e multiforme? Sentite una responsabilità verso il vostro pubblico?

Masiero“Non so se responsabilità sia al parola giusta. Ci sentiamo responsabili nel dare a ogni progetto la vita migliore, secondo noi. Potremmo anche peccare di presunzione, ma lavoriamo di concerto con gli autori e siamo prima di tutto innamorati della creatività che loro ci propongono. Da appassionati cerchiamo di dare una vita ulteriore alla loro creatività. Siamo responsabili perché siamo consapevoli di quello che vogliamo realizzare. I fumetti possono essere fatti anche da tre persone chiuse in una stanza, in questo mondo invece per costruire qualcosa si devono mettere insieme realtà che sono estranee a noi, ma con le quali vogliamo lavorare. Certo, ci piacerebbe che la velocità editoriale, alla quale siamo abituati, si rispecchiasse anche in queste produzioni. Ma qui le regole sono altre.”

Oltre al film di Lavennder, a Lucca 2024 è stato annunciato anche il podcast I misteri di Mystère, un ulteriore mezzo di intrattenimento, un altro modo per raccontare i vostri personaggi. C’è un linguaggio che non avete ancora affrontato e vi piacerebbe sfruttare come autori e produttori?

“Tutti quelli ancora da inventare!” Risponde sorridendo Masiero.
“Un reality… Oppure qualcosa di un po’ più antico, che si fa da tanti anni…” allude Sarno. “Beh sì, non esistono solo gli schermi, ma anche le esperienze dal vivo – fa eco Masiero – Magari stiamo già pensando a qualcosa e l’annuncio ufficiale non è poi così lontano”.

L’impressione è che il film di Lavennder sia davvero solo uno dei tanti progetti in ballo, che ci sia già qualcosa di molto caldo in pentola, volendo azzardare un’ipotesi, l’”esperienza da vivo” e “qualcosa di un po’ più antico, che si fa da tanti anni” sono due indizi che puntano dritti dritti alla nobile arte del teatro, ma se questa supposizione sia giusta e quale sarà la property coinvolta in questo nuovo progetto non possiamo ancora saperlo.

Speriamo solo che l’annuncio non si faccia troppo aspettare.

Intervista a Giacomo Bevilacqua, autore di Lavennder

Citadel: Honey Bunny, recensione della serie Prime Video

Diretta dall’acclamato duo Raj e DK, Citadel: Honey Bunny segna l’inizio di una nuova fase per il franchise di Citadel, estendendone la narrazione in un contesto indiano. L’attesissimo spin-off della creazione dei Fratelli Russo, disponibile su Prime Video il 7 novembre, portando sullo schermo Varun Dhawan e Samantha Ruth Prabhu nei panni dei protagonisti. I due divi sono gli eredi di Matilda De Angelis e Lorenzo Cervasio che in Citadel: Diana ci hanno intrattenuti e divertiti, ma anche lasciati con il fiato sospeso. E le premesse di Honey Bunny non lasciano dubbi: anche questa nuova incarnazione del franchise promette scintille.

Citadel: Honey Bunny è un’intrigante storia di spionaggio con un tocco unico

Raj e DK si sono conquistati un ampio seguito con serie di successo come The Family Man e Farzi, grazie alla loro capacità di fondere umorismo, tensione e azione in storie complesse e realistiche. Con Citadel: Honey Bunny, i registi continuano a dimostrare la loro maestria, intrecciando la trama principale in un universo di spionaggio che unisce mistero, tradimenti e legami familiari. La storia segue i personaggi di Bunny, uno stuntman dalla personalità tormentata interpretato da Varun Dhawan, e Honey, una ex attrice dal passato complicato, con il volto di Samantha Ruth Prabhu. I due, dopo anni di separazione, si ritrovano per proteggere la loro figlia Nadia, una missione che risveglia antiche rivalità e mette in pericolo chiunque sia loro vicino.

Il segreto in una chimica palpabile

La serie si avvale di un cast talentuoso, con Dhawan e Ruth Prabhu che danno vita a personaggi complessi e profondamente emotivi. Varun Dhawan, noto per la sua versatilità e l’abilità di passare da ruoli drammatici a quelli comici, esplora qui una dimensione più oscura del suo repertorio, risultando credibile e intenso. Samantha Ruth Prabhu, già apprezzata per la sua performance in The Family Man, si conferma una delle attrici più talentuose della sua generazione, donando al personaggio di Honey una fragilità intensa e uno spirito indomabile, oltre alla prorompente presenza scenica. Il loro legame, costruito sulla resilienza che alberga nelle loro vite difficili, aggiunge profondità alla narrazione, coinvolgendo gli spettatori che non avranno problemi a confrontarsi con un occhio e un punto di vista distanti dal modus Occidentale.

Una regia avvincente e scene d’azione mozzafiato

Grazie alla loro abilità nel bilanciare scene d’azione intense con momenti di introspezione, Raj e DK riescono a rendere Citadel: Honey Bunny un’esperienza avvincente, senza mai rinunciare al loro linguaggio regionale che si sposa alla perfezione con l’ambizione internazionale del progetto Citadel, proprio come era stato per Diana. La serie si distingue per l’uso intelligente delle inquadrature e per una fotografia espressionista, che accentua l’atmosfera tesa e ricca di suspense. Le sequenze d’azione risultano tanto spettacolari quanto realistiche, nella migliore tradizione indiana contemporanea, abbracciando gli eccessi e le forzature e rendendoli canone irrinunciabile.

Una sfida di scrittura e una visione globale

Dietro le quinte, la scrittura di Sita Menon e Sumit Arora aggiunge un tocco di freschezza e profondità alla trama, con dialoghi incisivi e momenti che danno rilievo ai conflitti interiori dei protagonisti. E se le specificità linguistiche sono fondamentali per il progetto dei Fratelli Russo, la serie conferma la grande attenzione ai temi globali intercettati anche negli altri progetti paralleli: il controllo, il potere e la lealtà, riflettendo il tema universale del franchise di Citadel. Tuttavia, Honey Bunny riesce a proiettare queste tematiche nel posto, vicine al pubblico indiano, offrendo una prospettiva unica che arricchisce il contesto della narrazione principale.

Un’aggiunta di valore al franchise di Citadel

Citadel: Honey Bunny rappresenta una novità elettrizzante e potente nel panorama delle serie d’azione, mantenendo il livello qualitativo che i fan si aspettano dai lavori di Raj e DK. La serie non solo esplora un lato più oscuro e drammatico dell’universo di Citadel, intimo quasi, ma lo fa attraverso una narrazione viscerale e coinvolgente. La chimica tra Varun Dhawan e Samantha Ruth Prabhu, unita alla regia innovativa e a una scrittura densa, garantiscono una storia capace di coinvolgere anche un pubblico più occidentalizzato.

DanDaDan: recensione dell’irriverente anime di Netflix

Storie di alieni strambi, fantasmi invadenti, medium affascinanti e adolescenti pasticcioni abbondano ormai nel catalogo di Netflix. Tuttavia, sono decisamente più rare le narrazioni che uniscono elementi soprannaturali e fantascientifici con tematiche sociali più cupe e complesse, come il bullismo, l’abbandono e la vulnerabilità dei più giovani. È proprio questo mix inusuale di giovani piantagrane e creature ultraterrene, a volte in veste di inquietanti predatori sessuali, a caratterizzare l’irriverente e disturbante anime DanDaDan.

Prodotta dallo studio Science SARU, DanDaDan è una serie paranormale e soprannaturale basata sul celebre manga omonimo scritto e illustrato da Yukinobu Tatsu, pubblicato anche in Italia dall’etichetta J-Pop. La serie, che ha debuttato ufficialmente su Netflix e Crunchyroll lo scorso 3 ottobre, è diventata rapidamente uno dei battle shonen più discussi degli ultimi anni. Probabilmente composta da una prima stagione di 12 episodi, l’anime è attualmente in corso con la pubblicazione di un episodio a settimana, conquistando il pubblico grazie alla sua capacità di mescolare azione, humor irriverente e tematiche adulte che vanno oltre i confini del genere shonen tradizionale.

Cosa racconta Dandadan?

DanDaDan è una tenera e adrenalinica storia d’amore tra due adolescenti agli antipodi: la bella, forte e intraprendente Momo Ayase e l’insicuro nerd Ken Takakura, che lei ribattezza affettuosamente “Okarun”. Dopo essersi conosciuti per caso, e spinti dalla curiosità e da un pizzico di sfida, i due giovani decidono di mettere alla prova le proprie opposte convinzioni sull’esistenza di alieni e spiriti maligni: Momo, scettica verso l’idea di creature extraterrestri, crede fermamente nei fantasmi, mentre Okarun è affascinato dagli alieni ma dubita dell’esistenza del sovrannaturale.

Quella che inizia come una scommessa innocente li trascina presto in un mondo oscuro e pericoloso, in cui alieni e fantasmi non solo esistono, ma sono minacce sinistre, spietate e viscide: da un lato, la razza aliena di Serpo, con intenti brutali, rapiscono giovani donne per sottoporle a crudeli esperimenti di riproduzione, tentando di perpetuare la propria specie. Dall’altro lato, spettri spaventosi (come l’insistente vecchia “turbo-nonna”) cacciano giovani uomini per rubare loro ciò che più rappresenta l’essenza della virilità… ovvero i cosiddetti “gioielli di famiglia”.

È così che questo bizzarro e improbabile duo si ritrova coinvolto in un’avventura soprannaturale che, tra un combattimento e l’altro, li avvicinerà sempre di più, portandoli a scoprire cosa significhi davvero amare qualcuno e acquisendo una nuova consapevolezza di se stessi e dei propri sentimenti.

Oltre il soprannaturale: tra horror e critica sociale

Fin dai primi minuti di visione, DanDaDan si presenta al pubblico come un anime provocatorio e iperbolico, capace di fondere umorismo, romanticismo e critica sociale con una buona dose di horror angosciante. L’opera sfrutta appieno la fantasia, costruendo una trama assurda e paradossale che non ha paura di esagerare, alternando con abilità momenti leggeri e spiritosi ad altri più intensi e drammatici. Questa alternanza di toni contribuisce a mantenere alta l’attenzione dello spettatore, rendendo l’esperienza visiva imprevedibile, coinvolgente e mai noiosa.

Nel corso della narrazione, DanDaDan esplora anche temi ben più complessi e delicati, come la violenza di genere e lo stupro, trattato con un approccio non superficiale e decisamente controverso. Mentre i protagonisti, Momo e Okarun, affrontano le sfide che il destino e le misteriose forze sovrannaturali pongono sul loro cammino, l’anime non si limita semplicemente a raccontare le loro avventure, ma scava in profondità, trattando con grande sensibilità e, talvolta, un tocco di crudezza, il tema della violenza sessuale e delle dinamiche di potere che la accompagnano. Un esempio di questo approccio si vede fin dall’inizio della serie, quando Momo affronta la volgare sfacciataggine del ragazzo di cui era infatuata, o poco dopo, quando la vediamo combattere contro alieni predatori sessuali (che non sono scelti a caso con le sembianze di grossi e inquietanti uomini) per difendere la propria verginità.

Un altro momento particolarmente toccante si svolge intorno alla figura della “turbo-nonna”, che si rivela essere uno spirito maligno nato dalle anime tormentate di ragazze violentate, uccise e abbandonate in quello stesso tunnel in cui Okarun ha il suo primo incontro paranormale. Questa inaspettata rivelazione aggiunge un ulteriore strato di complessità alla serie, mostrando come DanDaDan non solo esplori tematiche particolarmente dolorose e attuali, ma lo faccia con un’intensità emotiva che rende la storia ancora più profonda e significativa di quanto appare.

Un anime che merita una possibilità

Nonostante sia attualmente disponibile solo la prima metà della stagione, DanDaDan è già riuscito a conquistare sia gli appassionati di anime sia il pubblico meno avvezzo al genere, grazie a un perfetto mix di azione, elementi fantastici e crudo realismo. La produzione ha investito notevoli sforzi per rendere omaggio al manga di Yukinobu Tatsu, cercando di rimanere il più fedele possibile all’opera originale, con animazioni dinamiche e curate nei minimi dettagli che danno vita a un’esperienza visiva assolutamente degna dell’attenzione del pubblico di Netflix.

Particolarmente interessanti sono anche i dettagli grotteschi ed esagerati con cui sono stati realizzati i mostri di DanDaDan, che ricordano le assurde e iconiche creature horror di Junji Ito, maestro del genere per il suo stile unico. Questi tocchi rendono la serie inconfondibile, offrendo una visione originale e provocatoria dell’horror.

In definitiva, DanDaDan è un anime bizzarro e fantasioso che, con un’estetica distintiva e una scrittura schietta e ironica, racconta una toccante storia di crescita, amore e forze oscure… molto più tangibili e reali di alieni e fantasmi.

Outer Banks 5 si farà, rinnovata per la quinta e ultima stagione su Netflix

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Outer Banks è stata rinnovata per la quinta stagione da Netflix, che sarà anche l’ultima dello show. La notizia precede di poco il debutto della seconda parte della quarta stagione della serie il 7 novembre. I creatori e produttori esecutivi della serie, Jonas Pate, Josh Pate e Shannon Burke, hanno condiviso la notizia della stagione finale in un “Dispaccio a tutti i Pogues”, che può essere letto integralmente qui sotto. 

I tre co-creatori hanno dichiarato nel comunicato di aver avuto l’ispirazione per scrivere la serie nel 2017, quando si sono imbattuti in una fotografia di un gruppo di adolescenti al tramonto su una spiaggia.

All’epoca, sette anni fa, sembrava impossibile che saremmo riusciti a raccontare l’intera storia di cinque stagioni, ma eccoci qui, alla fine della quarta stagione, ancora in fase di lavorazione”, hanno scritto. “La quarta stagione è stata la più lunga e la più difficile, ma la più gratificante, da produrre. La stagione si conclude con un episodio di lunghezza notevole, che riteniamo essere il nostro episodio migliore e più potente. Speriamo che anche voi la pensiate così”.

“Ora, con un po’ di tristezza, ma anche di eccitazione, ci lasciamo alle spalle la quarta stagione e ci dedichiamo alla quinta, in cui speriamo di riportare a casa i nostri amati Pogues nel modo in cui abbiamo immaginato e pianificato anni fa”, hanno continuato. “La quinta stagione sarà la nostra ultima e pensiamo che sarà la migliore. Speriamo che vi unirete a noi per un’altra remata verso il surf break”.

Cosa c’è da sapere su Outer Banks

Il cast della quarta stagione della popolare serie YA comprende: Chase Stokes, Madelyn Cline, Madison Bailey, Jonathan Daviss, Rudy Pankow, Carlacia Grant, Drew Starkey, Austin North, Fiona Palomo, J. Anthony Crane, Pollyanna McIntosh, Brianna Brown, Rigo Sanchez, Mia Challism e Cullen Moss.

Outer Banks ha dimostrato di essere un grande successo per Netflix. La prima parte della stagione 4 è stata nella classifica Top 10 di Netflix in lingua inglese nelle ultime tre settimane, mentre la serie stessa ha trascorso 27 settimane in totale nella Top 10 dal suo rilascio originale nel 2020.

Netflix ha anche iniziato a espandere il mondo intorno allo show con eventi dal vivo. Di recente lo streamer ha ospitato il secondo evento “Poguelandia” a Los Angeles, con la partecipazione di 2500 fan. L’evento ha visto l’esibizione di artisti come GloRilla e Remi Wolf, oltre a merchandise, foto e altro ancora. Netflix ha anche lanciato il gioco mobile “Netflix Stories: Outer Banks”.

Outer Banks 4 – parte 2: trailer della seconda parte di quarta stagione

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Outer Banks 4 – parte 2 ha debuttato un nuovo trailer che si concentra sui Pogues e sul loro viaggio a Morroco alla ricerca di un tesoro. Divisa in due metà, ciascuna composta da cinque episodi, la quarta puntata del popolare teen drama ha visto i Pogues alla ricerca del tesoro di Barbanera. Questa ricerca ha anche portato a delle importanti rivelazioni, con JJ che ha appreso una rivelazione scioccante nel finale di Outer Banks, stagione 4, parte 1.

Netflix ha ora rilasciato il trailer della quarta stagione di Outer Banks, parte 2, mentre i restanti cinque episodi verranno rilasciati il 7 novembre. L’anteprima di due minuti mostra JJ, John B (Chase Stokes), Sarah (Madelyn Cline), Kiara (Madison Bailey), JJ (Rudy Pankow), Pope (Jonathan Daviss), Cleo (Carlacia Grant) e Rafe (Drew Starkey) in partenza per una nuova avventura. Ma come spesso accade ai Pogues, tensioni e pericoli complicano la loro ricerca del tesoro in Morroco. Guardate il trailer qui sotto:

Cosa rivela il trailer della quarta stagione di The Outer Banks

Gli sviluppi della storia sembravano promettenti nella prima metà della quarta stagione di Outer Banks. I Pogues avevano avviato una nuova attività, Poguelandia, ma la faida con i Kooks metteva a rischio questo senso di tranquillità. L’ultimo trailer conferma che le cose non stanno migliorando, con una riunione cittadina che si conclude con finestre distrutte. A causare il caos è JJ, che probabilmente è stato colpito dalla rivelazione della vera identità del suo padre biologico.

Mentre le loro fortune cambiano ancora una volta, i Pogues non hanno soldi e si ritrovano nel mirino dei killer. Cercano la Corona Blu, che si trova in Morroco, e il trailer presenta diverse scene in cui i personaggi sfidano il caldo per raggiungere il proverbiale oro. Anche Rafe è coinvolto, offrendosi di portare i Pogues in Nord Africa in cambio di un compenso. Ma nonostante alcuni scontri e pugni tra Rafe e JJ, la caccia al tesoro continua e i personaggi di Outer Banks si dirigono verso una nuova località.

Il verdetto sul nuovo trailer della quarta stagione di Outer Banks

La quinta stagione di Outer Banks non è stata confermata. Tuttavia, in un’intervista con Tudum di Netflix, il co-creatore Josh Pate ha confermato i piani per altre stagioni. Pate ha detto in parte: “Pensiamo alle prime tre [stagioni] come a una trilogia e poi stiamo ricominciando ora con [un’altra sorta di] trilogia”. Questo indicherebbe la speranza non solo di una quinta stagione, ma anche potenzialmente di una sesta. Il trailer è un segnale incoraggiante, che mostra un’acuta comprensione di ciò che rende il dramma della caccia al tesoro così popolare tra il suo pubblico.

Le linci selvagge: recensione del docufilm di Laurent Geslin

Laurent Geslin è un fotografo naturalista di fama mondiale che per nove anni ha monitorato immergendosi nella natura, le linci euroasiatiche. La lince, per chi non lo sa, è un predatore fondamentale per l’ecosistema forestale, poiché la sua presenza aiuta a mantenere l’equilibrio naturale, minacciata sempre di più da fattori come i cambiamenti climatici e l’attività umana. Il documentarista alla fine ha realizzato un film intitolato Le linci selvagge che è stato presentato in anteprima durante il Locarno Film Festival 2021.

Cosa racconta Le linci selvagge

Nel corso del 19° secolo, la lince euroasiatica è stata sterminata ed è scomparsa dall’Europa occidentale. Cinquant’anni fa, il predatore però è stato reintrodotto nelle montagne della Svizzera. La lince è un animale fiero, bellissimo, con indole schiva, solitario, ma nonostante la protezione garantita a livello nazionale ed europeo, la specie resta comunque a rischio. Le sue peculiarità fisiche sono i ciuffi di peli sulle punte delle orecchie e il manto che assume varie gradazioni di colore a seconda del territorio di appartenenza. Il pelo delle linci per esempio è più chiaro nei paesi del nord e diventa più scuro man mano che si procede verso sud. Anche se è un felino usa il mimetismo per difendersi dai pericoli dell’ambiente circostante, ma anche per ingannare le sue prede, come caprioli o camosci.

Questo fiero predatore, conosciuto anche con il nome di gattopardo o lupo del Cerviere, ha un comportamento che ricorda un po’ quello di altri animali notturni delle foreste europee, preferendo prevalentemente uscire nelle ore serali e dedicarsi alla vita sociale solo durante il periodo degli accoppiamenti. Il fotografo francese ha seguito, per un lungo periodo, il ciclo della vita di una famiglia di linci euroasiatiche, documentando gli eventi cruciali come la nascita dei cuccioli, l’apprendimento della caccia e la difesa del territorio ma anche quella dagli uomini. Questo documentario, girato tra le montagne della Giura e commentato da Geslin stesso, si apre a fine Inverno dove due linci che si incontrano per riprodursi.

Il film inizia durante la stagione degli amori, quando il maschio della specie “canta” per attirare la femmina, che risponde ad essa. Proseguendo passano alcuni mesi e arriva la Primavera con il risveglio degli animali dal letargo, la rinascita con i suoi primi germogli sulle piante e l’apparizione della lince femmina in dolce attesa alla ricerca di una tana per partorire. Passa un’altra stagione e si rivede la lince madre con ben tre piccoli gattini,  ovviamente questo è un docufilm con animali selvaggi in cui è facile trovare la morte quando sei un cucciolo. Purtroppo durante il racconto due membri della famiglia delle linci vanno incontro a un triste destino. Uno dei tre cuccioli viene ucciso da un bracconiere e l’altro a sette mesi muore investito da una macchina. Il documentario si conclude con la femmina piccola cresciuta, l’unica sopravvissuta, pronta per trovare un compagno e continuare la specie.

Un film che contribuisce alla ricerca

Guardando quest’opera prima di Laurent Geslin si nota fin da subito che chi c’è dietro la telecamera è una persona esperta e appassionata di questo straordinario animale. Uno degli aspetti che meglio lo mostra è quando c’è proprio l’impressione, che la lince stia guardando dritto nell’obiettivo e questo è merito del regista che ormai li conosce bene questi straordinari predatori europei. Il regista comunque non si concentra solo sulla lince ma mostra anche tutti gli altri animali che in qualche modo diventeranno, forse, possibili prede o semplicemente abitano nello stesso habitat naturale.

Le linci selvagge si racchiude benissimo nel genere dei documentari dedicati alla natura incontaminata e alla difficile convivenza tra esseri umani e animali selvaggi. Per concludere questo docufilm è tutt’ora il primo dedicato interamente alle linci, ci sono quelli sui leoni, ghepardi, giaguari e altri grandi felini, ma niente sui gattopardi.

Il ragazzo dai pantaloni rosa: la storia vera dietro al film

Dopo la presentazione al Giffoni Film Festival e alla Festa di Roma, nell’ambito di Alice nella Città, Il ragazzo dai pantaloni rosa è pronto per arrivare in sala, dal 7 novembre con Eagle Pictures, preceduto da una serie di proiezioni per le scuole che mirano a diffondere nella maniera più accurata e “educativa” possibile il messaggio del film.

Ma di cosa parla Il ragazzo dai pantaloni rosa e come mai viene proiettato per le scuole?

Il film racconta la drammatica storia vera di Andrea Spezzacatena, l’adolescente che decise di togliersi la vita perché vittima di bullismo a scuola. Fu il primo caso del genere in Italia che portò al suicidio di un minorenne: per questo è importante che il film arrivi a quante più persone possibile, giovani ma non solo, poiché la testimonianza e la rappresentazione di una storia così ingiusta possano diventare strumenti di sensibilizzazione, affinché non ci siano più ragazzi che vengano trattati come è stato trattato Andrea. Soprattutto affinché chi si trova nella situazione di Andrea non si senta più così tanto solo da non avere intorno persone a cui chiedere aiuto.

La storia vera

Il film, diretto da Margherita Ferri, racconta di Andrea, l’adolescente vittima di bullismo. Basato sul libro Andrea, Oltre il Pantalone Rosa, edito da Graus e scritto dalla mamma del ragazzo, Teresa, il film ci accompagna nella vita di un ragazzino sensibile, con una madre e un padre presenti e attenti, che tuttavia non sono riusciti a proteggere il figlio dal dolore e dalla paura. Per questo, adesso Teresa ha dedicato la sua vita a raccontare la storia del figlio, per aiutare altri ragazzi e i loro genitori a non sentirsi soli.

Cosa significano i “pantaloni rosa”?

Secondo le storia raccontata prima nel libro e poi nel film, un giorno Andrea si presentò a scuola con dei pantaloni stinti, erano rossi, ma un lavaggio sbagliato li aveva fatti diventare rosa. Questa scelta di indossare comunque i pantaloni per andare a scuola aveva generato grande ilarità e commenti pungenti da parte dei compagni che arrivarono addirittura a creare una pagina Facebook con quello che è ora il titolo del film. Solo dopo la tragica fine del figlio, che aveva condiviso con lei la password del suo account, Teresa scoprì l’esistenza della pagina diffamatoria, identificata poi come il primo scalino di una parabola discendente di dolore e solitudine che Andrea cominciò a percorrere in solitudine, fino a quel tragico 20 novembre 2012, quando si tolse la vita, poco dopo il suo quindicesimo compleanno.

Chi era Andrea Spezzacatena?

Un ragazzo apparentemente solare, Andrea aveva ottimi voti a scuola e un bel rapporto coi genitori. Quando fu trovato senza vita, la famiglia e la comunità rimasero doppiamente sconvolti, non solo per l’irrimediabilità del gesto, ma anche perché arrivava da un ragazzo che apparentemente sembrava molto sereno. Un mistero, insomma, che trovò una spiegazione solo quando sua madre, dopo la sua morte, entrò nel suo profilo Facebook e ricostruì linferno che suo figlio stava passando tra atti di bullismo e cyberbullismo, a scuola.

Il film Il ragazzo dai pantaloni rosa

Il film, narrato in prima persona dalla voce di Andrea dallaldilà, ci racconta come il ragazzo sia arrivato a pensare di non avere altra via duscita e rappresenta un potente monito sulla pericolosità di parole e di gesti che possono sembrare scherzi innocui, addirittura simpatici, da parte di chi li perpetra con leggerezza.

Nel cast del film troviamo Claudia Pandolfi nei panni di Teresa Manes, la mamma di Andrea, e Corrado Fortuna che invece interpreta il papà del ragazzo. Il protagonista che dà il volto ad Andrea è il giovane Samuele Carrino, mentre Andrea Arru, volto amatissimo dal pubblico giovane, è Christian, il bullo della scuola. Reduce dal successo di Inside Out 2, in cui presta la voce alla protagonista, Sara Ciocca completa il cast nei panni di Sara, la migliore amica di Andrea.

Arisa per la colonna sonora

A impreziosire di emozione e significato Il ragazzo dai pantaloni rosa c’è Canta Ancora”canzone inedita che Arisa scrisse per sua madre e che nel film diventa una lettera che Andrea dedica a Teresa. Il brano, che si può ascoltare già nel trailer e accompagna l’uscita del film, fa parte della colonna sonora ufficiale. Diretto dalla regista Margherita Ferri (Zen – Sul ghiaccio sottile prodotto da Biennale College, Bang Bang Baby) e prodotto da Eagle Pictures e Weekend Films con la sceneggiatura di Roberto ProiaIl ragazzo dai pantaloni rosa uscirà il 7 novembre distribuito da Eagle Pictures.

The Diplomat: la serie Netflix è basata su una storia vera?

La serie Netflix The Diplomat sembra realistica poiché segue alcune trame politiche familiari, sollevando interrogativi su quanto della serie sia basato su fatti reali. The Diplomat vede Keri Russell nei panni di Kate Wyler, la nuova ambasciatrice nel Regno Unito che sta affrontando un matrimonio infelice con suo marito, Hal Wyler, interpretato da Rufus Sewell. La serie esplora le difficoltà di mantenere le relazioni, sia romantiche, come il matrimonio di Kate, sia quelle tra due paesi. Mette in luce alcuni temi molto reali tra i paesi nel mondo reale, rendendola autentica.

Durante le prime due stagioni di The Diplomat, Kate si adatta alla sua nuova posizione e all’attenzione dei riflettori, mentre viene trascinata in una cospirazione internazionale. In quanto donna in una posizione di potere, Kate deve sopportare molto sessismo, che è una delle parti più realistiche della serie, dato che è molto diffuso nella società. Con gli elementi molto realistici che The Diplomat presenta e le sue trame che sembrano fin troppo familiari, ha sollevato molte domande sulla sua veridicità.

The Diplomat di Netflix non è basato su una storia vera

Keri Russell in The Diplomat - Stagione 2

La storia immaginaria è nata da conversazioni con diplomatici reali

Sebbene The Diplomat possa sembrare reale, soprattutto grazie alla recitazione convincente di Russell, non è basato su una storia vera. La serie Netflix è invece il racconto romanzato di una donna in politica e di come affronta il suo nuovo potere. Tuttavia, la serie prende molta ispirazione da eventi reali. La creatrice di The Diplomat, Debora Cahn, ha tratto ispirazione per la serie Netflix dopo aver incontrato alcuni ambasciatori statunitensi mentre scriveva per la serie Homeland.

Sebbene Cahn si sia ispirata a persone reali per creare la serie, i personaggi principali di The Diplomat, Kate e Hal, non sono basati su persone reali. Cahn voleva creare una coppia che lavorasse insieme per mostrare come un lavoro così intenso possa influenzare una relazione. Anche se Russell e Sewell rendono i loro personaggi e la loro relazione così credibili, è facile capire perché ci siano state domande sulla loro natura fittizia.

The Diplomat include comunque riferimenti a eventi politici reali

The Diplomat

La serie mantiene il realismo attraverso riferimenti di attualità

Sebbene la serie sia di fantasia, include molti riferimenti alla vita reale. Uno in particolare si verifica durante la stagione 1, episodio 2 di The Diplomat, quando la serie fa riferimento all’uccisione di Qasem Soleimani. Soleimani era un ufficiale militare iraniano assassinato nel 2020 da un attacco con droni degli Stati Uniti, poiché si riteneva che avesse intenzione di attaccare gli Stati Uniti. La serie ha anche fatto riferimento a eventi più recenti come la guerra tra Russia e Ucraina.

Questi riferimenti sono legati a The Diplomat per rendere la serie più reale e credibile. L’inclusione di riferimenti alla vita reale confonde i confini tra realtà e finzione, coinvolgendo ulteriormente il pubblico nella storia.

Quanto è accurato The Diplomat rispetto al mondo reale?

The Diplomat - stagione 2

I veri ambasciatori hanno sottolineato l’approccio esagerato di The Diplomat

Dato che The Diplomat esplora un mondo unico che non si vede spesso in altre serie, sorgono domande su quanto la serie sia fedele alla realtà. Come spesso accade con le serie di finzione, The Diplomat sembra distorcere la verità su come sono realmente le cose per rendere più drammatica la storia. The Guardian ha intervistato diversi ambasciatori e diplomatici reali per conoscere la loro opinione sulla serie e sulla sua accuratezza.

In molti casi, coloro che sono stati interrogati sulla rappresentazione del loro mondo in The Diplomat hanno ammesso che la serie thriller politico non è molto accurata. Un diplomatico britannico anonimo ha ammesso di aver trovato la rappresentazione della serie dell’interazione di Kate con i leader britannici in gran parte fittizia, condividendo:

Non direi che sia stato fatto un grande sforzo per comprendere o riflettere il protocollo: il modo in cui il ministero degli Esteri interagisce con il numero 10 e il modo in cui interagisce con le ambasciate. Hanno giocato in modo piuttosto veloce e approssimativo con queste relazioni”.

Altre persone hanno sottolineato alcuni aspetti divertenti di The Diplomat rispetto al mondo reale, come la diplomatica americana Jenna Ben-Yehuda, che ha suggerito che i personaggi della serie sono molto più attraenti delle persone reali che svolgono questa professione. Tuttavia, alcuni hanno affrontato le inesattezze della serie in modo più serio. Brett Bruen, direttore del coinvolgimento globale per la Casa Bianca di Obama, era costernato nel vedere che la serie abbracciava l’angolo dello spionaggio invece di ritrarre il mondo reale dei diplomatici:

Ciò che è stato particolarmente deludente è che questo continua una lunga tradizione di serie che mettono l’accento sulla politica estera nel titolo, per poi deviare completamente verso qualcosa che non ha nulla o poco a che fare con la diplomazia reale”.

Tuttavia, ci sono ancora dettagli in The Diplomat che hanno impressionato altri. In molti dei set della serie, i mobili sono realizzati dal marchio americano Drexel, noto per arredare le case dei diplomatici americani all’estero. Nel complesso, chi è alla ricerca di un’esplorazione dettagliata di cosa significhi realmente essere un diplomatico dovrebbe cercare altri media, poiché The Diplomat si limita a basarsi su un’ambientazione reale per raccontare la propria storia.

The Walking Dead: Daryl Dixon – Stagione 2, la spiegazione del finale

The Walking Dead: Daryl Dixon – stagione 2 è stata ricca di momenti emozionanti e di colpi di scena, con la conclusione della storia che ha coronato alla perfezione il viaggio di Daryl e Carol. Mentre Daryl ha cercato di tornare a casa dalla Francia sin dal primo episodio dello spin-off, il finale della prima stagione di Daryl Dixon ha fatto sorgere dei dubbi nella mente del protagonista sul suo vero posto nel mondo. Nonostante ciò, nella seconda stagione era ancora intenzionato a tornare negli Stati Uniti e l’arrivo di Carol non ha fatto altro che rafforzare questo obiettivo. Con la coppia riunita, gli ultimi episodi si sono concentrati sulla protezione di Laurent e sulla ricerca di un modo per tornare al Commonwealth.

Fortunatamente, l’aereo di Ash è rimasto intatto fino al finale della seconda stagione di Daryl Dixon, ma dato che poteva ospitare solo tre persone, qualcuno doveva restare indietro. Sebbene il gruppo alla fine abbia deciso che Daryl sarebbe rimasto in Francia, Carol ha deciso di unirsi a lui, permettendo ad Ash e Laurent di fuggire incolumi. Di conseguenza, Daryl e Carol hanno iniziato a pianificare insieme il loro viaggio di ritorno a casa, con l’aiuto di alcuni dei loro alleati francesi. Con un piano in atto, i protagonisti hanno concluso la stagione intraprendendo il loro viaggio fuori dalla Francia, ma sorprendentemente la loro destinazione era diversa da quella che il pubblico si sarebbe potuto aspettare.

Daryl e Carol stanno andando in Inghilterra durante i momenti finali della seconda stagione, non in Spagna

I protagonisti hanno scoperto che il Regno Unito è la loro migliore possibilità per tornare in America

Senza l’aereo di Ash, Daryl e Carol non avevano una rotta diretta per l’America, il che significava che dovevano attraversare un altro paese. Tuttavia, nonostante la location confermata della terza stagione, i protagonisti si sono diretti in Inghilterra, non in Spagna. Dopo aver combattuto con successo contro la coalizione di L’Union e Pouvoir, Daryl e Carol guardano Laurent e Ash volare verso gli Stati Uniti, ponendo fine al conflitto in Francia. I personaggi principali procedono quindi verso l’Inghilterra durante il finale della seconda stagione nel tentativo di tornare a casa, nonostante la terza stagione di Daryl Dixon si svolga in Spagna.

Il loro viaggio inizia recandosi in una località rurale con Fallou, Codron e Akila dopo aver sconfitto i cattivi principali, dove si preparano per il viaggio. Con l’aiuto di una coppia scozzese amica di Fallou, raggiungono un tunnel che collega l’Inghilterra e la Francia, poiché la coppia rivela che il Regno Unito ha affrontato l’apocalisse relativamente bene. Akila aveva già confermato che sarebbe rimasta indietro, ma Fallou decide di unirsi a lei dopo aver sviluppato dei sentimenti romantici, costringendo il resto del gruppo a salutarsi e a iniziare la loro camminata di nove ore sotto la Manica.

Sapendo che l’Inghilterra è la loro migliore possibilità di tornare in America, il gruppo si addentra nel tunnel prima di scoprire un posto di blocco pieno di cadaveri. Nonostante i sospetti su ciò che è successo, continuano ad avanzare, ma iniziano ad avere allucinazioni, causando il caos all’interno del tunnel. Carol si allontana da sola dopo aver visto la figlia defunta, che insegue. Nel frattempo, Codron viene attaccato da uno zombie che crede essere suo fratello, il che spinge Daryl a intervenire e uccidere il vagante, provocando l’ex antagonista a rivoltarglisi contro.

Durante il combattimento, Codron riesce a sopraffare Daryl e lo pugnala, ma ha di nuovo un’allucinazione in cui vede suo fratello, che lo spinge a correre via per cercarlo. Mentre Daryl torna al posto di blocco per prendere le maschere antigas, Daryl Dixon stagione 2 continua il suo strano colpo di scena con la coppia scozzese che tende un’imboscata al protagonista per prendere l’equipaggiamento per sé. Con Daryl ferito a terra, ha un’allucinazione di Isabelle e di un soldato, che gli danno la motivazione sufficiente per alzarsi e uccidere i traditori prima di recuperare le due maschere rimanenti.

Carol riesce a superare il dolore lasciando andare sua figlia e torna presto per incontrare Daryl, dove entrambi indossano le maschere antigas e iniziano a dirigersi verso l’Inghilterra. Mentre la coppia scozzese viene uccisa, Codron rimane vivo alla fine della seconda stagione, ma i momenti finali mostrano solo Carol e Daryl da soli mentre continuano il loro viaggio attraverso il tunnel.

Perché il gruppo di Daryl ha perso il controllo alla fine della seconda stagione

Considerando che l’intero gruppo inizia a comportarsi in modo strano, è chiaro che il tunnel ha causato loro allucinazioni e perdita di controllo, ma il motivo esatto è intrigante. Quando il gruppo si imbatte nei cadaveri, presume che le guardie siano impazzite e si siano rivoltate l’una contro l’altra a causa del guano all’interno del tunnel. Secondo Fiona, il guano può causare allucinazioni e paranoia, ma questo non è stato sufficiente per impedire al gruppo di proseguire il viaggio. Sfortunatamente, senza maschere antigas, la stessa cosa accade a loro, con ognuno che ha le proprie visioni che alla fine scatenano la violenza.

Sebbene la scienza non confermi che il guano abbia questo effetto, è possibile che siano entrati in gioco anche altri fattori. Le nuove varianti luminose di Daryl Dixon compaiono anche durante la scena, ma a parte il fatto di essere bioluminescenti, i loro veri poteri sono sconosciuti. Pertanto, è possibile che la luce che emanano possa causare allucinazioni, o che gli zombie combinati con il guano abbiano qualche tipo di effetto che gli scienziati ovviamente non hanno ancora scoperto nell’universo di The Walking Dead.

The Walking Dead: Daryl Dixon stagioni 1 e 2 sono disponibili su AMC+.

Indipendentemente dal fatto che si trattasse solo di guano, delle nuove varianti o di qualcos’altro, il tunnel ha chiaramente avuto un qualche tipo di impatto sulla psiche dei personaggi, che li ha portati a vedere cose che non erano reali. Mentre Daryl e Carol riescono a riprendersi e hanno la protezione delle maschere antigas, Codron rimane vulnerabile agli effetti nel finale della seconda stagione, rendendo il suo destino ancora più interessante.

Cosa è successo a Codron alla fine della seconda stagione di Daryl Dixon?

Codron è andato alla ricerca del fratello defunto mentre era in preda alle allucinazioni

Dopo aver vissuto un incredibile percorso di redenzione durante la seconda stagione di Daryl Dixon, lo status di Codron alla fine del finale rimane poco chiaro. Dopo aver svolto un ruolo fondamentale nel portare Laurent in salvo nell’episodio 5 e averlo aiutato a fuggire durante l’episodio 6, Codron decide di unirsi al viaggio verso l’Inghilterra, rimanendo un alleato prezioso fino alle allucinazioni. La sua conversazione con Daryl a metà del finale riapre il dolore per la perdita del fratello, quando scopre che Daryl non era responsabile della morte di Michel. Di conseguenza, Codron continua a piangere la morte del fratello, motivo per cui ha delle allucinazioni su di lui durante i momenti finali dell’episodio.

Nonostante abbia pugnalato Daryl, Codron non sembra essere tornato alle sue vie malvagie, ma sta invece agendo in modo insolito a causa delle visioni che gli causano allucinazioni.

Nonostante abbia pugnalato Daryl, Codron non sembra essere tornato alle sue vie malvagie, ma sta invece agendo in modo insolito a causa delle visioni che gli causano allucinazioni. L’ultima volta che lo vediamo è quando lascia Daryl per andare a cercare suo fratello, lasciandolo incredibilmente vulnerabile e con un destino sconosciuto. Anche se la sua attuale situazione potrebbe renderlo una facile preda per gli zombie rimasti nel tunnel, Codron apparirà, si spera, nella terza stagione di Daryl Dixon, dato che è ancora vivo e potrebbe essere salvato dai protagonisti.

Perché Fallou ha deciso di rimanere in Francia

Sylvie e Isabelle’s Walking Dead deaths significano che Fallou è senza dubbio l’alleato francese più fidato rimasto a Daryl, ma sfortunatamente decide di non unirsi al gruppo nel loro viaggio verso l’Inghilterra. Nonostante inizialmente avesse intenzione di andare con loro, Fallou esita quando i sopravvissuti si avvicinano al tunnel e cambia idea, scegliendo invece di rimanere in Francia.

Il motivo di questa decisione dell’ultimo minuto è che durante il breve periodo trascorso insieme ha sviluppato dei sentimenti per Akila e finalmente ha trovato qualcosa per cui vale la pena restare, sapendo anche che Daryl è abbastanza forte da raggiungere l’Inghilterra senza di lui.

Emigrato dal Camerun, Fallou non aveva famiglia in Francia quando è scoppiata l’epidemia e il tradimento dell’Unione ha distrutto anni di fiducia.

Sebbene avesse ancora alcuni alleati nel paese, unirsi a Daryl nella sua avventura in Inghilterra sembrava una buona idea, e forse aveva anche pensato di seguire i protagonisti in America, a seconda del mezzo di trasporto che avrebbero usato. Tuttavia, il suo legame immediato con Akila si è rapidamente trasformato in amore e, con la sua amata rimasta in Francia per cercare sua sorella, Fallou ha trovato ancora una volta un motivo per cercare di costruirsi una vita in Francia.

Purtroppo, la sua decisione significa che è incredibilmente improbabile che appaia nella terza stagione di Daryl Dixon, ma almeno gli garantisce un lieto fine. Avendo fatto parte del viaggio francese di Daryl sin dal primo episodio, Fallou merita senza dubbio una conclusione soddisfacente per la sua storia, e stabilirsi con qualcuno che ama sembra il finale perfetto.

Cosa è successo ai cattivi di Daryl Dixon?

Daryl Dixon ha sconfitto i suoi principali antagonisti prima del finale, ma Pouvoir e L’Union erano ancora determinati a impedire a Laurent di lasciare la Francia. La morte di Genet in Walking Dead nell’episodio 4 ha fatto sì che Sabine prendesse il controllo di Pouvoir e accettasse di formare un’alleanza con L’Union. Tuttavia, anche Losang è stato ucciso nell’episodio 5, lasciando Jacinta a capo del gruppo religioso, con entrambe le fazioni ormai indebolite. Nonostante ciò, hanno continuato la loro missione per catturare Laurent durante la conclusione della seconda stagione e hanno reclutato l’aiuto di Anna Valery per trovare il ragazzo.

Valery conduce il gruppo malvagio all’ippodromo, ma li tradisce attirando gli antagonisti in un’imboscata di zombie, causando molte vittime tra i gruppi malvagi.

Durante la confusione, Jacinta viene morsa da un vagante, ma rimane in vita abbastanza a lungo da guidare i suoi soldati verso la posizione dell’aereo. Arrivano in tempo per iniziare una sparatoria con i protagonisti, ma la distrazione di Valery e il fatto che Carol e Daryl siano rimasti indietro sono sufficienti per permettere a Laurent e Ash di fuggire, distruggendo così i sogni dell’Unione.

Dopo essere stata morsa e sapendo che la sua unica possibilità di guarigione è ormai perduta, Jacinta punta una pistola contro se stessa, prima che la telecamera passi a Daryl e Carol mentre parte un colpo. Il suicidio di Jacinta rappresenta anche la fine della missione dell’Unione, ma il Pouvoir rimane intatto. La fazione ha ancora il controllo della Francia e, sebbene possa essere significativamente più debole senza l’Unione al suo fianco, ha anche pochissima opposizione, con Daryl, Carol e Codron che hanno lasciato il paese, suggerendo che siano stati segretamente i grandi vincitori del finale della seconda stagione.

Perché Valery decide di non tradire Daryl e Laurent

Forse una delle sorprese più grandi della conclusione della seconda stagione è stata la decisione di Valery di non tradire Daryl e Laurent. Il tempo trascorso da Valery nello spin-off ha reso difficile capire quanto fosse affidabile, ma alla fine ha aiutato Daryl più volte e il finale non ha fatto eccezione. Nonostante abbia portato i cattivi all’ippodromo, Valery li conduce in una trappola pur sapendo che questo mette a rischio la sua vita. Dopo aver ridotto il numero degli antagonisti, Valery cerca di fuggire dal garage pieno di vaganti, ma viene chiusa dentro da Jacinta e uccisa.

Il motivo per cui ha tradito i cattivi diventa chiaro quando un flashback la mostra mentre dice a Laurent che spera che lui riesca a tornare a casa. La loro conversazione della prima stagione viene riprodotta poco prima che Valery porti i cattivi nella direzione sbagliata, in cui Valery mostra simpatia per Laurent riguardo alla sua situazione attuale.

Valery ha sempre avuto un debole per il ragazzo, il che di solito l’ha portata a fare la cosa giusta, e anche se inizialmente aveva intenzione di vendere i protagonisti in cambio dell’aereo e del suo pilota, credeva che Laurent meritasse una possibilità di libertà, da qui il suo sacrificio.

Perché Daryl vede un soldato e cosa significa davvero

Durante la sequenza dell’allucinazione, Daryl vede un soldato che a prima vista può sembrare fuori luogo e quasi casuale. Tuttavia, la misteriosa figura del finale è in realtà collegata alla prima stagione e dovrebbe rappresentare il nonno di Daryl. Gran parte della storia dello spin-off di Daryl Dixon ha rispecchiato quella di suo nonno e della Seconda Guerra Mondiale, poiché il protagonista, che lentamente accetta il suo ruolo nella lotta contro Pouvoir, sembra assomigliare al suo parente che si unì alla lotta in Francia durante la guerra. Tuttavia, la sua visione del soldato è un monito a non ripetere la storia, poiché suo nonno è morto combattendo in Francia.

Prima di avere l’allucinazione della figura dell’esercito, Daryl ha delle visioni di Isabelle, che lo incoraggia a continuare. Lei gli dice “Non morirai qui” e quando appare il soldato, continua dicendo “Non come lui”, dimostrando che questa scena ha lo scopo di motivare Daryl a continuare il suo viaggio. Il coinvolgimento di Isabelle è ovviamente un modo per Daryl di vedere qualcuno che ama in modo da poter continuare a combattere, ma la visione di suo nonno è un promemoria di quale potrebbe essere il destino di Daryl se si arrendesse, il che significa che era il simbolo perfetto per il protagonista per continuare a spingersi verso l’Inghilterra, a qualsiasi costo.

La visione di Sophia da parte di Carol e cosa rappresenta per la sua storia in The Walking Dead

Le allucinazioni di Carol sembrano ancora più personali per il suo percorso, dato che la sua storia nella seconda stagione è stata tutta incentrata sul superamento della perdita di Sophia. Dopo aver mentito sulla morte di Sophia durante la premiere della seconda stagione di Daryl Dixon, il trauma per il destino di sua figlia ha continuato a perseguitare Carol per tutta la stagione. Ha avuto visioni di Sophia negli episodi precedenti, rendendo le allucinazioni ancora più intense e costringendola finalmente ad affrontare il suo dolore. Nonostante volesse andare con sua figlia, Carol alla fine l’ha lasciata andare, suggerendo che la sua storia nella seconda stagione era giunta a una conclusione naturale.

The Walking Dead: Daryl Dixon stagione 3 è attualmente in fase di riprese, ma non è stata rivelata alcuna data di uscita.

Sebbene il suo obiettivo principale fosse quello di riportare Daryl a casa, la sua battaglia personale consisteva nel lasciar andare Sophia, cosa che il finale le ha finalmente aiutato a realizzare. Anche se non c’è alcuna garanzia che non continuerà a pensare a sua figlia durante la terza stagione e oltre, il finale di Daryl Dixon è stato il culmine di questa affascinante trama. Affrontare la visione di sua figlia, abbracciarla e guardarla allontanarsi dimostra che Carol ha finalmente superato oltre un decennio di traumi repressi e può concentrarsi sul viaggio di ritorno a casa nella terza stagione.

Inspira, espira, uccidi: recensione del thriller tedesco di Netflix

L’ossessione per un lavoro frustrante e insoddisfacente, la pressione familiare, il desiderio di trascorrere più tempo con la figlia senza riuscirci davvero, l’incomprensione della moglie: sono difficoltà in cui chiunque potrebbe riconoscersi. Ma quando la già frenetica quotidianità dell’avvocato Diemel si scontra con le richieste assurde di clienti mafiosi dal temperamento esplosivo, cosa si può fare per ritrovare un po’ di pace interiore? Creata e scritta da Doron WisotzkyInspira, espira, uccidi (titolo internazionale Murder MindfullyAchtsam Morden in originale tedesco) è una serie thriller tedesca, ironica e ricca di humor nero, tratta dall’omonimo romanzo del 2018 di Karsten Dusse.

Composta da 8 episodi di circa 30 minuti ciascuno, la serie segue l’inatteso percorso interiore di Björn Diemel, interpretato dall’ironico Tom Schilling, che scopre nella mindfulness gli strumenti per rimettere ordine nella sua vita… anche se questo comporta eliminare qualche ostacolo di troppo.

Inspira, espira, uccidi è disponibile dal 31 ottobre su Netflix.

La trama di Inspira, espira, uccidi

Quando è sul punto di perdere la sua famiglia, l’affermato e amorale avvocato Björn Diemel decide di accontentare la moglie e partecipare a un seminario sulla mindfulness. Grazie alle tecniche apprese, Diemel inizia a ritrovare un equilibrio tra vita privata e lavoro, creando piccole “isole temporali” da dedicare alla figlia Emily e affrontando ogni ostacolo stressante con un respiro profondo. Tutto sembra finalmente ritrovare il suo posto, finché non decide di applicare la mindfulness anche con il suo cliente più problematico: il folle e violento boss mafioso Dragan Sergowicz (interpretato da Sascha Geršak).

Così, l’avvocato si ritrova invischiato in un guaio ben più grande, con la polizia e un’intera banda criminale alle calcagna. Eppure, nonostante l’assurda e pericolosa situazione, Björn riesce a mantenere il sangue freddo, trasformando la sua vita in modo radicale. Se ora eliminare qualche “ostacolo” è diventato necessario per risolvere i suoi problemi, lui sa che è solo una naturale conseguenza della sua nuova e sana consapevolezza.

La terapia può salvarti… fino a prova contraria

Omicidi a sangue freddo, malviventi maldestri e poliziotti corrotti. Inspira, espira, uccidi è una dark comedy che, pur vestendo i toni leggeri di una farsa, riesce a toccare corde profonde dello stato emotivo degli adulti di oggi. L’estrema frustrazione, l’ansia soffocante e la rabbia latente del protagonista, l’avvocato Björn Diemel, sono sentimenti che rispecchiano le inquietudini di un’intera generazione, stanca e insoddisfatta. Di fronte a un mondo caotico e terribilmente immutabile, ciò che rimane da fare è modificare il nostro atteggiamento verso i problemi, tentando di adattarci anziché combattere.

E così cerchiamo soluzioni: paghiamo uno psicoterapeuta nella speranza che ci indichi la via, ci iscriviamo a corsi di yoga, proviamo la terapia occupazionale o ci rivolgiamo a chi può ipnotizzarci per liberarci dai pensieri ossessivi. Oppure, come fa Diemel, ci affidiamo alla mindfulness. Ed è proprio questo approccio, per quanto singolare, a cambiare la sua vita: tra un’inspirazione e un’espirazione, Diemel si ritrova a commettere un omicidio e a scatenare una guerra tra bande. Eppure, grazie alla sua nuova filosofia, la sua esistenza sembra davvero migliorare… o, almeno, così crede.

Trovare pace nel proprio caos

Non sono solo le emozioni comuni a rendere coinvolgente la surreale avventura criminale del protagonista. Oltre ai sentimenti condivisibili, Inspira, espira, uccidi cattura il pubblico grazie a un’intelligente regia, che riesce a sopperire a una sceneggiatura a tratti ripetitiva e prevedibile. Inoltre, uno dei punti di forza della serie è il modo in cui Björn Diemel rompe la quarta parete, rivolgendosi direttamente in camera e creando un rapporto intimo e quasi complice con lo spettatore.

In questi intermezzi, il tempo sembra sospendersi: il mondo intorno a Diemel si ferma per qualche secondo, dandogli modo di raccontare o spiegare ciò che lo spettatore ha bisogno di sapere per comprendere — o addirittura giustificare — i suoi inganni, le sue manipolazioni e il sangue che si ritrova inevitabilmente sulle mani. Questi momenti non solo svelano i ragionamenti contorti del protagonista, ma anche il tentativo di razionalizzare il caos e gli eccessi della sua vita, trascinando lo spettatore in un vortice emotivo in cui persino le azioni più spietate appaiono, per un attimo, stranamente comprensibili.

Tutto è bene quel che… non finisce bene

Non è comune vedere produzioni tedesche comparire nell’iconica Top 10 di Netflix. Eppure, Inspira, espira, uccidi è riuscita in un’impresa sorprendente: in soli due giorni ha scalato rapidamente la classifica, avvicinandosi alla vetta e puntando a raggiungere il podio, attualmente dominato da La legge di Lidia Poet. La serie ideata da Doron Wisotzky si distingue per il suo sarcasmo pungente, il tono semplice e diretto, una leggera irriverenza e una spiazzante sincerità. Nonostante le situazioni paradossali e la narrazione a tratti prevedibile, l’atipico e goffo avvocato Björn Diemel riesce a intrattenere e a coinvolgere il pubblico con la sua comicità disarmante.

La serie miscela perfettamente dark comedy e momenti di introspezione, che spingono lo spettatore a riflettere sulle follie quotidiane dell’era moderna, in cui ci si sente sempre più soli e incompresi. Tom Schilling nei panni di Diemel diverte e convince, anche quando le sue decisioni sfociano nell’assurdo, lasciandoci sospesi tra il sorriso e la perplessità. Ora, però, resta l’immancabile interrogativo: Netflix saprà resistere alla tentazione di sfornare una seconda stagione, rischiando di trasformare una storia già completa e autoironica in un brodo troppo allungato per risultare appetibile?

Massimo Decimo Meridio de Il Gladiatore era una persona reale? la spiegazione delle influenze storiche

Uscito nel 2000, Il gladiatore di Ridley Scott è un film epico sulla vendetta, la perdita e la giustizia dal punto di vista di Maximus Decimus Meridius, interpretato da Russell Crowe. Sia il personaggio che la storia hanno una profondità tale da far chiedere a molti se Massimo Decimo Meridio fosse una persona reale e quali figure dell’antica Roma lo abbiano ispirato. Il film racconta la storia di Massimo, un generale romano diventato gladiatore che cerca di vendicare la morte della sua famiglia, uccisa dal malvagio figlio dell’imperatore Commodo (interpretato da Joaquin Phoenix). Sebbene Il Gladiatore presenti personaggi storici reali, Massimo Decimo Meridio non era una persona reale.

Ambientato nel 180 d.C., Il gladiatore mette in mostra una grande profondità storica. Il film mostra il mondo dei gladiatori, i giochi politici e le campagne militari che erano comuni a quel tempo. I personaggi storici chiave di Il gladiatore includono l’imperatore romano Marco Aurelio, suo figlio Commodo e sua figlia Lucilla. Il personaggio principale, Massimo, non è reale. La creazione di questo personaggio è invece influenzata da diversi personaggi dell’antica Roma. Il personaggio di Massimo in Gladiator è basato principalmente sui generali romani, sui gladiatori stessi e sulla vita che conducevano.

Il gladiatore è disponibile in streaming su Paramount+.

Massimo Decimo Meridio non è reale, ma è frutto di molte influenze

Russell Crowe e Connie Nielsen in Il gladiatore (2000)

Diversi personaggi reali hanno influenzato Maximus, così come le storie dei gladiatori dell’antica Roma

Una delle maggiori influenze per Maximus Decimus Meridius è stato il generale romano Marco Nonio Macrino. Marco era un generale, statista e consigliere durante il regno di Marco Aurelio, proprio come Massimo era generale e consigliere di Marco Aurelio nel film. Inoltre, sia Massimo che Marco erano ammirati e benvoluti dall’imperatore. Un’altra influenza è Avidio Cassio, un generale romano che acquisì importanza sotto Marco Aurelio e che a un certo punto si autoproclamò imperatore dopo aver ricevuto notizie, sebbene false, della morte di Aurelio.

Russell Crowe ha vinto l’Oscar come miglior attore per la sua interpretazione di Massimo Decimo Meridio in Il gladiatore.

Una terza influenza, anche se minore, è il lottatore Narciso, che fu il vero assassino di Commodo dopo che questi divenne imperatore. Per inciso, nella prima bozza de Il gladiatore, Massimo doveva originariamente chiamarsi Narciso. Naturalmente, Massimo è stato ispirato anche dal grande guerriero Spartaco. Sia Massimo che Spartaco erano schiavi che divennero famosi gladiatori ed entrambi pianificarono una rivolta contro lo Stato romano, cercando di rovesciare la corruzione. Il personaggio di Massimo è influenzato anche dalla vita dei gladiatori. Come Massimo, la maggior parte dei gladiatori erano schiavi e prigionieri di guerra o avevano un passato criminale.

I gladiatori erano classificati in vari gruppi a seconda del tipo di arma che usavano e dell’armatura che indossavano. Tra i più noti vi sono i Sanniti (singolare: Sannita), che erano i più pesantemente corazzati e impugnavano le classiche spade corte gladius, i Murmillones (singolare: Myrmillo), o “uomini pesce”, che avevano armature e stili simili, i traci (singolare: traex), che brandivano pugnali ricurvi simili a scimitarre chiamati sica, e i retiarii (singolare: retiarius), che usavano una grande rete e un tridente come armi (tratto da The Colosseum).

Le caratteristiche che hanno dato vita a Maximus in Il gladiatore sono anche un simbolo di giustizia e rettitudine…

Dal design dell’armatura di Massimo al piccolo scudo rotondo e alla spada corta che portava, si può dedurre che Massimo fosse un gladiatore hoplomaco. Era anche comune vedere diversi tipi di gladiatori accoppiati o messi uno contro l’altro, come si vede quando Massimo combatte contro gli essedarius, gladiatori che cavalcavano carri. Come mostrato nel primo combattimento di Massimo Decimus Meridius come gladiatore, alcuni scontri servivano a rievocare battaglie famose in cui l’esercito romano era uscito vittorioso. Altri combattenti nell’arena erano i Bestiarii, che combattevano contro animali selvatici, ad esempio leoni e tigri.

Sebbene sia un personaggio di fantasia, è chiaro che Maximus Decimus Meridius in Il gladiatore è fortemente ispirato a diversi personaggi storici romani e a fatti storici sulla vita dei gladiatori nell’antichità. Grazie a queste influenze, gli spettatori possono farsi un’idea di come fosse la vita di una persona nell’antica Roma. Inoltre, le caratteristiche che hanno dato vita a Maximus in Il gladiatore fungono anche da simbolo di giustizia e rettitudine in un contesto di corruzione.

Il protagonista de Il Gladiatore 2 è reale?

Paul Mescal interpreta Lucius nel tanto atteso sequel del Gladiatore

A oltre vent’anni dall’uscita nelle sale e dal successo agli Oscar de Il Gladiatore, sta per arrivare il sequel dell’epico film storico. Anche se può sembrare strano vedere un film che è il sequel di una storia in cui sia l’eroe che il cattivo muoiono, il film sta prendendo una direzione interessante. L’eroe di questo film è il nipote di Commodo, che ha visto suo zio ucciso da Massimo nel primo film. Tuttavia, nel film, suo nipote Lucio (Paul Mescal) ha preso ispirazione da Massimo Decimo Meridio piuttosto che da suo padre. Sapeva che ciò che Massimo aveva fatto come gladiatore era giusto.

Infatti, Lucius Verus II in Il Gladiator 2 è basato su un personaggio storico reale, ma la sua storia cambierà drasticamente nel film. Lucius morì giovane nella vita reale e morì prima ancora che Commodo diventasse imperatore. Se Lucius fosse vissuto, avrebbe potuto diventare imperatore, ma invece fu Septimus Severus a diventare imperatore. Tuttavia, non è ancora chiaro se Severus sia imperatore in Il Gladiatore 2. Proprio come Il Gladiatore ha cambiato i fatti storici, come Massimo Decimus Meridius e le sue ispirazioni, anche il secondo film probabilmente farà lo stesso.

The Diplomat – Stagione 2, la spiegazione del finale: cosa succede al presidente e a Katherine Wyler

Il finale della seconda stagione di The Diplomat rivela chi c’era dietro l’attacco alla HMS Courageous. Keri Russell è la protagonista del cast della seconda stagione di The Diplomat insieme a Rufus Sewell nel ruolo di suo marito Hal, David Gyasi nel ruolo del ministro degli Esteri Austin Dennison, Ali Ahn nel ruolo dell’agente della CIA Eidra Park e Rory Kinnear nel ruolo del primo ministro Nicol Trowbridge. La seconda stagione di The Diplomat riprende dopo gli eventi del finale della prima stagione di The Diplomat, rivelando che Hal e Stuart, interpretato da Ato Essandoh, sono sopravvissuti, ma che Ronnie, interpretato da Jess Chanliau, è rimasto ucciso nell’esplosione insieme al membro del Parlamento Merritt Grove. Nel corso della seconda stagione di The Diplomat, sia Kate che Hal si avvicinano alla verità su Roman Lenkov e sui funzionari governativi dietro l’operazione sotto falsa bandiera.

Il colpo di scena più scioccante nel finale della seconda stagione di The Diplomat è che dietro l’attacco alla HMS Courageous c’era il vicepresidente degli Stati Uniti Grace Penn. Hal scopre inizialmente questa informazione da Margaret Roylin, anch’essa coinvolta nell’elaborata operazione sotto falsa bandiera. È stata Roylin, insieme ai membri del Parlamento britannico Merritt Grove e Lenny Stendig, ad assumere il mercenario russo Roman Lenkov per attaccare la HMS Courageous. L’attacco aveva lo scopo di infliggere danni minori e non avrebbe dovuto causare vittime britanniche. A causa di problemi di approvvigionamento, il Lenkov Group ha utilizzato esplosivi più potenti sotto forma di missili sottomarini.

Netflix ha già confermato la terza stagione di The Diplomat.

Il presidente Rayburn è morto, Grace Penn è ora presidente

Il presidente è morto dopo aver saputo la verità sul vicepresidente.

Kate scopre il piano del vicepresidente alla fine della seconda stagione di The Diplomat. Lei e Hal non riescono a tacere sapendo che Penn ha aggirato il presidente per autorizzare l’attacco alla HMS Courageous. Hal dice che parlerà con il Segretario di Stato Miguel Ganon, con cui ha un rapporto difficile e che occupa la posizione di Gabinetto che Hal desidera segretamente. Invece, Hal parla direttamente con il presidente Rayburn tramite una linea sicura all’Ambasciata di Londra, raccontandogli la verità sul vicepresidente, Margaret Roylin e Roman Lenkov. Questo sconvolge il presidente Rayburn, che era noto per avere problemi cardiaci, al punto da ucciderlo.CorrelatiChi ha fatto esplodere l’autobomba e ucciso Merritt Grove in The DiplomatI nuovissimi episodi della seconda stagione di The Diplomat rispondono finalmente alla domanda su chi abbia piazzato l’autobomba che ha ucciso Merritt Grove nell’esplosivo finale della prima stagione.Di Greg MacArthur31 ottobre 2024

Kate decide finalmente che vuole diventare vicepresidente entro la fine della seconda stagione di The Diplomat, solo per rendersi conto che il posto che pensava sarebbe rimasto vacante potrebbe non essere più disponibile. A causa della morte improvvisa del presidente Rayburn, il vicepresidente Penn è diventato il presidente Penn, motivo per cui alla fine dell’episodio si vedono decine di membri dei servizi segreti correre verso di lei. Le ultime parole di Penn a Kate come vicepresidente sono di tenere nascosta la verità per il bene di entrambi. Penn usa un tono molto severo con Kate, rivelando un lato di sé che non avevamo ancora visto.

Katherine Wyler diventerà vicepresidente?

Keri Russell in The Diplomat - Stagione 2

Il posto è ora vacante dopo la morte del presidente Rayburn

Secondo la sezione 2 del 25° emendamento, il presidente deve nominare qualcuno come vicepresidente se la carica è vacante, cosa che ora si verifica a causa della morte del presidente Rayburn. C’è una reale possibilità che la neoeletta presidente Penn nomini Wyler sua vice, poiché sarebbe meglio avere la nemica vicina, soprattutto quando è incline a diventare una whistleblower. Oltre al vantaggio strategico di nominare Kate sua vice, Penn stava iniziando ad apprezzare Kate prima di sospettare che avrebbe svelato la sua copertura sull’HMS Courageous. Con la notizia della morte del presidente, tuttavia, la questione dell’HMS Courageous può essere facilmente insabbiata.

Chi è stato responsabile dell’attacco all’HMS Courageous

Il vicepresidente Grace Penn ha ordinato l’attacco per ostacolare l’indipendenza della Scozia

È stato un membro del Parlamento di estrema destra di nome Lenny Stendig a piazzare la bomba nell’auto di Merritt Grove. Stendig aveva intenzione di eliminare solo il suo collega parlamentare Grove, e non Ronnie o qualsiasi altro membro del personale diplomatico americano, al fine di zittire Grove una volta per tutte. Margaret Roylin e Stendig temevano che Grove avrebbe raccontato a Hal e agli americani tutto del loro complotto contro Roman Lenkov, che prevedeva principalmente che Roylin tirasse le fila alle spalle del primo ministro Trowbridge. Alla fine, è stata la vicepresidente Grace Penn a orchestrare l’operazione sotto falsa bandiera per ostacolare l’indipendenza della Scozia.

Nicol Trowbridge è innocente, non ha assunto Roman Lenkov

Il primo ministro Trowbridge è stato il principale sospettato dietro Lenkov e l’attacco alla HMS Copuragoues per gran parte della seconda stagione di The Diplomat. Kate e il ministro degli Esteri Austin Dennison sospettavano che Trowbirdge avesse segretamente assunto Lenkov per ottenere vantaggi politici. In realtà, Roylin ha chiesto a Grove e Stendig di assumere Lenkov su richiesta di Grace Penn. Roylin vedeva il vantaggio per la reputazione politica del primo ministro Trowbirdge, mentre Penn era preoccupata di garantire la longevità della base nucleare di Creagan, in Scozia.

L’attacco alla HMS Courageous era finalizzato a impedire l’indipendenza della Scozia

Sia Roylin che Penn avevano interessi nazionalistici nell’operazione sotto falsa bandiera

Come Roylin ha osservato nella prima stagione di The Diplomat e Penn ha descritto a Kate nella seconda stagione, l’attacco alla HMS Courageous era finalizzato a unificare il Regno Unito e impedire alla Scozia di approvare un referendum per l’indipendenza. Roylin e Penn avevano motivi diversi per orchestrare l’operazione sotto falsa bandiera, ma entrambi erano di fondamentale importanza per le rispettive nazioni e governi. Per Roylin, l’unificazione della Scozia con l’Inghilterra contro un nemico comune come la Russia o l’Iran avrebbe riparato la reputazione del Primo Ministro. Per Penn, contrastare l’indipendenza della Scozia era un passo fondamentale per garantire la protezione dagli attacchi dei sottomarini nucleari russi alla costa orientale degli Stati Uniti.

Grace Penn, Creagan e i sottomarini nucleari russi spiegati

Grace Penn, Creagan e i sottomarini nucleari russi spiegati

Il vicepresidente Penn voleva assicurarsi che la base nucleare di Creagan in Scozia non potesse essere chiusa a causa della minaccia dell’indipendenza scozzese. La base nucleare di Creagan è l’ultimo punto geografico che gli Stati Uniti potrebbero utilizzare per rilevare una minaccia nucleare in arrivo da un sottomarino russo nella regione artica. Senza la base nucleare di Creagon, gli Stati Uniti diventerebbero molto più vulnerabili a una minaccia nucleare proveniente dai sottomarini russi. Di conseguenza, il vicepresidente Peen ha organizzato un evento che avrebbe unificato la Scozia e l’Inghilterra per eliminare la minaccia che la Scozia diventasse una nazione indipendente e chiudesse la base.

The Diplomat Stagione 3 Trama: cosa sappiamo finora

Il presidente Penn presterà giuramento alla Casa Bianca

Ora che Penn sarà il presidente degli Stati Uniti all’inizio della terza stagione di The Diplomat, potrebbe puntare a porre fine alla carriera di Kate e a zittirla, come lei e Roylin hanno fatto con Merritt Grove. Sarebbe sicuramente pericoloso per Kate continuare a rivelare la verità sull’HMS Courageous, soprattutto perché la morte del presidente Rayburn sarà una notizia molto più importante delle informazioni geopolitiche trapelate. Kate finirebbe per tradire il proprio Paese rivelando la verità, cosa che Hal probabilmente le sconsiglierebbe di fare.

Kate lavorerà probabilmente a stretto contatto con il presidente Penn nella terza stagione di The Diplomat in qualità di vicepresidente. Dovrà imparare a convivere con la dura realtà del suo nuovo ruolo, che nella seconda stagione è stato per lei un brusco risveglio, e comprendere la difficile decisione che Penn ha dovuto prendere, una decisione che Kate ha confermato che avrebbe preso lei stessa.

Il rapporto di Kate con Dennison sarà probabilmente teso, soprattutto se la verità dovesse venire alla luce per lui o per il primo ministro Trowbridge, il che sarebbe disastroso. La creatrice di The Diplomat, Debora Cahn, ha dichiarato a Netflix’s Tudum: “La terza stagione ribalta la situazione. Nella terza stagione, Kate vive l’incubo particolare di ottenere ciò che desidera”. Ciò implica che Kate finisce per diventare vicepresidente nella terza stagione.

The Outrun: recensione del film con Saoirse Ronan #RoFF19

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Diretto dalla regista tedesca Nora FingscheidtThe Outrun è un dramma che esplora i temi dell’alcolismo e della guarigione, attraverso il percorso di Rona, una giovane donna scozzese interpretata da Saoirse Ronan. Basato sul memoir del 2017 di Amy Liptrot, il film segue la protagonista mentre tenta di ricostruirsi, recuperando una vita spezzata dall’alcol e dall’isolamento, affrontando un percorso intimo, riflessivo e psicologicamente complesso.

The Outrun ci presenta una Rona a pezzi

Quando il pubblico incontra Rona, la protagonista è già ridotta a brandelli. Nora Fingscheidt ci mostra una giovane donna frammentata, che cerca di fuggire da sé stessa e dal caos interiore con cui è costretta a convivere. La scelta di ambientare buona parte del film nelle desolate isole Orcadi, un arcipelago remoto e austero nel nord della Scozia, è una metafora potente dello stato d’animo della protagonista. Le rocce scure, le onde sferzanti, e il paesaggio brullo diventano il riflesso della solitudine e della desolazione di Rona, rendendo l’ambiente stesso un personaggio che amplifica il senso di isolamento della protagonista. Le Orcadi diventano così luogo eletto per un atto di auto-riflessione e per un tentativo di rinascita, un luogo che invita al silenzio e alla contemplazione, ma che può anche mettere chi vi abita di fronte ai propri demoni.

Una straordinaria Saoirse Ronan

Rona è interpretata in modo straordinario da Saoirse Ronan, che si immerge nel personaggio con una dedizione impeccabile. La sua Rona è una donna tormentata, persa tra un passato caotico e un presente instabile, in lotta costante per la propria sanità mentale e fisica. Ma anche una donna dotata di grande sensibilità e desiderosa di ricostruirsi. La performance di Ronan è autentica, e si muove nel tempo mostrando i vari stadi di disfacimento di Rona, anche grazie a un montaggio illuminato e all’espediente scenico dei colore dei capelli. Questo infatti sembra mutare a seconda dello stato emotivo della protagonista, per indicare i diversi momenti del suo percorso di vita: le tonalità blu e acquatiche rappresentano i periodi di autodistruzione, mentre un biondo naturale indica una ricerca di stabilità e un rosso brillante appare nel finale, nel suo tentativo di abbracciare la natura e la solitudine delle Orcadi.

La dipendenza cliché narrativo sul quale è facile scivolare

Come molti film che trattano temi di dipendenza, The Outrun rischia talvolta di cadere nella ripetizione, come purtroppo è la vita di chi cerca di fuggire da questo tipo di mostri. Fingscheidt riesce a distinguersi grazie a uno stile visivo evocativo, che usa immagini suggestive, e punta tutto sull’immersione della protagonista nella natura incontaminata e selvaggia che la circonda. Le Orcadi rappresentano un rifugio, un santuario per la protagonista, che in cerca di isolamento, qui tenta di ricostruire sé stessa e trovare un equilibrio. La natura diviene culla di rinascita e simbolo di un’umanità perduta, che cerca di riallacciare le sue origini a quelle mitologiche di quei posti. In più di un’occasione fanno capolino le storie delle selkie, creature mitologiche metà foca e metà donna che incarnano l’idea di trasformazione e rinascita.

Il film lascia anche molto spazio alla rappresentazione dell’ambiente in cui Rona è cresciuta, non tanto per andare a ricercare il germe della sua debolezza, quanto per costruire intorno alla ragazza una rete di rapporti che in qualche modo ne hanno condizionato le scelte di vita.

The Outrun è un’opera intensa che si fonda totalmente sulla performance di Saoirse Ronan che con questa pellicola colleziona un altro ruolo spettacolare. delle interpretazioni e per la cura estetica della regia. Fingscheidt riesce a evitare la retorica, esplora la solitudine e la vulnerabilità di Rona senza pietismo, con uno sguardo empatico e onesto. Il film è un ritratto femminile di autodeterminazione, un racconto di sofferenza e di riscoperta di sé, in cui Saoirse Ronan brilla come protagonista in un ruolo che esalta la sua capacità di incarnare fragilità e forza di una donna in cerca di redenzione.

Bring Them Down: recensione del film con Christopher Abbott

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Esordio al lungometraggio per il cinema del regista irlandese Christopher AndrewsBring Them Down, è stato presentato alla diciannovesima Festa del Cinema di Roma, e ci porta nel cuore dell’Irlanda rurale, dove il ritmo lento della vita agricola si contrappone nettamente alle passioni violente e ai conflitti tra personaggi. Nel cast, troviamo i talentuosi Christopher Abbott e Barry Keoghan.

 

La sequenza di apertura di Bring Them Down

La sequenza d’apertura segna subito la cifra stilistica e tematica del film: all’interno di un’automobile, si assiste a un momento di crisi familiare che culmina in un atto di violenza drammatico e privo di redenzione. Il giovane Michael, sconvolto dalla confessione della madre che intende abbandonare la famiglia a causa del marito, reagisce schiantando l’auto volontariamente. Andrews costruisce un crescendo di tensione emotiva senza mai mostrare il protagonista direttamente, ma filtrando la scena attraverso il suo punto di vista e quello dei familiari. Questa scelta iniziale non solo introduce la brutalità che pervade la storia, ma sottolinea il tema della privazione e della solitudine che perseguiterà Michael per tutta la vita.

Vent’anni dopo, ritroviamo Michael (interpretato da Christopher Abbott) che gestisce, quasi in solitudine, la fattoria di famiglia. L’azione scorre lentamente, ma l’arrivo di Jack (Barry Keoghan), figlio dell’ex fidanzata di Michael, scatena un nuovo ciclo di violenza e vendetta. Il furto di due montoni, mutilati per rivalità tra famiglie, diventa il punto di rottura, portando Michael a reagire in modo feroce per proteggere ciò che resta della sua eredità e della propria identità. La narrazione è fortemente influenzata dal senso di desolazione, arricchita da paesaggi mozzafiato e grigi della campagna irlandese. Andrews riesce a rendere tangibile la sensazione di isolamento e claustrofobia attraverso un gioco di inquadrature che esaltano l’inospitale bellezza della natura e la sua indifferenza.

Un andamento temporale simile a Rashomon

Una delle caratteristiche distintive di Bring Them Down è il suo impianto narrativo, che rispecchia uno stile in cui la storia viene rivelata secondo più punti di vista. Il regista sfrutta questo schema, che strizza l’occhio a Rashomon, per raccontare gli eventi da diverse prospettive, soprattutto quelle di Michael e Jack. Questa scelta mette in luce il dualismo tra vittima e carnefice, ma al contempo pone interrogativi sull’ambiguità morale dei protagonisti. In questa dimensione sospesa, dove non esiste una netta distinzione tra bene e male, emerge un’umanità esasperata dalla fatica di una vita che non concede tregua né vie di fuga.

Se da un lato la messa in scena della natura selvaggia contribuisce a creare una forte atmosfera, dall’altro il ritmo del film è insolito. Andrews sceglie di dilatare i tempi narrativi, con una tensione che si accumula senza mai esplodere in un climax risolutivo.

Christopher Abbott e Barry Keoghan sono i protagonisti

Per quanto riguarda le interpretazioni, Christopher Abbott offre una performance intensa e sfaccettata, incarnando un uomo che sembra aver perso tutto, a partire dalla sua stessa umanità. La sua frustrazione e il dolore sono palpabili e danno profondità a un personaggio tormentato e incapace di emanciparsi da un passato distruttivo. Barry Keoghan, nel ruolo di Jack, rappresenta il contrasto tra giovinezza e violenza, contribuendo a definire il microcosmo rurale di Andrews come un universo privo di speranza e pieno di rancore. Il suo personaggio agisce con una brutalità che appare insensata e impulsiva, riflettendo l’ambiente soffocante in cui è cresciuto.

Bring Them Down è un thriller atipico e impegnativo, che esplora le ombre più profonde dell’animo umano attraverso un racconto di vendetta e solitudine. Andrews dimostra una grande abilità nel dipingere un mondo senza pietà, anche se il film sembra, alla fine, più interessato a mostrare la ferocia della natura che a offrire una vera redenzione ai suoi protagonisti.

 

Beauty in Black – Parte 1, la spiegazione del finale: Horace e Kimmie si sposeranno davvero?

Dal ricatto ai danni di Kimmie alla nascente storia d’amore che Mallory nega, ci sono molte rivelazioni sconvolgenti nel finale della prima stagione di Beauty in Black. Beauty in Black è l’ultimo progetto che Tyler Perry ha realizzato nell’ambito del suo accordo pluriennale con Netflix. Il cast di Beauty in Black è guidato da Crystle Stewart e Taylor Polidore Williams, che interpretano due donne molto diverse tra loro, le cui vite molto diverse si scontrano in modi inaspettati. La prima stagione è stata pubblicata su Netflix il 24 ottobre e consiste in otto episodi della durata di un’ora (altri otto sono in arrivo nella primavera del 2025).

La serie ruota attorno a Kimmie, che sta lottando per sopravvivere dopo essere stata cacciata di casa dalla madre, e Mallory, che gestisce con successo la sua attività di cura dei capelli. Kimmie vuole disperatamente fuggire dal mondo squallido dello strip club in cui lavora, mentre l’impero di Mallory è minacciato da segreti di famiglia e da un fastidioso avvocato. Queste trame parallele portano a una serie di colpi di scena scioccanti nel finale: stagione 1, episodio 8, “Killing Karma”.

Perché Horace lascia davvero andare Kimmie e Angel

Quando ha saputo del giudice corrotto, ha capito di avere problemi più grandi

Il finale della prima stagione di Beauty in Black ha un inizio esplosivo, con una banda di uomini armati e mascherati che prendono in ostaggio Kimmie e Angel mentre tentano di rapinare la cassaforte di Horace. Horace estrae una pistola e uccide tutti i ladri prima che possano scappare. Inizialmente sospetta che Kimmie sia dietro la rapina, ma Angel si prende la colpa. Mentre Horace li pressa per sapere la verità, i due rivelano che avevano pianificato di rapinarlo per ottenere abbastanza soldi per fuggire dal club e iniziare una nuova vita.

Beauty in Black riunisce Tyler Perry con diversi suoi ex collaboratori, tra cui Crystle Stewart e Debbi Morgan.

Quando Kimmie spiega che Jules è il loro protettore e che ha usato un giudice corrotto sul suo libro paga per far cadere le accuse penali a loro carico, Horace decide di lasciarli andare. Horace dice loro di andarsene e di non dire a nessuno che l’hanno incontrato. Quando hanno menzionato il giudice, ha capito che aveva problemi ben più gravi di cui preoccuparsi. Più tardi menziona Harold Wiscollins, un giudice che lui e suo fratello conoscevano, e chiede a Jules se Harold è ancora in carica e se è ancora in contatto con lui. Jules risponde di no, ma Horace non si fida di lui.

I sentimenti di Mallory per Calvin e le sue esitazioni nella loro storia d’amore spiegati

Durante tutta la prima stagione di Beauty in Black, Mallory ha una relazione con il suo autista Calvin. Ma quando lui le confessa di essere innamorato di lei, Mallory è riluttante ad affrontare i suoi sentimenti romantici e lo caccia di casa. L’esitazione di Mallory a impegnarsi seriamente con Calvin si ricollega al tema generale della serie, il classismo. Lei è un’elitista che non vuole prendere sul serio la sua relazione con Calvin perché lui è un autista. Quando la serie tornerà nella primavera del 2025, Mallory potrebbe finalmente affrontare i suoi sentimenti per Calvin e iniziare una relazione seria con lui.

Chi ha cercato di rapinare Horace?

Dopo che Horace ha ucciso i suoi aspiranti rapinatori, Jules scende per ripulire la scena del crimine, come Winston Wolf in Pulp Fiction. Jules scopre che uno dei ladri ha nel portafoglio un biglietto da visita di una società di casseforti, la stessa che ha installato la cassaforte. Jules conclude che i tizi che hanno consegnato la cassaforte sono tornati per rubarla. Tuttavia, Jules non mostra mai il biglietto da visita a Horace, quindi potrebbe essersi inventato tutto per coprire il proprio ruolo nella rapina pianificata.

Perché Mallory e Roy offrono entrambi un lavoro a Lena

Lena è un avvocato le cui scoperte sull’impero dei prodotti per capelli di Mallory potrebbero mettere nei guai la famiglia Bellarie e mandare in rovina l’azienda. Nel finale della prima stagione, Roy incontra Lena in un ristorante e le offre un lavoro nel reparto legale. Poi Mallory li affronta, tira fuori una sedia, usa le sue conoscenze per costringere Roy a lasciare l’edificio e fa a Lena la stessa offerta. Quando Lena le dice che Roy le ha appena offerto la stessa posizione, Mallory sembra sinceramente impressionata dal fatto che suo cognato, solitamente ottuso, abbia escogitato lo stesso piano diabolico di lei.

Entrambi stanno cercando di comprarla, sperando che se le danno un lavoro in azienda, lei smetterà di cercare di distruggerla. Ma Lena insiste che non può essere comprata e che “non si tratta di soldi”. Mallory ride e non crede che sia possibile. Questo è uno dei temi centrali della serie: i ricchi pensano che tutti i loro problemi possano essere risolti con il denaro, ma non è così quando hanno a che fare con qualcuno integro.

Chi ha distrutto l’auto di Charles?

Il penultimo episodio della prima stagione di Beauty in Black si è concluso con la distruzione dell’auto sportiva gialla di Charles. Verso la fine del finale, Mallory è scioccata nel trovare l’auto di Charles in fiamme sulla strada privata, con la polizia che indaga su un possibile attacco. Nell’ultimo episodio, l’auto di Charles è stata colpita sul lato della strada e fatta esplodere da un gruppo di uomini armati e mascherati. Questi aggressori mascherati sembravano lo stesso gruppo che ha cercato di rapinare Horace, apparentemente assoldato da Jules, quindi tutto potrebbe ricondurre a Jules.

Perché Body ha rapito Sylvia

Nella scioccante scena finale della prima stagione di Beauty in Black, Kimmie e Angel vengono affrontate da Body. Dopo aver frainteso completamente gli eventi recenti, Body pensa che Kimmie stia cercando di usurpare il suo posto nel club. Body rivela di aver fatto rapire Sylvia, la sorella adolescente di Kimmie, che userà per ricattare Kimmie affinché si tolga di mezzo e faccia tutto ciò che vuole. Tuttavia, il piano fallisce perché Kimmie attacca Body e inizia a picchiarla.

Questo conclude la stagione con un finale mozzafiato e solleva una serie di domande. Body è morta? Jules darà la caccia a Kimmie? Sylvia starà bene?

Quando Body le punta un coltello e minaccia di chiamare Jules per ucciderla, Kimmie sale in macchina e investe Body. La stagione si conclude con un finale mozzafiato che lascia con un sacco di domande. Body è morta? Jules darà la caccia a Kimmie? Sylvia starà bene? Una cosa è chiara: Kimmie non accetterà questo ricatto. Farà tutto il necessario, anche investire chiunque con la sua auto, per riavere sua sorella.

Il vero significato della bellezza nel finale della prima stagione di Beauty in Black

Il finale della prima stagione di Beauty in Black è il culmine dei temi alla Saltburn sulla classe sociale trattati nella serie. Tutto ruota attorno ai ricchi che cercano di esercitare il loro potere sui poveri. Sia Mallory che Roy pensano che Lena possa essere comprata, perché è una “fottuta povera”, ma Lena ha un’integrità inaspettata. Il finale contrappone la disperazione delle persone in difficoltà finanziaria alla disperazione dei ricchi. I personaggi in difficoltà finanziaria, come Kimmie e Angel, sono disposti a tutto pur di racimolare abbastanza soldi per sopravvivere, mentre i personaggi ricchi, come Mallory, sono disposti a tutto pur di mantenere la loro ricchezza.

La legge di Lidia Poët 2: recensione della serie con Matilda De Angelis

La seconda stagione di La legge di Lidia Poët è pronta ad arrivare su Netflix dal 30 ottobre e avanzando nella narrazione, offre la possibilità di godere di un personaggio più adulto, così come risulta più coeso il secondo ciclo rispetto al primo, meno maturo e a tratti forzato. Abbandonate alcune delle esagerazioni stilistiche e narrative iniziali, la serie si avventura in un racconto che riesce a trovare un equilibrio tra il dramma storico, il giallo investigativo e la riflessione sociale, sempre attuale. E lo fa con un tono naturale e credibile, che dà più sostanza e qualità alla trama e ai personaggi.

La trama di La legge di Lidia Poët Stagione 2

La storia si riapre con Lidia (Matilda De Angelis), trasferitasi con il fratello avvocato Enrico (Pier Luigi Pasino) e la sua famiglia in una nuova abitazione, a seguito della vendita della casa di famiglia da parte di Jacopo (Eduardo Scarpetta). Questo cambiamento non è solo fisico e logistico, ma anche simbolico: rappresenta l’inizio di una nuova fase nella vita di Lidia, una donna sempre più determinata a sfidare le ingiustizie di genere in una società che non riconosce né rispetta i diritti delle donne. Sebbene radiata dall’albo, Lidia continua a collaborare con Enrico in numerosi casi, e la sua lotta per l’uguaglianza dei diritti si intensifica, alimentata dall’interesse per il movimento delle suffragette.

La seconda stagione di La legge di Lidia Poët riesce a migliorare un aspetto che nella prima aveva fatto fatica a decollare: pur replicandone la struttura di episodi autoconclusivi legati tra loro da una trama orizzontale, questa volta lo svolgimento dei fatti che costruiscono il racconto che percorre tutta la stagione sono molto più ordinati e chiari rispetto al primo ciclo, con il risultato che la serie risulta più avvincente. Il misterioso suicidio di un amico di Lidia e Jacopo diventa il fil rouge della stagione, diventando a tutti gli effetti non solo il principale veicolo di tensione, ma anche un modo per raccontare l’evoluzione dei personaggi stessi, data la natura intima del rapporto dei protagonisti con la vittima.

Ritmo e dinamiche di personaggi

Questa maggiore coesione del racconto orizzontale, che si inframezza con naturalezza nei singoli casi che di episodio in episodio vengono sottoposti alla brillante mente di Lidia influenza in maniera evidente il ritmo della narrazione. Si mette da parte quindi l’esigenza di stupire a tutti i costi che sembrava avere la prima stagione, in favore di un gusto per il racconto molto più fluido e avvincente. Dal primo episodio gli elementi in gioco sono tanti e tutti contribuiscono a costruire un quadro ricco e stratificato: Lidia e Jacopo costretti a lavorare insieme, il rancore della famiglia, un omicidio che avvicina i protagonisti. La complessità relazionali della prima stagione si stratificano e Lidia comincia a capire davvero qual è il prezzo della libertà di cui necessita per portare avanti la sua battaglia. È chiaro poi che, conoscendo già gli attori in gioco, la serie non deve perdersi in convenevoli per presentarli al pubblico e li lancia immediatamente nell’azione.

Matilda De Angelis è magnetica

Matilda De Angelis conferma la sua versatilità. Se poche settimane fa l’abbiamo vista fare la James Bond su Prime Video, adesso la piattaforma della N rossa ce la restituisce in corsetti e cappellini, ma quello che non cambia è il suo magnetismo. Oltre al fattore estetico, innegabilmente dalla sua perte, De Angelis riesce a infondere una naturale ironia al suo personaggio, il che ne smussa gli spigoli, rendendo anche quelli gradevoli. Lidia Poët è irresistibile. La sua voce roca e il suo atteggiamento anticonformista la fanno camminare in equilibrio tra passato e presente, tra la contemporaneità e la modernità, sempre credibile e in parte.

Chiaramente non è sola! Con lei tornano Eduardo Scarpetta e Pier Luigi Pasino contraltari perfetti alla sua energia. New entry della serie è Gianmarco Saurino come il procuratore del Re Fourneau, un uomo giusto e aperto, che nonostante il ruolo istituzionale riconosce il valore di Lidia. A questo personaggio viene affidato non solo il compito di aggiungere un ulteriore punto di vista alla storia e su Lidia stessa, ma rappresenta anche una possibile apertura verso un mondo in cui le qualità delle persone vengono riconosciute indipendentemente dal genere. Un personaggio forse troppo moderno per l’epoca, ma che parla benissimo a noi oggi.

La serie continua a parlare alla nostra società

E a proposito di “epoca”, la serie riesce a trattare temi profondamente rilevanti, come l’emancipazione femminile e il diritto di voto per le donne, senza scadere in toni didascalici. Lidia non combatte solo per il riconoscimento professionale che ormai sembra inarrivabile (l’Albo degli Avvocati sembra allontanarsi per sempre), ma per il cambiamento di un’intera società che guarda con sospetto l’evoluzione della donna. Attraverso diversi personaggi, La legge di Lidia Poët offre una riflessione sull’importanza di avere il coraggio di sfidare le convenzioni sociali ma anche il proprio ruolo e i propri limiti: da Enrico, a Lidia, passando per Marianna e Teresa, ogni personaggio trova il modo di oltrepassare i limiti del loro ruolo per costruire un pezzetto di modernità.

Un’eroina affascinante

Ogni episodi di La legge di Lidia Poët racconta un caso particolare e per ogni situazione le circostanze sono ricche e diverse, avvincenti, oscure ma senza mai mettere completamente da parte quello spirito ironico che anima la protagonista.

Certo è che la serie non può dirsi un manuale di storia, ma per fortuna la fiction ci consente di chiudere un occhio su queste incongruenze, un favore di un intrattenimento genuino che prova anche a parlare alla testa dello spettatore. Lidia Poët non è solo un’avvocata che combatte contro le ingiustizie, ma diventa anche figura simbolica, rappresenta la determinazione e il coraggio di tutte le donne che hanno lottato per l’uguaglianza e che ancora lo fanno.

Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer – Stagione 3, la spiegazione del finale

Nella terza stagione della serie Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer di Netflix, Mickey Haller (Manuel Garcia-Rulfo) si trova ad affrontare uno dei casi più difficili della sua carriera, sia dal punto di vista professionale che personale, quando accetta di difendere Julian La Cosse (Devon Graye), un tecnico accusato dell’omicidio di Gloria Dayton (Fiona Rene), un personaggio già apparso nella serie. Per Mickey, Gloria Dayton era una prostituta che si faceva chiamare Glory Days e che lo aveva aiutato in un caso precedente fornendogli informazioni sul boss del cartello Hector Moya (Arturo Del Puerto).

Sfruttando le sue competenze tecnologiche, Julian aiutava Glory a trovare clienti e a fissare appuntamenti in modo sicuro. Sapendo che il suo legame con Glory potrebbe aver causato la sua morte per mano del cartello, Mickey accetta il difficile compito di scoprire l’identità dell’assassino di Gloria, che si rivelerà il modo migliore per scagionare Julian. Nonostante i suoi migliori sforzi, alla fine della terza stagione Mickey si ritrova in una situazione più precaria che mai, grazie al colpo di scena finale che coinvolge il Lincoln Lawyer.

Mickey Haller scopre un nuovo segreto su un vecchio amico

Mickey capisce subito che Gloria non aveva intenzione di tornare alle Hawaii dopo il loro ultimo incontro. Invece, Gloria era già coinvolta con il cartello. Le indagini di Mickey sulle attività di Gloria hanno portato alla rivelazione che Gloria era già stata incaricata dall’agente della Drug Enforcement Administration (DEA) James DeMarco (Michael Irby) di divulgare informazioni su Hector Moya. Quindi, non è stata l’insistenza di Mickey a mettere Gloria nei guai, perché era già sotto il controllo di DeMarco. L’indagine di Mickey si complica quando l’investigatore dell’ufficio del procuratore distrettuale si rivela essere Neil Bishop (Holt McCallany), che aveva già incrociato Mickey in precedenza quando questi aveva sfruttato una scappatoia legale per far uscire di prigione un criminale nonostante fosse consapevole della sua colpevolezza. Le riprese delle telecamere di sicurezza dell’hotel dove Gloria avrebbe dovuto incontrare uno dei suoi clienti il giorno della sua morte rivelano che Gloria era stata seguita dal detective Bishop. La possibilità di un forte legame tra il detective Bishop e l’agente DeMarco diventa il punto di svolta nel mistero che circonda la morte di Gloria Dayton in Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer – Stagione 3. Prima del finale, Mickey capisce che è l’agente DeMarco il responsabile della morte di Gloria e non Hector Moya, che è stato ingiustamente incarcerato dopo che l’agente DeMarco ha aiutato a fabbricare prove contro di lui.

Il finale della terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer rivela il retroscena della relazione di lunga data tra il detective Bishop e l’agente DeMarco. Dieci anni fa, l’agente DeMarco si era rivolto al detective Bishop in relazione a un duplice omicidio, legato a uccisioni di cartelli, al lago Balboa. Nel tentativo di impedire al detective Bishop di proseguire le indagini sul caso, l’agente DeMarco aveva offerto una grossa somma di denaro a Bishop, che aveva bisogno di un incentivo considerando il suo imminente divorzio. Sapendo che solo la testimonianza di Bishop avrebbe potuto smascherare il coinvolgimento di DeMarco nella morte di Gloria, Mickey mostra al detective Bishop il video che riprende lui e l’agente DeMarco mentre piazzano della droga nella casa di un testimone. Anche se il detective Bishop sembra non essere a conoscenza delle azioni dell’agente DeMarco all’interno della casa, è chiaro che le prove sono sufficienti per incastrarlo. In cambio della non divulgazione del video al pubblico, Mickey chiede al detective Bishop di testimoniare per smascherare il ruolo diretto dell’agente DeMarco nel brutale omicidio di Gloria Dayton.

Il detective Bishop apre un vaso di Pandora nell’ultima udienza della terza stagione

Avvocato di difesa - The Lincoln Lawyer - Stagione 3 Netflix
Lara Solanki/Netflix

Una volta salito sul banco dei testimoni, il detective Bishop inizia a rivelare i dettagli degli eventi che hanno portato alla morte di Gloria. Viene rivelato che era stato incaricato dall’agente DeMarco di occuparsi del caso della morte di Gloria. L’agente DeMarco ricattava il detective Bishop affinché facesse il lavoro sporco per lui da quando il detective Bishop aveva accettato i soldi per insabbiare gli omicidi legati al cartello dieci anni prima.

Su ordine dell’agente DeMarco, il detective Bishop ha fissato un appuntamento con Gloria usando il nome di un ospite reale. Ha poi seguito Gloria fino a casa sua, dove ha chiamato l’agente DeMarco per comunicargli la posizione. Prima che l’agente DeMarco arrivasse, Julian ha fatto visita a Gloria e se n’è andato 15 minuti dopo. Al suo arrivo, l’agente DeMarco ha chiesto al detective Bishop di andarsene ed è entrato nell’edificio di Gloria da un lato per evitare la telecamera di sicurezza all’ingresso. Secondo la testimonianza del detective Bishop, quando ha chiesto all’agente DeMarco della morte di Gloria, questi gli ha detto che Gloria era morta prima del suo arrivo e che aveva dato fuoco all’appartamento per distruggere qualsiasi prova che potesse collegarla a lui. Tuttavia, a questo punto, è chiaro che tutti sanno che l’agente DeMarco è il responsabile della morte di Gloria.

La confessione del detective Bishop lascia tutti in aula sbalorditi, compresi il procuratore Bill Forsythe (John Pirruccello) e il giudice Regina Turner (Merrin Dungey). Con i suoi segreti ora alla mercé della legge e dell’opinione pubblica, il detective Bishop estrae la sua seconda arma nascosta e si spara in mezzo all’aula. Più tardi, l’amore di Mickey nella terza stagione, Andrea Freeman (Yaya DaCosta), suggerisce a Mickey che non è stata colpa sua se il detective Bishop si è suicidato. I legami tra la polizia di Los Angeles e i federali sono così profondi che l’uno non può esistere senza l’altro. Mickey incontra poi Julian e il suo ragazzo David (Wole Parks) per dare loro la notizia che il processo è stato archiviato e Julian è ora libero. D’altra parte, Andrea informa il suo capo, il nuovo procuratore distrettuale Adam Suarez (Philip Anthony-Rodriguez), che ha finito di svolgere il compito di calendario come punizione per l’errore commesso in precedenza con Deborah Glass (Rebekah Kennedy). Chiede di essere assegnata al caso Scott Glass o di essere licenziata.

Cosa è successo all’agente DeMarco alla fine della terza stagione?

Con Mickey che aiuta Julian a ottenere la giustizia che merita, Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer inizia a concentrarsi sugli eventi che alla fine ne plasmeranno il futuro. Per fortuna di Mickey, sua figlia Hayley (Krista Warner) perdona Mickey per le sue azioni passate dopo che lui ha aiutato a salvare Julian. Malconcio dagli eventi recenti, Mickey decide di non mollare, considerando che ora si rende conto del bene che può fare attraverso la sua professione se aiuta le persone giuste.

Durante tutta la stagione, Mickey ha allucinazioni e combatte una battaglia emotiva interiore. Alla fine della terza stagione, Mickey si rende conto che diventare un avvocato di successo a Los Angeles ha un prezzo molto alto, che deve essere pagato con la sua coscienza.

Alla fine della terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, Mickey ottiene un’altra vittoria per sé e per Julian negoziando un ingente risarcimento con l’ufficio del procuratore distrettuale. Con l’aiuto del suo investigatore Cisco (Angus Sampson), Mickey dimostra che l’agente DeMarco lavorava segretamente per il cartello di Juárez, mentre si occupava solo dei casi contro il cartello rivale di Tijuana. Dopo essere stato visto l’ultima volta nella sequenza dell’inseguimento in cui Cisco seguiva l’agente DeMarco, la sua prossima apparizione si rivela piuttosto macabra, poiché Hector Moya invia a Mickey una fotografia del cadavere dell’agente DeMarco appeso con un serpente a sonagli intorno. Con la copertura dell’agente DeMarco smascherata, era solo questione di tempo prima che Hector Moya, ora rilasciato, tornasse da lui per vendicarsi di tutto il male che l’agente DeMarco gli aveva causato. Hector assicura anche a Mickey che può rilassarsi tranquillamente senza preoccuparsi del cartello di Juárez per cui lavorava l’agente DeMarco.

Il colpo di scena finale della terza stagione prepara la quarta stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer

Verso la fine dell’ultima stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, sembra che Mickey sia pronto a proseguire sulla via del bene, considerando che gli errori del passato sono stati riparati. Con il peso del passato alle spalle, Mickey sembra finalmente godersi una meritata tregua, finché un agente di polizia non ferma la sua auto. A quanto pare, la targa mancante, che secondo Mickey potrebbe essere stata rubata, deve aver attirato l’attenzione dell’agente. Tuttavia, le cose prendono una piega molto più seria nella stagione 4, quando l’agente di polizia fa notare a Mickey il sangue che gocciola dal bagagliaio della sua auto. Nonostante i tentativi di Mickey di evitare una perquisizione, l’agente apre il bagagliaio e scopre il corpo senza vita di Sam Scales (Christopher Thornton), un personaggio ricorrente e un truffatore che in origine era il cliente di Jerry Vincent (Paul Urcioli).

Con questo colpo di scena finale, Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer si prepara alla quarta stagione che sarà incentrata su “The Law of Innocence” di Michael Connelly nella serie di libri Lincoln Lawyer. È chiaro che qualcuno sta cercando di incastrare Mickey Haller, il che sembra naturale considerando quanti nemici si sono attirati le azioni di Mickey. In una potenziale quarta stagione, Mickey dovrà difendersi contro ogni previsione, considerando che è riuscito a far arrabbiare alcune persone davvero pericolose, tra cui cartelli della droga, con le sue azioni nella terza stagione.

L’amica Geniale – Storia della bambina perduta: recensione dei primi due episodi

Presentata in anteprima nel ricco programma della Festa di Roma 2024 con i primi due episodi proiettati alla presenza di cast e pubblico, L’Amica Geniale, tetralogia di Elena Ferrante, arriva alla sua quarta stagione che traspone per la tv il quarto e, appunto, ultimo libro della saga, Storia della bambina perduta.

Dove eravamo rimasti?

Avevamo lasciato le due donne distanti, entrambe alle prese con una nuova vita: Lila con Enzo, il piccolo Gennarino, e un obbiettivo preciso, quello di aprire un’azienda con le sue sole forze, di diventare finalmente il capo di se stessa; Lenù con Nino, quando si accorge che l’amore di tutta una vita è finalmente alla sua portata e non ci pensa troppo prima di lasciare marito e figlie e volare via con lui. La terza stagione dell’amica geniale era finita proprio lì, sul quel volo verso la libertà e una vita di peccato accanto a Nino (Fabrizio Gifuni), con l’immagine di quel riflesso che aveva finalmente svelato al mondo che l’ultima trasformazione di Elena Greco sarebbe stata affidata a Alba Rohrwacher che, a dire la verità, ne era sempre stata la voce, lenta e calda, che ha accompagnato gli spettatori nel fuori campo delle tre stagioni precedenti.

La separazione e Dispersione sono i capitoli 25 e 26 di questo lungo romanzo di formazione, le prime due puntate della quarta e ultima stagione de L’Amica Geniale, che andrà in onda dall’11 novembre su RaiUno per 5 serata, fino al 9 dicembre. E appunto di separazione parla il primo episodio, in cui seguiamo principalmente Elena alle prese con la sua nuova vita, mentre si è lasciata alle spalle il matrimonio con Pietro e, temporaneamente, persino le figlie Dede e Elsa, affidate alle cure della suocera. Per loro è necessario un ambiente regolare e rassicurante, con regole e rituali, cosa che lei, nella sua vita da amante di Nino Sarratore, non può garantire alle figlie.

Elena è l’eroina tragica di un racconto drammatico, una donna che negli anni Settanta lascia marito e figlie perché “vuole bene a un altro”. Quella consapevolezza la travolge quando lo dice a alta voce a sua madre, intervenuta per cercare di farla riappacificare con Pietro, che in questo scenario viene dipinto forse come troppo mite e accondiscendente, se pure naturalmente contrariato. Lenù è divisa in due, tra senso del dovere di madre e ambizione professionale che può coltivare a pieno solo nella libertà accanto a Nino, il quale è per lei sogno e passione, ma anche dubbio e dolore.

L’Amica Geniale: storia di madri, di corpi, di lotta

La Elena di Alba Rohrwacher smette di subire le decisioni degli altri, ma questa risoluzione ha un prezzo, e lo vediamo nella fatica che fa il personaggio a tenere tutto insieme, non volendo rinunciare né all’amore per Nino né a quello per le figlie, che pian piano sembra ridestarsi più forte di quanto non sia mai stato. Dopotutto L’Amica Geniale è sempre stata una storia di donne, di amiche, certo, ma anche di madri, di corpi, di consapevolezza, rinuncia e lotta.

La lotta è molto presente nella serie, che sia personale o di classe, come per le altre stagioni, anche in questo caso L’Amica Geniale si fa megafono per la situazione storica del Paese e non risparmia nessun dettagli di quell’epoca turbolenta: i morti, la violenza, il rapimento Moro. Lo sfondo della vicenda di Elena e Lila è estremamente vivido e invadente e per questo, anche se la regista Laura Bispuri si concentra sui volti, le mani e le persone, sul suo nuovo cast, tra cui Stefano Dionisi, Lino Musella, Edoardo Pesce, la Storia viene sempre fuori e si fa sentire.

Dispersione invece racconta principalmente la diaspora di Elena che lascia le sue certezze, ancora una volta e scappa a Milano da Maria Rosa, sorella di Pietro e sua grande amica, che la accoglie con le ragazze e le offre un posto sicuro. Non abbastanza da sfuggire però a Lila. L’amica che è rimasta al rione ed è diventata una imprenditrice invischiata con la camorra, la cerca di continuo per metterla in guardia da Nino. Anche lei è caduta nel suo inganno, ma questa volta ci sono di mezzo figli, matrimoni e soprattutto una moglie che l’uomo non accenna a lasciare. Il racconto si deve spostare a Napoli, nel rione, per poter finalmente dare corpo alla presenza ingombrante di Lila, che nel frattempo ha acquisito il volto di Irene Maiorino, nata per questo ruolo e per succedere a Gaia Girace. La somiglianza tra le due è davvero impressionante e il passaggio di testimone appare naturale, anche grazie alla capacità interpretativa di Maiornio che raccoglie la sua eredita e la sviluppa a modo suo.

La forza e la durezza di Lila non bastano a Elena per allontanare Nino. La donna accetterà di essere una compagna parallela, una moglie part-time, pur di stare con lui, e questa sua decisione, certamente non facile ma urgente, la riporterà a Napoli, vicino al rione, a sua madre, a quella miseria e quella ignoranza dalla quale pensava di essere scappata. Elena è di nuovo “a casa” e la prossimità con Lila tornerà a essere necessaria e ingombrante. Farà i conti con il suo passato e forse troverà la forza di essere indulgente verso quei luoghi e quella miseria che non conoscono altro che se stessi.

Anora: recensione del film di Sean Baker #RoFF19

Arriva alla 19° Festa di Roma con in mano già la Palma d’oro dell’ultimo Festival di Cannes Anora, la commedia di Sean Baker che riscrive le regole del romance e porta nella contemporaneità la fiaba di quella “gran culo di Cenerentola” che nel 1990 aveva il sorriso e le gambe lunghissime di Julia Roberts e che nel 2024 ha invece il corpo minuto e sensuale di Mikey Madison, stripper e prostituta newyorkese che cerca la fortuna tra una lap dance e un privé.

La storia di Anora, Cenerentola moderna

La vita di Ani (come le piace farsi chiamare) procede in maniera abbastanza regolare, tra vita notturna nello strip-club di Manhattan, e giornate passate a dormire e a recuperare energie. Una sera al locale dove lavora, data la sua capacità di parlare russo per via delle sue origini (la nonna era un’immigrata uzbeka), le viene affidato un cliente molto ricco: il suo coetaneo Ivan, detto “Vanja”, viziatissimo rampollo di un oligarca russo, che, attratto dalla ragazza, le offre 15 000 dollari per essere la sua fidanzata per una settimana. I due trascorrono dei giorni folli, divertendosi come non mai, guidati dal brio di Ani e dai soldi di Vanja, dediti solo a soddisfare le proprie voglie, di ogni tipo.

Fino a che a Las Vegas i due decidono di sposarsi: in questo modo lui non sarà costretto a rientrare in Russia dai genitori preoccupati, e lei avrà finalmente una vita agiata e serena, che le permetterà di lasciare il suo lavoro. Sembrerebbe proprio la fiaba di Pretty Woman citata sopra, se non fosse che siamo nel 2024 in un film di Sean Baker, e quindi qualcosa va storto e per Ani e Vanja arriva il momento di pagare il conto di quella settimana di baldoria e di quel matrimonio avventato.

Dopo lo splendido Red RocketSean Baker torna a raccontare uno degli aspetti del mondo della prostituzione attraverso la vita e l’indole di Anora, una giovane donna consapevole e presente a se stessa, che conosce la vita ma che si concede un piccolo spazio per sognare, nel momento in cui la sua storia personale sembra prendere una piega vantaggiosa. È pratica e diretta, capace di contrattare il prezzo del suo corpo e del suo tempo, vende se stessa con sfrontatezza e si batte per quello che ritiene suo. Una furia, una forza della natura, un involucro indistruttibile che nasconde un corpo morbido di tenerezza e fragilità e che per tutto il film cercherà di tenere nascosto.

Quella gran culo di Cenerentola” non va più di moda

Anora

La commedia di Baker rivede il classico romantico con Julia Roberts e Richard Gere, sostituendo ai due affascinanti e intramontabili miti di Hollywood due ragazzini dal fascino contemporaneo e sbarazzino che non saranno certo fatti l’uno per l’altra ma che sono altrettanto indimenticabili. E intanto il regista continua il suo racconto fiabesco di un’umanità ai margini che cerca il suo posto in Paradiso: una gita a Disneyland, un ritorno glorioso nel mondo del cinema per adulti, una vita ricca e agiata che escluda una volta per tutte la precarietà di doversi vendere per soldi.

Sia chiaro, Anora non è mai vittima delle sue scelte di vita. Come accennato sopra, il suo modo di affrontare il suo lavoro è consapevole e divertito, approccio raccontato con riuscitissime sequenze in cui la giovane donna si confronta con una sua collega prendendosi gioco dei clienti, delle loro perversioni, dei loro versi di piacere, del loro sentirsi forti e virili quando sono costantemente loro stessi vittime del loro lombi, posizionando Anora (e le sue colleghe) in una posizione di assoluto potere. È proprio questa consapevolezza che rende la protagonista tanto irresistibile, nonostante la sua talvolta irritante sicurezza.

Jurji e Anora: travolti da un insolito destino

Sean Baker gioca con i suoi personaggi e con il genere, realizzando sequenze mozzafiato e regalando al pubblico personaggi indimenticabili, su tutti l’Igor di Jurij Borisov, che resta travolto dall’energia di Anora e crea da subito con lei un’alchimia isterica e violenta e allo stesso tempo tenera e accogliente. Igor rappresenta ciò che Anora non ha mai conosciuto e per questo non capisce mai fino in fondo, mai fino quell’ultima straziante scena che conclude la notte folle attraverso la quale è stato trascinato lo spettatore.

Se dal punto di vista formale e narrativo Anora di Sean Baker è nient’altro che una commedia convincente (anche se forse troppo dilatata nella seconda parte), con questo film il regista americano compie un passo in avanti verso l’immortalità della sua filmografia, riuscendo a tratteggiare dei personaggi indimenticabili con una precisione emotiva disarmante e tutta la bellezza delle scoperte lente e preziose: Ani si dischiude nella sua essenza di fronte allo spettatore, e pian piano, mentre il film avanza, si mette a nudo completamente, nell’intimo, facendo sentire nudo, vulnerabile e esposto anche chi la guarda e, inevitabilmente, alla fine, si innamora.

Venom: The Last Dance, recensione del film di Kelly Marcel

Venom: The Last Dance è al cinema. Il film, che segna un nuovo capitolo all’interno dell’universo di Spider-Man targato Sony arriva infatti in tutte le sale italiane a partire da oggi, 24 ottobre.

Questo terzo e conclusivo tassello della trilogia dedicata al simbionte alieno più famoso dei fumetti, che arriva sul grande schermo a seguito dei successi di pubblico Venom del 2018 e Venom: La furia di Carnage del 2021, rappresenta appunto anche il quinto tassello del Sony’s Spider-Man Universe. Nonché l’esordio in cabina di regia della sceneggiatrice e produttrice dei film precedenti Kelly Marcel, scelta in questo caso per reggere il timone della nuova avventura della saga.

Accanto a Tom Hardy, che torna nei panni del tormentato giornalista Eddie Brock nuovamente alle prese con il suo alter ego alieno, troviamo un cast stellare che include volti noti come Peggy Lu e new entry del calibro di Juno Temple – già conosciuta per produzioni quali Fargo e Ted Lasso – e Chiwetel Ejiofor, quest’ultimo ben noto agli appassionati del Marvel Cinematic Universe per la sua partecipazione a Doctor Strange. Per un film che, caratterizzato dalla consueta oscurità umoristica tipica del franchise, arriva dunque al cinema per scrivere i titoli di coda di un progetto lungo 6 anni. Progetto che – va sottolineato – è indubbiamente riuscito a fidelizzare il proprio pubblico di riferimento, raccogliendo però scarsi consensi critici.

La trama di Venom: The Last Dance

venom the last dance cavallo
Venom: The Last Dance

Eddie Brock e Venom, ormai un duo indissolubile, si trovano a dover affrontare la minaccia più grande che abbiano mai incontrato: Knull, il dio dei simbionti. Il malvagio essere, prigioniero in un’altra dimensione, ha inviato un esercito di creature oscure sulla Terra con l’obiettivo di recuperare la chiave che lo libererà dalla sua prigione: il Codex. Un antico artefatto che si cela proprio dentro al corpo di Eddie.

Per proteggere l’umanità e se stessi, i due protagonisti sono dunque costretti alla fuga. E nel corso del loro peregrinare, che li porterà dritti dritti a Las Vegas in compagnia di una bizzarra famiglia dalle ossessioni aliene, dovranno fare i conti con le ingerenze di soldati e scienziati. Nei pressi dell’area 51, ormai in fase di smantellamento, si nasconde infatti una base militare e scientifica sotterranea che da tempo studia i segreti dei simbionti. Ed è qui, o meglio qualche metro più in superficie, che si consumerà la prima grande battaglia per il destino di Venom e della razza umana.

Venom: The Last Dance vs cinecomic fatigue

Venom: The Last Dance

Sta diventando sempre più complicato ragionare su opere quali Venom: The Last Dance. Non tanto per questioni legate allo spessore qualitativo del film – senz’altro lontano dalle preferenze dei palati cinefili più fini, ma a ben vedere altrettanto distante dal desiderio di soddisfare i gusti di un certo tipo di pubblico. Quanto per il processo di sconfortante e di fatto interminabile omologazione di cui quest’ultimo capitolo, di fatto, rappresenta solo la nuova, deprimente, declinazione.

L’ormai sempre più frequente rischio di ripetitività che corre qualsiasi tentativo di rendere conto di un testo-film di questo tipo, infatti, ha radici profonde. Che di certo non affondano nel ben poco fertile terriccio predisposto dalla novella regista Kelly Marcel. Ma che in Venom: The Last Dance, in ogni caso, trovano l’ennesima conferma di una maniera di modellare la materia cinematografica che “in casa Marvel”, si tratti dell’uno o dell’altro universo, ha intrapreso una parabola discendente che il SSU sta perfino contribuendo ad aggravare.

Venom: The Last Dance non lascia spazio alla discussione

Venom: The Last Dance

Sforzandoci dunque di tralasciare qualsiasi disamina di natura tecnico-registica – dal momento che, specie su questo fronte, il film di Marcel lascia davvero poco alla discussione (tanto per scarsità di idee, quanto per un senso di generale “mestieranza” i cui dettami sembrano provenire dall’alto e lasciare dunque pochissimo margine a velleità autoriali di qualsiasi tipo) – è forse più utile osservare Venom: The Last Dance nei termini di manifesto dello stato di generale confusione e bulimia produttiva di un certo tipo di distribuzioni.

Perché se è forse innegabile che, rispetto ai predecessori, questo terzo capitolo prova anche solo vagamente a delineare i contorni di una più concreta struttura narrativa e dare quindi un senso di continuità alle diverse “situazioni” che si avvicendano lungo l’arco dei 97 minuti di durata (mid-credit esclusa), è altrettanto vero che la creatura di Marcel, a dirla tutta fedele alla natura parassitaria dell’alieno di cui ci canta le gesta, tenta in ogni modo (ma con scarsi risultati) di legarsi a toni e immaginari cinematografici vari che possano conferirle una maggiore solidità.

In bilico tra cinecomic standard, road-movie, commedia esuberante e action-sci-fi, Venom: The Last Dance prova insomma a cambiare pelle in più di un’occasione. Cercando perfino, nelle battute finali, di dare una brusca sterzata emotiva attraverso un montaggio in stile videoclip che poco ha però a che fare con quanto mostrato a schermo fino a quel momento. Quasi un tentativo, per certi versi disperato, di congedare una versione del protagonista (o dei protagonisti) che però difficilmente rimarrà negli annali.

Beauty In Black – Cast e personaggi

Taylor Polidore Williams e Crystle Stewart sono le protagoniste della nuova soap opera di Tyler Perry Beauty in Black su Netflix, nei panni di due donne molto diverse le cui vite si intrecciano in modo inaspettato. Perry ha prodotto la serie nell’ambito della sua collaborazione creativa con Netflix. In base al loro accordo pluriennale, Perry è incaricato di scrivere, dirigere e produrre film e serie TV, e Beauty in Black è l’ultimo progetto nato da questa collaborazione. La prima parte della nuova serie sarà disponibile su Netflix il 24 ottobre e sarà composta da 16 episodi della durata di un’ora.

Ambientata ad Atlanta, Beauty in Black ruota attorno a due donne con percorsi di vita molto diversi. Una di loro, Kimmie, sta lottando per sopravvivere dopo essere stata cacciata di casa dalla madre, mentre l’altra, Mallory, gestisce con successo un’attività in proprio. In poco tempo, le due donne finiscono per essere coinvolte nelle vite l’una dell’altra. Polidore Williams e Stewart sono le protagoniste dell’ultimo progetto Netflix di Perry, nei ruoli principali di Kimmie e Mallory, ma sono affiancate da un cast di attori di grande talento, tra cui Ricco Ross, Debbi Morgan e Richard Lawson.

Taylor Polidore Williams nel ruolo di Kimmie

Attrice: Taylor Polidore Williams è nata a Houston, in Texas, e ha ottenuto il suo primo ruolo importante interpretando la cacciatrice di taglie Dallas Ali nella serie crime drama della FX Snowfall. Ha anche interpretato Lisa nella serie di supereroi della CW Black Lightning, ha doppiato Clara nel cartone animato della Nickelodeon It’s Pony e ha interpretato il ruolo principale di Camille nella serie drammatica soprannaturale della Allblk Wicked City. Ha già lavorato con Perry quando ha interpretato il ruolo secondario di Rona nel suo thriller drammatico Divorce in the Black.

Personaggio: Polidore Williams recita in Beauty in Black in uno dei ruoli principali, quello di Kimmie. Kimmie sta lottando per sbarcare il lunario dopo essere stata cacciata di casa dalla madre autoritaria. Finisce per trovare lavoro come ballerina esotica e cade nel mondo squallido di un famoso strip club di Magic City. Sebbene la storia sia pura finzione, Perry è stato influenzato da storie di vita reale ambientate in strip club di tutto il mondo.

Crystle Stewart nel ruolo di Mallory

Attrice: Crystle Stewart è nata a Houston, in Texas, e ha debuttato con il ruolo dell’agente immobiliare Leslie Morris nella serie drammatica della OWN/TBS For Better or Worse, anch’essa creata da Perry. Ha interpretato Frankie nel cast principale della serie TLC di Perry Too Close to Home e ha recitato al fianco di Taraji P. Henson nel thriller psicologico Acrimony, scritto, prodotto e diretto da Perry. Prima della carriera di attrice, Stewart ha vinto il titolo di Miss USA 2008 e ha rappresentato gli Stati Uniti a Miss Universo 2008, dove è entrata nella top 10.

Personaggio: Stewart interpreta Mallory, l’altra protagonista di Beauty in Black al fianco di Polidore Williams. Mentre Kimmie è a corto di soldi e fatica ad arrivare a fine mese, Mallory gestisce con successo la sua attività di cura dei capelli. Le due donne, con stili di vita molto diversi, sono messe a confronto e costituiscono la trama drammatica della serie. Mallory ha molto successo all’apparenza, ma ha difficoltà a tenere unita la sua ricca famiglia. Alla fine, con il proseguire della serie, le vite di Kimmie e Mallory si scontrano in modi inaspettati.

Ricco Ross nel ruolo di Horace

Attore: Ricco Ross è nato a Chicago, Illinois, e ha raggiunto il successo con il ruolo del soldato Frost nel film d’azione di fantascienza Aliens di James Cameron. Ross ha interpretato altri ruoli minori in film come Fierce Creatures, dove interpreta un giornalista televisivo, Mission: Impossible, dove interpreta una guardia di sicurezza, e Death Wish 3, dove interpreta un cubano. Tra i precedenti ruoli televisivi di Ross figurano il pastore R.J. Gilfield nella serie drammatica P-Valley, Greg Dacosta nel cast principale della serie televisiva britannica Westbeach e il ruolo ricorrente di Liftman Coneybear nella terza stagione della serie drammatica Jeeves and Wooster.

Personaggio: Ross interpreta un ruolo secondario fondamentale nel cast di Beauty in Black nei panni di Horace. Horace facilita il primo grande punto di svolta nell’arco narrativo del personaggio di Kimmie. È un cliente abituale dello strip club dove lei lavora. Quando lei incrocia la sua strada, lui finisce per cambiarle la vita.

Debbi Morgan nel ruolo di Olivia

Attrice: Debbi Morgan è nata a Dunn, nel North Carolina, e ha raggiunto il successo con il ruolo di Angie Baxter-Hubbard nella soap opera di lunga durata della ABC All My Children. Morgan è stata la prima afroamericana a vincere il Daytime Emmy Award come migliore attrice non protagonista in una serie drammatica per il ruolo di Angie nel 1989. Morgan ha anche interpretato la Veggente nelle stagioni 4 e 5 di Charmed, Mozelle Batiste-Delacroix in Eve’s Bayou (che le è valso un Independent Spirit Award) ed Estelle Green nella serie crime drama di Starz Power e nel suo spin-off, Power Book II: Ghost.

Personaggio: In Beauty in Black, Morgan interpreta Olivia. Olivia è una delle protagoniste femminili al fianco di Kimmie e Mallory. Morgan collabora spesso con Perry, avendo già recitato in Divorce in the Black e American Gangster Presents: Big 50 – The Delrhonda Hood Story.

Richard Lawson nel ruolo di Norman

Attore: Richard Lawson è nato a Loma Linda, in California, e ha debuttato con il ruolo di Willis Daniels nel sequel horror blaxploitation Scream Blacula Scream. Lawson è noto soprattutto per aver interpretato Ryan nel film horror Poltergeist e il dottor Ben Taylor nella miniserie della NBC V. Ha anche recitato in ruoli secondari importanti in film come Coming Home, Streets of Fire, How Stella Got Her Groove Back e Guess Who.

Personaggio: Lawson interpreta Norman in Beauty in Black. Norman è un personaggio secondario importante nell’ensemble. Lawson è uno degli attori più esperti del cast.

Beauty In Black Cast secondario e personaggi

Amber Reign Smith nel ruolo di Rain: Amber Reign Smith appare nel cast di Beauty in Black nel ruolo di Rain. Smith ha precedentemente interpretato Queenie in Outlaw Posse, Roma in Wu-Tang: An American Saga, Bebe Thompson in Rap Sh!t e Kiara in The Other Black Girl.

Steven G. Norfleet nel ruolo di Charles: Charles è interpretato da Steven G. Norfleet. Norfleet è noto soprattutto per aver interpretato Paul de Pointe du Lac in Intervista col vampiro, O.B. Williams nella miniserie HBO Watchmen e Cecil Franklin in Genius.

Julian Horton nel ruolo di Roy: Roy è interpretato da Julian Horton. Horton ha precedentemente interpretato Orlando Bishop in National Champions e Jayce nel film TV Ruined.

Terrell Carter nel ruolo di Varney: Terrell Carter appare in Beauty in Black nel ruolo di Varney. Carter ha già lavorato con Perry quando ha interpretato il reverendo Carter nel film di Madea Diary of a Mad Black Woman. Ha anche interpretato Kevin Campbell nella versione televisiva di Shooter.

Parthenope: il vero significato e la spiegazione del finale del film di Paolo Sorrentino

Presentato al Festival di Cannes 2024 è arrivato nelle nostre sale il 24 ottobre, Parthenope, il nuovo film di Paolo Sorrentino è stato un evento accolto con più entusiasmo all’estero che in patria, visto che non è raro che nessuno è profeta in patria, anche ai livelli altissimi raggiunti dal cinema di Sorrentino.

Il regista partenopeo di adozione romana evoca un lirismo frammentato, per alcuni ridondante e autoreferenziale, ma ha anche un’anima punk che gli impedisce di essere incasellato in un sistema. Non si fa scrupoli a fare suo qualsiasi argomento. E poi, è un uomo dotato di una sensibilità superiore a quella comune, che nota e intuisce frequenze emotive e sfumature di significato accessibili a pochi. Una visione fatta di tante domande e pochissime risposte, perché Sorrentino è un uomo votato al dubbio, proprio come i suoi film. Ed è forse per questo che la frenetica ricerca di “senso” al termine della visione di Parthenope lascia spesso interrogativi ancora aperti e un sapore amaro in bocca.

Il film con protagonista Celeste della Porta si distingue, a livello formale, per la sua netta divisione in due macro sezioni, la prima prettamente narrativa, che segue la giovinezza di questa fanciulla inafferrabile. La seconda, decisamente più interessante e enigmatica, che abbraccia a piene mani la metafora di una donna/città che si fa attraversare da tutte le sue anime. Parthenope nasce in mare e cresce sulla costa, alimentata dal bello, la cultura, i giochi d’infanzia con suo fratello e il suo migliore amico, in questa specie di triangolo incestuoso in cui nessuno davvero si immerge.

Il vero significato di Parthenope

Ma dopo il traumatico avvenimento centrale, Parthenope diventa Napoli, che senza essere mai catturata nella sua essenza si fa toccare da ognuno dei suoi “luoghi comuni”. La fanciulla entra in contatto quindi con le anime della città, in quelli che sembrano episodi slegati, indipendenti l’uno dall’altro, ma tutti che fanno riferimento alla ricchezza e alla molteplicità di Napoli. Nel realizzare il suo Roma, in continuo accostamento (forse solo degli altri) a Fellini, Sorrentino scompone la sua città: la fede, la ricchezza, la mala vita, la cultura, l’accademia, lo sport, la vita e la morte, la musica e l’arte. Ogni “episodio” che vede protagonista il personaggio di Celeste della Porta vede rappresentata una delle caratteristiche della città. Una grande metafora della ricchezza composita e inafferrabile della splendida ninfa nata dal mare.

Parthenope di Paolo Sorrentino – Foto Credit Hollywood Authentic/ Greg Williams

La spiegazione del finale di Parthenope

Nel finale del film, Sorrentino torna alla narrazione classica, attraverso il personaggio di Stefania Sandrelli, una Parthenope non più giovane, ma saggia e risolta, che una volta raggiunta la pensione torna a Napoli e si pacifica con lei. La giovinezza, l’età verde in cui tutto è possibile, è passata ma guardando la città intorno a sé, la donna si rende conto che esiste una eredità in essa, proprio per il fatto che l’ha attraversata così in profondità, l’ha indossata come la preziosissima mitra che porta con regalità in una delle sequenze più discusse del film, e con fierezza è diventata una sola cosa con Napoli.

Come detto in apertura, Paolo Sorrentino non è un uomo di risposte, ma di domande, e sebbene le spiegazioni siano sempre appaganti, il dubbio e l’interpretazione delle sue opere rimarrà sempre uno degli aspetti più interessanti della sua produzione.

Grand Theft Hamlet: recensione del film realizzato nel celebre videogioco – #RoFF19

“L’ingegneria dei videogiochi mette in campo una vera e propria creazione di un mondo, oggi, molto più che un film. L’estetica di un gioco per me è una delle forme espressive più interessanti in circolazione”. Con queste parole il regista Harmony Korine presentava il suo film AGGRO DR1FT al Festival di Venezia nel 2023. Un esperimento, il suo, che contribuiva alla spinta verso un superamento del cinema così come lo conosciamo verso una maggiore ibridazione con l’arte, l’estetica e le regole dei videogiochi. Poco più di un anno dopo, ecco arrivare Grand Theft Hamlet, un documentario realizzato interamente all’interno di un videogioco e basato su uno spettacolo teatrale, anch’esso avvenuto nel medesimo ambiente virtuale.

Si tratta dell’esperimento realizzato da Pynny Grylls e Sam Crane, con la partecipazione dell’attore Mark Oosterveen, che si configura come nuova clamorosa dimostrazione di quanto profetizzato da Korine. Già da tempo, in realtà, il cinema ha ripreso a piene mani certe dinamiche dei videogiochi per includerle all’interno delle proprie convenzioni. Film come Source Code o Edge of Tomorrow ne sono un esempio. Ma con Grand Theft Hamlet si giunge a qualcosa di completamente nuovo, un post-cinema che apre ad una serie di scenari particolarmente entusiasmanti e ad una serie di riflessioni su quella che di qui a pochi anni potrebbe diventare una realtà molto più diffusa.

La trama di Grand Theft Hamlet

Gennaio 2021. Il Regno Unito è al suo terzo lockdown. Per gli attori teatrali Mark e Sam, il futuro appare desolante. Il primo – single e senza figli – è sempre più isolato socialmente, mentre Sam è in preda al panico per il mantenimento della sua giovane famiglia. Insieme, trascorrono le loro giornate nel mondo digitale online di Grand Theft Auto e quando si imbattono in un teatro, hanno improvvisamente l’idea di mettere in scena una produzione completa di Amleto all’interno del gioco. Grand Theft Hamlet racconta dunque la loro ridicola, esilarante e commovente avventura, mentre combattono contro violenti truffatori e scoprono sorprendenti verità sulla vita, sull’amicizia e sul potere duraturo di Shakespeare.

Fuga dal mondo reale

Ci si potrebbero scrivere pagine e pagine su un film (anche se chiamarlo tale è riduttivo) come Grand Theft Hamlet, per cui cerchiamo di andare con ordine. Partiamo con il dire che – come avranno intuito gli appassionati – il videogioco all’interno del quale si svolge il racconto proposto da Grylls, Crane e Oosterveen è GTA, ovvero Grand Theft Auto, una serie di videogiochi action-adventure open world, tra le più famose di tutti i tempi, in cui il giocatore controlla un fuorilegge e la sua ascesa nella criminalità organizzata, portando a termine specifiche missioni o anche semplicemente dandosi alla pazza gioia girovagando per la città. Pazza gioia che, normalmente, prevede l’infrangere ogni regola possibile.

Di questo videogioco esiste anche una versione online, dove singoli utenti possono dunque incontrarsi, interagire – e soprattutto uccidersi brutalmente a vicenda – in un mondo virtuale in cui tutto è concesso, compreso l’allestire uno spettacolo teatrale, come dimostrato dagli autori di Grand Theft Hamlet. La volontà di Crane e Oosterveen, nata dall’esigenza di contrastare la depressione data dal periodo del Covid-19 nasce dunque come una vera e propria evasione dalla realtà, ritrovando in GTA Online il luogo ideale dove poter fare tutto ciò che in quel preciso momento storico non era possibile fare nella realtà.

Si sviluppano già da qui una serie di riflessioni sui mondi virtuali oggi disponibili, in cui è possibile entrare con degli avatar (impossibile non pensare, su questo tema, all’esemplare Avatar di James Cameron). Nel momento in cui il mondo reale diventa un luogo sempre più ostile, tra guerre, malattie e preoccupanti scenari politici, ecco allora che le realtà virtuali diventano dei luoghi utopici in cui poter trovare riparo, lasciandosi alle spalle ogni preoccupazione. Certo, si tratta a suo modo di una fuga, quando sarebbe più costruttivo cercare di risolvere le problematiche del mondo, ma difficile non comprendere le ragioni che portano a sceglierla, specialmente dinanzi ad una situazione come quella del lockdown che non offre alternative.

Benvenuti nell’epoca del post-cinema

Andando nel merito del film, però, la prima cosa che colpisce è come sia stata riposta grande attenzione nel replicare la grammatica cinematografica, con tutta l’ampia gamma di inquadrature possibili, dai totali ai primi piani. Regole che da tempo il mondo dei videogiochi ha ereditato, rielaborandole e riproponendole però a modo proprio. L’effetto è straniante, ma anche fortemente affascinante, in quanto ci porta a vivere un vero e proprio cortocircuito sulla natura di ciò che stiamo guardando. Non è live action, non è animazione, è il frutto di un progresso tecnologico che promette di rivoluzionare completamente l’arte del fare cinema.

Data la grande definizione e cura dei dettagli che i videogiochi di oggi riescono a proporre, non è impensabile l’idea che sempre più produzioni cinematografiche possano affidarsi a queste possibilità virtuali per realizzare le proprie storie, potenzialmente abbattendo enormemente i normali costi che oggi si hanno. Divertente, a tal proposito, il dettaglio dell’avatar di Pynny Grylls che, in quanto regista del documentario, è presente in scena intenta a svolgere le riprese (ovviamente finte) con uno smartphone. Chiariamoci, il cinema per come lo conosciamo oggi, fatto di attori in carne ed ossa e set tangibili, non sarà mai del tutto sostituito, ma di certo è evidente che siamo sulla via di una progressiva co-esistenza di queste realtà.

Grand Theft Hamlet lo dimostra ampiamente, proponendoci un gioco al quale si partecipa volentieri, tranquillizzati da ciò che in esso ci è familiare e ammaliati dalle sue evidenti particolarità. Un contrasto perfettamente rappresentato anche dalla volontà di mettere in scena un testo classico per eccellenza come l’Amleto di William Shakespeare all’interno di un contesto ultra contemporaneo. Tutti elementi che rendono il film semplicemente imperrdibile, per alcuni probabilmente respingente, ma di certo inevitabile dimostrazione delle possibilità del cinema del futuro (o meglio, del presente).

Un film che si interroga anche sull’elemento umano

Grand Theft Hamlet è dunque prima di tutto un’esperienza visiva, certo, ma nel corso c’è anche spazio in più occasioni per una riuscita comicità – specialmente per via della frequente violenza gratuita a cui gli utenti non sanno resistere -, e si ha occasione di scoprirsi partecipi delle preoccupazioni di Sam e Mark per il futuro. Preoccupazioni di carattere umano, che l’atto di estraniarsi nel gioco non riesce a far dimenticare del tutto. Da questo punto di vista, il film è allora anche un indicatore di dove l’umanità stia andando, di come si tenda a perdere di vista l’importanza di un reale rapporto e dunque la necessità di preservarlo. Perfetto esempio, a riguardo, è la scelta di Pynny e Sam di uscire dal gioco che stanno svolgendo in stanze diverse della stessa casa e incontrarsi per davvero.

Di certo, in conclusione, torna profetica un’altra affermazione di Harmony Korine – stavolta nel presentare Baby Invasion, un film girato come uno sparatutto in prima persona: “Il motivo per cui stiamo iniziando a vedere Hollywood crollare dal punto di vista creativo è perché […] sono così chiusi nelle convenzioni, e tutti quei ragazzi che sono così creativi ora troveranno altri percorsi e andranno in altri posti perché i film non sono più la forma d’arte dominante”. Da persona follemente lucida quale si è dimostrato, ha probabilmente ragione. È all’arte del videogioco e alle sue infinite possibilità che dobbiamo guardare per capire come potrebbe essere il cinema di domani. Grand Theft Hamlet ne è un validissimo esempio.

Flow – Un mondo da salvare: recensione del film di Gints Zilbalodis

Nel caos di film, serie e prodotti audiovisivi che ogni giorno affollano i nostri schermi, è facile rimanere storditi e finire con il sentirsi anestetizzanti nei confronti di certe narrazioni o immagini. Ecco perché l’arrivo di un film come Flow – Un mondo da salvare è da salutare con grande entusiasmo, in quanto riporta gli spettatori alla riscoperta di una dimensione artistica in cui è ancora possibile provare sincero stupore. Una dimensione che si basa sugli elementi primari a partire dai quali fare di necessità virtù e realizzare così un’opera capace di parlare a tutti in modo sincero e diretto.

Gints Zilbalodis, regista lettone già distintosi nel campo dell’animazione grazie a diversi cortometraggi e ad Away, suo film d’esordio, ci consegna con questa sua opera seconda un film magnifico per numerevoli ragioni, che andremo qui di seguito ad esplorare proprio come i protagonisti di Flow – Un mondo da salvare esplorano gli ambienti con cui entrano in contatto. Dopo essere stato presentato con successo nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes e aver vinto l’Oscar come Miglior film d’animazione, questo si conferma un’esperienza da non perdere, di quelle che ormai al cinema capita di fare poche volte.

La trama di Flow – Un mondo da salvare

Il mondo sembra volgere alla termine, brulicante di tracce della presenza umana ma completamente privo degli umani stessi. Protagonista del racconto è infatti un gatto, animale solitario che si ritroverà suo malgrado a vivere la più imprevedibile delle avventure. Un’alluvione senza precedenti sommerge infatti il mondo, costringendo il felino a trovare riparo in una barca su cui si trovano però anche altre specie animali. Nonostante le loro differenze, si troveranno a dover fare squadra, navigando attraverso mistici paesaggi sommersi e affrontando le sfide proposte da questo nuovo mondo.

Flow - Un mondo da salvare Gints Zilbalodis
Una scena dal film Flow – Un mondo da salvare

Una fiaba per riscoprirsi parte del mondo

Flow, il flusso, quello dell’alluvione che sommerge le terre ma anche quello che scorrendo ci porta a vivere l’avventura a cui siamo destinati. Partendo da questo principio, tutto il film è un continuo movimento (mozzafiato) – della macchina da presa, delle correnti d’acqua, dei personaggi, della barca su cui hanno trovato riparo – che porta ad attraversare non solo ambienti diversi ma anche differenti stati d’animo. Li viviamo a partire dall’esperienza che ne fanno gli adorabili protagonisti – un gatto, un cane, un lemure, un capibara e un uccello – e potendo così osservare il modo in cui il viaggio li cambia.

Zilbalodis ha infatti concepito il film come un vero e proprio road movie, un’avventura dal grande fascino visivo – merito di un’animazione “grezza” e onirica, che trova proprio in queste sue particolarità il proprio valore – che partendo da premesse narrativi semplici (ma mai semplicistiche!) sprigiona davanti ai nostri occhi una serie di tematiche che vanno dalla natura alla sua salvaguardia e fino all’importanza del fare squadra dinanzi alle avversità, superando ogni possibile e sciocca differenza. Perché pur non essendo minimamente antropomorfizzati, gli animali protagonisti non possono non ricordarci delle precise qualità umane, dall’isolamento all’avidità.

Una fiaba, dunque, che – come tutte le fiabe – parla di noi e della nostra contemporaneità. Lo fa però in modo assolutamente privo di moralismi, adoperando un’innocenza a cui non si può rimanere estranei e attraverso una serie di idee e precise scelte di messa in scena particolarmente convincenti. Una fiaba capace di divertire, commuovere e anche incutere timore, grazie anche alle musiche dello stesso Zilbalodis e di Rihards Zalupe, che forniscono un accompagnamento sonoro estremamente suggestivo, perfettamente combinato con le tante sonorità naturali che animano il film.

Una scena dal film Flow - Un mondo da salvare
Una scena dal film Flow – Un mondo da salvare

Il linguaggio delle emozioni

Non ha bisogno di dialoghi Zilbalodis, così come non ne ha avuto bisogno per il suo primo lungometraggio, Away. Portando avanti un’attenta ricerca sull’immagine, il regista e il suo team riescono brillantemente nell’obiettivo di realizzare un film che, affidandosi unicamente alle immagini e ai suoni, riesce a comunicare con grande forza i propri messaggi e le proprie emozioni senza il bisogno di alcun orpello in più. Motivando il suo totale rifiuto del parlato nelle proprie opere, il regista ha spiegato che di un film ciò che ricorda meglio sono le scene silenziose che si fondano sull’eloquenza delle immagini.

Ed è così anche per Flow – Un mondo da salvare, che offre una serie di quadri di straordinaria bellezza, capaci di rimanere impressi nella mente per i loro colori e tutti gli altri elementi che li compongono, che siano la foresta selvaggia, le architetture umane o gli espressivi occhi dei protagonisti. Non si avverte dunque mai la mancanza di un dialogo, di una voce umana, non solo perché Flow – Un mondo da salvare è già così meravigliosamente ricco a livello sonoro, ma anche perché da un certo punto in poi ci sembra di poter davvero comprendere i versi degli animali e ciò che vogliono dire.

Soprattutto, però, assistiamo alla loro evoluzione nel modo più corretto: osservandola attivamente. Del gatto protagonista, ad esempio, non viene mai detto a parole “ricerca la solitudine, imparerà ad amare il gruppo”, ma assistiamo a questo cambiamento giungendo noi stessi a questa conclusione, vedendolo passare dal suo solitario specchiarsi nell’acqua al farlo in compagnia dei suoi nuovi amici. Questo vale in realtà per ogni valore che il film vuole trasmetterci, riuscendo a farlo proprio perché trova il modo di comunicarlo in modo universale, parlando il linguaggio delle emozioni anziché quello delle parole.

Flow – Un mondo da salvare è una carezza al cuore

Flow – Un mondo da salvare è allora davvero un film che merita di non passare inosservato, di non finire schiacciato dalla mole di titoli che ogni giorno si accalcano in sala o sulle piattaforme venendo divorati e ben presto dimenticati. Zilbalodis ci consegna un’opera speciale, tra le più importanti di quest’anno cinematografico, che chiede allo spettatore di non forzarsi nella ricerca di determinati significati ma di abbandonarsi al flusso dell’esperienza proposta. Un’opera che nel suo “tornare alle origini” di un’arte rispolvera un senso della meraviglia troppo spesso perduto, qui ritrovato e proposto come la più gentile delle carezze al cuore.