Il giovane regista franco-spagnolo
Oliver Laxe è arrivato sulla Croisette e ha
trasformato il Festival di Cannes in un rave party. Dopo
aver presentato i suoi precedenti tre lungometraggi in sezioni
parallele della prestigiosa kermesse, approda ora nel concorso
ufficiale con Sirât, già uno dei film più politici
e radicali dell’anno, forte di una poetica personalissima e che
parla a gran voce del nostro presente.
Il road movie più atipico
dell’anno
Luìs (Sergi Lopez)
e il figlio Esteban (Bruno Núñez Arjona) stanno
cercando la figlia Mar tra i rave party del deserto marocchino: da
5 mesi non ne hanno più notizie, ma sanno che la giovane potrebbe
trovarsi in questi territori. Laxe ci immerge subito in una sorta
di rilettura di Climax di Gaspar Noè nelle distese
desertiche. Insiste con inquadrature sui partecipanti del rave, per
farci pensare che tra questi volti possa proprio nascondersi Mar.
Un gruppo di individui alquanto bizzarri gli dice che la ragazza
potrebbe trovarsi a una festa più avanti, alla quale forse si
uniranno anche loro. All’improvviso, irrompono però plotoni di
soldati che dichiarano uno stato di emergenza, ordinando a tutti i
cittadini dell’EU di salire immediatamente sui loro veicoli e
abbandonare il posto. A quanto pare, una guerra è esplosa nel corso
della notte. La situazione socio-politica non verrà mai definita
nei dettagli da Laxe, così come non sappiamo esattamente come i
protagonisti si posizionino nei confronti di questa tragedia:
stanno scappando? Sono profughi? L’avventura che inizia apre a
molteplici interpretazioni.
A questo punto, i raver incontrati
poco prima da Luìs ed Esteban sterzano violentemente, decisi a
proseguire la loro danza nel deserto. Padre e figlio, per niente
equipaggiati, li seguono nella speranza che possano effettivamente
condurli dalla figlia scomparsa. Il gruppo suggerisce all’uomo –
padre di famiglia nel senso più comune e “bonario” del termine
– che dovrà adattarsi al deserto se vuole seguirli, ma
percepiamo fin da subito che non è l’habitat naturale di questa
famiglia spagnola e che qualcosa dovrà per forza succedere. Per
sopravvivere, dovranno iniziare a collaborare e condividere le
risorse disponibili, anche se il padre si mostra piuttosto restio.
Dopo una serie di eventi tragici, tuttavia, sarà costretto ad
abbracciare il loro concetto di famiglia e una nuova forma di
esistenza.
È la fine del mondo già da troppo
tempo
Il film di Oliver
Laxe inizia con una didascalia volta a spiegare
nell’immediato il significato del termine sirat: ‘ponte’, ma anche
‘via’ che, nella religione islamica, collega l’inferno al
paradiso.Tuttavia, il titolo effettivo del film compare su schermo
solo a venti minuti inoltrati di visione, stagliandosi sopra le
macchine roboanti in moto. Il senso di Sirât è
proprio quello di un viaggio, di chi anima questo deserto, i
protagonisti di un Mad Max sotto acidi da cui è
impossibile distogliere lo sguardo.
Loro sono Richard
Bellamy, Stefania Gadda, Joshua
Liam Henderson, Tonin Janvier,
Jade Oukid: non attori professionisti, ma gente
che viene dalla controcultura, immersi in spazi di esistenza che
Laxe tenta finemente di catturare. Un gruppo di personaggi che
sembrano prelevati da una favola, con corpi diversi e impossibili
da etichettare, che riproducono al meglio il concetto di
un’esistenza indefinibile.
Tra thriller e riflessione su una
nuova via per esistere
La genialità di Laxe sta nel fatto
che non solo infonde la narrazione di un senso di sospensione
immanente, ma riesce a costruire anche un thriller tesissimo,
perfino insostenibile, quasi a voler proprio ricalcare il
significato del termine sirat, un passaggio talmente sottile e
tagliente come una lama. Ai rumori roboanti dei fuoristrada si
sostituisce poi man mano il silenzio. Sirât ci
lascia così a riflettere su una nuova modalità di esistenza, un
ritrovato rapporto con la natura che può fagocitarci da un momento
all’altro. Il deserto diventa uno spazio pre fine del mondo ma, in
fondo, tutto è già finito. E allora, non resta che danzare.
In concorso al Festival
di Cannes 2023 c’è anche un film a sfondo
storico: si tratta di Firebrand, nuova prova registica di
Karim Aïnouz (La vita invisibile di Euridice
Gusmao). Basato sul romanzo Queen’s Gambit del 2013
di Elizabeth Fremantle, il film è incentrato sulla
figura di Katherine Parr, la sesta e ultima moglie
di Enrico VIII e interpretato da Alicia Vikander, Jude Law, Sam Riley,
Eddie Marsan, Simon Russell Beale
ed Erin Doherty.
La trama di Firebrand –
L’Ultima Regina
Nell’Inghilterra dei Tudor intrisa
di sangue, Katherine Parr, sesta e ultima moglie
di Enrico VIII, viene nominata reggente mentre il
tiranno Enrico sta combattendo oltreoceano. Katherine ha fatto
tutto il possibile per promuovere un nuovo futuro basato sulle sue
convinzioni protestanti radicali. Quando il re torna, sempre più
malato e paranoico, si accanisce contro i radicali, accusando di
tradimento l’amica d’infanzia di Katherine e mettendola al rogo.
Inorridita e addolorata, ma costretta a negarlo, Katherine si
ritrova a lottare per la propria sopravvivenza. La cospirazione si
ripercuote nel palazzo. Tutti trattengono il fiato: che la regina
faccia un passo falso, che Enrico la voglia decapitare come le le
mogli precedenti. Con la speranza di un futuro libero dalla
tirannia a rischio, Katherine si sottometterà all’inevitabile per
il bene del re e del Paese?
Eresia a corte?
Nell’anno 1546, in cui
Firebrand – L’Ultima Regina è
ambientato, il re era ancora percepito come una figura divina.
Enrico VIII aveva chiuso ogni rapporto con la
Chiesa cattolica romana per il rifiuto di quest’ultima di concedere
l’annullamento del suo primo matrimonio, e lui e i suoi consiglieri
religiosi temevano che i riformatori protestanti potessero minare
l’intero sistema.
La storia di Firebrand –
L’Ultima Regina inizia mentre Enrico è
all’estero e Katherine lo sostituisce come
reggente. Sfidando l’autorità ecclesiastica, Katherine si allontana
di nascosto per andare a trovare Anne Askew
(Erin Doherty), una controversa predicatrice
protestante e amica di lunga data. In seguito, assumendosi un
grande rischio, Katherine insiste affinché Anne accetti una
preziosa collana che Henry le aveva regalato,
sostenendo di fatto la sua causa eretica.
Ritratti femminili
Quella di Aïnouz è
una Katherine Parr carismatica, dai numerosi
interessi e con uno sguardo più vasto del mondo di corte. Alicia Vikander la interpreta anzitutto con
compostezza, prima qualità che ci si sarebbe aspettati da una
regina dell’epoca, ma riesce a offrirci un ritratto sfaccettato
dell’ultima moglie di Enrico VIII. Katherine è
consapevole del suo ruolo a corte e anche delle sue conoscenze: non
è un caso che la giovanissima Elisabetta, figlia di Enrico e Anna
Bolena e futura sovrana di Inghilterra, la ammiri, le faccia spesso
domande e non la perda mai di vista.
Anche se Alicia Vikander interpreta il personaggio
principale della pellicola, la voce femminile che risuona con più
potenza è, forse, proprio quella indesiderata e tanto temuta:
quella di Anne. Dalle prime sequenze in cui vediamo
Anne e Katherine incontrarsi nei
boschi dove la prima tiene delle sorti di comizi con gli altri
eretici, ci viene illustrato il rapporto che intercorre dalle due:
Katherine tenta di avvisarla, vuole che Anne scappi. Con
Enrico VIII al governo, il suo destino è
segnato.
Jude Law è Enrico VIII
Inizialmente, almeno per quanto
riguarda la presenza su schermo, siamo di fronte a un film di
donne: da Katherine ad Anne,
passando per Elizabeth, abbiamo un ritratto di
quello che l’Inghilterra era al momento, di quello che voleva
abbattere e di ciò che il Paese sarebbe diventato. Come
l’Enrico VIII di Jude Law irrompe sulla scena, capiamo che la
minaccia in tutte le sue variazioni, domestica, politica e anche
fisica – il sovrano ha la gotta ed è continuamente circondato da
medici – sarà la parola d’ordine della narrazione di
Firebrand.
Jude Law dà vita al ritratto forse più
verosimile del sovrano inglese che sia mai stato rappresentato al
cinema. Burbero, malato, violento, ma anche ironico, compositore –
alcune delle canzoni che sentiremo nel film sono state veramente
composte da Enrico VIII – il sovrano fiuta la
minaccia e se la carica anche sul corpo, sempre meno curato,
abnorme, facendone volutamente percepire la pesantezza a
Katherine.
Con una messa in scena dettagliata e
precisa, costumi curatissimi e performance convincenti,
Firebrand – L’Ultima Regina riesce a
distinguersi come dramma storico e prima prova del brasiliano
Aïnouz in lingua inglese. Qualche revisione
storica potrebbe forse non conquistare l’ammirazione di troppi
spettatori, ma il calore con cui abbraccia e cuce addosso
ad Alicia
Vikander questo ruolo femminile è assolutamente degno
di nota.
Con Eagles of the
Republic, Tarik
Saleh chiude idealmente la sua trilogia sulla corruzione e le
dinamiche del potere nell’Egitto post-Mubarak, dopo El Cairo
Confidential (2017) e Boy From Heaven (2022),
premiato proprio a Cannes per la miglior sceneggiatura. Ancora una
volta, il regista svedese di origini egiziane esplora le fratture
politiche e sociali del suo Paese natale da lontano, dopo essere
stato espulso dall’Egitto. Tuttavia, questa volta non mette al
centro non l’apparato religioso o giudiziario, bensì l’industria
cinematografica, trasformata in strumento diretto della propaganda
di Stato.
Il potere vuole lo spettacolo
George Fahmy (Fares
Fares), superstar del cinema egiziano, è un divo
consumato: divorziato, distante dal figlio, amante delle giovani
attrici, vive un’esistenza in equilibrio tra popolarità e
superficialità. La sua vita cambia quando riceve una “proposta”
dalle autorità: interpretare il presidente Abdel Fattah Al-Sisi in
un film celebrativo del suo colpo di stato ai danni dei Fratelli
Musulmani. George rifiuta, inizialmente. Ma in Egitto, anche il no
è un atto politico — e a volte si paga caro.
Eagles of the Republic
prende il via da questa promessa satirica che sembra voler demolire
dall’interno le dinamiche del potere autoritario e la sua
ossessione per il controllo narrativo. In un Paese dove il cinema è
da sempre terreno di scontro ideologico, George diventa l’icona
perfetta da piegare, usare, mettere in vetrina. E Fares Fares
incarna con mestiere l’archetipo della star decadente, costretta a
confrontarsi con l’ipocrisia del sistema che lo ha reso
celebre.
Satira che si affievolisce, tensione che non esplode
La prima parte del film si muove sul
terreno del grottesco, tra divi arroganti, funzionari zelanti e una
produzione cinematografica che somiglia a una parodia di Stato. C’è
sarcasmo, c’è ritmo, e c’è l’ombra lunga della censura che avanza
scena dopo scena. Ma questa promettente miscela comica e politica
non regge a lungo. Superata la metà, Eagles of the
Republic abbandona l’ironia per un registro più drammatico,
con svolte da thriller complottista che appesantiscono la
narrazione senza mai scuoterla davvero.
A differenza di film come Boy
From Heaven o El Cairo Confidential, che riuscivano a
fondere genere e denuncia con maggiore tensione interna, qui Saleh
sembra più prudente. Il conflitto tra arte e propaganda permane, ma
viene trattato in modo didascalico, quasi come se il film stesso
temesse le conseguenze del proprio messaggio. Ogni svolta — i
ricatti, le minacce, i misteri sul passato del presidente — arriva
nei tempi giusti, ma senza mai sorprendere. E la riflessione sulla
responsabilità degli artisti in regime autoritario, centrale nel
film, resta più dichiarata che interrogata.
Un film su come si fa (e si impone)
un altro film
Uno degli elementi più interessanti
di Eagles of the Republic è la sua mise en abyme: il film
parla di un film che si sta girando, e nella finzione si
moltiplicano le ingerenze del potere. Gli script vengono rivisti
dai militari, le scene devono essere approvate, le comparse sono
soggette a controlli. Il set diventa una zona di conflitto, dove la
finzione serve a riscrivere la Storia in modo funzionale al
regime.
Tuttavia, questa dinamica
metacinematografica non viene mai portata fino in fondo. A
differenza di Argo, Eagles si limita a illustrare il
meccanismo, senza mai smontarlo davvero. Persino i riferimenti
cinefili — dai poster di classici egiziani ai richiami stilistici
anni Settanta — risultano più decorativi che sostanziali.
Un’operazione europea su un dramma
egiziano
Girato interamente in Turchia e
finanziato da un consorzio europeo (Svezia, Francia, Germania,
Danimarca e Finlandia), il film segna il ritorno di Saleh con un
budget visibilmente superiore rispetto ai titoli precedenti.
Eppure, la regia resta funzionale, televisiva, più interessata a
far scorrere la trama che a scavare nei suoi sottotesti. Si ha
spesso la sensazione che l’urgenza del discorso politico sia stata
sacrificata in favore dell’accessibilità del prodotto, come se
l’autore cercasse una via di mezzo tra il thriller da festival e il
titolo da catalogo streaming.
La stessa figura del protagonista
resta ambigua: George non è un eroe, ma nemmeno un complice. È una
vittima privilegiata, talvolta lucida, talvolta passiva, e il film
non riesce mai a scegliere se raccontarlo con empatia o
distacco.
Brasile, 1977. In mezzo alla strada,
un cadavere giace abbandonato da ore. Nessuno lo reclama, la
polizia interroga ma non agisce. È da questo dettaglio disturbante
che prende il via O agente secreto, il
nuovo film di Kleber
Mendonça Filho, ambientato nella Recife della dittatura
militare, e costruito come una riflessione a più strati sulla
sorveglianza, l’identità e il peso della storia. Non un film di
spionaggio in senso classico, nonostante il titolo, ma un dramma
politico e personale in cui tutti sembrano avere almeno due nomi,
due vite, due versioni dei fatti.
Un Brasile sotto controllo
Marcelo (Wagner
Moura), ex docente universitario, torna nella sua città
natale per cercare il figlio e, insieme a lui, un documento in
grado di dimostrare l’esistenza della madre, scomparsa nel nulla.
Ma Recife non è un rifugio, bensì un territorio minato, popolato da
militanti, doppi giochi, ex torturatori oggi mercenari e forze
clandestine della resistenza. Braccato da chi lo vuole trasformare
in un “burattino” — come suggerisce la minaccia di perforargli la
bocca — Marcelo si muove tra quartieri, stazioni di polizia, vecchi
cinema e case rifugio, mentre la tensione si fa sempre più
pressante.
Una narrazione a spirale tra
memoria e testimonianza
Mendonça Filho imbastisce una
narrazione labirintica e volutamente discontinua, che alterna
passato e presente, documenti e ricordi, testimonianze e
flashforward: una struttura a spirale, simile a quella di Zodiac di David Fincher, dove il
bisogno di verità si scontra costantemente con il vuoto delle prove
e il rumore del potere. Alcuni decenni dopo, due ricercatrici
universitarie ascoltano le registrazioni dei dialoghi originali:
ciò che vediamo potrebbe essere il frutto delle loro ricerche, o
delle loro ricostruzioni, mai del tutto affidabili.
Come in Retratos Fantasma,
Mendonça torna a riflettere sul ruolo del cinema e della memoria:
le sale d’epoca, le proiezioni dell’epoca, persino Lo squalo di Spielberg diventa parte integrante della
narrazione, tra apparizioni metaforiche (una gamba umana ritrovata
nello stomaco di uno squalo) e inserti da film horror di serie B.
L’atmosfera generale rimanda al miglior cinema politico degli anni
Settanta: paranoia, ambienti notturni, rifugi improvvisati e
sorveglianza costante. Ma non mancano parentesi surreali, momenti
di humour nero e riflessioni emotive sul lutto e la paternità.
Un racconto corale tra luci e
ombre
Wagner Moura regge sulle spalle gran
parte del film, ma il mosaico è popolato da figure secondarie
interessanti: amici, collaboratori, ex guerriglieri, militari
degradati, burocrati corrotti. Non mancano i passaggi violenti,
alcuni molto espliciti, ma ciò che colpisce di più è la dimensione
emotiva e psicologica della persecuzione. “Quante persone stai
aiutando?”, chiede Marcelo a uno dei personaggi. È una domanda che
riecheggia più forte di molte altre, in un film dove le
responsabilità individuali e collettive si fondono e si
confondono.
Il limite principale dell’opera sta
nella sua ampiezza narrativa: O agente secreto cerca di
tenere insieme molti fili — il dramma famigliare, la denuncia
storica, l’indagine sul trauma — ma non sempre ci riesce con
equilibrio. Il risultato è un film pieno di intuizioni forti, ma
anche dispersivo, a tratti ridondante, che accumula significati e
simboli a scapito della coesione.
Nello spiegare a due bambini
incontrati nel loro peregrinare tra i boschi cosa sia
effettivamente il suono, Lionel, protagonista del film di Oliver Hermanus, lo
descrive come qualcosa di invisibile ma che può avere una presenza
fisica: purtroppo The History of Sound, l’ultima
pellicola del regista di Living,
presentata in Concorso a Cannes 78, non riesce però a vivere di
questa sensuale sinestesia di una fisicità emotiva, che dovrebbe
attraversare una storia d’amore, quindi di corpi, con la voce e la
musica, qualcosa di impalpabile e che parla alle sfere più profonde
della nostra psiche.
La storia del suono negli Stati
Uniti di inizio Novecento
Tratto da un racconto breve di Ben
Shattuck (anche autore della sceneggiatura), il film intreccia il
racconto della relazione tra due giovani uomini al grande viaggio
della musica folk americana. Lionel, un ragazzo del Kentucky
cresciuto tra le canzoni popolari che suo padre cantava sul portico
di casa, nel 1917 lascia la fattoria per iscriversi al
Conservatorio di Boston. Qui conosce David, brillante studente di
composizione. Ma la guerra incombe, e David parte per il fronte. I
due si ritrovano qualche anno più tardi, nel 1920, per
intraprendere insieme un viaggio attraverso i boschi e le isole del
Maine, con l’intento di registrare e preservare le canzoni
tradizionali tramandate oralmente, destinate altrimenti a
scomparire.
La narrazione si estende su un arco
temporale che va dal 1917 agli anni ’80, attraversando non solo gli
Stati Uniti – dal New England all’America rurale – ma anche
l’Europa: Oxford, l’Italia, il Lake District inglese. Un itinerario
vasto e ambizioso, quasi da road movie storico, che
tuttavia si rivela privo di vera densità narrativa. Il film si
segue senza difficoltà, anzi con una certa scorrevolezza pensata
per un pubblico ampio. Ma proprio questa facilità è parte del
problema: la leggerezza non diventa mai profondità, il
coinvolgimento emotivo è costantemente tenuto a distanza.
Una love story che non vibra
mai
The History of Sound poggia
su un vagabondaggio tra spazi e periodi temporali diversi sostenuti
da un fastidioso voice-over che deve spiegare tutto quello che
(non) accade in scena. Un meccanismo che cozza con la base formale
del film: la narrazione e la direzione sono piuttosto chiari – è un
film che si segue senza grossi intoppi e particolarmente adatto al
grande pubblico – e che finisce per creare esattamente quello che
vorrebbe scongiurare: distacco nello spettatore.
Così, una storia che dovrebbe fare
dell’emotività la sua forza trainante si stanzia su binari austeri
e fin troppo altisonanti: sembra paradossale da ammettere, ma non
c’è romanticismo né attrazione tra due attori che altrove,
probabilmente, l’avrebbero sprigionata molto meglio (le prove di
Paul Mescal in Estranei e
di Josh O’Connor in La terra di dio e
Challengers parlano da sole).
Due grandi interpreti sprecati per
una narrazione faticosa
“Mi sento sempre come se fossi
alla fine di qualcosa”: Lionel è un personaggio irrisolto e
inquieto, biglietto da visita perfettamente coerente con la
tipologia di personaggi che Mescal è solito interpretare. Il
problema è che manca l’espressione di questo scontro interno che
lui sente, non c’è mai un momento di rilascio e, soprattutto,
l’esplorazione di questo sentimento tramite la musica, come si
potrebbe pensare all’inizio.
Il tutto esplode in un finale
estremamente didascalico e verboso, che priva ulteriormente la
storia del suo potenziale evocativo. Qualcosa di sinceramente
inaspettato, dato che Hermanus sceglie come protagonisti due attori
che avrebbero potuto far capire tutto senza dire niente.
History of Sound rimane, purtroppo, una love story in cui
manca totalmente il linguaggio dei corpi, in cui la ricerca del
suono dovrebbe essere centrale ma non è mai affrontata in relazione
al rapporto tra i personaggi.
Il nuovo film di Mario
Martone, presentato in concorso al Festival di Cannes 2025, è un’opera che
sfugge a ogni definizione rigida. Fuori
prende ispirazione dalla figura e dalla biografia di
Goliarda Sapienza, ma non ne costituisce affatto
ritratto didascalico. Non si tratta di una biografia, né di un
adattamento canonico: è piuttosto un affresco emotivo e
impressionista, costruito sulle immagini, sulle relazioni e sui
silenzi. Un sogno che nasce da un incubo – quello del carcere – ma
che riesce a trasformare le sbarre in aperture, le ferite in
legami, la prigionia in possibilità.
Fuori, insomma, non è un
biopic e non vuole esserlo. Si configura come un ritratto “per
impressioni” che Mario Martone e Valeria Golino tracciano di Goliarda Sapienza
con rara grazia e pudore. Siamo ben lontani dall’agiografia, e
ancor di più dal melodramma carcerario: qui la prigione è lo spazio
mentale in cui queste donne si muovono, sopravvivono, si sostengono
e, soprattutto, immaginano. Sognano fuori, anche se il
dentro non è mai veramente alle spalle.
Le ore del nostro presente sono già
leggenda
La Goliarda Sapienza interpretata da
Golino è una donna che non ha più nulla: senza lavoro, senza un
futuro, reduce da un arresto per furto di gioielli. Eppure, è viva.
Costretta a ricominciare tutto da capo, si rifugia in un microcosmo
femminile fatto di dolore, ironia e desiderio di rinascita. Andando
avanti e indietro nel tempo, scopriamo che nel carcere di Rebibbia
nel 1980 ha stretto un intenso legame con Roberta, giovane detenuta
interpretata da una straripante Matilda De Angelis, che domina la scena con
una carica viscerale. Tra le due si crea una dinamica complessa:
materna, erotica, polemica, ma sempre vera. Roberta la sfida, la
riporta coi piedi per terra, la fa ridere quando non dovrebbe. È in
lei che si riflette quella “arte della gioia” che Goliarda stessa
ha insegnato senza predicarla.
Martone abbandona ogni tono
didascalico per cedere a una poetica visiva che sembra affiorare
direttamente dai sogni delle protagoniste. La luce filtra come in
un ricordo, le inquadrature sfumano nell’onirico, e le risate –
fragorose, liberatorie – diventano gesto rivoluzionario. Perché
queste donne, persino quelle più segnate – come Barbara
(Elodie), che è riuscita ad aprire una profumeria
dopo aver tentato il suicidio in carcere – resistono alla vita
trasformando ogni frattura in un legame.
Il carcere racconta l’anima delle
protagoniste
Golino, che conosce intimamente la
materia di Goliarda Sapienza dopo essersi occupata dell’adattamento
della sua opera magna L’arte della gioia, regala
un’interpretazione costruita dall’interno, come se avesse inglobato
la penna della scrittrice nel proprio corpo. Il suo è un
personaggio che non sa stare al mondo, o forse risiede in
un altro, più fragile e più vero.
La regia di Martone è avvolgente:
non spiega, ma suggerisce. Non denuncia, ma incanta. La prigione
non è mai il centro, è piuttosto il simbolo di una condizione
esistenziale: quelle donne sono “dentro” anche quando sono “fuori”,
perché a mancare è sempre un posto nel mondo. Eppure,
Fuori non è un film triste. È una celebrazione del potere
salvifico delle relazioni, della famiglia che ci si sceglie, della
risata che rompe il silenzio, della parola che cura. Goliarda non
ruba gioielli, ma vite, storie, immagini. È una ladra di realtà,
perché solo chi è capace di ascoltarla può davvero raccontarla.
Non c’è Cannes senza Wes Anderson
(equazione che si potrebbe anche leggere al contrario). Il cineasta
della geometria estetica non ha infatti perso l’opportunità di
presentare il suo La trama fenicia sulla
Croisette, che lo aveva già visto tra le fila del concorso qualche
anno fa con The
French Dispatch (2021) e Asteroid
City (2023).
Un progetto da annali
Protagonista del film è Anatole
“Zsa-zsa” Korda (Benicio
del Toro), un miliardario detestato e continuamente
preso di mira da tentativi di omicidio. Convinto che la sua fine
sia vicina, sceglie di affidare tutto a Liesl (Mia
Threapleton), la figlia maggiore, una giovane che ha
sempre rifiutato il suo stile di vita e che lui preferisce
apertamente ai suoi altri otto figli, considerati “inutili”. La sua
paternità resta però un mistero, dato che tutte le sue ex mogli
sono morte in circostanze sospette.
Il racconto si articola attraverso
gli incontri tra Korda, Liesl e un entomologo norvegese bizzarro e
divertente di nome Bjorn (Michael Cera), con i
partner coinvolti nel cosiddetto “Phoenician Scheme”, un progetto
industriale globale tanto visionario quanto spietato, che promette
il controllo assoluto su ogni settore economico a costo della
schiavitù dei lavoratori. Il trio si confronta così con una
galleria di personaggi pittoreschi interpretati da celebrità in
gustosi camei: tra gli altri, Willem Dafoe, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, Riz Ahmed, Jeffrey Wright, Bill Murray (nel ruolo di Dio) e, nel finale,
un intenso Benedict Cumberbatch nei panni
dell’antagonista più temibile.
Gli irresistibili Mia Threapleton e
Michael Cera (e tutti gli altri…)
Mia Threapleton è
la vera stella de La trama fenicia, una ventata di
aria fresca in un parco attoriale ormai fin troppo noto, che riesce
a esimersi dalla nozione di mero cameo andersoniano per raccontare
effettivamente l’evoluzione di un personaggio. È nella sua
evoluzione da suora pia e compita a spalla del padre, anche
affarista e chiaramente più disinibita, che La trama fenicia
dimostra di avere qualcosa da dire. Per certi versi, potrebbe
addirittura essere definito il film più politico di Wes Anderson: è
proprio la ragazza che, riavvicinandosi al padre dopo essere stata
nominata unica erede del suo patrimonio, lo consiglierà e
indirizzerà, tanto dal punto di vista professionale quanto da
quello personale. Il tutto, ovviamente, inquadrato dalla consueta
angolazione ironico-grottesca tipica della filmografia di
Anderson.
Benicio Del Toro, Michael Cera e Mia
Threapleton in La trama fenicia
Spicca inoltre una “new entry” nel
macrocosmo andersoniano, Michael Cera, che si cala
perfettamente nel ruolo di un eccentrico professore che nasconde in
realtà molte identità diverse. Sembra quasi impossibile pensare che
l’attore di Su×bad non fosse stato assoldato dal regista prima
d’ora, perchè risponde in maniera sconcertante all’idea del
personaggio-burattino che abita le narrazioni di Anderson. Il
resto, è una trafila di volti familiari che fanno man mano la loro
comparsa: ci sono Brian Cranston e Tom Hanks, Scarlett Johansson e Benedict Cumberbatch,
tra gli altri. Ogni attore rappresenta possibili minacce per il
grande progetto di Zsa-zsa, siparietti comici che vanno a
rinvigorire ulteriormente il rapporto tra padre e figlia.
Wes Anderson… a ripetizione
circolare
Lo diciamo subito: anche questa
volta, Wes Anderson fa Wes Anderson. Tradotto in maniera sintetica,
La trama fenicia conquisterà i fan di lunga data del regista e,
molto probabilmente, resterà a debita distanza di sicurezza dai
detrattori o dagli spettatori che non riescono più a distinguere un
guizzo di unicità nelle sue più recenti produzioni. In conferenza
stampa, Anderson ha svelato che lo script originale de La trama
fenicia era molto più oscuro. Ecco, avremmo sicuramente preferito
visionare questa bozza iniziale, perchè i semi di una storia più
radicale e politica ci sono tutti. Purtroppo, ciò che resta è
l’ennesimo esperimento andersoniano autoreferenziale, chiuso nelle
sue intenzioni all’apparenza puramente estetiche e mai realmente
contenutistiche.
Assaggiare la carne cruda per
conoscersi e passare d’età. Convincersi di condividere lo stesso
sangue pur di appartenere. L’enfant prodige della new wave horror
francese Julia Ducournau, già vincitrice di una storica Palma d’oro
nel 2021 con Titane, torna in concorso al Festival di Cannes 2025 con Alpha.
Abbandonando momentaneamente i codici più puri del body horror, la
regista regala al pubblico il terzo capitolo di un’ipotetica
trilogia sulla famiglia. Dopo l’iniziazione “scolastica” in
Raw e il trasformismo vitale di Titane, Alpha ragiona sull’amore come
forma di resistenza assoluta vagliando ogni suo movimento
potenzialmente opposto: la malattia, il disagio, l’isolamento e la
morte.
Alpha: l’inizio della fine
Alpha è una ragazzina di 13 anni nel
pieno dell’adolescenza, che vive da sola con la mamma. Un giorno,
torna a casa dopo una festa con un tatuaggio sul braccio,
probabilmente eseguito con un ago infetto e in condizioni non
esattamente appropriate. La madre, dottoressa che da anni cura i
pazienti affetti da un misterioso virus le cui modalità di
trasmissione sono simili all’AIDS, e trasforma gli umani in statue
marmoree, è visibilmente preoccupata e porta Alpha a eseguire un
test in ospedale. Ma le notizie viaggiano veloci e a scuola si
diffonde presto la voce che la ragazzina abbia contratto qualcosa
di inenarrabile.
Da queste premesse
post-apocalittiche – in realtà il film è ambientato a cavallo degli
anni ‘80 e’90 – parte un racconto dalle sfumature bibliche, in cui
il non si tingono gli stipiti delle porte con il sangue dell’
agnello ma ci si marchia a vita per cercare di resistere. La
trasmissione non è altro che unione, (com)patire il dolore
dell’altro, accompagnarlo in un abbraccio fitto di lacrime. Ma è
anche, e soprattutto, la storia di un fratello e una sorella, in
cui una parte vira verso la morte e l’altra non vuole lasciarlo
sprofondare nell’abisso a qualunque costo. Golshifteh Farahani e
Tahar Rahim restituiscono un ritratto straziante della forza
totalizzante dell’amore. “Troppo amore a volte fa impazzire le
persone”, confesserà Amir ad Alpha. In effetti, il concetto di
intenso legame emotivo qui schizza da tutte le parti: passa per il
lasciare andare, tracciare un confine nei rapporti simbiotici, e al
contempo ridare dignità a chiunque sia stato abbandonato e
rinchiuso negli armadi della memoria che non perdona.
Golshifteh Farahani e Mélissa Boros in Alpha
Un sogno dentro al sogno
Alpha non racconta l’evolversi
rovinoso di una epidemia nel modo in cui ci aspetteremmo, quanto un
tentativo di fare “ammalare” il pubblico tramite il più grande
strumento dell’essere umano: l’empatia. Come se una ragazzina di 13
anni stesse facendo la vita di un junkie, cercasse di assumere su
di sè il dolore degli altri. Condividere l’incubo che diventa un
sogno, muoversi all’unisono, coreografare la sofferenza.
Come Ducournau con Raw aveva scoperto la prorompente Garance Marillier,
qui Mélissa Boros è una vera forza della natura, che riesce a
incarnare a 360 gradi l’essere adolescenti, dalla ribellione nei
confronti dell’istituzione famigliare alle paure che possiamo
affrontare solo se presi per mano dalle nostre mamme. C’è una
sovrapposizione continua di ruoli e traumi, quasi a voler suggerire
un’idea di famiglia fluida, in cui non importano le etichette ma
quello che si fa per gli altri, i tentativi di comprendersi senza
mai abbandonare l’altro.
Il deserto rosso non dimentica
In Alpha, di Julia
Ducournau c’è tutto e niente. Citando le sue stesse parole in
un’intervista concessa a Vanity Fair, è come se con questo nuovo
film dovesse reintrodursi al mondo del cinema come regista. C’è
sicuramente il lavoro sul corpo, ma qui prende le distanze dal
genere, osa entrare nel territorio delle emozioni da tutt’altra
prospettiva: quella più umana, perfettibile, piena di
contraddizioni e ambiguità. E così è il film: non un altro maestoso
horror che avrebbe potuto confezionare partendo dal concept
dell’epidemia. Qualcosa di nuovo, un’opera lirica mortifera, un
coming-of-age a tre punte, le piaghe d’Egitto della
contemporaneità.
Il Taormina Film
Festival annuncia che Michael Douglas, leggendaria figura del cinema
mondiale, sarà l’ospite d’apertura della 71°
edizione. L’attore e produttore, vincitore di due Premi
Oscar e tra i più grandi protagonisti della scena hollywoodiana,
riceverà il prestigioso Taormina Excellence Achievement
Award nella suggestiva cornice del Teatro Antico di
Taormina, la sera del 10 giugno.
L’evento rappresenta un’occasione
straordinaria per celebrare l’inimitabile carriera di Douglas, che
da oltre cinquant’anni incarna con carisma, talento e impegno la
grande tradizione cinematografica americana. Per l’occasione, sarà
proiettato il capolavoro Qualcuno volò sul nido
del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s
Nest), prodotto da Douglas
nel 1975 e vincitore di cinque Premi
Oscar, in occasione del cinquantesimo
anniversario della sua uscita.
Tiziana Rocca,
Direttrice Artistica del Festival, ha dichiarato: “È con grande
emozione e orgoglio che annunciamo la presenza
di Michael Douglas come ospite d’onore
della serata di apertura del Taormina Film Festival. Icona del
cinema mondiale, attore e produttore straordinario, Michael Douglas
ha segnato intere generazioni con interpretazioni indimenticabili e
un impegno costante nella valorizzazione dell’arte cinematografica.
Ma la mia stima nei suoi confronti è anche di carattere personale,
ricordo ancora benissimo e con emozione la serata organizzata a
Roma in onore del padre Kirk.
Nel suggestivo scenario del Teatro
Antico di Taormina, renderemo omaggio alla sua straordinaria
carriera con la consegna del Taormina Excellence
Achievement Award, un riconoscimento che celebra non solo il
suo talento, ma anche il suo contributo duraturo alla cultura
cinematografica internazionale.
La sua presenza rappresenta per noi
un grande onore e un segno dell’importanza che il nostro Festival
riveste nel panorama mondiale. Sarà un momento di grande emozione,
un’apertura memorabile che darà il via a un’edizione ricca di
cinema, incontri e passioni condivise.”
Anche Sergio
Bonomo, Commissario straordinario della Fondazione Taormina Arte Sicilia, accoglie con
entusiasmo l’ufficialità della prestigiosa partecipazione di
Michael Douglas, icona del firmamento cinematografico
internazionale: “La 71^ edizione del Taormina Film Festival
certamente tornerà a brillare di luce propria non solo per il
ritorno del concorso cinematografico, ma anche per la
partecipazione di numerose star, coinvolte grazie all’intenso
lavoro della Direttrice Artistica Tiziana Rocca. E certamente le
sorprese non sono terminate…”
Oltre alla cerimonia e alla
proiezione, Michael Douglas sarà protagonista di un
incontro speciale con gli studenti, un momento unico di
confronto e ispirazione per le nuove generazioni, durante il quale
condividerà esperienze, riflessioni e aneddoti legati alla sua
straordinaria carriera e alla storia del cinema.
Il Taormina Film Festival rinnova
così la sua vocazione a essere ponte tra il grande cinema e il
pubblico, offrendo ogni anno appuntamenti di eccezionale valore
culturale e artistico. La presenza di Michael Douglas, figura
emblematica del cinema contemporaneo, conferma l’importanza
internazionale della manifestazione e la sua capacità di attrarre i
grandi protagonisti della settima arte.
Il Taormina Film Festival è
un’iniziativa organizzata dalla Fondazione Taormina
Arte Sicilia,direttamente promossa
dall’Assessorato del Turismo, dello Sport e dello
Spettacolo della Regione
Siciliana, con il sostegno del MiC, Ministero
della Cultura – Direzione Generale Cinema e
audiovisivo.
Dopo il passaggio nella sezione
parallela Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022 con Plan 75, la
regista giapponese Chie Hayakawa porta ora
in concorso sulla Croisette Renoir, coming-of-age
ambientato nella periferia della Tokyo anni ‘80, in cui una
ragazzina si trova a dover fare i conti con l’idea che il padre,
malato terminale, sta per lasciare per sempre lei e la madre.
Il lutto attraverso gli occhi di
una ragazzina
Il padre di Fuki, Keiji, è
gravemente malato e passa continuamente dall’ospedale alla casa. La
madre, Utako, è sopraffatta: deve occuparsi di lui mentre porta
avanti un lavoro a tempo pieno. Intanto Fuki, che ha undici anni,
si rifugia nella propria fantasia. Affascinata dalla telepatia,
inizia a immergersi sempre di più in un mondo immaginario tutto
suo…
Fuki (Yui Suzuki) fa sogni strani e
ha un’immaginazione unica. Nella sequenza iniziale del film la
sentiamo descrivere la sua morte come se fosse già avvenuta, solo
per scoprire più tardi che sta leggendo le righe di un tema
scolastico. Fin da subito, è chiaro che la protagonista di Renoir
ragiona spesso sulla morte perché avverte di avercela già in casa –
dirà addirittura che vorrebbe essere orfana – eppure si tratta
sempre di elaborazioni mentali “lontane”, che non prendono mai di
petto quello che sta effettivamente succedendo nella sua famiglia,
ma lo aggirano esattamente come farebbe una ragazzina sola, a cui
non è stato spiegato nulla e che deve costruire un significato su
misura alla morte.
Ritratto impressionista
Renoir pittore ha ritratto la
giovane Irene Cahen d’Anvers “in un momento di grazia e
spontaneità”, mentre Chie Hayakawa tenta di inquadrare lo sguardo
sul lutto, il territorio insidioso e anche inesplorato della bolla
in cui ci la giovane protagonista si rifugia per non affrontare la
realtà. Fuki non sa bene quale dovrebbe essere la sua reazione di
fronte a una perdita così grave, vede solo quelle degli adulti.
Immersa nella noia e nella solitudine di un’estate di passaggio, la
ragazzina prova ad approcciare svariate vie d’uscita: lo studio
della telepatia, un’amicizia speciale, e anche svaghi decisamente
inappropriati per la sua età, come l’intrattenimento telefonico per
adulti.
Yui Suzuki in Renoir
Purtroppo, pur contando su una
protagonista semplicemente deliziosa, a Renoir manca quella
grandezza del cinema giapponese nel costruire narrazioni potenti
contando su un senso di grande misuratezza. Ci sono echi di
qualcosa di oscuro (in tutto il film ricorre ad esempio l’idea del
pedofilo), ma si tratta di qualcosa di abbozzato per mettere in
risalto la mentalità matura di Fuki rispetto alle “cose da grandi”.
Tuttavia, è proprio in quelle pieghe che si nasconde un grande
film, un macrocosmo a cui purtroppo non abbiamo totale accesso e
che rimane tra i tanti aspetti che suggeriscono un’ipotetica
eccezionalità di Fuki nel reagire e confrontarsi con il mondo.
La scoperta Yui Suzuki
Yui Suzuki è la vera forza di
Renoir: unisce con una trasparenza disarmante il senso di
responsabilità che attraversa Fuki, assieme a quell’ingenuità che
vorrebbe conservare ancora per un po’. Nonostante i limiti del
film, è una protagonista che non dimenticheremo facilmente, che ha
“abbassato” la linea di frontiera tra la vita e la morte,
restituendoci lo sguardo infantile su uno dei temi cardine del
concorso di Cannes 78: l’andarsene per sempre, la resistenza di chi
resta.
Esattamente come nel 2022
Richard Linklater portava alla Mostra del Cinema
di Venezia il suo Hit Man,
una ventata di aria fresca in un anno segnato dalla quasi totale
assenza delle celebrità a causa degli scioperi, il cineasta di
Austin arriva al Festival di Cannes 2025 con
Nouvelle Vague, un omaggio a Jean-Luc
Godard e alla rivoluzione cinematografica partita dai
Cahiers du Cinema nel 1959.
Tutti vogliono… Godard!
C’è un momento, tra le citazioni
brillanti e i sogni cinematografici di Nouvelle Vague, in
cui Jean-Luc Godard – o meglio il suo alter ego
interpretato dal sorprendente Guillaume Marbeck –
pronuncia una frase apparentemente semplice: «Ogni giorno
voglio cercare quello che devo filmare, non prepararlo». È
forse questo l’approccio con cui anche Richard Linklater ha
costruito il suo omaggio più sentito e cinefilo, un film che non
ambisce a riscrivere la storia, ma a condividerne l’energia. A
viverla, più che a raccontarla.
Dopo Tutti
vogliono qualcosa, dove l’idea di gruppo era già centrale,
Linklater torna a esplorare una comunità di giovani uomini e donne
uniti da un amore comune: non più il baseball, ma il cinema.
Nouvelle Vague è prima di tutto un film sull’essere
insieme. Sulla complicità intellettuale, sull’energia collettiva di
chi si riconosce in un’idea e in un’utopia. È il racconto di come
si diventa autori prima ancora di esserlo, grazie a una rivista (i
Cahiers du cinéma), a una cinepresa rubata, a una teoria
che prende fuoco appena diventa azione.
La Nouvelle Vague sembra rivivere:
un cast incredibile
Zoe Deutch – già
nel cast di Tutti
vogliono qualcosa – qui ha finalmente la sua occasione per
brillare davvero: nel ruolo di Jean Seberg sembra uscita
direttamente da una pellicola degli anni Sessanta. Ha la grazia, la
presenza, ma anche quella nota straniante che Linklater sfrutta
benissimo nel contrasto con lo stile ruvido e imprevedibile del
giovane Godard. Ma è il cast francese a sorprendere di più: ogni
attore che interpreta un membro dei Cahiers – da Truffaut
a Rivette – dona al personaggio un’umanità inattesa, affettuosa e
ironica. Il Godard di Marbeck, in particolare, è irresistibile:
presuntuoso, vulnerabile, affamato di cinema e incapace di
nasconderlo. Sembra un Danny Zuko cinefilo, con la sigaretta sempre
accesa e un’idea radicale ogni cinque minuti.
Il film racconta le settimane che
precedono e accompagnano il set di Fino all’ultimo
respiro, ma più che una cronaca filologica è una fuga libera
tra la ricostruzione e l’invenzione. Si citano i dettami estetici
(«una ragazza e una pistola»), le insicurezze di Godard rispetto
agli amici già affermati («è troppo tardi»), e quella strana idea
che più take fai, più il film perde vita. Le regole non
valgono, se non per infrangerle. La realtà non è continuità. Il
cinema è un affare morale, dice Godard. Ma anche
romantico, risponde Linklater.
Zoey Deutch in Nouvelle Vague
Il fare cinema come esperienza
collettiva
In effetti, tutto in Nouvelle
Vague è attraversato da un’ironia dolceamara che rende il film
una vera delizia. Non ha l’urgenza del presente né una visione sul
futuro – e probabilmente non vincerà premi – ma possiede quella
grazia sottile che appartiene solo alle opere fatte per il piacere
della condivisione. Come spesso accade nei film di Linklater, il
tempo diventa un alleato: Nouvelle Vague trova la sua
misura perfetta nel minutaggio contenuto, senza un secondo
sprecato, capace di restituire lo spirito di un’epoca in cui venti
giorni sembravano una vita intera.
«L’arte non può finire, può solo
essere abbandonata» dirà a un certo punto Gordard. E forse
Nouvelle Vague è proprio questo: una lettera d’amore
lasciata aperta, un tributo non definitivo ma necessario, scritto
da un regista che ha sempre saputo come restituire il battito
vitale delle relazioni umane, che fossero d’amore, d’amicizia o –
come in questo caso – di cinefilia.
Bandiere bianco-azzurre
sventolano tra i vicoli come se il vento stesso sapesse per chi
tifare. Le bancarelle traboccano di sciarpe, bombette e gadget in
ogni sfumatura di azzurro, mentre festoni con dediche d’amore alla
città fanno da cornice a un popolo in festa. Le strade pullulano di
volti accesi dall’emozione, stretti in magliette che non sono solo
simboli sportivi, ma veri e propri atti di fede. Sui muri resistono
ancora le locandine dello scorso venerdì: annunciavano le
proiezioni improvvisate nei pub, nei chioschi, nei cortili, spazi
trasformati in curve estemporanee dove si piange, si urla, si ride
e ci si abbraccia con perfetti sconosciuti. Ma a Napoli, in quei
momenti, sconosciuti non esistono.
Perché il Napoli
ha vinto. Di nuovo. Per la quarta volta è campione
d’Italia, e la città esplode in un’esultanza pura, infantile,
commovente. Qui non si sceglie per chi tifare: a Napoli, il Napoli
è un’appartenenza genetica, una verità che si eredita. È in questo
clima, saturo di gioia e identità, che arriva Bostik – La Bodega
de D1OS, il nuovo documentario di Mauro Russo Rouge. Un
film che sembra sbocciare nel momento più giusto, raccogliendo
l’energia di un popolo e restituendola sullo schermo come racconto
collettivo e personale insieme.
Prodotto da Systemout e
scritto dallo stesso regista insieme ad Alessio Brusco, Bostik –
La Bodega de D1OS arriva nelle sale italiane poco dopo la
conclusione del campionato di calcio 2024-2025, che ha visto il
Napoli vincitore del quarto scudetto. Distribuito da Piano B
Distribuzioni, il film – un omaggio a Maradona e all’inattesa
storia di Antonio Esposito, conosciuto come “Bostik” – sarà
proiettato nelle sale come evento speciale il 26, 27 e 28
maggio.
BOSTIK – LA BODEGA DE
D10S: la storia di un pellegrinaggio calcistico
Dopo il secondo scudetto
conquistato dal Napoli negli anni ’90, un gruppo di tifosi
partenopei, con il sostegno di Antonio Esposito – noto a tutti nei
Quartieri Spagnoli come “Bostik” – commissionò a Mario Filardi,
giovane artista locale, un murale dedicato al leggendario campione
argentino, il Pibe de Oro. È così che, grazie a Bostik, figura
ormai considerata una vera e propria istituzione popolare, nasce
quello che oggi è conosciuto come la “vera tomba di Maradona”: un
luogo mistico, divenuto meta di pellegrinaggio calcistico per
tifosi provenienti da ogni parte del mondo.
Magliette, foto,
statuette: negli anni, quel piccolo angolo nascosto di Napoli si è
trasformato in un altarino commemorativo, una delle principali
attrazioni turistiche della città. Ed è proprio questo che tenta di
raccontare il film scritto da Alessio Brusco: come un luogo un
tempo segnato dal degrado e dallo spaccio sia diventato, quasi per
miracolo, un simbolo di rinascita e un punto di riferimento
internazionale per gli amanti del calcio e del mito
maradoniano.
Nel nome di Diego: il
calcio vissuto come fede
Sguardi commossi, gesti
carichi di significato, colori vividi e voci tremanti per
l’emozione. Fin dalle prime inquadrature, Bostik – La Bodega de
D10S trascina lo spettatore in un viaggio profondamente
immersivo tra le strade palpitanti di Napoli, intrise di storia,
malinconia, vitalità e desiderio di riscatto. Quella raccontata da
Mauro Russo Rouge e Antonio Esposito è, prima di tutto, una storia
di rinascita: una narrazione che mostra come il calcio possa essere
molto più di uno sport, un linguaggio universale, uno strumento
d’identità, un collante sociale capace di unire mondi lontani. In
particolare, il film mette in luce il legame viscerale tra Napoli e
l’Argentina, due popoli separati da un oceano ma uniti da un’unica,
inconfondibile fede: Diego Armando Maradona.
La figura del Pibe de
Oro viene raccontata non solo come mito sportivo, ma come icona
spirituale, quasi divina, al centro di una nuova religione laica.
Una fede che si esprime attraverso riti collettivi, cori,
pellegrinaggi e altari votivi. Non si tratta solo di celebrare il
campione, ma di mostrare come la sua eredità abbia trasformato
luoghi e coscienze, restituendo dignità a un quartiere e speranza a
un’intera comunità.
Un film imperfetto ma
onesto
Con poche scene
essenziali, talvolta reiterate, ma dense di significato, Bostik
– La Bodega de D10S ci guida con fermezza e solennità tra i
vicoli palpitanti di Napoli, immergendoci nei ricordi e nelle
celebrazioni dedicate a Maradona. Ma il documentario firmato da
Mauro Russo Rouge va oltre il mito del campione: è un omaggio
profondo, quasi carnale, al popolo napoletano. Non ambisce a essere
un ritratto esaustivo della città, né pretende di abbracciarne
tutte le contraddizioni. Piuttosto, costruisce un affresco emotivo
e viscerale di come il calcio venga vissuto a Napoli: non come
semplice sport, ma come linguaggio collettivo, come tradizione
familiare, come collante sociale. In questo racconto, Maradona non
è solo un idolo: è il simbolo vivente di un riscatto morale, il
volto di una comunità che troppo a lungo si è sentita ai margini e
che, nel genio argentino prima e nella squadra azzurra poi, ha
trovato una forma di legittimazione e orgoglio.
Il film non è privo di
sbavature stilistiche: l’insistenza su immagini di opulenza e feste
notturne finisce talvolta per appesantire il tono e allontanare il
racconto dalla sua autenticità. Eppure, Bostik mantiene
intatta una sua “grazia popolare” narrativa. Racconta con dignità e
una punta di ironia una storia di identità e di riscatto, una
vicenda collettiva in cui il calcio diventa bandiera, ideologia,
modo di stare al mondo. Bostik – La Bodega de D10S non è un
documentario perfetto. Ma è un’opera onesta. Ed è in questa sua
onestà che, forse, risiede il suo valore più profondo.
Lars Von Trier
torna al cinema: Movies Inspired riporta nelle
sale tre film del grande regista danese. Tre uscite evento,
ciascuna di tre giorni, ciascuna in edizione interamente restaurata
in 4K, di tre dei titoli più amati del grande regista danese.
Da oggi è disponibile il nuovo
trailer, realizzato appositamente per il ritorno in sala di
DOGVILLE. Un evento di tre giorni, solo il
2,3, 4 giugno 2025. Lo scorso anno Movies
Inspired, che detiene i diritti per l’intera library del
cinema di Von Trier in Italia, aveva già distribuito i primi tre
film del cineasta co-fondatore del Dogma 95: L’elemento del
crimine, Epidemic ed Europa. Quest’anno
sarà la volta di tre titoli fra i più amati dell’intera opera di
Von Trier.
Dogville (2-3-4
giugno), Dancer in the Dark (9-10-11 giugno) e
Le onde del destino(23-24-25 giugno), tutti
restaurati in 4k. I film saranno distribuiti in Italia da
Movies Inspired.
Chiara Guida, Diego Polieri,
Gigi Cavenago e Mauro Uzzeo all'ARF! Festival.
Tra i tanti incontri proposti
dall’undicesima edizione dell’ARF! Festival al suo
pubblico, quello con il fumettista e illustratore Gigi
Cavenago era indubbiamente uno dei più attesi dai fan
dei fumetti ma non solo. Cavenago, formatosi da prima alla Scuola
del Fumetto di Milano e successivamente nella scuderia di Sergio
Bonelli Editore, è oggi un nome estremamente apprezzato e popolare
anche all’estero, potendo infatti vantare importanti collaborazioni
a progetti cinematografici e seriali di grande rilievo. Un titolo
su tutti: Spider-Man:
Across the Spider-Verse.
Il lavoro con Mark Millar e l’esordio negli Stati Uniti
“Il passaggio in america è
avvenuto a partire da un messaggio su Facebook di Mark Millar
(fumettista britannico autore di
Kick-Ass e Kingsman),
che proponeva di lavorare a qualcosa insieme. Inizialmente pensavo
fosse uno scherzo, però poi ho capito che era realmente lui e non
mi sono lasciato sfuggire l’occasione“. “Lavorare con
Millar è come non lavorare con Millar. – continua Cavenago –
Lui ti manda la sua sceneggiatura e poi sparisce fidandosi
completamente di te. Però ti scrive comunque note come “adesso qui
devi fare la vignetta più spettacolare della tua vita”, il che ti
mette non poca pressione“.
“Così ho lavorato seguendo
queste istruzioni e alla fine è andata bene, perché quando gli ho
inviato le mie tavole mi ha risposto semplicemente con l’emoji
dello chef che dà il suo bacio d’approvazione. Millar
effettivamente non si spende in grandi elogi, però condivide il tuo
lavoro con tutta la sua mailing list, il che è il suo modo di dirti
che hai fatto un ottimo lavoro. Lui in pratica ha trovato
una dimensione in cui fa quel che fa perché gli piace, senza
preoccuparsi di come andranno le cose, affidando ai disegnatori di
cui ha stima quello che lui ha immaginato“.
L’episodio Così Zeke ha scoperto la religione di Love Death +
Robots – Stagione 4.
Animare Love Dead + Robots
Il lavoro più recente di Cavenago è
invece quello di Art Director per l’episodio Così Zeke ha
scoperto la religione, della stagione di 4
di Love Dead + Robots. Parlando di questo suo
lavoro, Cavenago ha parlato dell’ottima ricezione che sta
ricevendo, affermando: “L’episodio spicca per lo stile, ma
anche perché chiude meglio rispetto ad altri. Ma siamo sorpresi che
stia piacendo tanto, perché eravamo molto spaventava dal fatto che
la storia è un flusso continuo. Io, ad esempio, ero preoccupato che
fosse ripetitiva e prevedibile, ma fortunatamente siamo riusciti ad
offrire una buona diversificazione all’interno
dell’episodio”.
“Quando mi hanno chiamato come
art director pensavo fosse per un episodio semplice, invece poi si
è rivelato complicatissimo, con moltissimi dettagli da realizzare.
– ha spiegato Gigi Cavenago raccontando della sua esperienza –
Sostanzialmente mi hanno chiesto di fare una cosa che sembrasse
interamente mia, ma delegandola ad altri. Per riuscirci, il mio
segreto è stato mettere becco su tutto quello che potevo. Non per
manie di grandezza, ma perché mi rendevo conto che gli illustratori
con cui ho lavorato a questo progetto venivano da esperienze
diverse e si trovavano a dover imparare uno stile che non
conoscono“.
“Il mio stile non è pensato per
rendere le cose facili agli animatori, quindi per venirci incontro
ho realizzato delle immagini capendo quali potessero esserei i
limiti tecnici dell’animarle, a quel punto ho adattato il mio stile
a quello che si poteva fare e così l’episodio si è evoluto
raggiungendo la forma che ha oggi sullo schermo. Ma
abbiamo dovuto ragionare moltissimo su tantissimi elementi,
dall’interno dell’aereo ai costumi, dai volti dei personaggi al
design della creatura. È stato un lavoro estremamente
impegnativo”.
Un’immagine di Spider-Man: Across the Spider-Verse.
L’esperienza su Spider-Man: Across the
Spider-Verse
I moderatori dell’evento –
MauroUzzeo, tra i fondatori
dell’ARF e responsabile dell’area talk, e Chiara
Guida, direttrice di Cinefilos.it – hanno poi introdotto
il grande argomento di questo talk, ovvero il lavoro di Gigi
Cavenago su Spider-Man: Across the Spider-Verse. “Qualche
settimana dopo aver visto il primo trailer, – racconta
Cavenago – mi arriva un’email con un’offerta di lavoro, ma
inizialmente non avevo capito fosse per quel film, pensavo fosse
per un’altra produzione minore. Anche perché pensavo avessero ormai
completato il lavoro su quel film. Invece gli servivano dei piccoli
pezzi di animazione, si tratta veramente di una quindicina di
secondi, ma hanno richiesto tra i due e i quattro mesi per essere
realizzati”.
A questo punto al talk si aggiunge
anche un ospite a sorpresa, ovvero Diego Polieri,
regista proprio di quella porzione animata del film a cui ha
lavorato Cavenago. I due insieme hanno così mostrato alcuni
bozzetti preparativi di quella sequenza, ovvero il momento in cui
l’antagonista La Macchia (Spot in lingua originale) compare
improvvisamente in una fumettistica versione anni cinquanta di New
York, dove viene preso a borsettate da una donna del posto.
Immagini, video e sketch di ogni tipo vengono così mostrati agli
spettatori, dando un’idea di quanto lavoro ci sia dietro pochi
secondi di animazione.
“Quello è stato il mio primo
lavoro con l’animazione e quando mi hanno mandato i miei disegni
che prendevano vita sono rimasto a guardarli incantato per
ore”, ha raccontato Cavenago. “Doveva essere una
sequenza semplice ma dettagliata, per cui abbiamo condotto ricerche
su tutto, dall’aspetto dei palazzi fino agli abiti di
quell’epoca”. Cavenago è ora al lavoro anche su Spider-Man: Beyond the Spider-Verse, l’atteso terzo
capitolo previsto al cinema per il 4 giugno 2027.
“Sul terzo non posso anticipare nulla. Sto lavorando come
visual development. Mi sta piacendo moltissimo, mi chiedono disegni
ma anche idee e quello che devo fare non deve essere definitivo ma
si basa tutto su proposte”.
Chiara Guida, Licia Troisi,
Andrea Arru, Samuele Carrino, Alessandro Celli e Mauro Uzzeo
durante il talk "Parlare ai ragazzi coi ragazzi" dell'ARF!
Festival.
La seconda giornata
dell’ARF! Festival ha ospitato uno dei momenti più
attesi di questa undicesima edizione, ovvero il talk
Parlare ai ragazzi coi ragazzi, con ospiti
d’eccezione quali i due giovani attori Andrea
Arru e Samuele
Carrino(protagonisti insieme di Il ragazzo
dai pantaloni rosa e noto il primo per la serie Di4ri e il secondo prossimamente protagonista per
la serie Riv4li), ma anche il regista di queste due
serie, Alessandro Celli, e infine la celebre
scrittrice Licia Troisi, autrice di serie fantasy
ambientate nel Mondo Emerso e di altre opere quali La
ragazza drago, I regni di Nashira, Pandora e La saga del
Dominio.
Un dialogo quello con loro –
moderato da MauroUzzeo, tra i
fondatori dell’ARF e responsabile dell’area talk, e dalla
giornalista Chiara Guida – incentrato sulle
attuali pratiche che il cinema, la serialità e l’editoria (ma non
solo) attuano per parlare ai più giovani, ma anche sulle modalità
con cui è più giusto approcciarsi a questa delicata età. Trovandoci
all’ARF! Festival, però, la domanda rompighiaccio
non può che riguardare i propri interessi nell’ambito del fumetto,
quesito a cui Arru risponde rivelando: “Da bambino volevo fare
il fumettista. Con un mio compagno di classe avevamo anche
realizzato un piccolo fumetto. Poi crescendo gli interessi sono
cambiati, ma conservo ancora quei disegni”.
Diverse sono le risposte degli altri
partecipanti, con Carrino che rivela di non essere più un assiduo
lettore di fumetti ma di aver avuto un certo interesse per manga
come One Piece e My Hero Academia,
mentre Celli replica con un nome proprio di una generazione
diversa, quello di Frank Miller (iconico
fumettista noto per Sin City e Batman: Anno
Uno), mentre Troisi rivela di essere cresciuta con
Topolino, ma anche Sailor Moon e I
Cavalieri dello Zodiaco e di dovere proprio ai manga il suo
aver appreso come si compone e scrive una storia.
È proprio la scrittrice a suggerire
allora la prima chiave per poter pensare di rivolgersi ad un
pubblico di giovani con la propria arte, affermando: “Ancora
oggi mi considero una scrittrice per ragazzi e continuo
ostinatamente a volermi rivolgere a loro con le mie storie. Nel
tempo ho imparato che se vuoi avere la loro attenzione non devi mai
parlargli dall’alto. Non devi sentirti superiore solo perché hai
un’età maggiore. Bisogna invece aver presente che stai parlando con
persone al tuo stesso livello,a cui probabilmente non
devi insegnare nulla se non fornirgli delle chiavi di lettura del
mondo”.
Della stessa opinione è Celli, il
quale afferma di essere sempre stato interessato ai racconti di
“qualcuno che cerca o è in procinto di diventare qualcosa di
diverso da ciò che è stato”. Per riuscire a far sì che questa
tipologia di racconti raggiunga il pubblico al quale vuole
rivolgersi, occorre dunque affidarsi all’ascolto. “È solo con
l’ascolto che riesco a rimanere io stesso bambino, giovane,
trovando il giusto equilibrio nei toni. Perché se fai troppo
l’infantile non funziona, se come diceva Licia ti poni al di sopra
peggio ancora. Ci vuole ascolto ed
equilibrio”.
Andrea Arru, Samuele Carrino e il rapporto con i fan
Arru e Carrino portano invece sul
palco del talk dell’ARF Festival la loro esperienza di giovani
attori chiamati ad interpretare personaggi di questa età e del
rapporto con i loro coetanei. Il primo dei due ha portato proprio
l’esempio del suo ruolo da bullo in Il ragazzo dai pantaloni
rosa, raccontando di aver “dovuto cercare di capire il mio
personaggio fino in fondo, tendando di far emergere il suo passato.
Quello che di brutto compiono ragazzi come lui è solo uno specchio
di quello che vivono in prima persona. La sfida è quindi stata
quella di cercare di renderlo umano”.
“In Il ragazzo dai pantaloni
rosa i nostri personaggi sono entrambi fragili. – racconta poi
Carrino – La responsabilità di interpretare due ragazzi
realmente esistenti è stata tanta. Con il film siamo però riusciti
a parlare ai ragazzi della nostra età, che non è facile ma quando
hai la dimostrazione di esserci riuscito, allora senti davvero di
aver fatto qualcosa di giusto”. “Per quanto riguarda il rapporto
con i nostri coetanei, – continua Carrino – io cerco di
essere sempre me stesso, con chi mi segue ho instaurato un rapporto
molto umile, famigliare. Penso che anche in questo bisogna dare il
buon esempio, portare avanti le cose belle.”
“Dai social cerchiamo di far
trasparire noi stessi, – concorda Arru – ma per me c’è
anche una certa difficoltà di mettermi a nudo. Cerco di tenere
privati gli aspetti della mia vita fuori dal set. Specialmente
perché quando prendi parte ad una serie Netflix, vista in tutto il
mondo, la popolarità ti investe senza freni. Ho quindi sviluppato
una certa difficoltà a capire se la persona che sono piace per come
è o se i personaggi che interpreto fanno avere di me una certa
idea, che non corrisponde però alla realtà. Insomma,
quando incontro persone dal vivo è più semplice. Ogni
nostro gesto sui social deve invece essere ben
ponderato”.
Samuele Carrino in Il ragazzo dai pantaloni rosa
L’editoria per ragazzi
Questo incontro dell’ARF!
Festival si è concluso poi con una riflessione di
Licia Troisi sul ruolo dell’editoria per
ragazzi. La scrittrice, innanzitutto, sostiene di credere
“nell’uguaglianza dei mezzi creativi, che siano libri o
videogiochi. In ognuno di essi puoi mettere dei segnali con cui
lasciare qualcosa al pubblico. Io non credo a chi dice che se non
leggi stai sprecando il tuo tempo. Certamente ti perdi qualcosa, ma
lo perdi anche se non giochi ai videogiochi, se non guardi film e
via dicendo”. “Non è vero poi che i giovani non leggono. I lettori
oggi sono soprattutto giovani, ma il mondo editoriale è
mutato”, continua Troisi.
“20 anni fa il fantasy era un
genere di nicchia scritto da pochi, per cui ci si poteva permettere
maggiori rischi. Intorno al 2008, l’anno della crisi, l’editoria
classica è però diventata ovviamente molto più prudente, spesso
anche troppo. Certo, rimane un mondo in espansione e continua a
ricoprire un ruolo importante nella formazione di nuovi autori. Ma
oggi c’è evidentemente una minore propensione all’assumersi il
rischio di proporre qualcosa di diverso e questo non rende un buon
servizio né agli autori né ai lettori. Anche per questo negli anni
l’autopubblicazione è diventata una pratica così
diffusa”.
L'attore britannico Henry
Cavill arriva alla prima mondiale di 'Enola Holmes 2' di Netflix
tenutasi al Paris Theater il 27 ottobre 2022 a Manhattan, New York,
New York, Stati Uniti. - Foto di imagepressagency via
Depositphotos
L’adattamento live-action di
Voltron con Henry Cavill, Sterling K. Brown e Rita
Ora ha appena annunciato un aggiornamento sulle riprese
che fa ben sperare per una rapida uscita del film, che secondo
quanto riferito sarà disponibile in esclusiva in streaming su
Prime Video. Voltron ha avuto
origine dall’amata serie animata degli anni ’80 con lo stesso nome,
che ha visto diversi sequel e spin-off nei decenni successivi. Più
recentemente, Netflix e DreamWorks hanno prodotto Voltron:
Legendary Defender, che comprende otto stagioni uscite tra il
2016 e il 2018.
La premessa di base di
Voltron è quella di un robot gigante composto da diverse
armature combinate, pilotato da una squadra che parte per
combattere un esercito alieno in avanzata. In linea con la tendenza
di altri remake live-action e imminenti adattamenti live-action di
anime, il film live-action di Voltron sta andando avanti.
Sebbene l’idea fosse in fase di sviluppo da decenni, la versione
attuale del progetto è stata annunciata nel 2022. Il tempo
trascorso da allora può sembrare scoraggiante, ma un messaggio
del produttore Bob Koplar ha recentemente confermato che il
film Voltron ha terminato le riprese, tramite
l’account Instagram ufficiale di Voltron
Instagram.
Il film live-action Voltron,
diretto da Rawson Marshall Thurber, potrebbe aver preoccupato
alcune persone, dato che progetti simili sono semplicemente andati
persi con il passare del tempo e non sono stati completati.
Tuttavia, dopo l’aggiornamento rassicurante che Voltron
aveva iniziato le riprese, i fan ora sanno che le cose sono
sostanzialmente definite, dato che il film è entrato in fase di
post-produzione. Inoltre, Voltron non ha ancora una data
di uscita ufficiale, ma possiamo ora fare delle ipotesi
basandoci sui tempi tipici della post-produzione.
Il film Voltron uscirà
probabilmente tra la metà e la fine del 2026 e potrebbe essere
distribuito in date che non lo mettano in diretta concorrenza con i
più grandi blockbuster in uscita nel 2026, che hanno già
consolidato il loro posto nel calendario. Inoltre, gli spettatori
potrebbero presto avere maggiori informazioni sulla trama. È stato
detto che il live-action Voltron sarà incentrato su una
nuova generazione, il che significa che Cavill, Brown e il resto
del cast probabilmente interpreteranno personaggi originali che
sono i piloti di Voltron.
Recentemente, la star di SupermanNathan Fillion ha rivelato l’iconico personaggio
televisivo che ha interpretato per dare vita a Guy Gardner/Green
Lantern. Accanto a Fillion, il film dell’universo DC vede
protagonisti David Corenswet, Rachel Brosnahan, Nicholas
Hoult, Sara Sampaio, Anthony Carrigan, Edi Gathegi e Isabela
Merced, tra gli altri. Il Lanterna Verde di Fillion,
insieme a Gathegi nei panni di Mister Terrific e Merced in quelli
di Hawkgirl, farà parte della Justice Gang, un gruppo di supereroi
sponsorizzato da un’azienda che opera in modo diverso dal bonario
Superman.
La scelta di Fillion per il ruolo di
Guy arriva dopo anni in cui i fan lo hanno immaginato nei panni di
Lanterna Verde, anche se molti pensavano che sarebbe stato più
adatto all’interpretazione di Hal Jordan. Tuttavia, la star di
Firefly è un collaboratore di lunga data e amico del regista
di Superman, James
Gunn, quindi la sua partecipazione al film non è certo una
sorpresa. Ciò che sorprende, invece, è il personaggio a cui ha
ispirato il suo Lanterna Verde.
Nel DC
Studios Showcase Official Podcast, Fillion ha spiegato che
la scontrosa ma adorabile Sophia Petrillo interpretata da Estelle
Getty ha ispirato la sua interpretazione di Guy:
Sai, ho preso ispirazione dalla
più anziana del cast di Golden Girls, che diceva tutto quello che
voleva, senza filtri. Qualunque cosa fosse. La diceva e basta. Lui
la dirà e basta.
L’attore ha poi chiarito come
questo si concili con il passato di Guy nei fumetti, aggiungendo:
“Parte della sua origine è che, a un certo punto, è stato investito
da un autobus ed è finito in coma. Quindi ho pensato che fosse
quello che gli ha fatto scattare qualcosa. È quello che gli ha
causato un piccolo danno cerebrale. Ora è solo… un po’ fuori
fase”.
Cosa significano le dichiarazioni
di Nathan Fillion su Guy Gardner e le Golden Girls
Sebbene il paragone tra Guy Gardner
e Sophia Petrillo possa sembrare strano a prima vista, non è del
tutto privo di fondamento. In The Golden Girls, Getty
interpreta la madre di Dorothy Zbornak, interpretata da Beatrice
Arthur, che vive con sua figlia e le loro due amiche, Rose Nylund
(Betty White) e Blanche Devereaux (Rue McClanahan). Sophia
è schietta e brutale, e spesso prende in giro le altre donne dello
show. Per questo motivo, è sia una delle preferite dai fan
che la fonte di gran parte dell’umorismo della serie.
Per quanto riguarda il legame con
Guy, è semplice: ha un carattere rude e aggressivo. Probabilmente
il più grande idiota del Corpo delle Lanterne Verdi, il personaggio
è noto per essere scortese e presuntuoso. Sebbene Sophia sia
meno brutale di Guy nelle sue azioni, il tipo di umorismo che porta
in The Golden Girls ha un che di tagliente, che Fillion
potrebbe replicare in Superman.
Superman è il primo
film dei DC Studios scritto e diretto da James
Gunn, con David Corenswet nei panni di
Superman/Clark Kent.
Nel cast anche Rachel
Brosnahan, Nicholas Hoult, Edi Gathegi, Anthony Carrigan, Nathan
Fillion, Isabela Merced, Skyler Gisondo, Sara Sampaio, María
Gabriela de Faría, Wendell Pierce, Alan Tudyk, Pruitt Taylor Vince
e Neva Howell. Il film sarà al cinema DAL 9 LUGLIO
distribuito da Warner Bros. Pictures.
Sebbene Inside
Man abbia una trama piuttosto lineare, la rapina centrale
presenta molti colpi di scena che richiedono una spiegazione
dettagliata. Diretto da Spike Lee, Inside Man ha
una trama contemporanea in stile Robin Hood, in cui un ladro
virtuoso, Dalton Russell, non solo decide di rapinare una banca, ma
anche di dare una lezione a un magnate senza scrupoli. Con una
serie di depistaggi, il
film rapina sviando gli spettatori fin dalla scena iniziale e
costruendo gradualmente un finale soddisfacente e ingegnoso.
Dalla morale dei personaggi a un
crimine di guerra della Seconda Guerra Mondiale, tutto nel film di
Spike Lee è meticolosamente legato alla rapina centrale. Per questo
motivo, comprendere le intenzioni di Dalton dietro la rapina e il
suo modus operandi è essenziale per comprendere i molteplici
livelli della trama di Inside Man. Ecco quindi un’analisi
dettagliata della Inside Man e di come si intreccia con
altri elementi della trama del film.
Perché Dalton in Inside Man non
ha rubato i soldi dalla banca
Quando Dalton e la sua squadra
irrompono nella banca nelle scene iniziali di Inside Man, è
difficile non pensare che intendano rubare i soldi dalla banca. Il
fatto che continuino ad affermare che sono lì per ripulire la banca
conferma che non vogliono altro. Tuttavia, la trama della rapina in
banca si infittisce quando Madeleine White appare e rivela che il
fondatore della banca, Arthur Case, l’ha assunta come mediatrice
per convincere Dalton a consegnare loro il contenuto di una
cassetta di sicurezza nella banca.
Dalton sembra ben consapevole della
storia che si cela dietro il contenuto della cassetta di sicurezza
e del suo immenso valore per Arthur Case. Pertanto, rifiuta di
negoziare con White, anche se lei gli assicura che può fargli
ridurre la pena detentiva e persino procurargli alcuni milioni di
dollari una volta scontata la pena. Lei non si rende conto che
Dalton sa qualcosa sui segreti della cassetta di sicurezza che lei
ignora, e che le sue ragioni per rubarli sono molto più nobili di
quanto sembri inizialmente.
La spiegazione della cassetta di
sicurezza 392 di Inside Man
Durante la sua interazione con
Madeleine, Dalton accenna al fatto che la cassetta di sicurezza 392
contiene documenti della Germania nazista che rivelano come Case
abbia fondato la banca con denaro finanziato dai nazisti. Non
specifica i servizi che Case ha fornito ai nazisti, ma afferma che
il denaro gli è stato dato come ricompensa per aver commesso
crimini mortali contro il popolo ebraico durante la seconda guerra
mondiale. Verso il finale del film Inside Man, il
detective Frazier fatica a trovare prove valide contro i
rapinatori, poiché tutti, tranne Dalton, escono dalla banca con gli
ostaggi. Per assicurarsi che non possano essere distinti dagli
ostaggi, i rapinatori indossano persino gli stessi vestiti che
avevano chiesto agli ostaggi di indossare in precedenza.
Poiché nessuno di loro possiede
oggetti di valore o i documenti della cassetta di sicurezza 392
della banca, il detective Frazier (interpretato da Denzel Washington, famoso per
The Equalizer) non riesce a trovare alcuna prova per
condannarli. Tuttavia, il detective decide di indagare sui registri
della banca quando i suoi superiori lo rendono sospettoso
chiedendogli di abbandonare le indagini. Le sue ricerche lo portano
a scoprire che la cassetta di sicurezza 392 non compare nei
registri precedenti della banca, il che lo aiuta a ottenere un
mandato di perquisizione per aprirla. Per saperne di più sulla
cassetta, Frazier minaccia Madeleine facendole ascoltare una
registrazione della sua conversazione con Dalton in banca.
A questo punto, Madeleine si arrende
e rivela che la cassetta conteneva documenti sul passato criminale
di Case. Poco dopo, quando lei affronta Case, lui le rivela che la
busta nella cassetta 392 conteneva anche dei diamanti e un anello
di Cartier appartenenti alla moglie di un banchiere parigino, che
proveniva da una ricca famiglia ebrea. Era amico del banchiere, ma
lo aveva denunciato durante l’Olocausto in cambio di una grossa
somma di denaro dai nazisti.
Di conseguenza, il banchiere e i
suoi familiari furono confiscati tutti i beni, compreso l’anello, e
furono mandati nei campi di concentramento, dove nessuno di loro
sopravvisse. Anche se Case non rivela mai perché ha conservato
l’anello nella cassetta di sicurezza 392, sembra che il senso di
colpa gli abbia impedito di distruggerlo.
Il piano di fuga di Dalton in
Inside Man
Nella scena iniziale, Dalton è
seduto in una cella buia e recita un monologo in cui cita: “C’è una
grande differenza tra essere rinchiusi in una cella minuscola ed
essere in prigione”. Le sue parole nel prologo acquistano senso
verso la fine di Inside Man, quando emerge da dietro una parete nel
magazzino della banca. Un flashback rivela che la sua squadra aveva
creato una minuscola cella nel magazzino della banca costruendo una
parete finta dietro uno scaffale. Dopo la rapina, Dalton si è
nascosto nella stanza segreta con il contenuto della cassetta di
sicurezza 392 e ha aspettato che le acque si calmas
Si imbatte persino nel detective
Frazier mentre esce, ma evita di destare sospetti. Pochi istanti
dopo, quando il detective apre la cassetta di sicurezza, trova un
pacchetto di gomme da masticare, l’anello di Cartier e un biglietto
con scritto: “Segui l’anello”. Mentre Dalton tiene i
documenti per affermare il suo controllo su Case, il detective
Frazier decide di affrontare il proprietario della banca riguardo
alla rapina.
Come il detective Keith scopre
il piano di Dalton in Inside Man
L’anello diventa l’ultimo chiodo
nella bara di Case quando, dopo averne rintracciato le origini, il
detective Keith Frazier scopre i suoi crimini di guerra e decide di
denunciarli al mondo. Quando il detective torna a casa più tardi,
trova un diamante in tasca, che gli fa capire che Dalton lo ha
messo lì quando l’ha incontrato all’ingresso della banca. Con
questo, capisce che Dalton era rimasto nascosto all’interno della
banca per tutto quel tempo e prova più rispetto per lui come ladro
onesto. Alla fine, il piano di Dalton in Inside Man
rende lui e Frazier ricchi, mentre il patrimonio netto di Case
crolla, dimostrando che Dalton aveva ragione quando diceva: “Il
rispetto è la valuta più importante”.
La possibilità di una seconda
stagione di Moon
Knight viene affrontata dal showrunner della serie TV
Marvel Cinematic Universe. Una
delle ultime aggiunte alla
timeline dell’MCU che i fan non vedono l’ora di vedere è Moon
Knight, dato che la serie TV con Oscar Isaac ha introdotto Marc
Spector e Steven Grant nella saga del Multiverso. Anche se la seconda
stagione di Moon Knight non è ancora stata ufficialmente
confermata, questo non impedisce agli spettatori dell’MCU di
mostrare quanto desiderano vedere il seguito della serie.
In una nuova intervista con
ComicBook, al showrunner di Moon Knight Jeremy
Slater è stato chiesto cosa dovrebbe accadere affinché la seconda
stagione diventi realtà su Disney+. Slater ha chiarito che, per
quanto speri di rivedere Isaac nei panni dell’eroe titolare, ci
sono due persone che possono rendere possibile la seconda stagione
di Moon Knight, come ha condiviso di seguito:
Parlate con Kevin Feige, parlate con Oscar Isaac. Penso che
la palla sia davvero nelle loro mani.Moon Knight sarà
tanto quanto Oscar vorrà che sia. Kevin è quello che ha il piano
generale, e penso che quando troverà un modo per incorporare
davvero Moon Knight…Spero che lo rivedremo, ma sono
curioso quanto voi.
Cosa significano i commenti
di Jeremy Slater su Moon Knight per l’eroe dell’MCU interpretato da
Oscar Isaac
Moon Knight stagione 1 è stata
realizzata prima della ristrutturazione della Marvel Television
dopo la revisione creativa di Daredevil: Born Again, ela
Marvel Studios è ora concentrata sulla realizzazione di serie TV
più tradizionali che possano durare più stagioni.
Considerando comeè finito il finale di Moon Knight,
ci sono sicuramente dei semi piantati che potrebbero portare alla
stagione 2 e oltre. Ma sulla base dei commenti di Slater, alla fine
tutto dipenderà da Kevin Feige e Isaac, che potrebbero
semplicemente cercare di capire come estendere Moon Knight per
diverse stagioni oltre la seconda.
Tuttavia, ciò che potrebbe
frenareMoon Knight – stagione 2in questo momento è
il fatto che la Marvel Studios sta cercando di finire la saga del
Multiverso, dato che la Fase 6 ha solo una manciata di film e serie
TV in programma per il capitolo finale. L’idea potrebbe essere
quella di fare di più con Moon Knight nella Fase 7,soprattutto se Feige e Isaac troveranno modi più organici per
far funzionare la seconda stagione in termini di storie.
Considerando quanto c’è da esplorare con Moon Knight, il viaggio
molto probabilmente non è ancora finito per lui.
Ci saranno dei cambiamenti alla
caserma dei pompieri 51 sulla scia degli eventi dei Chicago
Fire – stagione 13 finale, ma d’altra parte molte cose
rimarranno invariate. La tredicesima stagione della serie
poliziesca della NBC ha visto numerosi alti e bassi.
Dall’introduzione del sostituto del capo Boden (Dom Pascal) nella
premiere della tredicesima stagione di Chicago Fire alla
relazione altalenante tra Violet Mikami e Sam Carver, si può dire
che la stagione è stata ricca di drammi e conflitti. Tuttavia,
molti personaggi hanno avuto un lieto fine nel finale.
Chicago Fire tornerà con la
stagione 14 nell’autunno del 2025, riprendendo il suo slot del
mercoledì alle 21:00 ET sulla NBC (secondo NBC Insider).
Dopo il tentato omicidio dell’uomo
che ha ucciso la moglie di Pascal nella stagione 13 di Chicago
Fire, episodio 21, il capo della caserma 51 è sotto
pressione nell’episodio 22, “It Had to End This Way”. Le
prove contro Pascal iniziano ad accumularsi e sembra che sarà
condannato per il crimine. Nel finale, Carver sconvolge Violet con
una notizia che le cambierà la vita, Christopher Herrmann lotta per
diventare capo e la relazione tra Kelly Severide e Stella Kidd
cambia per sempre.
Come Severide dimostra che
Pascal non è colpevole di tentato omicidio (e chi ha realmente
cercato di vendicare Monica)
Nel corso del finale della
tredicesima stagione di Chicago Fire, Severide fa del
suo meglio per scagionare Pascal. I due non hanno avuto esattamente
un inizio facile. Col tempo, però, Severide ha imparato ad
apprezzare e rispettare il suo capo, e viceversa, ed è per
questo che si batte con tutte le sue forze per Pascal in “It Had to
End This Way”. All’inizio, Severide è convinto che qualcuno del
passato di Pascal (un boss mafioso di nome Hendricks che Pascal ha
cercato di coinvolgere a Miami) lo stia incastrando. Alla fine,
scopriamo tutti che la risposta è molto più semplice.
Severide e Pascal scoprono che il
tenente Vale è colui che ha cercato di uccidere l’assassino di
Monica nella stagione 13 di Chicago Fire. Nel corso del
tempo, Vale è diventato ossessionato da Monica (anche se lei lo ha
respinto). Era quasi distrutto quanto Pascal quando Monica è morta.
Di conseguenza, Vale voleva vendetta. Ci riesce quasi, se non fosse
stato per Pascal che ha scoperto i messaggi di Vale a Monica e per
Severide che è un ottimo investigatore di incendi dolosi. Alla
fine, Severide dimostra l’innocenza di Pascal. Questo rafforza il
loro legame, che è stato uno degli sviluppi più interessanti della
stagione 13.
Carver vuole lasciare Chicago
(ma lo farà?)
Qualche settimana prima del finale,
è stato annunciato che due personaggi fissi della serie avrebbero
lasciato Chicago Fire dopo la stagione 13: Jake Lockett (che
interpreta Carver) e Daniel Kyri (che interpreta Darren Ritter).
Quindi, molti hanno pensato che il finale avrebbe dato un’adeguata
conclusione ai personaggi di Carver e Ritter. Tuttavia, non è stato
proprio così. Nella puntata 22 della stagione 13 di Chicago
Fire, Violet finalmente consegna a Carver la lettera (in cui
esprime i suoi sentimenti per lui) che gli aveva scritto settimane
prima. Purtroppo, è un po’ troppo tardi, perché Carver ha già
deciso di lasciare Chicago e trasferirsi al dipartimento dei vigili
del fuoco di Denver.
Carver spiega a Violet che sente il
bisogno di un nuovo inizio per mantenere la sobrietà. Naturalmente
Violet capisce, ma è anche visibilmente affranta dalla notizia. La
sua reazione mette Carver di fronte a un dilemma. Anche lui prova
forti sentimenti per Violet, ma deve anche dare la priorità alla
sua salute. Alla fine del finale di stagione di Chicago
Fire, Carver getta al vento ogni cautela e aspetta Violet fuori
dal suo appartamento. Una volta arrivata, lui la bacia
immediatamente e le dice che la ama. Violet ricambia la sua
dichiarazione e l’episodio si conclude con loro che si baciano
felicemente.
Basandosi su quell’ultima
scena, sembra che il personaggio di Jake Lockett non se ne andrà,
anche se logicamente sappiamo che probabilmente non
resterà.
Dopo che Violet e Carver si sono
scambiati un “ti amo”, non è chiaro quale sarà il futuro di Carver.
Sì, dovrebbe andarsene. Tuttavia, il finale si conclude con Violet
e Carver che finalmente cedono alla loro storia d’amore in
Chicago Fire. Basandosi sull’ultima scena, sembra che il
personaggio di Jake Lockett non se ne andrà, anche se logicamente
sappiamo che probabilmente non resterà. Forse Lockett potrà
tornare come personaggio ricorrente, il che spiegherebbe
l’esitazione della showrunner di Chicago Fire, Andrea
Newman, nel confermare o smentire la presenza di Carver o Ritter
nella stagione 14.
Spiegata la decisione di
Herrmann di non sostenere l’esame per diventare capo
La domanda se Herrmann prenderà il
posto di Pascal come capo della caserma 51 rimane aperta per tutto
il finale della tredicesima stagione di Chicago Fire. Se
Herrmann dovesse sostenere l’esame per diventare capo e
superarlo, probabilmente diventerebbe il nuovo capo. In caso
contrario, Pascal rimarrebbe (ammesso che non venga arrestato).
Tuttavia, Herrmann rende la situazione facile per tutti, dato che
molti hanno imparato ad amare Pascal come loro capo, decidendo di
non sostenere l’esame.
Il finale della tredicesima stagione
di Chicago Fire non spiega nemmeno come Ritter uscirà dalla
serie, lasciando evidentemente questa rivelazione per la premiere
della quattordicesima stagione.
Considerando la costante esitazione
del veterano pompiere durante tutta questa ultima avventura, non è
una grande sorpresa quando Herrmann decide di non andare avanti con
il piano. È scioccante, però, quando accetta una retrocessione
per consentire a Mouch di assumere il ruolo di tenente dell’Engine
51. Herrmann ama il suo amico e vuole il meglio per lui. Ed è
disposto a sacrificare la sua carriera affinché Mouch possa
ottenere ciò che desidera. Herrmann non è comunque destinato a
stare dietro una scrivania, come sottolinea alla fine dell’episodio
22 della stagione 13 di Chicago Fire.
Cosa succederà a Severide e Kidd
dopo aver scoperto che lei è incinta?
La storia più importante di Severide
e Kidd nella stagione 13 di Chicago Fire ruota attorno al
loro desiderio di mettere su famiglia. All’inizio, avevano deciso
di adottare un bambino. Purtroppo, l’adozione di un neonato è
saltata all’ultimo minuto quando la madre biologica ha cambiato
idea sul tenere il bambino. Poi, Severide e Kidd accolgono
Natalie, un’adolescente che Kidd ha salvato da un incendio
dieci anni fa.
Conoscendo Chicago Fire, il
prossimo viaggio di Severide e Kidd sarà sicuramente costellato di
ostacoli.
Nel finale, Kidd riesce a riunire
Natalie con sua sorella Julia, indicando che la coppia non adotterà
ufficialmente l’adolescente come molti avevano ipotizzato. Sebbene
questo possa aver deluso alcuni spettatori che volevano vedere
Severide e Kidd come genitori, l’episodio risolve rapidamente
questa delusione quando Kidd mostra a Severide un test di
gravidanza positivo. Stellaride sta per avere un bambino!
Quello che una volta sembrava un sogno irrealizzabile, ora i fan
potranno vedere la coppia affrontare questa nuova fase della loro
vita nella stagione 14. Conoscendo Chicago Fire, il prossimo
viaggio di Severide e Kidd sarà sicuramente pieno di ostacoli.
Come il finale della stagione 13
di Chicago Fire prepara la stagione 14
Il finale della stagione 13 di
Chicago Fire potrebbe non essere il più spettacolare o
drammatico della serie, ma prepara molte trame per la stagione 14.
Per cominciare, Severide e Kidd sono incinti, il che avrà
senza dubbio un ruolo importante nella prossima stagione.
“It Had to End This Way” prepara anche le dinamiche future della
caserma 51 con Pascal che rimane, Herrmann che torna come pompiere
regolare e Mouch che diventa il tenente dell’Engine 51.
Forse uno degli sviluppi più
significativi del finale che sembrerà avere un impatto sulla
stagione 14 di Chicago Fire è la dichiarazione d’amore di
Violet e Carver. Se non sapessimo nulla, questa scena
indicherebbe che Violet e Carver avranno una relazione felice
nei prossimi episodi. Tuttavia, Carver dovrebbe lasciare la serie.
Quindi, quando arriverà la stagione 14 di Chicago
Fire, sarà interessante vedere le conseguenze del grande
sviluppo di Violet e Carver.
John Creasy (Denzel
Washington), il protagonista di Man on
Fire – Il fuoco della vendetta di Tony Scott,
non è basato su una persona reale. Washington e Scott hanno una
lunga storia di collaborazioni cinematografiche alle spalle. Hanno
trascorso del tempo su un sottomarino nucleare in Crimson Tide,
hanno evitato il deragliamento di un treno in Unstoppable e in Man
on Fire hanno salvato una ragazza innocente dalle grinfie di una
banda di criminali. In Man on Fire, Creasy è un ex agente del
SAD/SOG fallito, il cui frivolo lavoro di guardia del corpo per
Lupita (Dakota Fanning) si trasforma in una cospirazione ricca di
azione dopo che la ragazza viene rapita.
Man on Fire – Il fuoco della
vendetta mostra Denzel Washington al suo meglio nei film
d’azione e vedere Creasy passare da agente della CIA scoraggiato e
suicida, con gli anni migliori ormai alle spalle, a un uomo
rinvigorito dalla vita grazie alla gentilezza e all’amicizia di una
ragazzina è emozionante e commovente. Washington ha interpretato
molti personaggi reali nella sua carriera, tra cui Malcolm X,
Herman Boone, Frank Lucas e altri ancora. Tuttavia, John Creasy non
è uno di loro, sorprendentemente. Nonostante sia uno dei migliori
personaggi di qualsiasi film di Tony Scott, non è un personaggio
originale.
John Creasy era inizialmente un
personaggio del romanzo
Ma la sua storia è ispirata a
due rapimenti realmente accaduti
Man on Fire non è una storia
originale di Tony Scott. È basato su un libro del 1980 di A. J.
Quinnell con lo stesso titolo, con protagonista John Creasy, un
personaggio immaginario. Creasy è poi diventato protagonista di
altri quattro libri dello stesso autore: The Perfect Kill
(1992), The Blue Ring (1993), Black Horn (1994) e
Message From Hell (1996). Il motivo per cui spesso si crede
erroneamente che il personaggio sia reale è che la storia è
ispirata a due rapimenti realmente avvenuti e di grande
risonanza.
Il primo è stato il rapimento del
figlio maggiore di un uomo d’affari di Singapore a scopo di
estorsione (via The Sun). Temendo che gli altri figli potessero essere
presi di mira se avesse pagato, l’uomo ha rifiutato e suo figlio è
stato ucciso. La seconda fonte di ispirazione è una storia
famigerata che riguarda una delle famiglie più ricche d’America, i
Getty. Il sedicenne John Paul Getty III, nipote del magnate del
petrolio Paul Getty, fu rapito a Roma nel 1973. Dopo cinque
mesi di prigionia, Getty III perse un orecchio per mano dei suoi
rapitori prima che il nonno, famoso per la sua avarizia, pagasse a
malincuore il riscatto (via People).
La storia dei Getty è stata
trasformata in un film e in una serie TV. La serie, Trust, è
stata trasmessa per la prima volta su FX nel 2018, con Donald
Sutherland nel ruolo di Paul Getty e Harris Dickinson in quello di
Getty III. Il fratello di Tony Scott, Ridley Scott, ha diretto l’adattamento
cinematografico, All the Money in the World, con Christopher
Plummer nel ruolo del vecchio Getty e Charlie Plummer in quello del
giovane. Non c’è alcuna parentela tra Christopher e Charles
Plummer.
Tutti i film e le serie tv su
Man On Fire
Netflix sta progettando una
serie TV
Tony Scott non è l’unico ad essere
stato ispirato dalla storia di Quinnell, poiché ci sono stati
numerosi adattamenti di Man on Fire, compresi alcuni stranieri. C’è
stato persino un adattamento uscito prima di quello di Scott: Man
on Fire del 1987, con Scott Glenn nel ruolo di Christian Creasy, il
cui nome è stato cambiato, e diretto dal regista francese Élie
Chouraqui.
Ek Ajnabee, un adattamento in
hindi, uscito un anno dopo il film di Scott, vede Amitabh Bachchan
nei panni del colonnello Suryaveer “Surya” Singh, il Creasy del
film.
Lo stesso anno è seguito rapidamente
un adattamento in lingua tamil, Aanai, con Arjun Sarja nel ruolo di
“Vijay”. Oltre a questi adattamenti cinematografici, è in programma
una serie televisiva Man on Fire per Netflix, annunciata nel 2023, che racconterà i primi
due romanzi di Quinnell, Man on Fire e The Perfect Kill.
Mission: Impossible – The Final
Reckoning chiude la serie con Tom
Cruise con il secondo miglior punteggio di pubblico su
Rotten Tomatoes. Diretto ancora una volta da Christopher McQuarrie,
l’ottavo e, secondo quanto riferito, ultimo film di Mission:
Impossible segue l’agente dell’IMF Ethan Hunt, interpretato da
Tom Cruise, e la sua squadra di agenti mentre continuano la loro
lotta contro l’intelligenza artificiale ribelle conosciuta come
l’Entità. Mission: Impossible – The Final
Reckoning include anche il ritorno di Hayley Atwell, Ving
Rhames, Simon Pegg, Henry Czerny e Angela Bassett.
Ora, nel giorno della sua uscita
nelle sale, Mission: Impossible 8 ha debuttato con un
punteggio del 93% su
Rotten Tomatoes, il secondo miglior risultato della serie dopo
Dead Reckoning (94%). Il nuovo film ha più di 1.000
valutazioni verificate al momento della stesura di questo articolo,
quindi il punteggio del pubblico è destinato a variare man mano che
ne verranno aggiunte altre. Di seguito è possibile consultare un
confronto tra i punteggi ottenuti dalla serie su Rotten
Tomatoes.
Presentato fuori concorso al
Festival di Cannes il 14 maggio, Mission: Impossible 8 ha ricevuto
recensioni positive, ma non entusiastiche. Mentre i critici
lodano ancora una volta le acrobazie audaci di Tom Cruise e la
trama ricca di suspense, alcuni hanno avuto reazioni contrastanti
riguardo all’insolito mix di nostalgia e alla mancanza di un finale
soddisfacente. Ciò ha portato a un punteggio dell’80% su Rotten
Tomatoes da parte della critica, che è nella media per la serie,
posizionandosi al di sotto degli ultimi quattro film ma al di sopra
dei primi tre.
D’altra parte, il punteggio del
pubblico di The Final Reckoning è il secondo migliore della
serie dopo Dead Reckoning, con recensioni che lodano l’azione
senza sosta, le acrobazie incredibili, lo spettacolo
emozionante e gli effetti speciali impressionanti. Anche la
dedizione e la performance di Tom Cruise sono ampiamente
apprezzate. A differenza dei critici, il pubblico sembra
considerare
la fine di Mission: Impossible –The Final
Reckoning un finale soddisfacente per la serie. Nel
complesso, The Final Reckoning è considerato dal pubblico un
finale divertente e ricco di azione.
L'attore canadese-americano
Ryan Reynolds arriva al 36th Annual American Cinematheque Awards
onorando Ryan Reynolds tenutosi al Beverly Hilton Hotel il 17
novembre 2022 a Beverly Hills, Los Angeles, California, Stati
Uniti. - Foto di imagepressagency via
Depositphotos.com
Ryan Reynolds ha rivelato di aver
ufficialmente proposto un film Star Wars
vietato ai minori. Il futuro di Star
Wars sembra più luminoso che mai, con il franchise che
tornerà sul grande schermo il prossimo anno con The
Mandalorian & Grogu. Ma nel frattempo, la Lucasfilm
continua a pianificare altri
futuri film Star Wars e sembra che lo studio abbia
ricevuto una proposta sorprendente.
Parlando con Scott Mendelson su
The Box Office Podcast, Ryan Reynolds ha rivelato di aver
effettivamente proposto alla Disney un film di Star Wars vietato ai
minori:
“Ho proposto alla Disney: ‘Perché
non facciamo un film di Star Wars vietato ai minori? Non deve
essere esplicito, non devono esserci personaggi perfetti, ci sono
tantissimi personaggi che potreste usare’. E non intendo vietato ai
minori perché volgare,vietato ai minori come cavallo di
Troia per le emozioni. Mi chiedo sempre perché gli studi
non vogliano scommettere su qualcosa del genere”.
Il rating R non è solo sangue
e violenza
Stranamente, i commenti di
Reynolds sembrano più una critica ai franchise in generale che
altro. Quando parla di classificazione R, non si riferisce al sesso
e alla violenza, ma sembra piuttosto credere che tale
classificazione sia necessaria per una vera complessità emotiva. In
effetti, sembra avere ragione, perché Andor, la storia di Star Wars
più sofisticata, sfumata e incentrata sui personaggi fino ad oggi,
era sicuramente molto più matura rispetto alla media.
Il showrunner di Andor Tony
Gilroy ha anticipato un Star Wars horror, forse suggerendo
che qualcosa potrebbe effettivamente essere in cantiere. Secondo
Gilroy, la sua serie TV di successo dovrebbe fungere da trampolino
di lancio per un tipo completamente nuovo di storia di Star Wars.
Senza dubbio Ryan Reynolds sarebbe d’accordo.
Il regista del film
BioShock di Netflix offre un importante aggiornamento sullo stato
della sceneggiatura. L’adattamento cinematografico dell’acclamata
serie di videogiochi omonima è stato annunciato nel 2022, con le
prime bozze della sceneggiatura scritte da Michael Green
(Logan) e l’ultima bozza di Justin Rhodes (Secret
Level). Il progetto ha subito alcuni ritardi durante lo
sciopero della Writers Guild nel 2023, ma da allora ha ripreso lo
sviluppo.
In un’intervista con IGN, il regista Francis Lawrence ha fornito un
aggiornamento su BioShock. Sebbene il film sia ancora in
fase di sviluppo, il regista ha rivelato di aver ricevuto
“una bozza” della sceneggiatura e che c’è una “forte
possibilità” che il progetto vada avanti presto. Lawrence
ha inoltre descritto in dettaglio le sfide legate all’adattamento
della serie per il grande schermo. Leggi i suoi commenti qui
sotto:
Bioshock è ancora in fase di
sviluppo. Ho appena ricevuto una bozza. Domani [7 maggio] abbiamo
una riunione con lo sceneggiatore, quindi è sicuramente una
possibilità molto concreta. È un adattamento complicato, quindi ci
sono molte cose da capire e da sistemare. Ci sono stati dei
cambiamenti al vertice di Netflix, quindi le cose si sono bloccate,
poi hanno ripreso slancio, poi si sono bloccate di nuovo e così
via, ma onestamente penso che siamo a un buon punto.
Il film BioShock di Netflix è
in fase di sviluppo attivo
Lo sviluppo delfilm
BioShock di Netflixnon è stato facile. Nel 2024, il
produttore Roy Lee ha rivelato che il cambio di leadership
dell’azienda ha modificato l’approccio al film e ridotto il budget,
riferendosi all’uscita di Scott Stuber da Netflix. Ciò ha portato
aun cambio di rotta per concentrarsi su una storia più
personale su scala ridotta.
I commenti del regista offrono
alcuni chiarimenti sullo stato di produzione del film. Nonostante
sia rimasto bloccato in varie fasi di scrittura dal 2023,BioShock sembra essere “in una posizione piuttosto buona,”
superando tutti i cambiamenti esterni. Anche Lawrence
sembra ottimista ed entusiasta del film in uscita, che è in fase di
sviluppo attivo. Tuttavia, ci vorrà ancora un po’ di tempo prima
che il film Bioshock entri in produzione, poiché il regista
dovrebbeiniziare le riprese di Hunger Games: Sunrise on the
Reapingquest’estate.
Il film di fantascienza post-apocalittico di Ridley Scott, The Dog
Stars, uscirà nel 2026. Con Jacob Elordi (Euphoria), Josh Brolin (Dune) e Margaret Qualley (The
Substance), il prossimo film del regista di Il
gladiatore è tratto dall’omonimo romanzo di Peter Heller del
2012. Con una sceneggiatura di Mark L. Smith, autore di
Twisters, il film è ambientato all’indomani di una
catastrofica epidemia influenzale che ha quasi spazzato via
l’umanità.
Secondo Variety, The Dog Stars uscirà il 27 marzo 2026,
con le riprese attualmente in corso. Questo aggiornamento arriva
dopo che la Disney ha riprogrammato diversi dei suoi progetti, tra
cui entrambi i film degli Avengers. Il film di Scott è
prodotto dalla 20th Century Studios.
Cosa significa questo per The Dog Stars
Scott ha diversi progetti in cantiere in varie fasi di sviluppo.
The Dog Stars, che dovrebbe essere il prossimo, arriverà in
primavera. In precedenza, era stato riferito che il regista
avrebbe provato a cimentarsi in un film biografico sui Bee Gees
dopo il film con Elordi. Nel frattempo, il regista sta anche
sviluppando un terzo film di Gladiator e un nuovo film di
Alien, anche se al momento non si conoscono i progressi.
The Dog Stars è stato annunciato nel novembre 2024, in
anticipo rispetto all’uscita di Gladiator II, il che rende
il tempo tra l’annuncio e l’uscita piuttosto breve,
considerando che molti progetti richiedono anni per essere
realizzati. Oltre ai tre protagonisti, il cast corale ha
recentemente aggiunto Benedict Wong per un ruolo ancora
sconosciuto.
Sebbene i dettagli siano ancora segreti, il film segue Hig
(Elordi), un pilota civile, e un ex marine (Brolin), che affrontano
degli invasori e la speranza di una vita migliore al di fuori del
loro attuale luogo di residenza.
Il presidente dei Marvel
Studios Kevin Feige arriva al Los Angeles Premiere Of Columbia
Pictures '' 'Spider-Man: No Way Home' tenutosi al Regency Village
Theatre il 13 dicembre 2021 a Westwood, Los Angeles, California,
Stati Uniti. — Foto di imagepressagency via
Depositphotos
In precedenza, la Disney aveva tre
film Marvel senza titolo in programma per il 13 febbraio 2026, il 6
novembre 2026 e il 5 novembre 2027. Tuttavia, in un nuovo
aggiornamento dello studio, la data del 13 febbraio 2026 è stata
rimossa dal calendario delle uscite Disney, mentre i progetti
Marvel previsti per il 6 novembre 2026 e il 5 novembre 2027 sono
stati trasformati in film “Disney senza titolo”.
Cosa significa la rimozione
delle date di uscita Marvel da parte della Disney
È comprensibile il motivo per cui la
data del 13 febbraio 2026 sia stata rimossa del tutto, dato che la
Marvel Studios non aveva annunciato alcun progetto per quel giorno.
A parte Avengers: Doomsday, attualmente in
fase di riprese, nessun altro film dell’MCU è attualmente in
produzione. Anche se le riprese di un film dell’MCU dovessero
iniziare a breve per poterlo distribuire nel febbraio 2026, non ci
sarebbe abbastanza tempo per la post-produzione. Questo cambiamento
significa che la Marvel Studios può evitare di pubblicare un
progetto affrettato, motivo per cui la Disney ha fatto bene a
rimuovere quella data.
Per quanto riguarda le due date di
uscita di novembre, lo slot del 6 novembre 2026 utilizzato per un
altro film Disney è giustificato, dato che Avengers:
Doomsday arriverà nel dicembre dello stesso anno. Considerando
che la Fase 6 è prevista per dicembre 2027 con Avengers:
Secret Wars invece che nel maggio 2027, la data del 5
novembre 2027 sarebbe stata probabilmente riservata a un film della
Fase 7. A causa del nuovo cambiamento della Marvel, non c’è più
motivo di mantenere quella data del 2027. Ora, la Fase 7 non
inizierà prima del 2028, poiché la Marvel Studios ha tre film
Marvel senza titolo in programma per il 18 febbraio, il 5 maggio e
il 10 novembre.
Scarlett Johansson ha recentemente parlato
della possibilità di tornare nel franchise, non come attrice, ma
come regista. Johansson ha già prodotto e
interpretato Black
Widow, l’attesissimo film dedicato al suo personaggio
fondatore degli Avengers, uscito nel 2021. Il film vedeva anche la
partecipazione di Florence Pugh, David Harbour, Rachel
Weisz, Olga Kurylenko e Ray Winstone.
In un’intervista con Deadline
per promuovere il suo debutto alla regia nel 2025 con Eleanor
the Great, l’attrice ha spiegato la sua visione del cinema, che
dà priorità alla “connettività umana”. Johansson ha
affermato che sarebbe interessata a dirigere un film Marvel perché i progetti
“grandi” che le piacciono tendono ad essere più incentrati
sui personaggi in generale.
Ha poi citato Black
Widow come esempio. Johansson ha dichiarato: “Anche
produrre Black Widow ed essere parte della produzione e dello
sviluppo della storia e della relazione tra Natasha e [sua sorella
Yelena Belova] e questo dramma familiare che [..] è questo piccolo
film […] in un mondo enorme è, credo, un modo per […] mantenere
l’integrità […] dell’idea di connessione umana.” Continuando,
ha chiarito che i film che trovano un modo per rendere una storia
personale e piccola anche in un universo più ampio “sono i
grandi film che [lei ama].”
Cosa significano i commenti di
Scarlett Johansson sul MCU
In precedenza, Johansson aveva
affrontato la possibilità di tornare nel ruolo di Natasha
Romanoff/Black Widow, ma ha smentito le voci secondo cui sarebbe
apparsa in Avengers:
Doomsday. L’attrice ha spiegato:
“Sarebbe molto difficile per
me capire in che modo [il ritorno] avrebbe senso per me, per il
personaggio che interpreto. Mi mancano i miei amici e mi piacerebbe
davvero stare con loro per sempre, ma ciò che funziona del
personaggio è che la sua storia è completa. Non voglio rovinare
tutto. Anche per i fan è importante”.
Indipendentemente dal suo
ritorno come attrice, la star poliedrica potrebbe tornare nell’MCU
in un altro ruolo.Come già detto, ha prodotto Black
Widow, quindi esiste un precedente che le consentirebbe di assumere
un ruolo di leadership in un progetto Marvel. Inoltre, ha fatto il
suo ingresso nel mondo della regia con la prima di Eleanor the
Great, dimostrando di essere in grado di dirigere un film.
L’attrice di SupermanIsabela Merced ha recentemente rivelato come
il suo personaggio, Kendra Saunders/Hawkgirl, riprende la sua
storia a fumetti nel prossimo film dell’universo DC. Insieme a
Merced, il film vede anche la partecipazione di
David Corenset,
Rachel Brosnahan,
Nicholas Hoult, Anthony Carrigan, Edi Gathegi,
Nathan Fillion, Sara Sampaio, Neva Howell e Pruitt Taylor
Vince. Diretto da James
Gunn, il film, che segna la prima apparizione importante del
personaggio sul grande schermo, vede Hawkgirl come parte della
Justice Gang, un gruppo di eroi sponsorizzati da aziende che non
condividono esattamente la morale di Superman.
Hawkgirl ha avuto diverse
incarnazioni nei fumetti, essendo un’aliena in alcuni, reincarnata
in altri e persino un’aliena reincarnata nelle serie più recenti.
Inoltre, tre diversi eroi hanno interpretato Hawkgirl: Shiera
Sanders Hall, Shayera Hol e Kendra Saunders, quest’ultima
interpretata da Merced. In un’apparizione al DC
Studios Showcase Official Podcast, Merced ha parlato di
come la storia di Kendra abbia influenzato la sua interpretazione
in Superman:
“Kendra è reincarnata, ma è reincarnata da un’aliena. Quindi
ha tutti quei ricordi. La storia è davvero molto cupa, è talmente
incasinata che mi chiedo come faranno ad affrontarla. Penso che lei
porti con sé tutti i ricordi, i traumi e gli errori delle sue vite
passate, ovunque vada, quindi ha un carattere un po’
scontroso”.
Oltre a interpretare una
supereroina, Merced ha rivelato perché essere stata scelta per
Superman è stato così importante per lei: “Uno dei miei sogni nella
mia carriera era lavorare con James Gunn. Gliel’ho detto il giorno
che l’ho incontrato […] ero una sua grande fan”. In seguito ha
scherzato dicendo che avrebbe accettato qualsiasi ruolo nel film di
Gunn, aggiungendo: “Se avesse voluto che fossi una cittadina di
Metropolis, avrei fatto anche quello”.
Cosa significano i commenti
di Isabela Merced su Hawkgirl
Il passato complicato di
Kendra Saunders la rende un’eroina più disillusa
Hawkgirl è un personaggio così
ricco di tradizioni e con diverse interpretazioni che creare una
propria versione dell’eroina sarebbe stato un compito enorme per
Merced. Sulla base delle sue dichiarazioni, sembra cheGunn abbia optato per un approccio che include tutto,
incorporando sia il ciclo di reincarnazione che le radici
thanagariane di Hawkgirl.
Per quanto riguarda Merced, non
le dispiace avere del materiale extra su cui lavorare per la sua
interpretazione. L’attrice ha spiegato: “Lo adoro.Onestamente, mi dà così tanti retroscena ed è super utile. Ma
poi, con il tocco di James Gunn, sapete, quella consapevolezza di
sé e la comicità di tutto ciò.[…] Mi dà l’opportunità
di… sdrammatizzare il mio trauma.”
Motorheads–
stagione 1 è stata pubblicata su Prime
Video il 20 maggio e, con i suoi misteri
intergenerazionali e le gare elettrizzanti, non c’è da stupirsi che
la serie sia già un successo. Dopo la sua uscita, Motorheads
è subito salita in cima alle statistiche di streaming di Amazon. La
serie segue un gruppo di quattro liceali disadattati uniti
dall’amore per le auto, le corse e un legame con il passato oscuro
della loro piccola città di Ironwood, in Pennsylvania.
Il cast di
Motorheads vede Melissa Collazo e Michael
Cimino nei panni dei gemelli Caitlyn e Zac Torres, il cui padre,
Christian Maddox (Deacon Phillippe), è scomparso dopo aver rapinato
una banca 17 anni prima. Con l’aiuto dei loro amici, riparano la
vecchia auto da corsa di Christian per partecipare alle
tradizionali gare di strada di Ironwood. Con questo mix
adrenalinico di auto veloci, corse ad alto rischio, drammi
romantici e una fortuna scomparsa, la prima stagione di
Motorheads era destinata a concludersi con il botto.
Harris Bowers muore nel finale
della prima stagione di Motorheads?
Conclude la stagione in un
incidente infuocato
Senza dubbio, Harris Bowers (Josh
Macqueen) è uno dei personaggi più interessanti della prima
stagione di Motorheads. È il figlio dell’uomo che un tempo
era il più ricco di Ironwood, ma la recente morte della madre ha
lasciato Harris come un guscio vuoto e arrabbiato all’inizio della
stagione. Ma, nei momenti finali del finale di stagione, Harris
rimane intrappolato in un incidente d’auto in fiamme: non è chiaro
se sia vivo o morto.
La recente morte di sua madre
ha lasciato Harris un guscio vuoto pieno di rabbia.
Fin dal primo episodio, Harris e Zac
si sono scontrati per l’affetto di Alicia Whitaker (Mia Healey) e
la loro rivalità è destinata a culminare in una gara. Mentre è in
viaggio, però, Harris colpisce una buca che fa esplodere una
gomma, facendolo sbandare, ribaltare e rimanere intrappolato in un
relitto in fiamme. L’unica persona che potrebbe aiutarlo è Zac,
e l’ultima immagine che abbiamo di entrambi è Zac che guarda le
fiamme con orrore.
Il modo in cui la telecamera taglia
la scena rende volutamente poco chiaro se Harris sia sopravvissuto
o se Zac tenterà di salvarlo. Harris ha trascorso la prima stagione
di Motorheads dicendo a tutti quelli che lo circondano che
non riconosce la persona che è diventato. Se Harris muore in
pista, non avrà mai la possibilità di diventare l’uomo che avrebbe
dovuto essere. Speriamo che Harris torni in qualche forma se
Motorheads verrà rinnovato per una seconda stagione.
Christian è a Spider Lake? Cosa
significa la telefonata di Caitlyn
L’ipotesi di Sam che Christian
sia morto potrebbe non essere così vera come sembrava
Il mistero più grande di
Motorheads è cosa sia successo a Christian Maddox. È
scappato dalla polizia dopo aver rapinato una banca, ma, dopo
essere stato riconosciuto, ha dovuto abbandonare la sua ragazza
incinta, Samantha Torres (Nathalie Kelley). L’ultima volta che Sam
lo ha visto, stavano seppellendo la sua fortuna, ma quando è
tornata, i soldi erano spariti e al loro posto c’era solo una foto
di Spider Lake. Ancora più strano è il fatto che il fratello di
Christian, Logan (Ryan Phillippe), riceve da anni cartoline
bianche. Christian ha dei bei ricordi di Spider Lake, quindi se
dovesse nascondersi da qualche parte, quello sarebbe il posto
giusto.
Per avere una chiara somiglianza
familiare, il figlio di Ryan Phillippe, Deacon Phillippe,
interpreta suo fratello minore, Christian Maddox, nella prima
stagione di Motorheads.
Caitlyn trascorre l’intera stagione
alla disperata ricerca di un modo per ricongiungersi con suo padre
e, nella scena finale della prima stagione di Motorheads,
riceve una chiamata da un numero sconosciuto da Spider Lake. Tutti
gli indizi indicano che Christian è vivo a Spider Lake. Avrebbe
potuto facilmente prendere i soldi e usarli per iniziare una nuova
vita. L’unico problema è che Motorheads è una serie che ha
sempre un colpo di scena, quindi, anche se sembra che Christian
sia vivo a Spider Lake, è quasi certo che le cose non andranno
esattamente così.
Come Zac ha ottenuto i codici e
perché li ha dati a Logan
Ironwood è una città con molti
problemi finanziari e, di conseguenza, Logan trascorre la prima
stagione di Motorheads cercando di mantenere a galla la sua
officina. Nell’episodio finale, la malavita di Ironwood, con
l’aiuto di Logan e Harris, ruba quattro auto di lusso all’uomo più
ricco della città. Ma poiché questi è anche il padre di Alicia, la
rapina è anche un tradimento nei confronti della ragazza, che ha
trascorso la stagione divisa tra i due ragazzi. Alla fine, è Zac
che ha dato a suo zio Logan i codici per rubare le auto del padre
di Alicia.
Zac ha tradito Alicia perché, se
Logan non fosse riuscito a procurarglieli, avrebbe dovuto fare da
autista per la fuga dopo la rapina. In un certo senso, quindi, Zac
ha dovuto tradire Alicia per salvare suo zio. Peggio ancora,
Alicia ha capito quasi subito che era stato Zac a tradirla.
Se i due avessero mai avuto la possibilità di stare insieme, le
azioni di Zac nel finale di Motorheads hanno quasi
certamente messo fine alla loro relazione.
Zac dimostra di stare diventando
suo padre nel finale della prima stagione di Motorheads
Fin dall’inizio, sia Zac che
Caitlyn hanno trascorso tutto il loro tempo a Ironwood, oscurati
dall’eredità del padre. In effetti, la rivalità di Zac con
Harris è iniziata quando Harris ha mostrato il filmato della fuga
di Christian dalla polizia durante una grande festa. Sia Zac che
Caitlyn sono profondamente consapevoli dei difetti di Christian.
Presumibilmente ha abbandonato la sua famiglia perché correva
costantemente senza curarsi della propria incolumità anche dopo che
Sam era rimasta incinta, ed è stato coinvolto in alcune rapine
piuttosto gravi.
Tutto ciò che Sam e Logan vogliono è
che Zac e Caitlyn diventino persone migliori dei loro genitori, ma
alla fine della stagione 1 di Motorheads, Zac è
praticamente diventato suo padre. La sua ossessione per le corse lo
mette ripetutamente in grave pericolo. Preferisce le auto a sua
madre, suo zio, sua sorella e la donna che sembra amare. Tradisce
Alicia in un modo che ricorda in modo inquietante il tradimento di
Christian nei confronti di Sam 17 anni fa.
Lo Zac Torres dell’episodio 1
non avrebbe esitato a cercare di salvare Harris, ma nel finale di
Motorheads, Zac rimane semplicemente lì.
La cosa peggiore è il significato
della scena finale, in cui Harris ha un incidente con l’auto. Zac
ricorda la buca che ha causato l’incidente di Harris, e non è
chiaro se abbia sterzato per evitarla o se abbia sterzato per far
sì che Zac ci finisse dentro. Allo stesso modo, il Zac Torres
dell’episodio 1 non avrebbe esitato a cercare di salvare Harris, ma
nel finale di Motorheads, Zac rimane semplicemente lì. Questo è
probabilmente il finale più cupo possibile per Zac, e ci vorrà
molto perché Zac riesca a uscire da questa oscurità in un
potenziale secondo Motorheads.
Il vero significato del finale
della prima stagione di Motorheads
Ci sono due temi principali nella
stagione 1 di Motorheads: il ciclo della ricchezza e della
povertà e la natura ciclica del tempo. Gli adolescenti del 2025
stanno vivendo le stesse storie, gli stessi drammi e gli stessi
crimini dei loro genitori negli anni 2000, anche se i dettagli
individuali sono diversi. Ma i genitori in Motorheads sono
tutti individui profondamente imperfetti.
Amazon Prime non ha ancora rinnovato
Motorheads per la stagione 2.
Persino lo sceriffo di Ironwood ha
preso parte alla rapina in banca che ha costretto Christian Maddox
a fuggire e, nel 2025, suo figlio è alle prese con le conseguenze
di quel crimine. Il finale della prima stagione di
Motorheads sembra confermare che, a meno che qualcuno
non apporti un cambiamento radicale, l’ultima generazione di
adolescenti di Ironwood è destinata a ripetere gli stessi errori
commessi dai propri genitori decenni prima.
Fountain of Youthè l’ultimo film d’avventura di Guy
Ritchie, ricco di star, e il finale è ricco di personaggi
e spunti tematici da analizzare. Il cast di Fountain of
Youth è guidato da John Krasinski e Natalie Portman, che interpretano Luke e
Charlotte, due fratelli separati. Luke coinvolge Charlotte in un
piano del miliardario Owen Carver (Domhnall
Gleeson) per trovare e utilizzare la Fontana della
Giovinezza, il mitico specchio d’acqua che presumibilmente offre
l’immortalità a chi ne beve. Owen sostiene di essere malato
terminale di cancro e desidera utilizzare la Fontana per salvarsi
la vita.
Il finale del film vede Luke e
Charlotte condurre con successo Owen Carver alla Fontana della
Giovinezza, dove Luke è il primo a provare il liquido mistico. Dopo
esservi entrato e averne intravisto il potere, decide di non berlo,
lasciando che sia Owen a farlo. Vediamo Owen trasformato dal
potere del liquido prima che Esme (Eiza
González) usi la chiave datale dall’Anziano (Stanley Tucci)
per spegnerlo.
Cosa vede davvero Luke nella
Fontana della Giovinezza
Luke capisce di voler stare con
i suoi cari
Quando Luke intravede la Fontana
della Giovinezza, vede Charlotte e suo figlio Thomas in condizioni
di salute precarie e decide di non bere dalla Fontana. Come dice
l’Anziano, la Fontana contiene qualcosa che gli esseri umani non
riescono ancora a comprendere appieno e, bevendone, Luke
prosciugherebbe la vita dei suoi cari per appropriarsene. Più
tardi, Luke descrive il contenuto della Fontana come
“Tutto”.
Per quanto riguarda l’evoluzione del
personaggio di Luke, ciò che lui descrive come “tutto”
potrebbe essere un riflesso di ciò che conta veramente nella sua
vita: la sua famiglia. Vedendoli in uno stato così
decrepito, si rende conto che non ha bisogno di ottenere
l’immortalità o un potere immenso; vuole solo ricostruire il legame
con sua sorella e suo nipote. In senso metafisico, potrebbe
suggerire che la Fontana della Giovinezza contenesse qualcosa di
incomprensibile, come le risposte a domande spirituali.
La spiegazione del piano di
Charlotte per “trovare qualcosa che si è perso”
Luke, Charlotte e Thomas
continueranno le loro avventure insieme
Le ultime righe di Fountain of
Youth mostrano Luke e Charlotte che discutono del loro prossimo
film, con Charlotte che dice che dovrebbero continuare a cercare
cose perdute. Lei e suo fratello avevano delle divergenze dopo la
perdita del padre, trovandosi agli antipodi: lui voleva continuare
l’avventura e non riusciva a stabilirsi o a trovare la pace
interiore, mentre lei lottava con la vita quotidiana, finendo per
divorziare dal marito. Dopo il climax del film, raggiungono un
equilibrio.
Luke e Charlotte hanno entrambi
capito quanto hanno bisogno di queste avventure. È ciò per cui sono
stati essenzialmente cresciuti, e la loro passione è scoprire
misteriosi manufatti. Ora, con Thomas coinvolto, possono farlo in
un modo che va a vantaggio di tutti, permettendo loro di
trascorrere del tempo insieme come una famiglia, cercando tesori ed
esplorando il mondo insieme.
Il piano completo di Owen Carver
e cosa succede quando beve dalla fontana
Owen Carver voleva
commercializzare il liquido della fontana
Owen Carver inizia il film sembrando
un alleato dei protagonisti, come il benefattore dietro la ricerca
del tesoro sepolto. Ha rubato opere d’arte in tutto il mondo per
raccogliere indizi per trovare la Fontana della Giovinezza,
sostenendo di avere il cancro e di volerla usare per salvarsi la
vita. Luke crede a questa storia, ma Charlotte è scettica,
rendendosi conto che Owen è un miliardario che ha ottenuto la sua
ricchezza acquisendo spietatamente altre aziende, il che suggerisce
che potrebbe voler commercializzare il liquido della fontana.
Esme è costretta a chiudere la
Fontana usando la chiave, e il destino di Owen Carver rimane
ambiguo, dato che viene lasciato indietro mentre tutti gli altri
fuggono.
Una volta raggiunta la Fontana,
scopriamo che Owen non ha il cancro e che sta semplicemente
cercando la Fontana per ottenere potere e ricchezza, descrivendo il
liquido come il bene più prezioso al mondo. Quando ne beve un
sorso, però, il liquido inizia a prosciugare la vita dal suo corpo.
Come dice l’Anziano, se la persona che beve dalla Fontana ama se
stessa più di ogni altra cosa, l’effetto sarà più sporadico.
Esme è costretta a chiudere la Fontana usando la chiave, e il
destino di Owen Carver rimane ambiguo, dato che viene lasciato
indietro mentre tutti gli altri fuggono.
Come Esme impedisce a Carver di
usare la Fontana
Esme è un personaggio misterioso in
tutto il film Fountain of Youth. Anche se all’inizio sembra
un’antagonista, alla fine lavora per il bene dell’umanità. Mentre
Jamal Abbas (Arian Moayed) insegue i protagonisti per arrestarli
per furto d’arte, Esme li insegue per impedire loro di raggiungere
la Fontana. Non si fida di Luke, ma Owen Carver è la vera
minaccia.
Durante la conversazione di Esme con
l’Anziano, lui le consegna una chiave. Essenzialmente, questa
chiave viene utilizzata come dispositivo di sicurezza per fermare
l’attivazione della Fontana una volta che il suo potere è stato
attivato. Esme gira la chiave, racchiudendo la Fontana nel suo
guscio esterno e richiamando le scale, dando a Luke, Charlotte e
Thomas un tempo limitato per fuggire.
Cosa sta realmente facendo
l’Anziano interpretato da Stanley Tucci?
L’Anziano protegge tesori
nascosti come la Fontana
Il personaggio di Stanley Tucci,
l’Anziano, appare solo in una scena di Fountain of Youth,
anche se più avanti nel film sentiamo altre sue spiegazioni.
L’Anziano sembra essere il leader di un’organizzazione che
protegge luoghi mitici come la Fontana (supponendo che ce ne siano
altri). Come dice lui stesso, l’umanità non è pronta per il
potere della Fontana, che deve essere protetta fino a quel momento.
Il film tralascia molti dettagli su questa organizzazione, quindi è
meglio considerarla mistica quanto il luogo che protegge.
Fountain of Youth parla della
scoperta di ciò che conta davvero nella vita
Luke trascorre gran parte del film
alla ricerca della Fontana della Giovinezza, credendo che sia il
premio finale di una vita di ricerche. Mentre Charlotte ha cercato
di sistemarsi, Luke ha continuato a vivere avventure dopo
avventure, fuggendo dalla legge e da misteriose organizzazioni,
mettendo a rischio la propria vita per inseguire quello che crede
essere il suo scopo. Mentre Charlotte evidentemente non è riuscita
a rimanere in un posto, cercando di colmare i vuoti della sua vita
con un matrimonio, il carattere di Luke non gioca a suo favore,
lasciandolo costantemente insoddisfatto.
Fountain of Youth è un film
che contrappone il fascino del potere immenso e dell’immortalità ai
bisogni semplici che diamo per scontati nella vita.
Alla fine del film, i due fratelli
capiscono che il viaggio è ciò che hanno sempre cercato. Ripetono
questa frase più volte nel corso del film, ma è solo quando Luke
intravede una Charlotte molto più anziana nella Fontana della
Giovinezza che capisce che ciò che desidera veramente non è la
soluzione di un mistero archeologico, ma stare con la famiglia e le
persone care che lo circondano. Fountain of Youth
è un film che contrappone il fascino del potere immenso e
dell’immortalità ai semplici bisogni che diamo per scontati nella
vita.