Come ogni anno, quel nome e cognome
nel titolo mi danno un’impressione di autoreferenzialità
immotivata, tuttavia è utile (e risparmia del tempo) a chi non è
interessato alla mia Top 20 2018. Sì, perché
quest’anno non sono proprio riuscita a ridurre la rosa dei film che
ho amato a 10, e così mi sono allargata a 20 titoli.
Il criterio è sempre lo stesso:
sono stati presi in considerazione soltanto i film che sono
usciti nelle sale italiane tra l’1 gennaio 2018 e il 31
dicembre 2018. Nella lista troverete film “intoccabili”,
di quelli che sono piaciuti a tutti; film famosi, che hanno vinto
premi; film che forse ho visto solo io; qualche sorpresa, spero;
ovviamente delle menzioni speciali, perché fare la Top 35 sarebbe
stato poi troppo impegnativo (e anche io sono in vacanza a mezzo
servizio); qualche titolo da recuperare, mi auguro; magari qualche
spunto per un cordiale battibecco.
Nel ribadire la parzialità e anche
la futilità delle classifiche di fine anno, al pari dei bilanci e
dei buoni propositi di gran moda in questi ultimi giorni, ecco i
miei 20 film preferiti degli ultimi 12 mesi. Enjoy.
NB – i titoli non sono stati
catalogati dal più bello al più brutto. Se sono qui è perché,
almeno secondo chi scrive, sono belli tutti, anche se diversi, e
tutti sono presenti nella lista per ragioni diverse. (Qui la Top 10 della
redazione di Cinefilos.it)
Menzioni speciali
Prima di partire con la
Top 20 2018 vera e propria, vi elenco una serie di
titoli che non sono riuscita ad inserire (per scelta) ma che
varrebbe la pena recuperare e che rappresentano impegno, novità,
classicità e bellezza, tutte qualità che il cinema richiede e di
cui lo spettatore dovrebbe essere affamato.
Di questo gruppo fanno parte:
Foxtrot di
Samuel Maoz, una danza che dopo le sue evoluzioni
torna al punto di partenza, un foxtrot, appunto, tra toni dolenti,
onirici e iperrealistici; Loro (1 e
2)
di Paolo Sorrentino, un esempio fulgido di
bellezza formale; il documentario di Michael
Moore, Fahrenheit
11/9, sull’orrore reale, la peggior puntata di
Black Mirror degli ultimi anni, l’elezione di
Trump a Presidente degli Stati Uniti; Ride
di Jacopo Rondinelli, per la capacità e la volontà
di sperimentare, nonostante il fatto che, per riprendermi dalla
visione, ho dovuto guardare per 15 minuti un video dello screensaver
Bezier di Windows 95; L’Isola dei
Cani di Wes Anderson, per la
meraviglia tecnica e la delicatezza narrativa; A quiet
Place di
John Krasinski, per la dimensione fortemente
umana di una storia distopica e per la regia impeccabile; Avengers: Infinity
War dei Fratelli Russo, perché
produttivamente rappresenta un unicum, un progetto lungo 10 anni
per una storia “setuppata” attraverso 20 film; Lazzaro
Felice di Alice Rohrwacher, per la
purezza del suo racconto.
The Disaster Artist di James
Franco
La prolifica carriera da
regista di James Franco ci ha regalato quest’anno
The Disaster
Artist, la biografia di Tommy Wiseau,
personaggio misterioso che ha trovato il modo di eccellere e di
intrattenere grazie alla sua completa e totale mancanza di
talento.
Franco però trova il modo di
stratificare il racconto, facendone una riflessione non solo sul
fenomeno dell’intrattenimento trash, ma anche sul valore dellle
doti, delle capacità e soprattutto una confessione: la paura di non
essere all’altezza, di non avere abbastanza talento, di non essere
meritevole di occupare il posto che lui stesso ha nel mondo dello
spettacolo.
Riesce a farci ridere, a farci
alzare gli occhi al cielo, a farci sentire meschinamente migliori
del povero Wiseau e anche, in fondo, a commuoverci.
Tre Manifesti a Ebbing, Missouri
di Martin McDonagh
Presentato a
Venezia 74 e da subito protagonista della scena
cinematografica mondiale, con due Oscar ai suoi attori (la
protagonista Frances McDormand e il non
protagonista Sam Rockwell), il film di McDonagh fa
della scrittura al servizio dei grandi interpreti il suo punto di
forza.
McDonagh fa tendere i suoi
personaggi verso mete irraggiungibili, che esigono il passaggio
attraverso i luoghi più bui dell’anima, lo fa scrivendo un film di
una commovente delicatezza nel raccontare anche le fragilità di
anime in pena, facendolo continuamente attraverso i toni sardonici
e i confronti spietati di umanità allo stadio primordiale.
Tre Manifesti a
Ebbing, Missouri gioca su sguardi, silenzi,
complicità, alla ricerca del meglio dell’essere umano, prendendo
atto del peggio, accogliendolo e perdonandolo.
Un Sogno Chiamato Florida di Sean
Baker
Sean Baker
racconta il suo “sogno americano”, una storia piccola e potente,
attraverso l’energia della protagonista, la pazienza del custode,
la testardaggine della maggiorata in tarda età, che ignora regole e
tempo, e continua a sognare.
A “uno spunto” dal posto in cui i
sogni si realizzano, il Disney World di Orlando, Florida, la
piccola Moone, ride, vive, gioca, e Baker ce la racconta immersa
nella sua dimensione grottesca, un po’ kitsch, fatta di locali a
forma di cibo e di questo condominio lilla, un alveare di vita e di
outcast.
Un Sogno chiamato
Florida è universale, tenero, duro, con uno dei finali più
belli che il cinema ricordi negli ultimi anni.
Spider-Man – Un Nuovo Universo di
Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman
Una delle ultime visioni
dell’anno che entra prepotentemente in classifica; l’unico film
d’animazione/cinecomic che ho ritenuto all’altezza di questa mia
personale Top 20 2018. Racconta di Miles Morales, di Spider-Man, lo
fa con uno stile d’animazione misto, che pungola l’attenzione e la
curiosità dello spettatore, di continuo.
Spider-Man – Un
Nuovo Universo è il primo tentativo di raccontare il
multiverso, un tentativo vivace, divertente, scritto con acume, la
prima volta che, al cinema, l’Uomo Ragno non è (solo) Peter
Parker. Ed è forse la prima volta che il vero spirito del
personaggio di Stan Lee e Steve Ditko (ai quali è
dedicato il film*) viene portato realmente sullo schermo, proprio
perché di Spider-Persone ce ne sono tante. Tutti possono esserlo,
possiamo esserlo.
È questo, Spider-Man: un ragazzo di
colore, una ragazza super cool, un detective noir, un uomo, una
ragazzina, un porcello; come dice Stan Lee, nel
suo ennesimo emozionante e divertente cameo animato, il costume “va
sempre bene, alla fine”, perché può andare a tutti.
*”Quella persona che aiuta gli
altri semplicemente perché dovrebbe o deve farlo, perché è la cosa
giusta da fare, è senza dubbio un vero supereroe. Grazie a Stan Lee
e Steve Ditko, per averci mostrato che non siamo i soli.”
Mektoub My Love: Canto Uno di
Abdellatif Kechiche
Kechiche racconta tutta
l’ebbrezza della giovinezza, l’estate, il sole, le passioni
passeggere, la confusione della quotidianità e la bellezza. Tutto
in un film che sembra un respiro continuo, un abbraccio che
vorresti non finisse mai, un viaggio, un’avventura.
Con questa opera, presentata a
Venezia 74 ed arrivata da noi nel 2018, Kechiche
si fa osservatore e narratore, ci prende per mano, ci presta i suoi
occhi. E sì, i suoi occhi adorano indugiare sulla bellezza dei
corpi, chiaro, ma piace un po’ anche a noi, in fondo, che ci
lasciamo trascinare, consapevoli del fatto che non saremo mai
all’altezza di quella bellezza, ma allo stesso tempo desiderosi di
partecipare.
Mektoub My Love:
Canto Uno è un vibrante e sensuale inno alla
giovinezza gioiosa, prepotente, come la carnalità delle
protagoniste.
La Forma dell’Acqua di Guillermo
Del Toro
La forma
dell’acqua è film più premiato della scorsa stagione,
che ha cominciato la sua gloriosa cavalcata a Venezia
74, con il Leone d’Oro. Il regista messicano ha portato
così al perfetto grado formale la sua apologia del mostruoso,
inteso come prodigio della natura. Il suo re pesce è la creatura
che genera paura e meraviglia, così come la sua Liza, diversa trai
suoi simili, è l’anima prescelta, in grado di accogliere quella
mostruosità.
Un omaggio al cinema horror, al
noir, al cinema erotico, al musical tradizionale, attraverso un
racconto, anche cromatico, che celebra la fiaba classica e si fa
riflessione sul presente. Elementare nella sua struttura, potente e
delicato come ogni storia d’amore, La Forma
dell’Acqua è la fiaba moderna che, nonostante i canoni e
la prevedibilità, entra nel cuore e si fa classico.
Del Toro ha sempre amato i mostri,
con questo film cominceranno ad amarli molti più spettatori.
The Party di Sally Potter
La regista britannica
confeziona una commedia arguta, brillante, cinica. La durata, il
bianco e nero, le battute al vetriolo, ogni elemento si mette al
servizio dello scopo principale del film, farci sentire parte di
questo party con risvolti
esilaranti, a tratti assurdi.
Kristin Scott Thomas,
Timothy Spall, Patricia Clarkson, Bruno Ganz, Cillian Murphy sono i volti che danno
vita agli spiazzanti dialoghi della Potter, mettendo in scena lo
humor inglese al suo meglio, in ogni suo aspetto, da quello volto
all’intrattenimento puro, a quello che invece si fa timida ma
chiara riflessione sulla società.
Tutti vogliamo partecipare alla sua
festa, e alla fine del film, Sally Potter ci
chiama direttamente in causa, ci accontenta e ci lascia con un
sorriso incredulo, stampato sul viso.
The Post di Steven Spielberg
Non sarà mai detto
abbastanza: Steven Spielberg è uno dei geni del
nostro tempo. Al cinema con due titoli di altissimo profilo*, nel
2018, riesce sempre a tirare il coniglio fuori dal cilindro, senza
mai ripetersi.
Con The
Post, oltre a scegliere la storia “giusta” per il
periodo storico che soprattutto gli Stati Uniti stanno
attraversando, Spielberg ci mostra con disarmante e inequivocabile
semplicità che lui è uno dei migliori. Dire che la regia di
The Post è “da manuale” sarebbe sbagliato, perché
Steven non segue le regole, le fa, come tutti i grandi. E per
questo, nella classicità della storia, nell’impostazione
tradizionale della recitazione, nella struttura canonica del
racconto, The Post è un preziosissimo esempio del
lavoro di un regista che non smette mai di studiare e di
innovarsi.
Da colui che è sempre riuscito a
far commuovere i suoi spettatori, arriva, nel 2018, il film che si
fa inno alla tecnica, alla visione, alla bravura artigianale di
quella persona che sta seduta sulla sedia di regia e “fa“,
davvero, il film.
*Per chi vivesse su Marte a si
trovasse sulla Terra in occasione delle festività, l’altro film è
Ready Player One.
Opera senza autore di Florian
Henckel von Donnersmarck
Scritto e diretto dal
regista premio Oscar per Le vite degli altri, che
io amo chiamare Florean Fortebraccio (come il gelataio di Diagon
Alley), Opera senza autore riappacifica lo
spettatore le storie.
Opera senza
autore è una riflessione sull’arte e sul suo difficile
cammino nel corso del ventesimo secolo, in cui è stata prigioniera
di politiche e ideologie; è anche la restituzione del suo tempo
alla storia, equivalente cinematografico di un bellissimo e
ricchissimo romanzo, con una storia intricata che si prende tutto
il suo tempo per raccontarsi, sotto l’occhio paziente e incantato
dello spettatore/lettore.
Presentato a Venezia
75, Opera senza autore richiede,
necessariamente, la predisposizione a farsi raccontare storie. E
sembra anche mostrare l’esigenza dell’arte di riappropriarsi dei
propri tempi, di riflessioni, di spazi comuni dove lo spettatore
(critico o comune che sia) impara di nuovo ad ascoltare, perché
ormai a parlare siamo tutti bravi e spesso lo facciamo a
sproposito.
Un amore sopra le righe di Nicolas
Bedos
Opera prima dell’attore,
regista e sceneggiatore Nicolas
Bedos, è il primo di tre film*, usciti tutti nel 2018,
in cui il genio è lei e lui è soltanto un ometto dall’ego bisognoso
di sostegno e conferme.
Uscito in Italia con un titolo
banale, che forse ha allontanato dalla sala lo spettatore
potenzialmente interessato e ci ha portato quelli che si
aspettavano una “classica” storia d’amore, Mr & Mme
Adelman (titolo originale) è un racconto travolgente,
arguto, romantico e doloroso di come l’amore trasforma le persone,
di come le persone imparano a convivere con i difetti del partner.
Una storia che nella sua complessità regala uno sguardo inedito
sulle relazioni, su ciò che le tiene in piedi nel tempo, ma anche
sull’ambizione, sull’aspirazione, sugli equilibri che due persone
che si amano sono disposte a mantenere per andare avanti.
Un amore sopra le
righe è commedia, dramma, amore e cattiveria. È
probabilmente il film più sottovalutato del 2018, quindi trovate il
modo di recuperarlo, perché sono certa di essere una delle sole tre
persone che lo hanno visto.
*Gli altri due film che raccontano
la stessa storia sono Wife – Vivere nell’ombra, di
Björn Runge, e Colette, di Wash
Westmoreland.
Chiamami col tuo nome di Luca
Guadagnino
Pur essendo stato trai
protagonisti della stagione cinematografica dello scorso anno
Oltreoceano, Chiamami col tuo
nome è uscito in Italia nel 2018, ed io lo piazzo qui,
trai film più belli dell’anno, un posto che spetta di diritto al
film di Guadagnino (c’era anche
Suspiria, che però esce l’1 gennaio 2019, quindi
ne riparliamo tra 12 mesi).
La storia d’amore per una pesc… per
un uomo più grande, catapulta il giovane e vivace Elio nell’età
adulta, nella voracità del desiderio*, nel dolore che spesso la
passione travolgente e poibita porta con sé. E la delicatezza di
Guadagnino nell’inquadrare questi due ragazzi bellissimi,
Timothée Chalamet e Armie
Hammer, insieme alla preziosa sceneggiatura (premio Oscar)
di James Ivory, ne fanno sicuramente uno dei
migliori momenti di cinema dell’anno.
Cerchiamo sempre di proteggerci, di
proteggere in nostro cuore dalle emozioni troppo forti, ma se non
ci buttiamo non riusciremo mai a “sentire” davvero; lo impara Elio,
glielo spiega suo padre, lo capisce lo spettatore. Alla fine, come
Elio, siamo travolti, scossi nel profondo, fino a quel punto
segreto che si trova in fondo, in mezzo alle viscere.
*(Come si legge nel magnifico
libro di Aciman, da cui è tratto il film: Chi ha detto che
anima e corpo si incontrano nella ghiandola pineale è un cretino. È
il buco del culo, stupido!)
Il filo nascosto di Paul Thomas
Anderson
Nessuna delle meraviglie
che si sono dette sul film di Paul Thomas Anderson
è sufficiente. Il filo
nascosto è un capolavoro diretto da uno dei più grandi
registi viventi e interpretato da uno dei più grandi attori viventi
(forse in pensione), Daniel Day-Lewis.
Elegante e delicato, come i tessuti
che il protagonista utilizza per creare i suoi abiti, il film è un
fulgido esempio di arte cinematografica, che nella sua perfezione
sa essere spietatamente bello, non lascia scampo. Una storia
d’amore di un uomo per se stesso, prima, e una storia d’amore di
una donna per ciò che ama.
Il filo nascosto è
una feroce, terrificante rappresentazione dell’egoismo, nella sua
forma sublimata. Un monito, come ha tentato di farci capire anche
Sofia Coppola ne L’inganno, a
fare attenzione a ciò che mangiamo.
Tonya di Craig Gillespie
Film sportivo, film
biografico, film sul sogno americano infranto, film aspramente
critico verso i media, racconto di un fatto di cronaca. Tonya sarà ricordato
principalmente per la sua straordinaria protagonista,
Margot Robbie, che con uno sforzo
incredibile riesce a farci dimenticare quanto è bella, prendendoci
per le spalle, scrollandoci forte e dicendoci: “Guarda quanto sono
brava!”.
Il film di Gillespie non è però
soltanto la sua protagonista, è un film dal tono mutevole, che si
sposta con agilità dalla commedia nera fino ad assumere i tratti di
un heist movie sbilenco, fondandosi su una scrittura
serrata e un montaggio perfetto. La vicenda sportiva e personale di
Tonya Harding è il cuore del film, ma le sue
arterie lasciano circolare il sangue in moltissime direzioni, e
quel sorriso strappato dalle lacrime, sotto al trucco pesante da
competizione e lo sguardo quasi in macchina di Tonya/Margot, chiama
in causa lo spettatore. La amerete? La odierete?
Il film ci spiega proprio questo.
Le persone, gli spettatori, l’opinione pubblica vuole qualcuno
da amare, vuole qualcuno da odiare, e vuole che sia semplice
farlo.
La terra dell’abbastanza dei
Fratelli D’Innocenzo
Seconda delle tre opere
prime e secondo dei titoli italiani in classifica, La terra
dell’abbastanza è la vera e propria sorpresa dell’anno
nel panorama cinematografico nostrano, un po’ come lo è stato
A Ciambra di Jonas Carpignano
nella passata stagione.
Apprezzatissimo anche all’estero,
il film dei giovani D’Innocenzo racconta di Mirko
e Manolo, che, lentamente, trascinandosi come un pomeriggio estivo,
precipitano, convinti invece di essere sul punto di decollare; si
accontentano di quell’abbastanza che, di fronte al niente, diventa
tantissimo, non importa quale sia il prezzo. E alla fine si
rivelano carenti della cattiveria sufficiente a rimanere a galla in
quel mondo.
Con uno sguardo affettuoso e senza
giudizio, i fratelli D’Innocenzo accarezzano i due
protagonisti, accompagnandoli nella loro parabola discendente,
tragica.
BlacKkKlansman di Spike Lee
Solo i grandi registi sono
capaci di coniugare una posizione politica forte con una storia di
grande intrattenimento e BlacKkKlansman segna il
ritorno in grande stile di uno di questi: Spike
Lee.
Il regista di Fa la cosa
giusta parla di razzismo, prendendo in giro con gusto e
intelligenza i razzisti stessi, in particolare quelli degli anni
Settanta, sostenitori e membri del Ku Klux Klan, che nel film
suonano spaventosamente uguali a quelli di adesso. Li prende in
giro, li sbeffeggia, con una scrittura intelligente, tagliente,
comica e realistica, ma non perde mai di vista la realtà.
I razzisti, di ogni colore, sono
dei cretini da isolare, ma, con una mossa abilissima, Lee ci
ricorda che fanno ancora tanta paura, oggi più che mai.
Un affare di famiglia di Hirokazu
Kore-eda
Da questo momento in poi
siamo dalle parti dei titoli impeccabili, insindacabili direi. Il
film che ha conquistato il cuore della giuria del Festival di Cannes 2018 (Palma
d’Oro) ha conquistato anche il mio duro e peloso cuore.
Come è ricorrente nelle sue storie,
Hirokazu Kore-eda affronta il tema dei legami
familiari, lo fa con attenzione, delicatezza, poesia, ma anche
tanta consapevolezza. Vita quotidiana di anime sole che si
sostengono con l’affetto reciproco. Il film racconta della bellezza
dello scegliersi, della grandiosa emozione del trovarsi e della
forza necessaria a rimanere insieme, contro ogni difficoltà, contro
il destino che spesso presenta un conto molto salato.
Un affare di
famiglia, sembra ricordarci Kore-eda, non rimane
sempre “di famiglia”, può diventare di Stato, di legge, quella che
non vede oltre il suo naso e segue soltanto le regole, dove
legalità e giustizia si infrangono violentemente l’una contro
l’altra. Imperdibile.
Girl di Lukas Dhont
Terza e ultima opera prima
in classifica, colpo di fulmine cannense che per fortuna abbiamo
visto anche nelle nostre sale. Girl
racconta la storia di una ragazza magnifica, Lara, sedici anni,
ballerina di danza classica e un corpo da uomo.
Dhont racconta, forse per la prima
volta nella storia del cinema, la transessualità con un occhio
“interno”. Non è il mondo intorno a Lara a dover scendere a patti
con il suo desiderio di cambiare sesso, né tantomeno lei,
determinata più che mai. È la sua fretta, la sua stessa
determinazione, la sua esigenza viscerale di scappare da quel corpo
che non è suo e che nemmeno riesce a guardare allo specchio, in un
periodo della vita, l’adolescenza, che è già difficile per una
persona che vive bene con i propri organi genitali. E la
delicatezza con cui il regista racconto tutto cattura, intenerisce,
fa urlare con i pugni chiusi: “Aiutatela!”. Girl è
un messaggio di dolore, di speranza, di umanità, di grande passione
e determinazione.
E il protagonista, Victor
Polster, anche lui alla sua prima interpretazione sul
grande schermo, è da togliere il fiato.
Dogman di Matteo Garrone
Rappresentante
dell’Italia alla selezione per la nomination al Miglior
Film Straniero agli Oscar 2019*, Dogman è una specie di
ritorno alle origini per il regista de
L’Imbalsamatore, che torna in quei luoghi con una
storia di solitudine e desiderio di accettazione, una storia
crudele, ma che nelle sue mani assume i contorni della fiaba.
Parte dalla vicenda del “canaro”,
sbarca su lidi completamente estranei al fatto di cronaca: Garrone
trasfigura la realtà e racconta una storia di supremazia e
sudditanza, di dolcezza e desiderio appartenenza in un non-luogo di
frontiera abbrutita. Il regista elimina tutto ciò che può, dal
colore, alla musica, alla collocazione geografica, consegnandoci il
ritratto di un uomo che si vuole fare eroe della sua comunità, ma
che viene lasciato solo.
Nella bruttezza di ogni elemento
del film, dalle case alle persone, spicca la dolcezza di Marcello
(Fonte), nonostante tutto, e il suo sorriso accennato, malinconico
nel finale del film, ha la potenza distruttiva che riesce ad avere
solo il grande cinema. Nero.
*Il film è stato eliminato alla
seconda selezione; con buona pace degli Oscar 2019, ce ne faremo
una ragione.
Roma di Alfonso Cuaron
Netflix sta uccidendo la sala, Netflix è un modo per
far vedere il cinema a tutti, Netflix ha rapito la nonna di
Thierry Fremont, Netflix vi avvelena il gatto se
andate al cinema a guardare un suo film. Ne abbiamo sentite di
tutti i colori, anche per “colpa” di Roma, l’ultimo film di
Alfonso Cuaron che ha vinto il Festival di Venezia
2018 e che, uscito in sala per tre giorni (in Italia), è
disponibile su Netflix, che lo ha distribuito.
Mettiamo da parte per un attimo
tutta la faccenda, pure interessante, della piattaforma streaming e
ci concentriamo soltanto sul film. L’opera di Cuaron, il messicano
già premio Oscar per Gravity, è il racconto di tre
“rotture”, quella della domestica Cleo, “sedotta e abbandonata”;
quella della padrona di casa, lasciata dal marito improvvisamente;
quella di un Paese, il Messico, che negli anni ’70 è stato teatro
di rivolte e violenza. In tutto questo, Cuaron riversa la sua vita,
i suo ricordi, la sua infanzia.
Tuttavia, la forza di
Roma (il quartiere di Città del Messico in cui è
ambientato il film) è quella di toccare ognuno di noi: tutti
rinasciamo dall’acqua con Cleo, tra sale, acqua e lacrime.
Cold War di Pawel Pawlikowski
La sua suorina,
Ida, aveva incantato tutto il mondo, anche
l’Academy
Awards, e così tutti ne aspettavano il ritorno al cinema. Con
Cold
War, Pawel Pawlikowski fa un grande
regalo a tutti noi, sappiate accoglierlo, andate a vedere il suo
film!
L’amore di Zula e Wiktor, ostacolato dalla
Storia, non si lascia appannare dal tempo, così come non si
affievolisce la potenza del bianco e nero, la bellezza di lei,
l’eleganza di lui, e il sentimento forte che pian piano sono gli
stessi spettatori a provare per i protagonisti. Tutto scorre,
stratificando i protagonisti, cambiandoli, senza mai intaccare il
loro desiderio, il loro amore.
Pawlikowski scrive una poesia e la trasforma in
cinema.