Una nuova foto dal backstage di
Avatar 2 ci mostra Kate Winslet impegnata a realizzare una
sequenza sott’acqua. Il tanto atteso sequel del blockbuster di
fantascienza di James Cameron è stato rimandato numerose volte
nel corso degli anni: ad oggi l’uscita in sala è fissata per
dicembre 2022. Ciò significa che, tra due anni, saranno passati 13
anni esatti tra il primo Avatar e il primo sequel; resta
quindi da vedere se questo lungo divario avrà un impatto sulle
prestazioni del franchise al box office.
Indipendentemente da ciò, c’è
comunque un palese interesse nel modo in cui Cameron continuerà la
storia di Jake Scully (Sam
Worthington), Neytiri (Zoe
Saldana) e gli altri abitanti di Pandora. I dettagli
sulla trama di
Avatar 2 non sono ancora stati svelati, ma sappiamo
che Jake e Neytiri avranno una famiglia che dovranno proteggere.
Proprio per questo, la coppia viaggerà verso gli oceani di Pandora
e incontrerà il clan marino chiamato Metkayina, guidato dalla new
entry del franchise Cliff Curtis, nei panni di
Tonowari. È lì che troveranno anche Ronal, il Na’vi interpretato da
Winslet. Non sono stati rivelati ancora molti dettagli sul
personaggio dell’attrice premio Oscar, ma i fan hanno già avuto
modo di vederla sul set in alcune foto rilasciate in
precedenza.
E proprio Kate Winslet è la protagonista
dell’ultima immagine dal dietro le quinte del film, diffusa
attraveros l’account
Twitter ufficiale della saga di Avatar. Nello
scatto, Winslet è completamente sommersa dall’acqua e indossa
l’ormai celebre tuta per il motion capture. La cosa più
interessante è che sembra che il suo personaggio abbia le ali o,
almeno, indossi una specie di mantello.
Nella didascalia che ha accompagnato
l’immagine, è stato riportata una dichiarazione di Winslet fatta a
THR: “Ho dovuto imparare
ad immergermi in apnea per interpretare quel ruolo in Avatar, ed è
stato semplicemente incredibile. Il mio respiro più lungo è stato
di sette minuti e 14 secondi, come una cosa da
pazzi”. Potete ammirare la foto di seguito:
Avatar
2debutterà
il 17 dicembre 2021, seguito dal terzo
capitolo il 22 dicembre 2023. Per il quarto e
quinto capitolo, invece, si dovrà attendere ancora qualche
anno: 19 dicembre 2025 e 17
dicembre 2027.
Il cast della serie di film è
formato da Kate
Winslet, Edie
Falco, Michelle Yeoh, Vin
Diesel, insieme ad un gruppo di attori che
interpretano le nuove generazioni di Na’vi. Nei film torneranno
anche i protagonisti del primo film, ossia Sam
Worthington, Zoe
Saldana, Stephen
Lang, Sigourney
Weaver, Joel David
Moore, Dileep
Rao e Matt Gerald.
Il network americano NBC ha diffuso le
anticipazioni di Chicago Fire 9×01, il primo
episodio dell’attesa nona stagione di Chicago
Fire.
In Chicago Fire
9×01 che si intitolerà “Rattle Second City” Nella premiere
della stagione 9, Firehouse 51 accoglie un nuovo membro nel team,
la cui presenza potrebbe fornire alcune complicazioni. La
leadership di Brett brilla durante una chiamata
spaventosa. Boden vede un grande potenziale in Kidd e propone
un’idea che potrebbe avere ripercussioni durature.
Nel cast di Chicago
Fire 9 ritorneranno i personaggi Matthew Casey
(stagione 1-in corso), interpretato da Jesse
Spencer, Tenente del Camion 81. Quando non è di turno,
lavora nel suo business di costruzione. Nella prima stagione è
fidanzato con la tirocinante di medicina Hallie Thomas ma
successivamente la ragazza lo lascia. Torna alla fine della
stagione nel quale i due riprendono la relazione, fino a quando
Hallie non rimane uccisa nell’incendio della clinica in cui
lavorava. Nella seconda stagione si fidanza ufficialmente con
Gabriela Dawson. Diventerà consigliere del quartiere, sotto
incoraggiamento di Dawson.
Kelly Severide (stagione 1-in
corso), interpretato da Taylor
Kinney, tenente della Squadra di Soccorso 3. Ha
vissuto insieme a Leslie Shay, sua migliore amica. È un “don
Giovanni”. Nella prima stagione soffre di dolori alla spalla, che
terrà sotto controllo prendendo antidolorifici senza prescrizioni.
Soltanto alla fine della stagione si deciderà ad affrontare il
problema e a farsi operare. Nella terza stagione si sposa a Las
Vegas, ma dopo pochi mesi di relazione i due si lasciano;
nonostante questo, la donna, aiuta Kelly a superare il trauma pe la
morte di Shay. Nella quinta stagione, Kelly si metterà in testa di
aiutare una donna malata di leucemia, facendo di tutto per donare
il suo midollo osseo. Gabriela Dawson (stagione 1-in corso),
interpretata da Monica
Raymund, paramedico nell’Ambulanza 61 e amica di
Leslie Shay. Successivamente seguirà il corso per diventare vigile
del fuoco. Ha una relazione con Peter Mills nella prima stagione.
Nella seconda stagione si fidanza con Matthew Casey di cui
successivamente rimarrà incinta, ma nella quarta stagione perde il
bambino. Successivamente prenderà in affido un bambino salvato da
un incendio, Louie.
Comandante Wallace Boden (stagione
1-in corso), interpretato da Eamonn
Walker, è il Comandante della Caserma 51. È molto
autorevole e ha la mano ferma, ma è sempre in prima linea quando si
tratta di difendere i suoi uomini. È divorziato e ha un figliastro
che non vede da anni. Nella seconda stagione si sposa con Donna
Robins da cui poi avrà un figlio, Terrence. Ha avuto una relazione
con la madre di Peter Mills.Christopher Herrmann (stagione 1-in
corso), interpretato da David Eigenberg,
Vigile del fuoco del Camion 81. È sposato e ha 5 figli. Insieme a
Dawson e Otis ha un locale, il Molly’s. Brian “Otis” Zvonecek
(stagione 1-in corso), interpretato da Yuri
Sardarov Vigile del fuoco del Camion 81. Ha avuto una
relazione con la sorellastra di Kelly Severide. Ha abitato con
Leslie Shay e Kelly Severide. Joe Cruz (stagione 1-in corso),
interpretato da Joe Minoso, Vigile del fuoco
del Camion 81. Ha avuto una relazione con Zoya, la cugina di Otis,
arrivando anche a chiederle di sposarlo ma lei lo lascia tornando
in Russia. È coinquilino di Otis e ha avuto una relazione con
Sylvie Brett. Randy “Mouch” McHolland (stagione 1-in corso),
interpretato da Christian Stolte, Vigile
del fuoco del Camion 81. Si sposerà con il sergente Trudy Platt
di Chicago P.D..
Il network americano della
NBC ha diffuso le anticipazioni di Chicago
PD 8×01, il primo episodio dell’annunciata ottava
stagione diChicago
PD.
In Chicago PD 8×01
che si intitolerà “Fighting Ghosts” La squadra risponde alla
sparatoria di una bambina di 5 anni e deve lavorare sul caso
affrontando nuovi ostacoli che derivano dalla maggiore attenzione
alla riforma della polizia. Atwater è preso di mira da un
gruppo di agenti che vogliono ferirlo per essersi fermato contro il
muro blu. Voight si domanda se è tagliato per una nuova forma
di polizia mentre gestisce la supervisione del vice sovrintendente
del CPD.
Chicago PD 8×01
Chicago PD 8 è l’ottava stagione della
serie tv Chicago
PD creata da Dick
Wolf e che fa parte del franchise televisivo basato
su Chicago trasmesso dal network americano NBC.
In Chicago PD
8 ritorneranno i personaggi Henry “Hank” Voight
(stagioni 1-in corso), interpretato da Jason
Begheè il capo dell’Unità Intelligence del
Dipartimento di Polizia di Chicago. Voight è un poliziotto tosto
che finisce sempre quello che comincia, anche se significa non
rispettare le regole. La sua squadra lo rispetta, anche se è
sospettato di essere corrotto. Il suo defunto padre era un agente
di polizia, proprio come lui. È rimasto vedovo di sua moglie,
Camille. Jay Halstead (stagioni 1-in corso), interpretato
daJesse
Lee Soffer, è un membro dell’Intelligence, e partner
del Detective Erin Lindsay, che in seguito diventerà la sua
fidanzata. È stato un Ranger dell’Us Army. È uno dei pochi che
occasionalmente si oppone a Voight, trovando i suoi metodi troppo
discutibili, ma nonostante tutto tra i due vige un forte rispetto
reciproco. Adam Ruzek (stagioni 1-in corso), interpretata da
Patrick John Flueger, è il partner del
Detective Alvin Olinsky. Voight chiese ad Alvin di assumere un
agente dall’accademia, e lui scelse Adam vedendo in lui un grande
potenziale.
Kevin Atwater (stagioni 1-in
corso), interpretato da LaRoyce
Hawkins, è l’ex partner dell’agente Kim Burgess,
promosso all’Intelligence. Nonostante sia cresciuto in un brutto
quartiere, è un ragazzo onesto con un forte senso del
dovere. Kimberly “Kim” Burgess (stagioni 1-in corso),
interpretata da Marina
Squerciati, è l’ex partner dell’agente Kevin Atwater
ed è fidanzata con l’Agente Adam Ruzek. Prima di diventare un
agente di polizia, era un’assistente di volo. Sergente Trudy Platt
(stagioni 1-in corso), interpretata da Amy
Morton, Sean Roman (stagioni 2-3, guest 7), interpretato
da Brian
Geraghty, Hailey Upton (ricorrente stagione 4,
stagioni 5-in corso), interpretata da
Tracy Spiridakos, Detective dell’unità rapine-omicidi,
quando lavorerà insieme all’Intelligence in un caso di rapine in
banca si unirà temporaneamente alla squadra sostituendo Kim la
quale si era presa una pausa dal lavoro, per poi diventare un
membro ufficiale del team in seguito alla partenza di Erin. Vanessa
Rojas (stagione 7), interpretata da Lisseth
Chavez, agente sotto copertura, è afro-latina, si unisce
nell’Intelligence al posto del dimissionario Antonio Dawson. Quando
era giovane ha vissuto in diverse case-famiglia, inoltre, prima di
diventare un poliziotto, si metteva nei guai con la legge. È
intelligente, ma anche impulsiva.
I Fantastici
4 e Silver Surfer, uscito nel 2007, è stato l’ennesimo
passo falso della Fox con le proprietà dei Marvel Studios, nonostante la maggior parte
dei fan abbia risposto bene alla versione di Silver
Surfer ad opera di Doug Jones e Laurence Fishburne: quest’ultimo ha infatti
doppiato il personaggio nella versione originale, mentre il primo
ha fornito i movimenti di Norrin Radd.
Considerato il modo in cui la
motion capture si è evoluta nel corso degli anni, è improbabile che
saranno ancora necessari due attori distinti quando Silver Surfer
farà finalmente il suo debutto nell’Universo Cinematografico
Marvel. Per quel che può valere,
Jones sarebbe interessato a tornare nei panni del brillante araldo
di Galactus ed universi al MCU, come rivelato dallo stesso
attore di Hellboy in una recente intervista.
“Se volessero riportare Silver
Surfer al cinema, se me lo offrissero, coglierei l’occasione al
volo”, ha dichiarato Doug Jones a
ComicBook. “Mi piaceva interpretarlo. Era così eroico e
angelico… quasi simile ad un Dio. È il tipo di supereroe che voglio
essere nella mia vita reale. È bellissimo. Aveva il miglior sedere
che abbia mai avuto in un film. Quindi se potessi interpretarlo di
nuovo, coglierei al volo l’occasione, certo!”
I piani della Marvel con Silver Surfer
Nonostante sia bello sentire queste
parole da Jones, è improbabile che la cosa diventi realtà. I
Marvel Studios probabilmente
assumeranno una star di serie A per interpretare Silver
Surfer, anche se al momento non sappiamo nemmeno se il
personaggio farà mai il suo debutto nell’universo condiviso.
I piani della Casa delle Idee sulla
prima grande famiglia di supereroi della Marvel sono ancora avvolti nel
mistero, quindi fare ipotesi al momento è soltanto pretenzioso. Lo
scorso anno si era parlato di un
possibile film interamente dedicato al villain, ma da allora
non ci sono stati più aggiornamenti.
Un nuovo report di Screen Rant
chiarisce finalmente la vera ragione per cui Tony Stark (Robert
Downey Jr.) ha deciso di creare la Iron Legion in Iron Man 3. Dopo il successo di
The Avengers, i Marvel Studios hanno dato il via alla Fase 2
del MCU proprio con il film di Shane
Black. Nel terzo e ultimo film in solitaria dell’eroe inaugurale
dell’universo condiviso, Iron Man ha affrontato un disturbo
post-traumatico da stress dopo la sua esperienza di pre-morte
durante la battaglia di New York.
Iron Man 3 è uno dei pochi film del MCU incentrato esclusivamente sul
personaggio principale, senza che la storia si impantanasse con gli
sforzi di costruzione di un universo più ampio. Nel film vediamo
Tony Stark contro Aldrich Killian (Guy
Pearce), che ha usato il falso Mandarino (Ben
Kingsley) per alimentare la paura. Oltre a combattere
contro un tradizionale cattivo dei fumetti, il genio miliardiario
ha anche lottato personalmente con uno stress post-traumatico. Come
conseguenza, iniziò ad essere ossessionato dal tentativo di
proteggere le persone a lui più care. L’ipotesi generale è che
questo sia stato il motivo che lo abbia spinto a creare la Iron
Legion, ma oggi scopriamo che non è andata proprio così…
Nel libro The Wakanda Files
viene rivelata la vera motivazione per cui Tony ha deciso di creare
dozzine di armature Iron Man controllate a distanza. Mentre l’eroe
inaugurale del MCU rifletteva sugli eventi della
Battaglia di New York e sulla devastazione che aveva lasciato sulla
città, ha avuto l’idea che potesse aiutare a ridurre al minimo le
vittime civili nel caso in cui in futuro si verificasse un’altra
battaglia ambientata nella città metropolitana. Questo lo portò ad
“attivare e assegnare una Legione di Ferro alla causa dei
Vendicatori”; con l’uso dell’automazione, Tony ha predetto di
essere in grado di inventare una dozzina di costumi in almeno una
settimana, e all’epoca dei fatti narrati in Iron Man 3, aveva 35 armature volanti. Tony ha
anche incaricato JARVIS (Paul
Bettany) di “controllare a distanza alcune unità
individualmente, secondo necessità”, il che spiega perché
l’I.A. aveva accesso a diverse unità come si vede nel film.
Tony Stark e l’ossessione per la
creazione della Iron Legion in Iron Man 3
Tony voleva anche utilizzare la Iron
Legion come supporto se i Vendicatori avessero mai dovuto
affrontare un enorme esercito come hanno fatto in
The Avengers. Mentre i Chitauri erano
abbastanza facili da abbattere, gli eroi facevano fatica a
contenerli perché erano ridicolmente sopraffatti e inferiori a
livello numerico. Riconoscendo questo come un margine di
miglioramento, Iron Man pensava che una serie di armature
specializzate potesse aiutarli. Oltre ad essere un’estensione
fisica per i Vendicatori, Tony pensava che la Iron Legion potesse
aiutare con la diffusione delle informazioni, utilizzando le tute
“per comunicare in modo efficace, in modo che non ci
fosse alcuna disinformazione”.
Vale la pena notare che questo non
era l’unico progetto di Tony dopo la Battaglia di New York; come
rivelato in Spider-Man:
Homecoming, ha anche collaborato con il governo degli
Stati Uniti per creare il Department of Damage Control (D.O.D.C.),
che ha assunto la direzione della pulizia della città.
Questa nuova informazione
proveniente da The Wakanda Files evidenzia quanto fosse
stato proattivo Iron Man quando si occupava di potenziali minacce
sulla Terra. Anche dopo che la squadra di supereroi si è sciolta in
Captain America: Civil War, ha continuato a lavorare
da solo, rimanendo impegnato nella loro causa in qualità di
difensori della Terra. Tutto ciò sembra anche contraddire
direttamente ciò che è stato precedentemente rivelato, ossia la
ragione principale alla base della creazione della Iron Legion.
Tony ha detto esplicitamente a Rhodey/War Machine (Don
Cheadle) in
Iron Man 3 che pensava che non fossero sufficienti
“per quello che sta arrivando”, un riferimento alla
sua premonizione di un altro attacco extraterrestre che alla fine è
avvenuto in Avengers:
Infinity War.
James Gunn, regista dell’attesissimo The Suicide
Squad, ha finalmente parlato del film di David Ayer uscito nel 2016, difendendolo a
spada tratta. Il cinecomic di Ayer, lo sappiamo, ha dovuto
affrontare una serie di problematiche fin dalla fase di riprese,
con la Warner Bros. che ha costretto il regista ad apportare una
serie di modifiche sostanziali alla versione originale del
film.
Il tagli effettuati durante il
montaggio hanno restituito un film dalla trama confusa e poco
attento alla psicologia dei personaggi; insomma, un prodotto
profondamente diverso da quello che Ayer aveva inizialmente
concepito. Tuttavia, nonostante l’accoglienza negativa da parte
della critica e di alcuni fan, il film ha comunque incassato 746
milioni di dollari al box office mondiale. Diversi mesi dopo, sulla
scia di quanto accaduto con la Snyder Cut di Justice
League, David Ayer ha confermato di essere
intenzionato a rilasciare il taglio originale del suo Suicide
Squad, anche se al momento non sappiamo quali siano le
intenzione della Warner in merito.
Prima ancora dell’uscita di Suicide
Squad nelle sale, un sequel era già stato messo in
cantiere, con Ayer che sarebbe dovuto tornare dietro la macchina da
presa, ma che ha poi deciso di abbandonare la regia per dedicarsi a
Gotham City Sirens (progetto DC finito, ad
oggi, nel dimenticatoio). Con gli anni, soprattutto sulla scia
dell’insuccesso del primo film, il sequel è diventato una sorta di
riavvio, con
James Gunn che è stato incaricato dalla WB di occuparsi della
regia.
James Gunn su David Ayer: “Ha
scelto attori fantastici con cui lavorare”
The Suicide
Squad di James Gunn promette un approccio totalmente
diverso alla Task Force X, ma ciò non ha impedito al “papà” del
franchise di Guardiani della Galassia di
prendere le difese del primo Suicide
Squad ad opera di David Ayer. In un’intervista con Empire,
infatti, Gunn ha lodato la scelta del cast e ha riconosciuto che il
prodotto finale non era quello che Ayer aveva in mente.
“David Ayer ha avuto dei
problemi con quel film”, ha spiegato Gunn. “So che non è
venuto fuori come David voleva che uscisse. Ma ha fatto una cosa
davvero, davvero grandiosa: ha scelto attori fantastici con cui
lavorare. Ha affiancato questi attori nella costruzione dei loro
personaggi in un modo davvero profondo, senza paura. È qualcosa per
cui David merita sicuramente di essere lodato, ed è sicuramente
qualcosa che traspare nel film.”
Nelle sue stories di Instagram,
l’attore ha informato che in questo momento si trova a casa sua ad
Atlanta e lì ha ricevuto un pacco, dentro a quel pacco c’era un
iPad, e su quell’iPad una sceneggiatura, proprio quella di
Spider-Man 3. L’attore ha detto che non avrebbe
rivelato niente perché “ho imparato la lezione”, ma ha detto che
non vede l’ora di scoprire cosa succederà al suo eroe nella sua
terza avventura.
Cosa sappiamo di Spider-Man 3?
Di Spider-Man
3 – che arriverà al cinema il 17 Dicembre 2021 – si
sa ancora molto poco, sebbene la teoria più accredita è quella
secondo cui il simpatico arrampicamuri sarà costretto alla fuga
dopo essere stato incastrato per l’omicidio di Mysterio (e con il
personaggio di Kraven il Cacciatore che sarebbe sulle sue tracce).
Naturalmente, soltanto il tempo sarà in grado di fornirci maggiori
dettagli sulla trama, ma a quanto pare il terzo film dovrebbe
catapultare il nostro Spidey in un’avventura molto diversa dalle
precedenti…
Tom
Holland si è unito al MCU nei panni di Peter Parker nel
2016: da allora, è diventato un supereroe chiave all’interno del
franchise. Non solo è apparso in ben tre film dedicati ai
Vendicatori della Marvel, ma anche in due standalone:
Spider-Man: Homecoming e Spider-Man: Far
From Home. La scorsa estate, un nuovo accordo siglato
tra Marvel e Sony ha permesso al
personaggio dell’Uomo Ragno di restare nel MCU per ancora un
altro film a lui dedicato – l’annunciato Spider-Man
3 – e per un altro film in cui lo ritroveremo al
fianco degli altri eroi del MCU.
Sono tanti i film statunitensi che
negli anni si sono concentrati sul raccontare la vita dei più noti
presidenti del paese. Per una volta, invece, ad essere stata
portata sul grande schermo è la storia di una figura apparentemente
marginale, ma in grado di raccontare nuovi aspetti dell’America. Si
tratta di Eugene Allen, maggiordomo di colore
della Casa Bianca per più di trent’anni. La sua storia è raccontata
nel film del 2013 The Butler – Un
maggiordomo alla Casa Bianca, diretto da
Lee Daniels, e ispirato dall’articolo del
Washington Post intitolato A Butler Well Served by This
Election.
A seguito della scomparsa di Allen,
avvenuta nel 2010, la Columbia Pictures acquisì infatti i diritti
per realizzare un film su di lui, avvalendosi di un numeroso cast
di grandi interpreti. Il film copre infatti un arco temporale
particolarmente ampio, e numerosi sono i ruoli presenti nel film.
Tale grandezza ha generato molte aspettative nei confronti del
film, che venne poi accolto favorevolmente tanto dalla critica
quanto dal pubblico. Al momento della sua uscita in sala, infatti,
The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca incassò un
totale di circa 176 milioni di dollari, a fronte di un budget di
soli 30.
Il film fu considerato anche uno
dei maggiori contendenti al premio Oscar, ritrovandosi poi però
privo di nomination. Ciò non ha ovviamente inficiato sul valore del
film, apprezzato in ogni dove per l’aver raccontato una storia
tanto dimenticata quanto importante. Lo stesso presidente degli
Stati Uniti di allora, Barack Obama, si dichiarò
un grande fan del film, affermando di essere rimasto commosso nel
vedere ritratto il valore della vita di Allen, simbolo per intere
generazioni di oppressi ancora oggi.
The Butler – Un maggiordomo alla
Casa Bianca: la trama del film
Protagonista del film è Cecil
Gaines, il quale negli anni Venti cresce nella piantagione di
cotone dove la sua famiglia lavora. Sottoposto a torture e traumi,
egli riesce infine a fuggire dalla tirannia conosciuta nel Sud,
desideroso di costruirsi una vita migliore altrove. Egli inizia
così a formarsi, acquisendo competenze che lo portano a lavorare
come maggiordomo all’interno della Casa Bianca. Qui egli rimane dal
1957 al 1986, prestando servizio sotto ben sette presidenti, da
Eisenhower a Kennedy, da Nixon a Reagan. Lavorando a stretto
contatto con tali figure, egli diventa testimone di alcuni dei
momenti più importanti della storia degli Stati Uniti, in
particolare quelli legati al movimento per i diritti civili. Tali
eventi si ripercuotono ovviamente su Cecil sia come padre di
famiglia che come maggiordomo.
The Butler – Un maggiordomo alla
Casa Bianca: il cast del film
Il film presenta un ricchissimo
cast di celebri attori, tra cui molti premi Oscar. Questi ricoprono
ruoli che, seppur talvolta brevi, si affermano tutti a loro modo
come memorabili. Il primo della lista è Forest
Whitaker, che dà volto al protagonista Cecil Gaines.
Per potersi calare meglio nella parte, questi studiò a lungo la
vita del vero maggiordomo su cui il film è basato, cercando di
comprenderne gli sviluppi emotivi e di pensiero. Nel ruolo di
Gloria Gaines, sua moglie, vi è Oprah Winfrey,
mentre David Oyelowo è il figlio Louis Gaines. Vi
sono poi Cuba Gooding Jr. nei panni di Carter
Wilson e Lenny Kravitz in quelli di James
Holloway, entrambi dipendenti presso la Casa Bianca. Terrence
Howard recita nel ruolo di Howard, vicino dei Gaines,
mentre Vanessa
Redgrave è Annabeth Westfall, proprietaria della
piantagione dove lavora Cecil da bambino.
Per i ruoli dei presidenti degli
Stati Uniti, come anche di altre personalità ad essi legati, sono
stato poi chiamati a recitare noti attori come Robin
Williams nei panni di Dwight D. Eisenhower e James
Marsden in quelli di John F. Kennedy, con
Minka Kelly ad interpretare la celebre Jackie
Kennedy. Liev
Schreiber ha interpretato Lyndon B. Johnson, mentre
John
Cusack è stato Richard Nixon. Infine, Alan
Rickman interpreta Ronald Reagan, l’ultimo presidente
servito da Cecil. Jane
Fonda è invece presente nei panni della first lady
Nancy Reagan. Vi sono poi anche diverse figure storiche di rilievo,
come Martin Luther King interpretato da Nelsan
Ellis, e l’attivista James Lawson, che ha qui il volto di
Jesse
Williams.
The Butler – Un maggiordomo alla
Casa Bianca: la vera storia dietro al film
Il film presenta alcune sostanziali
differenze rispetto alla vera vita di Allen, il cui nome viene nel
film cambiato in Cecil Gaines. Ciò ha permesso agli autori di
raccontare alcuni storici eventi del paese visti attraverso gli
occhi di un uomo solo parzialmente ispirato al vero maggiordomo. Le
differenze iniziano sin dallo stabilire la provenienza di questi.
Il vero Allen è infatti nato in una piantagione di cotone in
Virginia, e non vi sono molte notizie circa i suoi primi anni di
vita. Nel 1952, questi viene poi assunto a lavorare alla Casa
Bianca dopo che una sua conoscenza gli suggerì la posizione aperta
di maggiordomo. Qui egli inizia a lavorare come garzone di cucina,
divenendo poi valletto e infine maggiordomo personale del
presidente.
Egli inizia così una gloriosa
carriera durata trentaquattro anni, durante la quale si è
guadagnato la fiducia, la stima e l’affetto dei presidenti per i
quali ha lavorato. In particolare, egli è stato invitato a prendere
parte ad alcuni dei momenti più importanti della vita politica,
come il funerale di Kennedy. Allen rifiutò però di partecipare,
affermando che avrebbe reso più omaggio al presidente rimanendo
nella Casa Bianca ad organizzare il servizio seguente la cerimonia.
La sua storia si conclude poi sotto il presidente Reagan, con il
quale possedeva a sua volta un buon rapporto, non minacciato dai
conflitti sull’apartheid vigenti all’epoca. Nel 2008, Allen viene
convocato nuovamente nel luogo dove ha lavorato per la maggior
parte della sua vita. Qui incontra il neoeletto Barack Obama, il
quale lo ringrazia per il suo servizio e il suo valore.
The Butler – Un maggiordomo alla
Casa Bianca: il trailer e dove vedere il film in streaming e in
TV
Per gli appassionati del film, o
per chi desidera vederlo per la prima volta, sarà possibile fruirne
grazie alla sua presenza nel catalogo di alcune delle principali
piattaforme streaming oggi disponibili. The Butler – Un
maggiordomo alla Casa Bianca è infatti presente su
Rakuten TV, Google Play e Apple iTunes. Per poter
usufruire del film, sarà necessario sottoscrivere un abbonamento
generale o noleggiare il singolo film. In questo modo sarà poi
possibile vedere il titolo in tutta comodità e al meglio della
qualità video, senza limiti di tempo. Il film è inoltre in
programma in televisione per lunedì 26 ottobre
alle ore 21:00 sul canale
Iris.
Affascinante dramma sul mondo della
scrittura, a cui non mancano anche toni da thriller,
The
Words è arrivato nei cinema nel 2012, segnando il
debutto alla regia di Brian Klugman e Lee
Sternthal. Nel film da loro ideato nel lontano 1999, si
racconta l’atto della creazione artistica e del suo concepimento da
parte di un autore, concentrandosi in particolare proprio sulla
figura dell’uomo dietro l’opera. I due registi, qui anche
sceneggiatori, decidono però di raccontare tale tematica attraverso
una storia non propriamente lineare, e che riserva numerosi colpi
di scena allo spettatore.
Presentato in anteprima al Sundance
Film Festival, The Words non ricevette particolari lodi da
parte della critica, la quale sottolineava la mancata appartenenza
ad un genere ben preciso. Con il tempo, tuttavia, in molti si sono
ricreduti sul film, affermando che esso necessita un’approfondita
analisi per poter essere realmente compreso e apprezzato. Al
momento dell’uscita in sala, invece, il film venne accolto da un
buon successo di pubblico, il quale si dimostrò attratto dalla
storia e dagli attori coinvolti. The Words arrivò infatti
a guadagnare circa 16 milioni di dollari a livello globale, a
fronte di un budget di soli 6.
La popolarità del film venne
involontariamente favorita anche da un’inattesa accusa di plagio.
Vennero infatti evidenziate diverse somiglianze tra la trama del
film e quelle del romanzo Lila Lila, dell’autore svizzero
Martin Suter. I due registi, tuttavia, affermarono di non essere a
conoscenza di tale libro, e di aver comunque ideato il loro film
ben prima della pubblicazione di questo. Un’accusa che ha ricordato
molto quella che viene svolta anche all’interno dello stesso
The Words, generando così un certo interesse per la
vicenda e il film in sé.
The Words: la trama del film
Il film si apre con il noto
scrittore Clayton Hammond, il quale è intento in una lettura
pubblica di alcuni passi del suo ultimo romanzo di successo,
intitolato The Words. Questo ha per protagonista Rory
Jansen, giovane aspirante scrittore che tenta in tutti i modi di
vendere ad un editore il suo primo romanzo, vedendosi però
rifiutato da ogni parte. Per poter mantenere sé stesso e la propria
compagna, egli decide allora di accettare un lavoro in un’agenzia
letteraria, senza abbandonare però le proprie aspirazioni da
scrittore. La sua vita cambia per sempre nel momento in cui,
durante il viaggio di nozze a Parigi, Rory si imbatte in una
valigetta contenente un vecchio manoscritto, privo di autore.
Spinto dalla bellezza della storia
in esso raccontata, Rory decide di pubblicarlo a suo nome,
appropriandosi così dell’idea altrui. Il libro si rivela da subito
un grandissimo successo, e porta Rory ad ottenere una fama che va
oltre le sue aspettative. Tale popolarità non può che portare però
anche diversi guai. Ben presto, infatti, un anziano si presenta a
Rory come il vero autore del romanzo. Da qui ha inizio un rapporto
insolito tra i due, con il giovane scrittore che dovrà scoprire le
reali intenzioni del vecchio. In gioco c’è la sua carriera, la sua
bella vita e l’amore della sua compagna, convinta che egli sia il
vero ed unico autore del romanzo. Per Rory, dunque, è questo un
caso in cui la vera verità può soltanto far male.
The Words: il cast del film
Tra i principali motivi del
successo del film vi è il suo grande cast di attori, il più dei
quali particolarmente noti a livello mondiale. Il primo di questi è
Bradley
Cooper (Una notte da leoni, A Star is Born),
che ricopre il ruolo di Rory Jansen. Questi è amico d’infanzia dei
i due registi, per i quali era l’unica scelta per il personaggio. I
due raccontarono a Cooper l’idea per il film già nel 1999, e lui
accettò di interpretare il protagonista. Passarono poi più di dieci
anni prima della realizzazione di The Words, ma l’attore
mantenne la sua parola. Nel ruolo di Dora Jansen, invece, vi è
l’attrice Zoe
Saldana (Avatar, Guardiani della Galassia). Sul
set l’attrice intrecciò una vera relazione sentimentale con Cooper,
poi durata fino al 2013.
Nel ruolo de Il Vecchio, il vero
autore del manoscritto, vi è invece il premio Oscar Jeremy
Irons (La corrispondenza, Batman v Superman), mentre il
personaggio di Clay Hammond è interpretato da Dennis Quaid
(Midway, Qua la zampa!). Altri ruoli importanti sono
ricoperti da Oliva
Wilde (Her, Richard Jewell), nei panni di
Daniella, giovane studentessa che intervista Hammond, e J. K.
Simmons (Spider-Man,Whiplash), che
dà invece vita a mr. Jansen, padre di Rory. Gli attori Ben
Barnes (Dorian Gray, Le cronache di Narnia – Il
principe Caspian) e Nora Arnezeder
(Maniac, Zoo) sono invece Uomo Giovane e Celia, personaggi
che troveranno spiegazione nel corso della storia.
The Words: la spiegazione del
finale del film
Nel corso del film si intrecciano
tre storie parallele apparentemente legate soltanto dal comune tema
della scrittura. La prima, quella con cui si apre il film, è quella
di Clay Hammond, apprezzato scrittore intento a leggere alcuni
passi del suo nuovo libro. La storia di questo è quella fittizia di
Rory Jansen e del manoscritto anonimo trovato e pubblicato a suo
nome. La terza, invece, è un racconto nel racconto, ed è quella che
vede Il Vecchio, il vero autore del romanzo, raccontare a Rory come
abbia avuto l’ispirazione per quella scrittura. Le tre storie si
svolgono lasciando presagire un intreccio più ardito di quanto si
penserebbe, ma che viene svelato soltanto nel finale.
Si avvisa per tanto che
seguiranno spoiler su questo, e si sconsiglia la lettura qualora
non si sia ancora visto il film.
Come detto, nel finale le tre
storie si svelano per essere in realtà una sola. Con il suo libro
The Words, che sembrava essere un racconto di finzione,
Hammond sta invece svelando la propria autobiografia. Rory non è
altro che Clay da giovane. Egli si è realmente imbattuto in un
manoscritto, con il quale ha ottenuto la fama, ma ha anche dovuto
confrontarsi con il vero autore e con la storia di questi. Assalito
dal senso di colpa, egli ammette così con il nuovo romanzo il suo
plagio. Tale liberazione non è però sufficiente per lui, il quale a
causa di quello scandalo taciuto perse l’amore di sua moglie Dora.
È a lei che Hammond chiede perdono con questo smascheramento,
sperando di poterla riabbracciare nuovamente.
The Words: il trailer e dove
vedere il film in streaming e in TV
Per gli appassionati del film, o
per chi desidera vederlo per la prima volta, sarà possibile fruirne
grazie alla sua presenza nel catalogo di alcune delle principali
piattaforme streaming oggi disponibili. The Words è
infatti presente su Chili Cinema, Google Play, Apple
iTunes, e Netflix. Per poter usufruire del film, sarà
necessario sottoscrivere un abbonamento generale o noleggiare il
singolo film. In questo modo sarà poi possibile vedere il titolo in
tutta comodità e al meglio della qualità video, senza limiti di
tempo. Il film è inoltre in programma in televisione
per lunedì 26ottobre alle
ore 21:20 sul canale
Cielo.
A oltre otto anni di distanza dal
suo esordio, Re della Terra Selvaggia, Benh Zeitlin torna a dirigere per il cinema,
reinventando una storia che ha accompagnato la sua infanzia, quella
di Peter Pan e dei bambini sperduti. Il film si intitola Wendy e,
nel lavoro di riscrittura che il regista ha fatto insieme alla
sorella Eliza, è il risultato di una trasposizione prima di tutto
geografica e poi emotiva dell’avventura del bambino che non voleva
crescere.
Come accaduto al nostro
Matteo Garrone, che sin da piccolo voleva
raccontare per immagini la storia di Pinocchio, Benh ed Eliza sono cresciuti nella
magia di un altro grande classico per ragazzi, quello di
J.M. Barrie, che racconta di bimbi, pirati,
coccodrilli, sirene e magia. In questa storia, invece, seguiamo una
ragazzina, Wendy, che vive con la madre e due fratelli gemelli su
un diner, gestito dalla donna, e che da piccola è
testimone della sparizione di un bimbo. Qualche anno dopo, di
notte, lei e i suoi fratelli saltano su un treno in corsa e sui
vagoni che sfrecciano nella natura selvaggia, incontrano un
ragazzino afroamericano che li porterà su un’isola sperduta e
incolta, dove altri bambini come lui comunicano con la Madre Terra,
e non crescono mai.
Wendy è la protagonista della nuova lettura di Peter Pan
Il primo elemento di originalità nel
racconto di Zeitlin è che si sceglie di spostare l’inizio della
storia dalla Londra dell’inizio Novecento al caldo e brullo
Southern americano, un paesaggio che ricorda più Mark
Twain che Barrie. Lì, Wendy cresce in mezzo a persone
amiche, uomini e donne che popolano il diner gestito dalla madre,
che ha abbandonato i suoi sogni per portare avanti quell’attività e
avere dei figli, diventando grande, donna e madre. La seconda
operazione che compie il regista, a quattro mani con la sorella
sceneggiatrice, è quello di eliminare la magia in senso stretto e
pervadere la storia di una spiritualità legata alla natura, alla
Madre Terra, appunto, con cui i bambini parlano, giocano e
interagiscono in diversi momenti della storia, decisamente i più
suggestivi.
L’isola selvaggia e senza nome in
cui si ambienta gran parte dell’avventura di Wendy, con i suoi
fratelli e con Peter è un territorio rigoglioso, misterioso, che
offre loro infinite possibilità di gioco in una continua sensazione
di sogno ad occhi aperti, un non-luogo (l’isola che non c’è,
appunto) che è anche un non-tempo, o meglio in cui il tempo scorre
in base alla volontà di chi abita lì.
Zeitlin fugge dalla concettualizzazione con una regia
libera
Zeitlin è bravissimo a svicolare
ogni possibile concettualizzazione della storia, ogni gabbia
didattica che possa in qualche modo imbrigliare il selvaggio
spirito che anima non solo i piccoli protagonisti, ma il film
stesso. Lo fa con una regia libera, leggera, appassionata,
accompagnando le immagini con una colonna sonora da lui composta
che ricorda molto da vicino le partiture realizzate per Re della
Terra Selvaggia e che restituiscono allo stesso modo sensazioni di
libertà e giovinezza.
Wendy è la lente
attraverso cui guardiamo tutto ciò che accade, è lei che guida i
nostri passi e anche quelli degli altri protagonisti. È lei che
decide quando l’avventura deve cominciare, ma anche quando la
storia che ognuno di loro racconta deve diventare una storia che
scende a patti con il tempo, con la realtà, lontano da quei luoghi
mistici.
Un’avventura viscerale e scalmanata
Le idee, sia visive che narrative,
di Benh Zeitlin sono fresche e affascinanti, come
la rappresentazione dello spirito della Madre, o come la genesi di
Capitan Uncino che non sveliamo per non rovinare la visione. Con un
primo film arrivato direttamente agli Oscar, Zeitlin si è preso il
suo tempo, rifiutando offerte allettanti, e impiegando otto anni a
realizzare il suo secondo film, sicuramente più difficile del
primo, ma con il quale condivide lo spirito selvaggio di un
narratore che ama la storia che racconta.
Wendy è
un’avventura viscerale, scalmanata e allo stesso tempo intima, in
un luogo dell’infanzia dove si conosce il valore, potente e puro,
delle storie, un luogo che si finisce per dimenticare, da grandi. E
Benh Zeitlin, per fortuna, non lo ha
dimenticato.
Oscar Isaac è in trattative per interpretare
il protagonista della serie Disney+Moon
Knight, basata sull’omonimo personaggio del
fumetti Marvel. Moon
Knight racconta la storia di Marc Spector, un
soldato d’elite e mercenario che decide di combattere il crimine e
decide di diventare il rappresentante umano di Khonshy, il dio
egizio della luna.
Il ruolo segnerebbe il ritorno di
Oscar Isaac ai personaggi Marvel. Ha infatti interpretato il
villain Apocalisse in X-Men: Apocalypse, per la
Fox. Inoltre, Isaac ha già lavorato con la Disney nel franchise di
Star
Wars, in cui ha interpretato, nella trilogia sequel,
Poe Dameron. Pur avendo partecipato a prodotti blockbuster,
Oscar Isaac è molto amato anche dal cinema e
dalla tv d’autore e ha avuto il suo grande ruolo nel 2014 con il
film dei Fratelli CoenA proposito di
Davis, che gli è valso una candidatura ai Golden Globes.
La Marvel invece non ha commentato la
notizia, per il momento.
Documentarista dagli esiti
altalenanti, che non vede corrispondenza tra qualità e successo del
suo lavoro, Elisa Amoruso esordisce al lungometraggio di
finzione con Maledetta Primavera, un evento
speciale della
Festa del Cinema di Roma 2020, in collaborazione tra la
Selezione Ufficiale di Antonio Monda e la sezione autonoma e
parallela Alice nella Città.
Dopo il bellissimo e acuto
Strane Straniere, passato in sordina, e Chiara Ferragni Unposted, uno spot
pubblicitario sulla fashion blogger e imprenditrice milanese che ha
fatto il giro del mondo, avevamo visto Amoruso tornare a progetti
più piccoli e interessanti con Bellissime, il film documentario presentato
l’anno scorso sempre alla Festa di Roma, che in quest’anno strano
ha deciso di ospitare l’opera prima di fiction della regista
romana.
La trama di Maledetta
Primavera
Maledetta primavera e un teen movie
ambientato negli anni ’80 (1989) che racconta di tre donne. Nina
(Emma Fasano) adolescente che si trapianta con la
famiglia in un nuovo quartiere e in una nuova scuola, non conosce
nessuno, non riesce a fare amicizia con nessuno se non con la
bellissima vicina, dalla quale è irrimediabilmente attratta. Sirley
(Manon Bresch), quella vicina consapevolmente
conturbante, diversa, inquieta, troppo consapevole per la sua età,
per la sua scuola, per chi la circonda, strana, diversa, che
addirittura parla un’altra lingua e la parlerà soltanto con Nina,
unica che sembra capirla. Laura (Micaela
Ramazzotti), giovane moglie e madre che non riesce a
capire la figlia adolescente, ma che per prima non riesce a
comprendere se stessa, vivendo in un costante stato di agitazione e
insoddisfazione. La storia racconta un pezzetto delle loro vite,
dei loro desideri semplici eppure irrealizzabili.
Un teen movie raccontato
a distanza
Elisa Amoruso riesce con grazie a raccontare
l’adolescenza, lo fa con attenzione, sia da un punto di vista della
messa in scena, con oggetti e costumi, sia per quanto riguarda il
tratteggiare caratteri e personaggi, in maniera precisa,
realistica. Riesce un po’ meno a dare tridimensionalità agli
adulti, ad un padre scapestrato e assente interpretato da
Giampaolo Morelli, a Laura, che offre a Ramazzotti
un ruolo che replica alla perfezione quanto portato al cinema
dall’attrice fino a questo momento.
Tuttavia questo racconto delicato
dell’adolescenza e dei suoi drammi insormontabili, proprio perché
vissuti in quegli anni, Amoruso non riesce a cancellare il distacco
che esiste tra macchina da presa e soggetto. Il suo incedere trai
personaggi è quello di un occhio estraneo, indagatore, quasi
giudicante, superiore su personaggi che invece hanno solo bisogno
di essere mostrati ed accolti.
Scalda sempre il cuore vedere
accostati i nomi di
Nick Frost e
Simon Pegg. Succede sia quando entrambi recitano
insieme in film che sono quasi sempre dei gioielli preziosi (vedi
la Trilogia del Cornetto di Edgar
Wright), sia quando oltre a metterci la faccia, ci mettono
anche le loro penne affilate. Così accade in Truth
Seekers, la nuova serie originale Amazon Prime che i due
firmano da autori e in cui recitano.
Protagonista della serie, in
verità, è il personaggio di Frost, Gus Roberts, che insieme allo
strambo Elton John (Samson Kayo), forma una specie
di duo che investiga su fenomeni paranormali e che registra poi le
proprie imprese per un canale youtube, dal quale prende il nome la
serie: Truth Seekers, Cercatori di
verità. La serie segue le sgangherate avventure dei due e
si fregia, oltre che della presenza di Simon Pegg nel ruolo di Dave, anche di
Malcom McDowell (Richard, il burbero papà di Gus)
e della meno famosa ma bravissima
Emma D’Arcy, che interpreta l’inquieta Astrid.
Mentre sorvegliano chiese infestate
da fantasmi, bunker sotterranei e ospedali abbandonati con la loro
gamma di aggeggi casalinghi che rilevano i fantasmi, le esperienze
soprannaturali dei Truth Seekers diventano
sempre più frequenti, più terrificanti e persino mortali, iniziando
a scoprire una cospirazione che potrebbe causare l’Armageddon per
l’intera razza umana.
Naturalmente non
sorprenderà scoprire che la serie, che è firmata, tra gli altri, da
Frost e Pegg, mescola i toni dell’horror
soprannaturale a quelli della comedy inglese, con risate garantite,
per quanto composte. E infatti il prodotto si pone come un
miscuglio di toni e situazioni, che fa incrociare Ghostbusters con Scooby Doo e
X-Files.
E proprio in questa mescolanza di
toni che risiede, dal punto di vista dell’invenzione in fase di
scrittura, l’elemento interessante di Truth
Seekers: la mescolanza di generi, l’accostamento tra
horror, qualche volta anche gore, commedia dall’umorismo
decisamente inglese e fantascienza, che irrompe soprattutto quando
i protagonisti mettono in campo le loro conoscenze in fatto di
tecnologia e mettono a punto la loro apparecchiatura fatta in
casa.
Un punto d’incontro tra horror, commedia e sci-fi
Se c’è un difetto in Truth
Seekers è che, pur mirando ad una orizzontalità che si
prefigge di tenere lo spettatore con il fiato sospeso, la serie
funziona meglio sulla verticalità degli episodi, con la trama
orizzontale che lascia a desiderare mentre più brillanti sono le
idee che si esauriscono nella circostanza del singolo episodio.
Truth Seeker è una
serie per gli appassionati di cinema horror/sci-fi ma soprattutto
per i fan della coppia comica Frost-Pegg, che comunque si conferma
un duo vincente.
Si chiama Punta
Sacra il documentario diretto da Francesca Mazzoleni che è stato presentato
nella selezione ufficiale della
diciottesima edizione di Alice nella Città. Racconta di un
mondo quasi dimenticato, di un luogo che diventa sacro perché quasi
mitico, eppure reale e vivo, pulsante di malinconia e di vita, teso
verso il futuro.
Mazzoleni porta il
suo occhio all’idroscalo di Ostia, quel lembo di terra tra fiume e
mare, dove 10 anni fa sono state abbattute le abitazioni abusive e
dove la foce del Tevere confonde le sue acque con il sale del
Tirreno. La regista segue da vicino coloro che sono rimasti ad
abitare lì, desiderosi di stare dove stanno, piantati, seppure
precariamente, in un luogo che sentono profondamente loro, spazzato
da vento, triste eppure vitale.
Punta Sacra si
addentra nelle pieghe di questa piccola comunità matriarcale, dove
i conflitti generazionali sono gli stessi che in qualsiasi altro
posto, ma dove il senso di appartenenza, la vitalità, la
propensione al futuro sembrano una ricerca affamata di felicità.
Francesca Mazzoleni riesce a raccontare tutto
con occhio imparziale, ma senza il distacco del documentario
scientifico, piuttosto immedesimandosi senza giudicare ogni suo
protagonista.
Punta Sacra, il racconto di chi spera nel futuro
Punta Sacra
racconta storie di vita, di memoria, di ambizioni, di identità che
si sentono appartenenti ad un luogo, definite dallo stesso,
considerato lontano da ogni altro luogo, mentalmente più che
geograficamente, dove ancora si racconta di Pasolini, del suo
omicidio, del fatto che non fu ucciso all’idroscalo, ma che ci
venne portato, della sua capacità di generare ancora lotte
ideologiche.
Ma questa è solo una storia, perché
il film ne mostra e ne racconta tante, tutte con la stessa
attenzione e cura, tutte con protagonisti persone, individui che
non possono fare a meno di sentirsi legati a quella comunità che li
assiste e li nutre, che dà loro una identità di luogo.
Punta Sacra è un
documentario insolito, che trova il perfetto equilibrio tra la
narrazione intima del protagonisti e l’occhio scientifico di chi li
inquadra. Ci pensano loro a raccontarsi, a mostrarsi, quello che
Mazzoleni si concede, è solo qualche sguardo
romantico al mare, al posto, eternamente ostile eppure
visceralmente amato da tutti quelli che sono intenzionati
continuare a costruire lì il loro futuro.
They Were Ten
arriva su Fox (112, Sky) in anteprima mondiale ogni martedì alle 21
a partire dal 27 ottobre. La serie è un adattamento contemporaneo
del capolavoro di Agatha Christie, il romanzo
poliziesco più venduto di tutti i tempi. Un nuovo thriller
psicologico diretto dall’acclamato regista francese Pascal
Laugier, noto per i suoi thriller di successo tra i quali
The Secret – Le verità nascoste con Jessica Biel.
They Were Ten: quando esce e dove
vederlo in streaming
They Were Ten
debutta su Fox (sky, 112) martedì 27 ottobre alle 21 ed è composta
da 6 episodi da 60 minuti.
They Were Ten: la trama e il
cast
Nel cast Matilda
Lutz, attrice e modella italiana già nota al pubblico
italiano per aver recitato nel film di Gabriele
MuccinoL’Estate Addosso, nella serie I Medici e nei
film pulp Revenge e horror The Ring 3. Oltre
all’attrice italiana nel cast anche gli attori francesi
Samuel Le Bihan, Guillaume de Tonquedec, Marianne
Denicourt, Romane Bohringer, Patrick Mille, Samy Seghir, Nassim Si
Ahmed, Manon Azem, Isabelle Candelier.
Dieci persone, cinque donne e
cinque uomini, sono invitate in un hotel di lusso su un’isola
tropicale deserta. Ben presto si renderanno conto che sono
completamente isolati, tagliati fuori dal mondo e da tutti i mezzi
di comunicazione e l’isola diventerà rapidamente il loro peggior
incubo. Perché sono stati attirati in questa trappola morbosa? La
risposta è nascosta nel loro passato che ognuno ha cercato di
seppellire e che oggi, sotto il sole caldo dell’isola, stanno
incominciando a pagare. Uno dopo l’altro saranno uccisi ponendo
l’ultima domanda: chi è l’assassino?
Il 2020 è stato il primo anno senza
un film dei
Marvel Studios. Sperando che per il 2021 la situazione mondiale
tornerà alla normalità e i cinema potranno nuovamente godere del
prestigio che meritano,
ComicBookMovie ha deciso di viaggiare a ritroso nella memoria
del
MCU, stilando una classifica delle 10 migliori scene
post-credits dell’universo condiviso che hanno anticipato
l’incredibile futuro dell’Universo
Cinematografico Marvel.
Il martello di Thor (Iron Man 2, 2010)
Una delle prime scene
post-credits. Sapevamo tutti che Thor sarebbe arrivato quando
Iron Man 2 è stato rilasciato al cinema, ma
quest’anticipazione ci ha permesso di dare un primo sguardo al
Mjolnir dopo che si era schiantato sulla Terra. Anche se ci ha
lasciato con molte domande, era impossibile non sentirsi esaltati
dopo aver assistito a quest’anticipazione sull’arrivo del Dio del
tuono, sapendo che sarebbe stato un punto di svolta per il MCU, mentre ci muovevamo dalle
avventure radicate di Iron Man alle sale aliene di Asgard.
A molti questa scena potrebbe
apparire oggi 6come un sorta di smorto teaser trailer in relazione
agli standard odierni, ma la verità è che nel 2010 si è trattato di
qualcosa di davvero epico!
Adam (Guardiani della Galassia Vol. 2, 2017)
L’acclamato sequel di
Guardiani
della Galassia di James
Gunn presenta più scene post-credits di qualsiasi altro film
Marvel, ma questo è stato un
momento clou innegabile. Per anni dilagavano speculazioni circa la
possibilità che Adam Warlock arrivasse nel MCU, e il regista ha finalmente
gettato le basi per ciò con questa sequenza davvero intrigante.
Il sequel vantava una serie
memorabile di scene post-credits, ma questa si distingue davvero
come qualcosa di speciale, anche se molti fan sono rimasti delusi
dal fatto che non abbia dato i suoi frutti in Avengers:
Infinity War. I non avvezzi ai fumetti sarebbero rimasti
senza dubbio sconcertati dalla menzione di un certo Adam, ma
sapevamo tutti cosa significava. Speriamo che Guardiani della Galassia Vol. 3 possa finalmente
regalare ai fan ciò che aspettano ormai da tempo.
L’arrivo di Captain Marvel (Avengers: Infinity War,
2018)
I Marvel Studios hanno fatto un ottimo lavoro
nel tenere nascoste le più grandi sorprese di Avengers:
Infinity War e questo significava che non avevamo
idea di cosa aspettarci dalla scena post-credits dell’enorme film
dedicato al gruppo di supereroi.
Iniziando con l’indagine di Nick
Fury e Maria Hill sull’attacco di Thanos a Wakanda, siamo rimasti
sconvolti quando entrambi si sono ridotti in polvere e il
misterioso dispositivo che il primo ha lasciato cadere a terra ha
mostrato un logo che particolarmente familiare ai fan dei fumetti.
Captain Marvel era finalmente arrivata (più o
meno), e questo ha decisamente aumentato l’eccitazione per la sua
avventura da solista.
Il ballo di Groot (Guardiani della Galassia,
2014)
Per alcuni potrebbe essere
stata solo una scena post-credits “divertente”, ma i Marvel Studios non avrebbero mai
potuto rendersi conto che tipo di impatto avrebbe avuto. Questa
breve e tenerissima – anche se ridicola in modo ingenuo – sequenza
con Baby Groot che balla, ha portato a un’enorme richiesta di
merchandising che la Disney non aveva neanhce lontanamente pensato
di produrre.
È servita anche come introduzione
alla versione baby di Groot di cui ci saremmo tutti innamorati (più
di quanto non lo eravamo già) pochi anni dopo con
Guardiani della Galassia Vol. 2. Un curiosità che potreste
non sapere: è stato James Gunn a fornire il motion capture per il
ballo di Groot!
Scarlet Witch e Quicksilver
(Captain America: The Winter Soldier, 2014)
In molti modi, il MCU era ancora agli inizi nel 2014
e quindi l’introduzione di personaggi come Quicksilver e Scarlet
Witch è stato un affare considerevolmente più grande di quanto non
lo sia ora. Servendo come anticipazione di ciò che sarebbe accaduto
in Avengers:
Age of Ultron, abbiamo intravisto i gemelli in azione, e
anche se all’epoca non eravamo del tutto sicuri se sarebbero stati
eroi o cattivi (o anche mutanti), questa anticipazione è stata una
vera sorpresa che si è collegata direttamente agli eventi del film
a cui era allegata, menzionando l’apparente rovina dell’HYDRA.
All’epoca, la prospettiva che
personaggi come Quicksilver e Scarlet Witch arrivassero
nell’universo condiviso era difficile da prevedere, quindi anche
solo un breve assaggio dei due in azione sarebbe risultato
eccitante.
Stan Lee e gli Osservatori
(Guardiani della Galassia Vol. 2, 2017)
Come si fa a non amare
questa scena? Il compianto Stan “The Man” Lee ha realizzato una
serie di cameo memorabili nel MCU, ma l’apparente rivelazione di
essere stato mandato sulla Terra dagli Osservatori per tenere
d’occhio le cose – qualcosa che i fan stavano teorizzando da anni –
ha cambiato le regole del gioco.
Certo, l’avevamo visto già prima nel
film, ma il fatto che si allontanassero dal creatore mentre i suoi
racconti continuavano è stato esilarante. Anche solo vedere Gli
Osservatori in live-action è stato fantastico, e ora che i diritti
dei Fantastici Quattro sono tornati alla Marvel, speriamo che finalmente
vedremo Uatu apparire nei momenti chiave.
L’iniziativa Avengers (Iron Man, 2008)
È qui che è iniziato tutto.
Anche se i dettagli erano trapelati online in anticipo, i social
media erano agli inizi nel 2008. Di conseguenza, la manciata di fan
che hanno deciso di aspettare fino alla fine dei titoli di coda
hanno assistito all’introduzione di
Samuel L. Jackson/Nick Fury e hanno sentito parlare
dell’iniziativa Avengers per la prima volta.
Era chiaro che, in quel caso, i
Marvel Studios stavano usando “The
Ultimates” come ispirazione, ed è stato eccitante per molte
ragioni. Tuttavia, l’idea di riunire al cinema tutti i Vendicatori,
all’epoca, era difficile da credere e la maggior parte del pubblico
non poteva avere idea di quello che Kevin Feige e soci stavano
concependo nell’ombra…
L’arrivo di Thanos (The Avengers, 2002)
Mentre i fan aspettavano
pazientemente una scena post-credits alla fine di
The Avengers, sono stati spiazzati dal debutto sul grande
schermo del Titano Pazzo e hanno appreso che era stato lui a tirare
le fila di Loki dall’inizio. Realizzato con effetti pratici
piuttosto che in CGI, all’epoca non aveva un bell’aspetto, ma era
più che sufficiente per far perdere la testa ai fan.
È assurdo pensare quanto tempo ci
sia voluto perché tutto questo fosse ripagato, ma ne è valsa la
pena aspettare e questo ha dimostrato che i Marvel Studios avevano grandi
progetti in merito alla loro epica squadra.
I Vendicatori (Captain America:
Il Primo Vendicatore, 2011)
Captain America: Il primo vendicatore è arrivato nelle
sale nel luglio 2011 e il primo trailer di
The Avengers non è arrivato fino ad ottobre.
Tuttavia, anche alla fine di quel film ci sono stati dei chiari
segnali che il film di Joss Whedon stava per arrivare.
L’eccitazione che la scena finale de
Il primo vendicatore ha creato all’epoca è
probabilmente difficile da immaginare per i fan più giovani
abituati a pubblicazioni su larga scala come Avengers:
Endgame! Ripensandoci adesso, è piuttosto divertente
vedere quanto di quel filmato fosse chiaramente incompiuto.
Il ritorno di J. Jonah
Jameson (Spider-Man: Far From Home, 2019)
Per fortuna, Spider-Man
tornerà nel Marvel Cinematic Universe il
prossimo anno, ma se Far From Home avesse segnato la sua
apparizione finale, sarebbe comunque uscito di scena con stile! In
questa scena a metà dei titoli di coda, l’attenzione
dell’arrampicamuri viene catturata da un servizio giornalistico
nella Grande Mela che non solo è stato caratterizzato dallo shock
per il ritorno di J.K. Simmons nei panni di J. Jonah Jameson, ma
anche dal fatto che la vera identità di Peter è stata rivelata al
mondo!
Entrambi quei momenti sono stati
davvero sbalorditivi e hanno preparato bene il terreno per questa
versione di Spidey per essere etichettata come una “minaccia” dopo
che è stato incastrato per l’omicidio di Mysterio. Questa è stata
l’anticipazione più eccitante di sempre, e se vogliamo credere a
quelle voci su
Spider-Man 3, Peter Parker entrerà nello “Spider-Verse”
per rendere di nuovo segreta la sua identità.
Ant-Man
and the Wasp ha cercato di spiegare, senza però
approfondire la questione, da dove provenissero i poteri del
personaggio di Janes Van Dyne. Il Regno Quantico è diventato
cruciale per la narrativa generale della Fase 3 del MCU dopo essere stato introdotto
per la prima volta in Ant-Man
del 2015. Hank Pym ha descritto il Regno Quantico come “una
realtà in cui tutti i concetti di tempo e spazio diventano
irrilevanti mentre ti rimpicciolisci per l’eternità.”
Decenni prima, Hank
aveva perso la sua amata moglie Janet Van Dyne nel Regno Quantico.
Credeva che fosse impossibile salvarla, ma venne smentito quando
Scott Lang riuscì a fuggire dal Regno con successo. Ciò ha
direttamente impostato la trama di Ant-Man
and the Wasp, in cui Hank ha inventato con successo un
Quantum Pod per entrare e uscire in sicurezza dal Regno Quantico.
Si è trattato di un risultato straordinario, che in qualche modo ha
suggerito che Hank Pym è in realtà il più grande genio del MCU.
La Marvel ha recentemente pubblicato
un libro di riferimento per l’universo chiamato The Wakanda
Files, in cui Shuri esprime un certo stupore per i progetti di
Pym. Per la gioia di Hank, però, quei progetti hanno avuto successo
e hanno salvato Janet. La stessa, però, è tornata leggermente
cambiata e, proprio secondo The Wakanda Files, si tratta
di un cambiamento permanente. Il libro include una nota scritta a
mano di Janet che discute dei suoi nuovi poteri (via Screen
Rant):
“Ho un bel po’ di tempo da
recuperare. Il mondo è un posto diverso. E lo sono anch’io. Parte è
l’adattamento, parte è l’evoluzione. Sono improvvisamente capace di
ciò che prima non potevo fare. Sono stata colpita da una forma di
Entanglement Quantistico, come se ogni molecola del mio corpo
continuasse a trovarsi in più posti contemporaneamente. Credo che
sia così che sono stato in grado di sentire il dolore di Ghost. Non
sono del tutto sicura del come, ma sono stata in grado per farla
rientrare in modo completo nella nostra realtà. Forse ci sono
qualità curative per le particelle nel Regno Quantico? Mi sembra di
essere stata lì per tutta la vita, ma sembra che mi siamo ancora
parecchi momenti degnidi domande.”
Janet Van Dyne potrebbe essere un
personaggio chiave nella fasi 4 e 5 del MCU
Il tempo non funziona normalmente
nel Regno Quantico, quindi in realtà è impossibile stimare quanto
tempo Janet sia effettivamente rimasta lì. Inoltre, è possibile che
anche la più breve esposizione al Regno Quantico abbia il
potenziale per garantire queste abilità: Scott Lang è stato in
grado di evadere dal Regno Quantico perché ha percepito che sua
figlia Cassie lo reclamava, e ciò sembra molto simile
all’esperienza di Entanglement Quantistico descritta da Janet.
Tuttavia, le abilità di Janet sono durate anche dopo che ha
lasciato il Regno Quantico, mantenendo chiaramente anche altri
poteri.
La dichiarazione più interessante è
che Janet Van Dyne si sente come se “ogni molecola nel suo
corpo continuasse a trovarsi in più posti contemporaneamente”.
Questo potrebbe suggerire che, come Ghost, lei non sia veramente in
contatto con questa dimensione, e che le sue molecole si stiano
spostando tra questo piano dell’esistenza ed altre realtà. In tal
caso, Janet Van Dyne potrebbe essere un personaggio chiave delle
Fase 4 e 5 del MCU, che essenzialmente dovrebbero
basarsi sul concetto di Multiverso. I primi due film di Ant-Man
sono stati cruciali per stabilire la narrativa generale del
MCU: lo stesso potrebbe essere vero
anche per Ant-Man 3.
Ecco la nostra intervista a
Francesca Mazzoleni, regista di Punta Sacra, film presentato alla
diciassettesima edizione di Alice nella città.
Punta sacra, Il
film-documentario di Francesca Mazzoleni, si è
aggiudicato due premi nell’ambito di Alice
nella Città: il Premio Speciale della
Giuria assegnato dalle due giurie di
Alice – quella dei ragazzi e quella degli
esperti composta da Eva Cools, Agostino
Ferrente, Caterina Guzzanti, Claudio Noce e Roberta Torre
– e la Menzione speciale alla colonna
sonora nell’ambito del Premio Rolling
Stone alla Miglior Colonna Sonora, assegnato da una giuria
composta da Morgan (presidente), Alessandro Giberti
(Direttore Rolling Stone), Louis Siciliano (musicista e
compositore), Pino Farinotti (critico cinematografico) e
Gianni Santoro (La Repubblica).
La sua presentazione – attesissima
dopo il successo lo scorso anno del film Il primo re, diretto da Matteo
Rovere, da cui è stata tratta – fa parte degli
Eventi Speciali della Festa del Cinema di
Roma.
La serie tvRomulus promette di raccontare la
fondazione di Roma e soprattutto il mondo dei primi romani
dell’VIII secolo a. C. come non era stato mai fatto. La dimensione
della serialità consente di soffermarsi di più e meglio sui
molteplici aspetti della vita del tempo, di ricreare con dovizia di
particolari quel mondo intriso di violenza, paura, riti e credenze
arcaiche, divenuto oggetto di miti e leggende. Un approfondimento
che non poteva trovare spazio nel film. Si prevede anche una
trilogia di romanzi scritti da Luca Azzolini e pubblicata da Harper
Collins, i primi due dei quali usciranno in contemporanea con la
serie.
Inevitabile chiedersi se
Romulus, diretto da Matteo
Rovere, Michele Alhaique e Enrico
Maria Artale riuscirà a mantenere gli alti livelli non
solo visivi del film, ma anche di scrittura e interpretativi,
riuscendo a non svilirsi nel compromesso con i meccanismi della
serialità televisiva e dell’indirizzo a un pubblico di massa. Della
scrittura si sono occupati lo stesso
Matteo Rovere, Filippo Gravino (Veloce
come il vento, Alaska,
Il Primo Re) e Guido
Iuculano (Una vita tranquilla,
Tutto può succedere,
Questione di cuore,
Alaska) con un lavoro meticoloso di
documentazione e studio delle fonti storiche, durato quattro anni.
La serie, come il film, è interamente girata in protolatino.
Romulus, la trama
Lazio, VIII secolo a. C.. Trenta
popoli formano la Lega Latina. Ognuno ha il suo re, ma tutti vivono
sotto la guida del re di Alba, Numitor. La preoccupazione cresce
nella Lega a causa di una prolungata siccità. Si consulta
l’aruspice e il verdetto è implacabile: per far tornare la pioggia,
gli dei chiedono l’esilio di Numitor. Il trono dovrà passare ai
nipoti Enitos, Giovanni Buselli, e Yemos,
Andrea Arcangeli, figli di sua figlia Silvia,
Vanessa Scalera. I due fratelli sono inseparabili,
ma Enitos ama segretamente Ilia, Marianna Fontana,
vestale figlia di Amulius, Sergio Romano, fratello
di Numitor. Ilia è rinchiusa nel tempio di Vesta, dove
veglia giorno e notte sul fuoco sacro affinché non si spenga.
Nonostante Ilia profetizzi a Enitos che sarà ucciso da suo fratello
e gli consigli di allontanarsi da Alba per fuggire il destino,
Enitos decide di restare accanto al fratello e regnare insieme. Nel
frattempo, a Velia, un gruppo di giovani, i Luperci, viene scelto
per un rito di iniziazione: dovrà restare nel bosco per mesi e
sopravvivere alla minaccia della dea Rumia, che abita la foresta.
Tra questi c’è Wiros, Francesco Di Napoli.
Ad Alba Amulius, convinto dalla moglie Gala, Ivana
Lotito, e dal re di Velia, Spurius,
MassimoRossi, prende il potere
con la forza. Yemos dovrà fuggire verso il bosco, dove si unirà ai
Luperci avvicinandosi a Wiros. Ilia perderà il suo amore e farà un
gesto gravissimo, di cui pagherà le conseguenze. Tutto però può
cambiare in un attimo in un mondo primitivo, dominato da violenza,
paura e mistero.
Romulusmantiene le promesse nonostante qualche compromesso
inevitabile
Torniamo dunque alla domanda
dell’inizio. Romulus mantiene gli alti
livelli del film da cui è tratto, nonostante la diluizione nella
serialità? Stando ai primi due episodi, sembra di si. Il progetto è
molto curato e riesce a sfruttare al meglio la possibilità di
inventare un mondo che ancora non c’è, che non si era mai visto
prima, partendo da una minuziosa ricostruzione storica. Il lavoro
di scrittura in questo senso è notevole. D’altro canto, si
inseriscono elementi che nel film erano assenti, come la
sessualità, quindi la nudità, con scene anche molto esplicite,
elemento che ne Il primo re mancava. Lo si fa per uniformare
il prodotto a dei canoni e attrarre un pubblico di massa. Al posto
di una visione problematica e complessa dei rapporti sembra farsi
strada una visione semplificata in cui è più netta la distinzione
tra bene e male. Questo almeno a giudicare dai primi due episodi.
Si introducono figure da tragedia shakespeariana, su tutte Gala,
moglie di Amulius, una Lady Macbeth ante litteram, e lo stesso
Amulius, un po’ Macbeth un po’ il Claudius dell’Amleto.
Non tutti i personaggi però sono curati allo stesso modo, anche se
ciò si potrà valutare più compiutamente nello sviluppo della serie.
Si pensi ad esempio proprio a Gala, che nei primi due episodi
interviene sempre con lo stesso comportamento e la stessa finalità,
con una certa prevedibilità. Ciò stona un po’ con l’estrema
accuratezza di cui abbiamo parlato sopra.
La regia riesce a restituire sia la
vastità di spazi allora sconosciuti e quindi spaventosi, la durezza
delle condizioni materiali di vita, sia lo stato di perenne paura,
di estrema precarietà in cui vivono i protagonisti. C’è molta
attenzione alle emozioni. Lo sguardo del regista si posa sui volti
e i corpi dei personaggi, che indaga da vicino per scorgerne gli
stati d’animo e i cambiamenti. Si riesce così a creare – con
l’aiuto della buona fotografia di Vladan Radovic,
sebbene sia difficile raggiungere i livelli di Daniele
Ciprì ne Il primo re, delle musiche dei
Mokadelic, basate ancora una volta sui ritmi
percussivi, adatti al contesto arcaico e creatori di atmosfere
piene di attesa e suspense – un’esperienza coinvolgente e un
universo credibile, che viaggia tra ricostruzione maniacalmente
realistica e fantasia. Il tutto è introdotto dalla sigla di testa,
spettacolare sia visivamente che musicalmente, con una bella cover
di Shout dei Tears for Fears cantata da
Elisa. C’è da augurarsi che i tre registi siano
riusciti a trovare un equilibrio di stili e che il livello si
mantenga alto durante tutta la serie come in questi primi due
episodi diretti da Matteo Rovere.
Un cast di giovani attori
da vita a Romulus
Il cast di
Romulus punta soprattutto sui giovani. I
tre personaggi principali su cui si concentra l’attenzione sono
Yemos, interpretato da Andrea Arcangeli
(Trust, The
Startup), Wiros, Francesco Di Napoli
(La
paranza dei bambini) e Ilia, Marianna
Fontana (Indivisibili, Capri – Revolution). Quest’ultima si
distingue nel ruolo della giovane vestale. La sequenza
dell’interramento che la vede protagonista è senza dubbio
visivamente impressionante e difficile da dimenticare, ma l’attrice
dimostra di sapersi esprimere al meglio in più momenti. Si capisce
già dai primi episodi come la sua figura sia quella di una ribelle
destinata a diventare un’eroina che riscatta il ruolo delle donne
in una società fortemente maschile. Da questo si evince, poi, come
la serie reinventi il passato per parlare al presente.
Accanto a loro Giovanni
Buselli (Gomorra – La serie),
Silvia Calderoni (Riccardo va
all’inferno), Demetra Avincola
(Fortunata,
Loro 2), Ivana Lotito
(Gomorra – La serie), Gabriel
Montesi (Favolacce,
Il primo re) sono solo alcuni dei
componenti del nutrito cast della serie. Prodotto da
Sky, Cattleya e
Groenlandia, Romulus
arriva su Sky dal 6 novembre.
La Marvel ha rivelato come l’Hydra
abbia trasformato Bucky Barnes, il migliore amico di Steve Rogers,
nel Soldato d’Inverno. Quando Sebastian Stan ha fatto il suo debutto nel
MCU nei panni di Bucky Barnes in
Captain America: Il primo
vendicatore, chiunque aveva familiarità con i
fumetti sapeva che direzione avrebbe preso la sua storia. Non passò
molto tempo prima che emergessero rapporti secondo cui Stan aveva
firmato un contratto per più film, e da allora tutto sembrava
alquanto inevitabile.
Potrebbe essere stato facile da
prevedere, ma il ritorno di Bucky è stato gestito in modo
eccezionale e ad oggi Captain America: The Winter Soldier del 2014 è
ancora considerato uno dei migliori film dell’intero MCU. Nell’universo condiviso, Bucky
è sopravvissuto ad una caduta da una grande altezza ed è stato
catturato dall’Hydra. È stato gradualmente trasformato nel miglior
assassino dell’Hydra, congelato criogenicamente tra le varie
missioni e scongelato ogni volta che l’Hydra aveva bisogno di
lui.
È stato responsabile di alcune delle
morti più importanti nella storia del MCU, inclusi gli assassinii di
Howard e Maria Stark e persino l’omicidio del presidente degli
Stati Uniti, John F. Kennedy. Ma come ha fatto l’Hydra a
trasformare il migliore amico di Captain America nel Soldato
d’Inverno? La risposta è stata finalmente data da The Wakanda
Files (via
Screen Rant), una raccolta di record relativi all’universo
condiviso messi insieme da Shuri mentre studiava il mondo in via di
sviluppo oltre i confini di Wakanda, pubblicato nell’ottobre
2020.
Secondo i file di Shuri, il progetto
del Soldato d’Inverno fu supervisionato personalmente dal dottor
Arnim Zola mentre era sotto la custodia dell’SSR negli anni ’40.
“Il mio lavoro continua in segreto”, riflette Zola in uno
dei suoi appunti personali: “Nella fredda desolazione della
Siberia sta nascendo il prossimo soldato dell’Hydra. Il complesso
siberiano ha riferito che il sergente Barnes si sta riprendendo
abbastanza bene dopo essere caduto dal ponte. Le sue ferite erano
estese, richiedendo l’amputazione del braccio sinistro. Ma questo è
facilmente risolvibile con protesi cibernetiche avanzate”.
Shuri credeva inoltre che l’Hydra avesse esposto Barnes alle
radiazioni gamma per migliorare il suo fisico, ispirato
dall’energia del Tesseract.
Bucky Barnes ancora suscettibile al controllo esterno?
I diari di Zola indicano che Bucky
Barnes era inaspettatamente resistente al lavaggio del cervello
dell’Hydra, combattendolo con una ferocia inesplicabile. Tuttavia,
l’Hydra persistette, sottoponendo Bucky ad un condizionamento
intensivo e poi congelandolo criogenicamente prima della successiva
sessione di lavaggio del cervello. “Il programma del Soldato
d’Inverno dell’Hydra ha sottoposto Barnes ad una terapia
elettroconvulsiva (ECT)”, osserva Shuri nei suoi appunti
personali, “seguita da parole chiave e frasi suggestive per
attivare un nodo cerebrale che potrebbe richiedere anni per
sciogliersi. Se siamo in grado di invertirlo. L’ECT è estremamente
doloroso e l’Hydra non ha somministrato agenti opacizzanti “.
Shuri paragona l’esperienza di Bucky quando è sotto il controllo
dell’Hydra a quella di una persona nella fase REM mentre è in
realtà sveglia, quindi in uno stato di sogno in cui non ha la
libera volontà di rifiutare gli ordini.
Il Soldato d’Inverno sarebbe stato
l’agente più fedele dell’Hydra, se non fosse stato per un fattore
che non avevano considerato: la sua lealtà a Steve Rogers, che fu
scongelato dal ghiaccio decenni dopo e riprese la sua carriera come
Captain America. “I ricordi condivisi di Barnes con il suo
migliore amico, Steve Rogers, hanno attivato momentaneamente i
centri della memoria”, osserva Shuri, “dando vita a
piccoli frammenti della sua vita passata mentre si trovava in una
trance simile al sonno”. Tuttavia, questo stimolo emotivo è
l’unico modo sicuro per Bucky di rimanere libero dal suo
condizionamento mentale, nonostante ora Captain America non
ci sia più. Shuri non sembra credere che il lavaggio del cervello
sia stato invertito con successo, il che significa che il Soldato
d’Inverno potrebbe essere ancora suscettibile al controllo esterno.
Ciò potrebbe rivelarsi significativo ai fini della trama
dell’attesa serie
The Falcon and the Winter Soldier.
È arrivato on line il nuovo video di
Rainsford, nome d’arte di Rainey
Qualley, che per l’accompagnamento per immagini di
Love me like you hate me si è avvalsa della collaborazione
di Shia LaBeouf e della sorella Margaret
Qualley. Il video, che potete vedere di seguito, è il
racconto di una quotidianità di una storia d’amore, intima,
passionale, fisica, difficile e delicata. Ecco il video di
seguito:
https://vimeo.com/471151437
Shia LaBeouf non è nuovo alla realizzazione di
videoclip musicali anche fisicamente impegnativi, come è accaduto
con le collaborazioni con Sigur Ros e
Sia. Margaret Qualley non è da meno, dal momento
che proviene dalla danza e dal cinema indipendente – sperimentale,
prima del debutto nel cinema d’autore con C’Era una volta a
Hollywood, di Quentin Tarantino. La
ricordiamo nel meraviglioso cortometraggio per Kenzo diretto da
Spike Jonze.
Anche se non è ufficiale, in assenza
di credits, sembra che il video sia stato diretto da Olivia Wilde, come spoilera un commento di
Reed Morano su Instagram, sotto al post di
Just Jared che annuncia l’uscita del video stesso.
Dopo le
cover di Empire che ci hanno regalato un nuovissimo sguardo a
tutto il cast del film, James Gunn è tornato a parlare via
Twitter dell’attesissimo The Suicide
Squad, rivelando nuovi dettagli sulla nuova iterazione
cinematografica della Task Force X che dovrebbe arrivare al cinema
il prossimo anno.
Il regista e sceneggiatore ha
spiegato che il montaggio del film è stato completato e che adesso
è impegnato con le fasi finali della post-produzione. Il regista ha
inoltre confermato che non ci saranno riprese aggiuntive:
“Avevamo inserito i reshoot nel nostro programma. Ma questa
settimana abbiamo in programma di allacciare il film (che significa
bloccare le immagini ad eccezione di alcuni elementi che andranno
spostati per fare spazio ai VFX da inserire successivamente) e non
abbiamo rigirato nulla.”
Gun ha inoltro spiegato che nessun
personaggio sarà “al sicuro” nel film e che nessun personaggio ha
avuto le spalle coperte dalla DC Films, neanche la celebre Harley
Quinn di Margot
Robbie: “”Nessun personaggio è stato protetto
dalla DC. Mi hanno dato carta bianca per fare tutto quello che
volevo. Questa è stata una delle cose che avevamo concordato prima
che accettassi di lavorare per loro. Il mio obiettivo non era
quello di cercare lo shock gratuito, ma volevo che il pubblico
capisse che nel film può succedere qualsiasi cosa.”
Bloomberg
riporta che MGM avrebbe avuto una serie di discussioni con Apple e
Netflix in merito alla possibilità di acquistare
No Time to
Die e di far debuttare il nuovo attesissimo
capitolo della saga di James
Bond direttamente in streaming. Tuttavia, lo studio sembra
essere irremovibile e convinto di voler distribuire Bond
25 al cinema.
Il sito spiega che il prossimo film
di James Bond potrebbe potenzialmente recuperare centinaia di
milioni di dollari attraverso una potenziale uscita in streaming,
anche se MGM sostiene che il blockbuster “non è in
vendita”. Un rappresentante ha rilasciato una dichiarazione
dicendo: “L’uscita del film è stata posticipata ad aprile 2021
al fine di preservare l’esperienza in sala per gli
spettatori.”
Amazon non sembra essere in corsa
per acquistare No Time to
Die, anche se questa potrebbe rivelarsi una mossa
innegabilmente sensata per MGM in questa fase così delicata.
Tenet è stato un fallimento al botteghino, mentre
la spesa relativa al marketing del prossimo film di 007 sembra
essersi definitivamente esaurita (un trailer finale che
reclamizzava l’uscita in sala a novembre ha debuttato poco prima
della notizia dell’ennesimo rinvio).
No Time to Die e il futuro della sala cinematografica
No Time to Die è costato
circa 250 milioni di dollari, quindi se MGM avesse la possibilità
di vendere il film ad una cifra superiore, avrebbe certamente la
possibilità di raggiungere almeno il pareggio. Se si scommette
ancora su un’uscita in sala, il risultato finale potrebbe essere
quello di una grave perdita, perché è chiaro che gli spettatori non
saranno pronti a tornare al cinema fino a quando non sarà
disponibile un vaccino COVID-19.
In No Time to Die, Bond si
gode una vita tranquilla in Giamaica dopo essersi ritirato dal
servizio attivo. Il suo quieto vivere viene però bruscamente
interrotto quando Felix Leiter, un vecchio amico ed agente della
CIA, ricompare chiedendogli aiuto. La missione per liberare uno
scienziato dai suoi sequestratori si rivela essere più insidiosa
del previsto, portando Bond sulle tracce di un misterioso villain
armato di una nuova e pericolosa tecnologia.
Durante il Comic-Con di San Diego
dello scorso anno, Kevin Feige
annunciò ufficialmente che il premio Oscar Mahershala Ali avrebbe interpretato Blade in
un nuovo cinecomic del MCU. Da allora, però, non ci sono
mai stati aggiornamenti significativi sul progetto, se non un
concept ufficiale – condiviso via Instagram dallo stesso Alì –
che mostrava l’attore nei panni di Eric Brooks.
Adesso, in una recente intervista
con
The Tight Rope, Mahershala Ali ha finalmente parlato del
film e di come sia riuscito ad ottenere la parte, rivelando di aver
sempre voluto interpretare il personaggio fin da quando ha ottenuto
la parte di Cornell “Cottonmouth” Stokes nella serie MarvelLuke
Cage.
“Quando Luke Cage è stato
presentato per la prima volta, mi sono rivolto al mio agente e gli
ho detto: ‘Cosa stanno facendo con Blade?’. Sapevo che stavano
cercando un modo per riportare il personaggio al cinema. Per me è
stato eccitante entrare a far parte dell’universo Marvel alla televisione, ma la
verità è che il mio obiettivo è sempre stato il cinema.”
“Ci sono voluti un paio d’anni
prima che tutto si concretizzasse”, ha continuato l’attore.
“Volevo davvero interpretare quel personaggio e affrontare
quella responsabilità. Mi piace che sia un personaggio oscuro,
ovviamente in riferimento al tono. È decisamente più cupo rispetto
a tutti gli altri personaggi. Questo è stato l’elemento di maggior
interesse per me.”
Ali ha parlato anche dell’eredità
di Wesley
Snipes, che ha interpretato Eric Brooks/Blade
in ben tre film, realizzati tra il 1998 e il 2004: “Nella mia
mente c’era sicuramente un legame con Wesley Snipes. Quando ero al
liceo le persone mi dicevano che ci somigliavamo. Il lavoro di
Wesley mi ha sicuramente ispirato, tuttavia è stata la mia
partecipazione a Luke Cage a permettermi di pensare alla parte e di
capire cose stessero facendo al riguardo.”
Cosa sappiamo di Blade con Mahershala Ali?
Al momento su Bladevige
il mistero più assoluto: non sappiamo infatti né
chi si occuperà della regia, né chi della sceneggiatura e,
soprattutto, quali attori affiancheranno Ali nel cast.
Mahershala Aliè uno dei
nomi più “caldi” del momento, a Hollywood. Dopo il suo exploit nel
2016 con Moonlight, che gli ha
regalato il primo Oscar da non protagonista, Ali ha fatto doppietta
quest’anno con Green
Book, nella stessa categoria. Intanto ha continuato a
coltivare il cinema da blockbuster (è nel cast
di Alita: l’Angelo della Battaglia) e la
grande serialità televisiva (è stato protagonista della terza
stagione di True Detective).
Ali non è estraneo al cinema di
supereroi. Ha dato la voce a Prowler in Spider-Man: Un
Nuovo Universo ed è stato Cottonmouth nella prima
stagione di Luke Cage per Marvel/Netflix.
Dopo il
trailer ufficiale il network americano
ABC ha diffuso l’inedito promo “Brace for Impact”
di Big
Sky, l’annunciata nuova serie tv in arrivo questo
autunno.
Big Sky
Big
Sky è la nuova serie tv creata da David E.
Kelley per il network americano ABC. David E. Kelley sarà
lo showrunner della prima stagione. Basato sulla serie di libri di
CJ Box, “Big Sky” è prodotto da David E. Kelley, Ross
Fineman, Matthew Gross, Paul McGuigan, CJ Box e
Gwyneth Horder-Payton, ed è prodotto da 20th
Television. 20th Television fa parte dei Disney Television
Studios, insieme a ABC Signature e Touchstone Television.
La serie racconta
degli investigatori privati Cassie Dewell e Cody Hoyt
uniscono le forze con la sua ex moglie ed ex poliziotta, Jenny
Hoyt, per cercare due sorelle che sono state rapite da un
camionista su una remota autostrada nel Montana. Ma quando scoprono
che queste non sono le uniche ragazze scomparse nella zona, devono
correre contro il tempo per fermare l’assassino prima che un’altra
donna venga rapita. Big Sky vede protagonisti
Katheryn Winnick nei panni di Jenny Hoyt,
Kylie Bunbury nei panni di Cassie Dewell,
Brian Geraghty nei panni di Ronald Pergman,
Dedee Pfeiffer nei panni di Denise Brisbane,
Natalie Alyn Lind nei panni di Danielle Sullivan,
Jade Pettyjohn nei panni di Grace Sullivan,
Jesse James Keitel nei panni di Jerrie Kennedy,
Valerie Mahaffey come Helen Pergman con
John Carroll Lynch come Rick Legarski e
Ryan Phillippe come Cody Hoyt.
Arriva da
Deadline la notizia che
Michael B. Jordan potrebbe debuttare alla regia di
Creed
3, il terzo capitolo della serie di spin-off della
saga di Rocky Balboa, i cui eventi si svolgono
nove anni dopo i fatti narrati nel franchise con
protagonista Sylvester
Stallone.
Il terzo episodio è stato
ufficializzato lo scorso febbraio. All’epoca venne soltanto
confermato che ad occuparsi della sceneggiatura sarebbe stato
Zach Baylin, noto per aver curato lo script di
King
Richard, un biopic incentrato sulla vita del padre
delle campionesse di tennis Serena e Venus Williams, che avrà come
protagonista Will Smith e che debutterà prossimamente su Netflix.
Adesso, stando al report di
Deadline (via Collider),
sembra proprio che
Michael B. Jordan non solo tornerà nei panni di Adonis
“Donnie” Johnson, ma firmerà anche il suo debutto dietro la
macchina da presa proprio grazie a Creed 3.
In realtà, non è la prima volta che si parla di tale possibilità,
dal momento che le voci sulla possibilità che Jordan si occupi
anche della regia del film circolavano da un bel po’. Ad ogni modo,
la Warner Bros. non ha ancora confermato l’attore come regista
ufficiale.
Un’altra importante novità in
merito a Creed
3 riguarderebbe il coinvolgimento
di Sylvester
Stallone, che potrebbe non tornare nei panni
dell’iconico personaggio in veste di mentore. In effetti, già
in Creed 2
l’arco narrativo del personaggio sembrava essersi concluso. Lo
scorso maggio l’attore aveva parlato del progetto su Instagram durante
un Q&A – lo stesso in cui aveva confermato il sequel di
Demolition Man -, anticipando che
potrebbe non apparire nel terzo capitolo della saga spin-off.
Stallone ha spiegato di avere
alcune idee per fare tornare il personaggio di Rocky al cinema, ma
dubita che ciò possa avvenire nel terzo
annunciato Creed. Sly ha quindi confermato di
avere alcune idee per un sequel
di Rocky, ma al tempo stesso pensa che
il suo arco narrativo nel franchise con
protagonista Michael
B. Jordan si sia esaurito.
Shang-Chi and the Legend of the Ten
Rings sarebbe dovuto arrivare nei cinema a
febbraio 2021, ma l’emergenze Covid-19 ha letteralmente stravolto
il calendario delle uscite dei prossimi attesissimi film del
MCU, facendo slittare il cinecomic
di Destin Daniel Cretton prima a maggio e poi a
luglio del prossimo anno.
Le riprese del film erano partite in
Australia prima che il lockdown dello scorso marzo fermasse tutte
le produzioni cinematografiche su scala mondiale. Successivamente,
il cast e la troupe del film sono ritornati sul set per completare
le riprese australiane e spostarsi così a San Francisco. Adesso, è
stato proprio Cretton a confermare via Instagram
che le riprese del cinecomic al Maestro delle Arti Marziali si sono
ufficialmente concluse.
Vista l’attuale situazione legata al
Coronavirus, è impossibile prevedere quale sarà il reale futuro di
Shang-Chi and the Legend of the Ten Rings: per
ora il film è atteso nelle sale per luglio del 2021, ma non è
escluso che le cose possano cambiare ancora una volta. Sulla trama
del film sappiamo ancora poco, se non che il vero Mandarino farà
finalmente il suo debutto nell’Universo Cinematografico Marvel e che il protagonista sarà
coinvolto in una sorta di torneo di combattimento per entrare in
possesso dei Dieci Anelli a cui fa riferimento il titolo.
I primi dettagli sulla trama di
Shang-Chi
Stando ai primi dettagli sulla trama
emersi diverso tempo fa, Shang-Chi non sarà soltanto il Maestro
delle Arti Marziali che i fan hanno imparato a conoscere grazie ai
fumetti: sembra, infatti, che il protagonista avrà l’abilità di
dare vita ad una serie di cloni di se stesso (un potere simile a
ciò che è già in grado di fare nei fumetti), e sarà proprio
quest’abilità a metterlo nel radar del Mandarino. Cresciuto in uno
speciale orfanotrofio dov’è stato addestrato al combattimento,
Shang-Chi decide di fuggire per poi finire, anni dopo, di nuovo
nelle grinfie del villain. Il Mandarino promette a Shang-Chi soldi,
potere e – cosa ancora più importante – la libertà, se accetterà di
combattere in un torneo dove al vincitore verranno consegnati i
Dieci Anelli a cui fa riferimento il titolo.
L’uscita nelle sale di Shang-Chi
and the Legend of the Ten Rings è fissata
al 7 maggio 2021. Destin Daniel Cretton,
acclamato regista di Short Term
12 e The Glass Castle (di recente è
uscito il suo ultimo lavoro Il
Diritto di Opporsi, con Michael B. Jordan, Jamie Foxx
e Brie
Larson) è stato scelto per dirigere il film che vanta la
sceneggiatura di Dave Callaham (The
Expendables, Godzilla,Wonder
Woman 1984).
Vi ricordiamo che nei panni del
protagonista ci sarà l’attore canadese Simu
Liu, visto di recente nella commedia di NetflixKim’s Convenience. Insieme a
lui, nel cast, figureranno anche Tony
LeungChiu-wai nei panni del
Mandarino, e Awkwafina,
che dovrebbe interpretare un “leale soldato” del Mandarino, e se è
vero che il villain qui sarà il padre di Shang-Chi, in tal caso ci
sono ottime possibilità che si tratti di Fah Lo Suee. Chi ha letto
i fumetti saprà che è la sorella dell’eroe del titolo e che il suo
superpotere è l’ipnosi.
È possibile raccontare al cinema il
drammatico periodo che l’Italia ha vissuto, e sta ancora vivendo, a
causa della pandemia di Covid-19? Tale quesito ha acceso nelle
ultime settimane innumerevoli dibattiti, alimentato anche
dall’uscita in sala del film Lockdown all’italiana di
Enrico Vanzina. Se per molti una commedia ad
equivoci non era il genere più idoneo per affrontare il tema,
potrebbe invece esserlo il documentario Fuori era
primavera – Viaggio nell’Italia del Lockdown, del
regista premio Oscar Gabriele
Salvatores. La differenza sta che in quest’ultimo ad
avere voce in capitolo sono proprio gli italiani, popolo imperfetto
ma straordinario, chiamato ad affrontare negli scorsi mesi una
delle sfide più dure dal secondo dopoguerra ad oggi.
Presentato durante la Festa
del Cinema di Roma, il film del regista
di Il ragazzo
invisibile ricalca l’esperimento già compiuto nel 2014 con
Italy in a Day – Un
giorno da italiani. La modalità è la stessa: nel corso
delle settimane in cui gli italiani sono rimasti in casa per
limitare i contagi, il regista ha chiesto a tutti loro di inviargli
delle video testimonianze di quella loro insolita quotidianità.
Ancora una volta, dunque, l’Italia si è riscoperta popolo di
narratori. Nel giro di breve, si raccolgono oltre 16 mila video, e
dalla loro unione nasce un ritratto divertente, commovente ma anche
frustrante di quanto accaduto e del modo in cui le persone vi si
sono relazionate.
Nel costruire il racconto,
Salvatores ha seguito un chiaro ordine cronologico. Si parte con i
primi timori dell’arrivo del virus, fino a quel fatidico 9 marzo in
cui l’Italia viene dichiarata zona rossa nella sua totalità. Da lì
hanno inizio tre mesi di piazze vuote, ospedali pieni e balconi in
festa con il tentativo di sentirsi tutti meno soli. Si delineano
diverse figure di eroi, dai medici e gli infermieri ai fattorini
del cibo d’asporto, nonché l’attenzione verso le notizie globali e
la rinascita della natura. Tutto questo e molto altro va a dar voce
ad un paese che ha sofferto, soffre, ma fa comunque di tutto per
resistere.
Fuori era primavera: tra documento
ed emozione
Nella nostra società contemporanea
la documentazione dell’evento è ormai per le persone un atto
pressoché irrinunciabile. Che siano più o meno importanti, questi
trovano sempre spazio nel nostro personale archivio mediale. Di
fronte ad una pandemia globale, che ha radicalmente trasformato le
abitudini mondiali, era dunque prevedibile che ognuno nel suo
privato avrebbe intensificato tale attività. Sono così spuntati in
rete tutorial di ogni tipo, video-diari, e simili. Le videochiamate
di lavoro o tra amici si sono moltiplicate, così come anche la
tanto nominata didattica a distanza.
Se tutte queste voci prese
singolarmente possono essere un racconto parziale, smettono
naturalmente di esserlo nel momento in cui vengono accostate a
testimonianze più o meno simili. È quello che succede con Fuori
era primavera, documentario che presenta in sé due grandi
elementi di forza. Il primo è quello del valore testimoniale. È a
progetti come questi che in futuro si guarderà per avere un’idea di
quello che è ora il nostro mondo presente. Nel documentario di
Salvatores si ritrova il racconto di un vero e proprio momento di
passaggio, che ha nella video testimonianza del reale il suo
marchio di qualità.
Di ciò che viene mostrato, infatti,
non importa tanto il cosa quanto il come. Il film è un’ennesima
prova del potere dei social network e dei moderni canali di
comunicazione. Questi permettono infatti di colmare virtualmente le
distanze che cause naturali obbligano a mantenere a livello fisico.
L’altro grande valore del film è invece quello della sincerità.
Sarebbe infatti fin troppo facile costruire un racconto ruffiano su
ferite ancora così vive. Salvatores riesce ad evitare tale rischio
omettendo i più comuni stereotipi a riguardo, privilegiando
elementi che sappiano di novità. Così facendo, il suo film acquista
un grande, e sincero, cuore.
Fuori era primavera: la
recensione
Dati questi due grandi pregi del
film, dunque, Fuori era primavera – Viaggio nell’Italia del
Lockdown si configura come un esperimento doppiamente
interessante. Questo, come riporta anche il sottotitolo, è un vero
e proprio viaggio dal Nord al Sud del Bel Paese. Grazie al potere
del cinema, è possibile percorrere questo senza spostarsi di un
metro, avvertendo ugualmente tutta la carica emotiva che gli
italiani hanno da trasmettere. Si rimane infatti commossi dinanzi
alla forza di questo popolo, che quando vuole sa dimostrare di
essere davvero il più bello del mondo. L’attualità di quanto
narrato certamente influisce sul giudizio emotivo, ma rimane
ugualmente difficile non provare grande commozione davanti alle
immagini proposte.
Salvatores vince dunque la sfida di
voler raccontare tale periodo rinunciando alla finzione
cinematografica. Nessuno più dei veri protagonisti del lockdown
sembra in grado di poter raccontare cosa è stato questo momento
storico. Le loro voci danno vita ad un paese ricco di somiglianze e
differenze, che si scopre bello anche grazie a queste ultime. Tra
l’Inno di Mameli cantato tutti insieme sul balcone, e la pizza
fatta in casa del sabato sera, si manifesta la forza di un popolo
costretto tra quattro mura mentre fuori ha luogo la primavera.
Simbolo di rinascita e speranza, questa non poteva che diventare il
titolo del film.
L’esordio registico e attoriale di
Suzanne Lindon, ventenne figlia d’arte degli
attori Vincent Lindon e Sandrine
Kiberlaine, s’intitola Seize
printemps, ovvero sedici primavere: l’età della
protagonista, che guarda caso si chiama come la regista, Suzanne.
Lindon si dà anche il compito di interpretarla, esplorandone dubbi
e incertezze adolescenziali, ma anche i primi amori. Presentato al
Festival di Toronto a settembre, avrebbe dovuto
partecipare a quello di Cannes, annullato a causa della pandemia.
Ora arriva alla Festa del Cinema di Roma.
Seizeprintemps, la trama
Suzanne, Suzanne
Lindon, ha 16 anni. Frequenta il liceo, ma la scuola e i
compagni da un po’ di tempo la annoiano. I compagni sono troppo
superficiali e la scuola è sempre la stessa, una routine ormai
priva di interesse. In tutt’altro ambito, succede la stessa cosa a
Raphael, Arnaud Valois, trentacinquenne attore di
teatro, stanco del suo mestiere, ogni sera uguale a sé stesso e dei
suoi colleghi di lavoro. Così, un po’ per gioco, un po’ per
curiosità, i due cominciano a vedersi ogni mattina, al bar vicino
al teatro e alla scuola di Suzanne. S’innamorano, trovando uno
nell’altra la propria fuga dalla monotonia della quotidianità, una
boccata d’aria fresca in un orizzonte piatto.
Pur essendo acerba, come ci si
aspetta che sia l’opera prima di una ventenne, che ne ha scritto la
sceneggiatura a soli 15 anni, Seize
printemps colpisce per il suo delicato romanticismo,
in controtendenza rispetto ai tempi spavaldi ed esibizionisti che
oggi viviamo. Lindon attrice si propone come una nuova
Charlotte Gainsbourg, o Sophie
Marceau e questo suo esordio potrebbe essere visto come
una sorta di Il tempo delle mele degli
anni 2000.
Uno sguardo ancora
immaturo, ma originale e in controtendenza sulle sedici
primavere
Per quel che riguarda il racconto di
una storia d’amore, questo semplicissimo e per certi versi ingenuo
film riesce a comunicare con più efficacia il sentimento amoroso –
in particolare la fragilità e l’impaccio di quei primi amori
adolescenziali, platonici, che però non per questo sono meno
profondi e meno intensi – rispetto ad esempio ad un film come
l’atteso Ammonite di Francis
Lee, in cui comunque non si riesce a venir fuori da una
certa rigidità che raffredda il sentimento.
Seizeprintemps
è la dimostrazione di come, se si ha un’idea e una buona
sensibilità per realizzarla, anche con poco si riesce ad arrivare
agli spettatori, ad emozionare, complice anche la buona sintonia
tra Lindon e il protagonista maschile Arnaud
Valois (120 battiti al
minuto).
I dialoghi sono quasi assenti, al
loro posto gesti teatrali, balli e musica. Tuttavia, questo non è
solo un modo per scegliere la strada più facile, ma è una precisa
scelta che si apprezza da spettatori, e ancora una volta si mostra
in controtendenza rispetto a tanta cinematografia, soprattutto
francese, caratterizzata da una sovrabbondanza di parole, ultimo
esempio Le discours, presentato proprio
qui a Roma pochi giorni fa. Qui, al contrario, si lavora quasi solo
con il corpo, i movimenti, gli sguardi. In questo i protagonisti
sono bravi entrambi. Anche qui c’è del teatro, ma non è
affabulazione, bensì sensazioni, rumori e gesti quasi da mimo. Come
luogo poi, il teatro, il palcoscenico sono i luoghi simbolo
dell’incontro tra i due, quelli a cui l’arrivo di Suzanne dà un
nuovo senso per Raphael, che se ne stava allontanando.
Detto questo, non mancano
le ingenuità ed è un peccato che la regista abbia fretta di portare
a compimento la vicenda – il film dura 73 minuti – questa sì,
figlia senz’altro dell’inesperienza e di una scrittura che deve
ancora crescere molto. Sarebbero serviti 15-20 minuti in più e un
epilogo più compiuto al lavoro. Invece, si ha la sensazione di
correre verso il finale in maniera troppo sciatta.
Un talento da tenere d’occhio
Tuttavia, Suzanne
Lindon si dimostra un talento da tenere d’occhio. Sa
trattare con freschezza, non senza una vena di ironia, e con un
rispetto insolito, ma efficacissimo e quasi commovente questa
educazione sentimentale. Fotografa poi bene l’adolescenza: quella
fase della vita in cui ancora non si sa chi si è e cosa si vuole,
ma si ha chiaro che non si è più bambini e che molto di ciò che
prima rendeva felici, non soddisfa più. Una fase in cui ci si sente
potenti e vulnerabili al tempo stesso, fragili e forti. Quelle
sedici primavere potrebbero essere della regista stessa, come di
chiunque altro e sono importanti nella vita di ciascuno, motivo per
cui, ne è convinta Suzanne Lindon, vanno trattate
con estrema cura.
Ci è sempre stato insegnato che il
nostro è un mondo dove chiunque ha diritto ad una seconda
possibilità, ma è davvero così? La regista giapponese Miwa
Nashikawa si pone questo importante quesito nel
realizzare il suo nuovo film Under the OpenSky, presentato in anteprima alla
Festa del Cinema diRoma. Allieva
del grande Hirokazu
Kore’eda (Un affare di
famiglia), nel corso della sua filmografia ha sempre
raccontato storie particolarmente personali. Per la prima volta qui
si affida invece ad un romanzo dal titolo Mibuncho, opera
del noto scrittore Saky Ryuzo.
Questo è basato sulla vera figura di
un detenuto e sulla sua difficile vita una volta uscito di
prigione. Grazie a tale storia, adattata al presente, la regista ha
modo di esplorare nuove tematiche. Queste ruotano a loro volta
intorno ad un ritratto dell’odierna società giapponese, con i suoi
pregi e i suoli limiti. Il racconto che ne deriva è delicato come
una carezza, pur raccontando una situazione drammatica, da cui si
possono generare numerose riflessioni. Un’abilità, questa, che la
regista dimostra di aver ereditato dalle sue numerose
collaborazioni con i grandi maestri del cinema giapponese.
La storia qui raccontata ha per
protagonista Mikami (YakushoKoji), ex esponente dell’organizzazione criminale
Yakuza. Dopo 13 anni di prigione per omicidio, egli è ora un uomo
libero, pronto a riconquistare la sua vita. Per lui ha però inizio
un difficile inserimento nella società, dove fatica a trovare un
lavoro stabile. Causa di ciò è anche il suo codice di condotta,
profondamente radicato nelle regole alle quali apparteneva. Queste
risultano però ormai appartenenti ad un mondo in via di estinzione,
e non si adattano all’ordinato sistema di assistenza sociale del
Giappone. Catapultato in un mondo che non capisce, Mikami dovrà
allora riuscire a controllare la sua natura impulsiva, fidandosi di
quanto vogliono aiutarlo davvero.
Under the Open Sky: una prigione a
cielo aperto
La società giapponese è cambiata in
modo radicale negli ultimi decenni, e spesso ad una velocità quasi
spaventosa. Chi non riesce a stare al passo, e rimane indietro,
sembra così essere destinato ad una vita di fatiche e di stenti per
cercare il proprio posto in tutto ciò. A tali cambiamenti si
aggiunge la sempre più evidente indisposizione ad accettare coloro
che necessitano di una seconda possibilità. Da qui parte la vicenda
del protagonista di Under the Open Sky, il quale sembra
uscire da una prigione per entrare in una realtà che la ricorda
molto, pur non prevedendo confini spaziali. L’ironico titolo del
film suggerisce infatti il senso di oppressione provato da Mikami
pur trovandosi finalmente “libero”.
Nel corso del film egli si trova a
doversi relazionare con una serie di personaggi e procedure che
evidenziano la sua difficoltà a dialogare con il mondo
contemporaneo. Dalle offerte di lavoro fallite ai pregiudizi nei
suoi confronti, dalla stringente burocrazia ai deludenti sussidi
statali, tutto sembra cospirare contro il suo reinserimento nella
società. La sua situazione viene resa ancor più esplicita tramite
una composizione delle inquadrature che lo pone spesso ai margini,
ma anche da situazioni più concrete come la semplice difficoltà di
guidare un automobile.
La verità è che Mikami appartiene ad
un mondo che sempre più fa parte del passato. Più volte è infatti
possibile imbattersi in dialoghi e personaggi che manifestano tale
malinconica consapevolezza. Far parte della Yakuza è una
responsabilità che pochi sono ancora disposti ad assumersi. Quel
mondo di attività illecite lascia sempre più spazio ad una realtà
di uffici, pratiche da compilare e svaghi di vario tipo. Nel dare
la sua personale risposta al quesito alla base del film, la regista
non manca di evidenziare come tale trasformazione della società non
sia meno soffocante di quella a cui il protagonista
apparteneva.
Under the Open Sky: la
recensione
Ancora una volta i registi
giapponesi dimostrano una grande capacità nel raccontare in modo
semplice ma mai banale la realtà del loro paese. Allo stesso tempo,
le loro storie si dimostrano sorprendentemente universali. Con
Under the OpenSky, la Nashikawa aggiunge un
nuovo tassello a tale racconto nazionale, dimostrando una
delicatezza nei toni e nell’atmosfera capace di emozionare con
poco. Vi sono infatti piccoli gesti e parole in grado di
racchiudere il cuore più profondo del film. Nel corso delle due
ore, la drammaticità di quanto accade al protagonista viene così
dissimulata dall’interesse verso la sua fragilità umana.
All’interno di questo racconto non
mancano possibilità e strade non prese, come quella relativa alla
ex compagna del protagonista. Se da un lato queste sembrano
caricare eccessivamente il film, dall’altra ribadiscono
ulteriormente come certe cose perse, possono rimanerlo per sempre.
Proprio come un film che tenta di rappresentare al meglio la
semplicità della vita, Under the Open Sky commuove e
diverte, ponendo anche importanti riflessioni. E se anche non tutti
i suoi elementi sembrano essere al loro posto, pur nei suoi difetti
questo riesce ad offrire un appassionante spaccato di vita, troppo
spesso sottovalutato.