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Home Blog Pagina 22

Amore & altri rimedi: la storia vera dietro il film

  • Approfondimenti
Gianmaria Cataldo
-
27 Mag 2025
0
Amore & altri rimedi: la storia vera dietro il film

Diretto da Edward Zwick e uscito nel 2010, Amore & altri rimedi (qui la recensione) è una commedia romantica dai toni drammatici che affonda le radici in una storia vera. Il film è infatti liberamente ispirato al libro autobiografico Hard Sell: The Evolution of a Viagra Salesman di Jamie Reidy, ex rappresentante farmaceutico che racconta in chiave ironica e provocatoria la sua esperienza nel settore durante gli anni di lancio del celebre farmaco per la disfunzione erettile. Sebbene la pellicola prenda una direzione narrativa molto diversa rispetto alla fonte originale, mantiene il contesto critico e cinico dell’ambiente medico-commerciale statunitense, rielaborandolo in una storia d’amore intensa e sofferta.

Il film esplora con delicatezza ed empatia il rapporto tra Jamie, venditore carismatico ma superficiale, e Maggie, una giovane affetta dal morbo di Parkinson in fase iniziale. Ciò che inizia come un’avventura senza impegno si trasforma gradualmente in un legame profondo, dove entrambi i protagonisti si confrontano con i propri limiti, paure e fragilità. Temi come la malattia degenerativa, il senso di inadeguatezza, la vulnerabilità fisica ed emotiva e il significato dell’amore nella quotidianità della sofferenza sono al centro del racconto. Il tono resta bilanciato tra romanticismo e realismo, evitando eccessi melodrammatici e mostrando una sensibilità rara nei confronti delle malattie croniche e di chi le vive.

La storia, pur costruita su elementi di finzione, si ispira a vicende reali e restituisce un quadro sincero e coinvolgente delle sfide che una relazione può affrontare quando la salute è in gioco. Nel corso dell’articolo approfondiremo in che modo il libro di Reidy ha influenzato la sceneggiatura di Amore & altri rimedi e quanto la malattia della protagonista trovi riscontro nella vita reale, offrendo così uno sguardo autentico su un amore che nasce in circostanze difficili ma cresce proprio grazie alla condivisione della fragilità.

Oliver Platt e Jake Gyllenhaal in Amore & altri rimedi
Oliver Platt e Jake Gyllenhaal in Amore & altri rimedi. Foto di David James – © TM and 2010 Twentieth Century Fox and Regency Enterprises.

La trama e il cast di Amore & altri rimedi

Pittsburgh, 1996. L’affascinante Jamie (Jake Gyllenhaal) ha un successo strepitoso con le donne, ma dopo aver fatto sesso con la moglie del capo, perde il posto di commesso nel negozio di elettronica. Arriva quindi in suo aiuto il fratello ricco Josh, il quale gli propone di diventare un rappresentante farmaceutico. Così Jamie va a lavorare per l’azienda farmaceutica Pfizer. Dopo aver frequentato un corso, il ragazzo deve convincere i medici, in particolare il Dr. Knight (Hank Azaria), a prescrivere lo Zoloft invece del Prozac, e fa affidamento sulle sue innegabili doti di ammaliatore per riuscirci.

Mentre cerca di farsi strada nel suo nuovo lavoro, Jamie incontra all’ospedale Maggie (Anne Hathaway), un’affascinante e originale ragazza affetta dal morbo di Parkinson. Dopo un primo incontro alquanto bizzarro, tra i due nasce una fortissima passione che diventa amore. Ma mentre il lavoro procede alla grande, il rapporto con Maggie s’incrina a causa del peggioramento della sua malattia.

La storia vera dietro il film

Come anticipato, il film Amore & altri rimedi si ispira liberamente al libro autobiografico Hard Sell: The Evolution of a Viagra Salesman di Jamie Reidy. Reidy, ex rappresentante farmaceutico per Pfizer e successivamente per Eli Lilly, racconta nel suo memoir le dinamiche interne dell’industria farmaceutica negli anni ’90, offrendo uno sguardo ironico e disincantato sul mondo delle vendite di farmaci, in particolare del Viagra. Nel film, il personaggio di Jamie Randall, interpretato da Gyllenhaal, è ispirato alla figura di Reidy. Tuttavia, la pellicola introduce elementi che sono di pura finzione, come la storia d’amore con Maggie Murdock, una giovane affetta dal morbo di Parkinson, interpretata da Hathaway.

Amore e altri rimedi
Anne Hathaway and Jake Gyllenhaal in Amore & altri rimedi. Foto di David James – © TM and 2010 Twentieth Century Fox and Regency Enterprises.

Questo elemento narrativo non è presente in nessuno nel libro di Reidy, che ha dichiarato di aver evitato di includere dettagli sulla sua vita sentimentale per rispetto della privacy e per non imbarazzare la propria famiglia. La scelta di inserire una trama romantica e drammatica nel film serve però a esplorare temi più ampi, come la vulnerabilità umana, l’empatia e la complessità delle relazioni affettive in presenza di malattie croniche. Il contrasto tra la carriera ambiziosa di Jamie e la fragilità di Maggie offre una riflessione sulle priorità della vita e sull’importanza di connessioni autentiche.

Questa narrazione, pur discostandosi dalla realtà dei fatti, arricchisce il film di una dimensione emotiva che ha contribuito al suo successo presso il pubblico. Si può dunque affermare che Amore & altri rimedi è solo parzialmente basato su una storia vera e che le parti che lo sono riguardano il settore farmaceutico, il suo funzionamento e le sue particolarità. Questo contesto è stato il là per i produttori per dare dunque vita ad un racconto ambientato in tale ambito ma che si avvalesse anche di una storia d’amore attraverso cui far ulteriormente emergere il tema della malattia e della medicina. 

Inferno: la spiegazione del finale del film con Tom Hanks

  • Approfondimenti
Gianmaria Cataldo
-
27 Mag 2025
0
Inferno: la spiegazione del finale del film con Tom Hanks

Diretto da Ron Howard, Inferno (qui la recensione) è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Dan Brown, pubblicato nel 2013. Quarto libro con protagonista il professore di simbologia Robert Langdon, è il terzo a essere adattato per il grande schermo dopo Il codice da Vinci (2006) e Angeli e Demoni (2009). Il romanzo, come i precedenti, combina enigmi storici, arte e scienza in una narrazione densa di colpi di scena, ma rispetto ai titoli precedenti si spinge più in là nella riflessione sul presente, affrontando tematiche legate alla sovrappopolazione e alle sue conseguenze globali.

Inferno rappresenta infatti il capitolo più visionario della trilogia, con l’azione che si sposta dal mistero archeologico alla crisi globale. Rispetto ai capitoli precedenti, il film introduce una riflessione più profonda e urgente su tematiche globali. Il fulcro è il dilemma bioetico legato al destino dell’umanità in un pianeta sovrappopolato: si tratta di una minaccia astratta, ma più che mai attuale, che il film esplora attraverso un’oscura rete di simboli danteschi e teorie futuristiche. Il riferimento all’Inferno dantesco non è però soltanto scenografico o metaforico, ma funziona come struttura simbolica che richiama l’idea di un’umanità in caduta libera, in cerca di redenzione.

Inferno pone dunque lo spettatore di fronte a domande inquietanti: è giusto sacrificare parte dell’umanità per salvarne il futuro? Chi ha il diritto di decidere? In questo senso, il film si colloca in una tradizione di thriller etici che interrogano i limiti della scienza e il ruolo della responsabilità individuale. Anche se travestita da intrattenimento ad alta tensione, la narrazione del film richiama con forza la necessità di un pensiero critico e consapevole, capace di affrontare i dilemmi del presente. In questo articolo, esploriamo dunque tali dinamiche con la spiegazione del finale del film.

Tom Hanks e Felicity Jones in Inferno
Tom Hanks e Felicity Jones in Inferno. Foto di Jonathan Prime – © 2016 CTMG, Inc. All Rights Reserved.

La trama e il cast di Inferno

Il professore di simbologia, Robert Langdon (Tom Hanks), si sveglia in un ospedale di Firenze afflitto da una grave amnesia, dopo essere stato raggiunto da un colpo d’arma da fuoco. Pochi giorni prima, il miliardario Bertrand Zobrist (Ben Foster) era stato intercettato dalla polizia italiana, prima che potesse provocare un’epidemia di peste nel capoluogo toscano. L’uomo, completamente ossessionato da Dante Alighieri e dal terrore per l’incontrollabile crescita demografica, si era gettato da un campanile pur di non cedere le fiale con il potente virus. In ospedale, la dottoressa Sierra Brooks (Felicity Jones) si prende cura di Langdon ma la quiete è interrotta dall’arrivo di una donna in uniforme che ha intenzione di uccidere lo studioso.

Sienna riesce a portare Langdon al sicuro, mentre l’uomo ha apocalittiche visioni sul futuro, incentrare sull’Inferno di Dante. Approfittando del computer di Sienna, Langdon trova una mail inviata dall’amico Ignazio Busoni, che lo informa di essere ricercato dalla polizia e nomina Zobrist, senza tuttavia spiegare le dinamiche della vicenda. Non potendo ricordare cosa accaduto, l’uomo compie una serie di ricerche che conducono all’indizio “Paradiso 25” e ad un micro-proiettore, contenente la mappa dell’inferno dantesco disegnata dal Botticelli. Confuso dalle visioni, dai ricordi che tornano a galla e dai simboli, Langdon parte per Venezia dove coglie un collegamento tra i suoi studi e Zobrist. L’uomo, tuttavia, ignora di  essere terribilmente vicino al pericolo.

La spiegazione del finale

Nel concitato atto finale di Inferno, Robert Langdon e la dottoressa Sienna Brooks arrivano infine a Istanbul, dove scoprono che il virus creato dal miliardario Bertrand Zobrist è stato nascosto all’interno della Cisterna Basilica, un antico sito sotterraneo della città. Il piano di Zobrist, già suicidatosi all’inizio del film, prevedeva la diffusione di un virus capace di sterilizzare una parte significativa della popolazione mondiale, come risposta estrema al problema della sovrappopolazione globale. La corsa contro il tempo per fermare la diffusione del virus si fa sempre più frenetica: Langdon, aiutato dall’OMS e da Elizabeth Sinskey, deve decifrare gli ultimi indizi contenuti nel poema dantesco per localizzare il virus prima che venga rilasciato.

Felicity Jones e Tom Hanks in Inferno
Tom Hanks e Felicity Jones in Inferno. Foto di Jonathan Prime – © 2016 CTMG, Inc. All Rights Reserved.

La rivelazione decisiva avviene quando si scopre che Sienna, presentatasi inizialmente come alleata, è in realtà una seguace di Zobrist e intende completarne il piano. Convinta che l’umanità sia destinata all’autodistruzione se non si interviene drasticamente, Sienna si oppone a ogni tentativo di neutralizzare il virus. Tuttavia, il suo piano subisce una battuta d’arresto: l’intervento dell’OMS, coadiuvato da Langdon, riesce a individuare la sacca contenente il virus all’interno della cisterna, sommersa nell’acqua, dove un dispositivo a rilascio temporizzato avrebbe disperso l’agente patogeno. Dopo un confronto fisico e psicologico all’interno del sito, Langdon riesce a evitare il disastro: la borsa viene messa in sicurezza e il virus non si diffonde.

Sienna muore durante il tentativo di portare a termine la missione, sacrificandosi per una causa che riteneva giusta ma che il film, nella sua morale, condanna come estrema e disumanizzante. Il finale di Inferno pone così il dilemma morale al centro della narrazione: da una parte, la razionalità scientifica portata all’estremo, che giustifica la sterilizzazione di massa come soluzione a un problema globale; dall’altra, la fede nell’umanità e nella cooperazione internazionale come unica via etica per affrontare le crisi del presente. Langdon rappresenta la coscienza critica, la figura che, pur comprendendo la gravità del problema, rifiuta soluzioni radicali e irreversibili.

Infine, la pellicola chiude con un tono riflessivo: Langdon restituisce un oggetto simbolico – la maschera di Dante – al museo di Firenze, completando il cerchio dell’arte come memoria e monito. L’epilogo non celebra un trionfo eroico, bensì sottolinea la fragilità del nostro equilibrio globale e la necessità di affrontare i dilemmi etici con trasparenza e responsabilità. Il virus non è stato liberato, ma la minaccia resta viva sotto forma di domande aperte: come conciliare progresso scientifico e umanità? Chi decide il destino collettivo? Inferno, nel suo finale, si fa portavoce di un messaggio inquietante ma necessario: il futuro non si può salvare con la paura, ma con la consapevolezza.

The Bank Job – La rapina perfetta: la spiegazione del finale del film

  • Approfondimenti
Gianmaria Cataldo
-
27 Mag 2025
0
The Bank Job – La rapina perfetta: la spiegazione del finale del film

Il thriller The Bank Job – La rapina perfetta, scritto da Dick Clement e Ian La Frenais e diretto da Roger Donaldson, vede  Jason Statham nel ruolo di Terry, un commerciante d’auto di Londra. Terry è una persona ambiziosa che vuole rilanciare la propria attività e quando un bel giorno, Martine Love, un’ex modella e sua vicina di casa, si presenta a lui con un piano per rubare dei contanti da una banca londinese, egli avverte di avere l’opportunità di sistemarsi una volta per tutte. Terry accetta dunque il lavoro e mette insieme una banda usando le sue conoscenze. Quello che il gruppo non sa, però, è che l’obiettivo principale di Martine è entrare in possesso di un deposito di sicurezza appartenente a Michael X, un gangster di Trinidad e attivista politico.

La cassetta di sicurezza contiene infatti un segreto che può far vacillare la monarchia britannica. Thriller ben congegnato, The Bank Job – La rapina perfetta si ispira alla vera rapina alla Lloyds Bank di Baker Street, Londra, avvenuta nel 1971. Il colpo, presumibilmente ispirato a un racconto di Sherlock Holmes, si è rivelato uno dei più grandi scandali e fonti di cospirazione della storia britannica. Il film riesce a fornire un’impressione di autenticità alla storia, grazie alla sua vivida ricostruzione degli anni ’70, presentando un finale particolarmente articolato che analizziamo meglio qui di seguito.

La trama di The Bank Job – La rapina perfetta

L’agenzia di intelligence britannica MI5 è dunque alla ricerca della cassetta di sicurezza di Michael X, attivista politico e spacciatore di droga, custodita nei caveau della Lloyds Bank di Londra. La cassetta conterrebbe alcune foto suggestive della Principessa Margaret, che potrebbero essere usate da Michael come merce di scambio per evitare la persecuzione da parte dei funzionari della legge. Martine Love, un’ex modella, viene sorpresa a contrabbandare droga in Inghilterra e, per uscire di prigione, accetta quindi di recuperare la cassetta di sicurezza per conto dell’agenzia.

Per farlo si rivolge dunque a Terry, con il piano di irrompere nella Lloyd Bank e rubare oggetti di valore e contanti. Insieme alla sua squadra, Terry affitta allora un negozio di pelletteria vicino al luogo della rapina e si introducono grazie ad un tunnel nella Lloyds Bank. Alla fine, Terry riesce a portare a termine l’operazione, anche di fronte all’imminente arrivo della polizia. Con grande sorpresa di Teddy, però, la rapina scuote alcuni grandi nomi, in particolare Michael X e un pornografo di nome Lew Vogel, che è in combutta con il gangster. Gli uomini di quest’ultimo raggiungono i rapinatori in men che non si dica e Terry si ritrova in possesso di informazioni utili per assicurarsi un’uscita sicura.

The Bank Job - La rapina perfetta trama film

Cosa è successo ai veri colpevoli

Alla fine si scopre che il libro mastro di Vogel contenente i nomi dei funzionari di polizia a libro paga scatena una massiccia epurazione nei ranghi di Scotland Yard. Diversi funzionari di alto livello si dimettono a causa della natura delle accuse. Michael X viene catturato e impiccato per l’omicidio di Gale, che a quanto pare è un agente dell’MI5. Le altre persone coinvolte con Michael vengono arrestate o uccise e nessuno dei proprietari delle cassette di sicurezza reclama le proprie perdite. In realtà, Michael X è stato impiccato con l’accusa di aver ucciso un membro della sua comune e non Gale.

Il fatto che Gale fosse un agente dell’MI5, come mostrato nel film, non è ancora oggi suffragato da prove concrete. Anche la fotografia della Principessa Margaret nel caveau di Michael X è discutibile ed è stata fonte di numerose teorie speculative. Il film, tuttavia, cerca di stabilire che l’MI5 era la mente dietro il colpo. Sulla base delle loro fonti, gli sceneggiatori del film hanno dunque deciso di raccontare questo aspetto della storia. Ma a causa della portata dello scandalo, la vera verità fu nascosta da un ordine del 1971 che bloccò la circolazione delle informazioni nei media.

Quando il polverone si è posato, è stato accertato che Anthony Gavin, un criminale di carriera, aveva orchestrato l’intera vicenda. Benjamin Wolfe aveva firmato il contratto di locazione di Le Sac, un negozio di pelletteria a pochi metri dalla banca. Alla fine, anche Reg Tucker e Thomas Stephens furono nominati come cospiratori. Mentre Wolfe fu condannato a 8 anni, gli altri furono incarcerati per 12 anni. Anche se i funzionari cercarono (senza successo) altri membri della banda (tra cui una donna), questi quattro furono quelli che alla fine pagarono il prezzo.

The Bank Job - La rapina perfetta cast attori

Terry manda Kevin alla polizia

Quando Terry capisce il vero motivo della rapina, rimane sbalordito dalla situazione di pericolo che si trova ad affrontare. Quando intuisce che Vogel e i suoi uomini saranno difficili da gestire, invia Kevin alla polizia, in particolare a Roy Given, che Terry sa essere retto nei suoi modi. Una pagina del libro mastro serve come prova di autenticità con cui Terry può sostenere di essere in possesso di informazioni fondamentali per la sicurezza nazionale. La sua idea intelligente gli consente di fare leva su Vogel, poiché il rischio di essere scoperto è troppo grande per il pornografo. Alla fine Terry viene catturato, ma viene lasciato andare da Roy Given grazie alle sue argute trattative.

Il ruolo di Martine

La relazione sentimentale di Martine con l’agente dell’MI5 si rivela invece deleteria, in quanto viene fatta diventare un capro espiatorio se qualcosa va storto durante l’elaborata rapina. In realtà, non esiste una donna che si occupi della rapina alla Lloyd Bank. Il personaggio di Martine è stato creato sulla base delle trascrizioni delle conversazioni dei ladri registrate tramite walkie-talkie. Secondo il regista, la voce di una donna sentita nelle registrazioni è stata la base del personaggio.

Il personaggio di Martine è influente nell’intrecciare la presenza dell’MI5 nell’elaborato atto e serve come elemento della trama per tenere insieme il colpo. Recluta Terry ma non gli dice il vero motivo. L’interesse di Martine per una particolare cassetta di sicurezza stimola la curiosità di Terry, che in seguito scopre la verità e la usa a suo vantaggio. Martine funge da anello di congiunzione tra il crimine reale e le implicazioni dedotte dagli sceneggiatori del film. Alla fine, riesce a sistemarsi con la sua parte di bottino. Anche se la mente organizzativa è un’altra, il colpo e il suo sviluppo rimangono comunque coordinati da Martine stessa.

Harry Potter: la serie HBO ha annunciato gli interpreti di Harry, Ron e Hermione!

  • news
Chiara Guida
-
27 Mag 2025
0
Harry Potter: la serie HBO ha annunciato gli interpreti di Harry, Ron e Hermione!

La serie TV di “Harry Potter” della HBO ha ufficialmente trovato i suoi Harry, Ron e Hermione. Dominic McLaughlin interpreterà Harry Potter, Arabella Stanton sarà Hermione Granger e Alastair Stout sarà Ron Weasley. Più di 30.000 attori si sono presentati ai provini per i ruoli principali da quando la HBO ha lanciato un casting aperto lo scorso autunno. Le riprese dovrebbero iniziare quest’estate.

“Dopo una straordinaria ricerca guidata dalle direttrici del casting Lucy Bevan ed Emily Brockmann, siamo lieti di annunciare di aver trovato i nostri Harry, Hermione e Ron. Il talento di questi tre attori unici è meraviglioso da ammirare e non vediamo l’ora che il mondo possa assistere alla loro magia insieme sullo schermo. Vorremmo ringraziare tutte le decine di migliaia di bambini che si sono presentati ai provini. È stato un vero piacere scoprire la pletora di giovani talenti là fuori”, hanno dichiarato la showrunner Francesca Gardiner e il produttore esecutivo e regista Mark Mylod in una dichiarazione.

I ruoli in “Harry Potter” hanno lanciato Daniel Radcliffe, Emma Watson e Rupert Grint alla fama mondiale nei primi anni 2000, e la serie HBO potrebbe fare lo stesso per McLaughlin, Stanton e Stout, che sono in gran parte esordienti. McLaughlin ha recitato in “Grow“, una commedia di prossima uscita su Sky con Nick Frost e Golda Rosheuvel, mentre Stanton ha interpretato Matilda in “Matilda: The Musical” nel West End dal 2023 al 2024. “Harry Potter” sarà il primo ruolo importante per Stout.

I tre giovani attori si uniscono agli altri membri del cast John Lithgow (“Conclave”, “The Crown”) nel ruolo di Albus Silente, Janet McTeer (“Mission: Impossible – Il giudizio finale”, “La regina bianca”) in quello di Minerva McGranitt, Paapa Essiedu (“I May Destroy You”, “Gangs of London”) in quello di Severus Piton, Nick Frost (“L’alba dei morti dementi”, “Hot Fuzz”) in quello di Rubeus Hagrid, Luke Thallon (“Leopoldstadt” di Tom Stoppard, “Patriots” di Rupert Goold) in quello di Quirinus Raptor e Paul Whitehouse (“The Fast Show”, “Harry & Paul”) in quello di Argus Filch.

La serie di “Harry Potter” è scritta e prodotta esecutivamente da Gardiner, che è anche showrunner. Mylod sarà produttore esecutivo e dirigerà diversi episodi della serie per HBO in collaborazione con Brontë Film and TV e Warner Bros. Television. La serie è prodotta esecutivamente dall’autrice J.K. Rowling, Neil Blair e Ruth Kenley-Letts di Brontë Film and TV, e da David Heyman di Heyday Films.

Il progetto iniziale di HBO prevede una serie di sette stagioni, ognuna delle quali racconterà in 8/10 episodi la storia di un libro. Considerato che gli episodi potrebbero essere lunghi circa un’ora, significa che lo show avrà la possibilità di approfondire e raccontare in maniera molto più dettagliata il mondo di JK Rowling rispetto a quanto fatto dai film della Warner Bros.

Harry Potter serie tv

Tom Cruise ringrazia fan e produzione per il successo di Mission: Impossible – The Final Reckoning

  • 2025
Chiara Guida
-
27 Mag 2025
0
Tom Cruise ringrazia fan e produzione per il successo di Mission: Impossible – The Final Reckoning

All’indomani dell’ottimo weekend di incassi per il suo Mission: Impossible – The Final Reckoning, Tom Cruise utilizza i suoi social per ringraziare tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione e al successo dell’ultima (?) avventura di Ethan Hunt.

Uno dei divi più amati di Hollywood si conferma una persona intelligente e attenta ai suoi fan, all’esperienza in sala e generosa verso chi fa in modo che lo schermo cinematografico sia ancora fonte di meraviglia.

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Mission: Impossible – The Final Reckoning è un film del 2025 co-scritto, diretto e co-prodotto da Christopher McQuarrie. La pellicola è il sequel di Mission: Impossible – Dead Reckoning (2023) e l’ottavo e ultimo film della serie di Mission: Impossible. Con protagonista Tom Cruise nei panni dell’agente dell’IMF Ethan Hunt. Tra gli altri interpreti del film figurano i ritorni di Ving Rhames, Simon Pegg e Henry Czerny.

Qualche mese dopo gli eventi dell’ultimo film, il mondo ha scoperto dell’Entità e molte persone la venerano . Ethan Hunt è a Londra, e riceve una videocassetta dalla Presidente degli Stati Uniti d’America Erica Sloane, che gli chiede di arrendersi e consegnare la chiave cruciforme. Hunt, ignorata la richiesta, incontra Benji Dunn a Trafalgar Square e con lui raggiunge Luther Stickell, che si era isolato da ogni accesso alla rete internet cosi da trovare il modo di neutralizzare l’Entità. Luther, nel mentre, ha prodotto una “pillola avvelenata” ovvero un congegno che può infettare l’Entità, se collegato al “podkova”, un dispositivo contenuto all’interno della sfera del sonar del sommergibile russo Sevastopol che contiene il codice sorgente originale dell’IA, affondato in un punto imprecisato nel Mare di Bering.

Sydney Sweeney sul flop di Madame Web: “Mi sono divertita a farlo, è tutto quello che conta per me”

  • 2025
Chiara Guida
-
27 Mag 2025
0
Sydney Sweeney sul flop di Madame Web: “Mi sono divertita a farlo, è tutto quello che conta per me”

A più di un anno dal clamoroso flop al botteghino, la star di Madame Web, Sydney Sweeney ha rivelato la sua sincera opinione sul fallimento al box office del film. Oltre a Sweeney, il film vedeva tra i suoi interpreti Dakota Johnson, Isabela Merced, Celeste O’Connor, Emma Roberts, Adam Scott e Tahar Rahim.

Con un pessimo 11% di share su Rotten Tomatoes e un incasso mondiale di 100 milioni di dollari per Box Office Mojo, Madame Web è ampiamente considerato un fallimento totale. Ha anche segnato l’ennesimo tentativo fallito della Sony di emulare il successo del Marvel Cinematic Universe.

In una recente intervista, Sydney Sweeney ha espresso il suo punto di vista sulla scarsa accoglienza riservata a Madame Web: “Voglio dire, mi sono divertita molto, quindi questo è tutto ciò che conta per me. Penso che se ti piace quello che fai, non importi poi molto quale sia il risultato, a livello di incassi. Certo, vuoi che il film sia celebrato, amato e abbia successo, perché allora tutti hanno successo.”

L’attrice ha anche spiegato cosa l’ha spinta a recitare in un film Marvel, affermando che “è sempre divertente poter far parte di qualcosa di più grande di te”. Sweeney ha poi chiarito che “non aver ancora girato un film per uno studio” e di aver avuto bisogno di Madame Web come trampolino di lancio. Ha dichiarato: “Avevo alcune proprietà che desideravo davvero poter portare agli studios, e avevo bisogno di far sì che il mio nome avesse più valore, all’interno di una famiglia di studios. Realizzare un progetto del genere ti aiuta davvero sul mercato”.

Inoltre, Sydney Sweeney era interessata a realizzare un film che piacesse alla sua famiglia. Avendo “un sacco di cuginetti adolescenti“, l’attrice “ha pensato che sarebbe stato fantastico poter fare qualcosa che avrebbero davvero trovato divertente e cool”.

Dalla pagina allo schermo: si conclude la I° edizione del progetto

  • Cinefilos Comunica
Gianmaria Cataldo
-
27 Mag 2025
0
Dalla pagina allo schermo: si conclude la I° edizione del progetto

Si conclude mercoledì 28 maggio il progetto formativo Dalla pagina allo schermo. Percorsi di didattica laboratoriale sul rapporto tra cinema e fumetti, realizzato nell’ambito del Piano Nazionale Cinema e Immagini per la Scuola promosso dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Istruzione e del Merito per l’a.s. 2024/2025 e che vede coinvolti gli Istituti Scolastici di Latina I.C. Don Milani, I.C. Torquato Tasso e I.C. Giuseppe Giuliano. Gli incontri di laboratorio hanno previsto appuntamenti settimanali che hanno visto gli studenti impegnati nella realizzazione di un unico grande fumetto collettivo.

Sotto la guida Ilaria Palleschi e Viola Coldagelli – illustratrici e fumettiste di comprovata esperienza – ogni classe ha ideato una storia, lavorando sullo storytelling e sulla costruzione dei personaggi e delle ambientazioni. Gli studenti sono partiti da esercizi di scrittura per poi passare alla creazione di disegni e di altro materiale artistico da utilizzare per la realizzazione del prodotto audiovisivo. Grazie al coinvolgimento del regista Renato Chiocca, hanno dunque poi sperimentato anche la fase di riprese, animando i propri personaggi, diventando attori e cimentandosi nella sonorizzazione di alcune scene.

Le riprese hanno dato vita al prodotto audiovisivo che verrà proiettato presso l’I.C. Don Milani di Latina nell’evento finale di mercoledì 28 maggio, che sarà aperto non solo agli studenti e ai docenti coinvolti dal progetto, ma anche ai genitori. Nel corso dell’evento verrà proiettato anche il montaggio dei video di backstage che è stato realizzato dagli studenti durante le attività del progetto. Questa sarà anche l’occasione per dar vita ad un momento di condivisione dell’esperienza trascorsa e delle competenze acquisite tra gli studenti di tutte le scuole della rete, come anche di riflessione sull’insegnamento del cinema e dell’audiovisivo nelle scuole tra docenti interni e formatori esterni presenti.

Le scuole coinvolte riceveranno inoltre dei fumetti acquistati grazie al finanziamento del progetto, iniziativa pensata per mettere a disposizione degli studenti nelle rispettive biblioteche materiali da consultare ogni volta che lo vorranno e continuare così ad approfondire le tematiche del progetto.

Il progetto Dalla pagina allo schermo si rivolge a studenti di classi primarie e secondarie di I° grado, proponendo un percorso di esplorazione dei rapporti tra cinema e fumetto, entrambe forme di narrazioni per immagini, attraverso un percorso didattico comparativo che unisce momenti di alfabetizzazione e di analisi delle due forme d’arte, incontri laboratoriali di storytelling, disegno e produzione partecipata finalizzati alla realizzazione di un prodotto audiovisivo.

Proposto dall’Istituto Don Milani, il progetto è reso possibile grazie alla collaborazione tra una rete di dirigenti scolastici del territorio, un gruppo di operatori culturali e di settore esperti, come lo sceneggiatore Mauro Uzzeo e il regista Renato Chiocca. Ad affiancarli, una rete di partner che vede Cinefilos APS, associazione di promozione culturale fondata nel 2019 da un collettivo di professionisti del settore cinematografico con l’obiettivo di diffondere la cultura cinematografica, con particolare attenzione al pubblico giovane, e anche Dreamcatchers Entertainment, casa di produzione con il desiderio di proporre una nuova, inedita prospettiva nel raccontare storie con parole, immagini, musica, utilizzando principalmente l’innovazione tecnologica e l’infinito potere del video in tutte le sue forme.

Un’esperienza formativa capace, dunque, di sviluppare un approccio critico al linguaggio cinematografico e all’arte del fumetto e di potenziare le competenze nei linguaggi audiovisivi e creativi.

Woman and Child: recensione del film di Saeed Roustayi

  • Recensioni
Agnese Albertini
-
27 Mag 2025
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Woman and Child: recensione del film di Saeed Roustayi

Con Leila e i suoi fratelli, Saeed Roustayi ci aveva presentato la storia di una donna dalla schiena ricurva che porta su di sé il peso di una famiglia di soli fratelli maschi. Leila si scontrava a gran voce con questi, tentando di risvegliarli dal torpore di una società patriarcale che li aveva privilegiati fin dalla nascita. Ora, il regista iraniano porta sulla Croisette un altro carattere femminile forte, ma ancora più controverso: si chiama Mahnaz, ed è la protagonista di Woman and Child, in concorso a Cannes 78.

Chi è la madre e chi il figlio?

Mahnaz (in una straordinaria interpretazione di Parinaz Izadyar) è la madre del titolo, una donna che si prende cura dei suoi due figli dopo la morte del marito. La sua routine quotidiana consiste nell’alternarsi tra casa e lavoro come infermiera, incontrare un potenziale nuovo compagno, Hamid (interpretato da Payman Maadi), e tornare ad accudire la sua famiglia. A darle una mano c’è sua madre, perennemente irritata per qualcosa, la sua adorabile figlia più piccola e, naturalmente, il figlio citato nel titolo. Aliyar (Sinan Mohebi) è un adolescente ribelle che sembra attratto dai guai: come se cercasse attivamente il caos per poi tuffarcisi dentro anima e corpo. I suoi insegnanti, i dirigenti scolastici e molti compagni non lo sopportano – anche se alcuni lo seguono, attratti dalla sua capacità di fomentare il disordine e persino il bullismo. È facile intuire che il suo comportamento sia, almeno in parte, una reazione alla perdita del padre, ma ciò non lo rende meno ingestibile. La situazione degenera al punto che un professore, Samkhanian (Maziar Seyedi), decide di sospenderlo.

Quel che accade dopo è tragico, violento e del tutto inaspettato, scatenando una catena di conflitti, incomprensioni, litigi e accuse all’interno della famiglia. Mahnaz cerca risposte dalla scuola, dagli avvocati, dalla giustizia e dai suoi stessi parenti, ma riceve solo porte sbattute in faccia e una vaga empatia che non si traduce mai in vero sostegno. Le cose peggiorano quando, a causa di alcune decisioni drastiche prese dalla sorella, Mahnaz comincia a essere vista come una squilibrata, quasi una nemica. Sempre più sola, senza nessuno che le dia ascolto o creda alla sua versione dei fatti, la donna finisce per compiere azioni via via più assurde, tanto da incarnare – paradossalmente – ciò che gli altri pensano di lei.

Una furia femminile rara nel cinema iraniano

Aliyar sale e scende per le case, gioca d’azzardo, salta ovunque, marina la scuola. È un ragazzo spigliato, che porta il caos ovunque vada e sembra attratto dai guai come da una calamita. In famiglia gli chiedono sempre di fare i compiti altrui, ma nessuno sembra capace di arginare la sua inquietudine. È facile pensare che il suo comportamento sia anche una reazione alla perdita del padre, ma ciò non lo rende meno problematico. Dopo un tragico evento che coinvolge proprio il ragazzo, la donna si rivolge alla scuola, agli avvocati, alla giustizia e alla propria famiglia per ricevere risposte. Quello che ottiene, al contrario, sono solo porte sbattute in faccia, parole vaghe e accuse. Le cose peggiorano quando, a causa di decisioni drastiche prese dalla sorella, Mahnaz comincia a essere percepita come squilibrata, quasi una minaccia. Nessuno le dà ascolto, nessuno le crede davvero. Anche la madre la rimprovera: “se non torni a lavorare, vedrai cosa farò” e la accusa di non prendersi abbastanza cura della figlia: “l’hai fatta invecchiare, ha i capelli grigi”.

Il rapporto con l’uomo che frequenta è altrettanto carico di tensione: le ha chiesto di nascondere la sua vita precedente, lei ha accettato, ma poi non si assume le responsabilità. Il problema, come lei stessa ammette, è che i suoi figli capiscono troppo. E quando in un ribaltamento inaspettato delle dinamiche, Hamid, che ha voluto restare al di fuori della loro esistenza, sarà costretto a diventare parte della famiglia, la situazione peggiorerà rovinosamente.

Parinaz Izadyar, una performance devastante

Roustayi ci regala un’opera di una ferocia implacabile, che farà molto discutere e già lo ha fatto al Festival, e che riflette sul vittimismo come piaga della società moderna. Si muove costantemente sul filo del melodramma, ma riesce a restituire una rabbia femminile raramente vista in un film iraniano. È una storia di donne contro donne: contro la madre, contro la sorella, contro sé stessa. Mahnaz è un personaggio respingente, che cerca disperatamente di restare in piedi mentre tutto attorno a lei crolla: la sua è una parabola di disintegrazione, emotiva e sociale, che non cerca giustificazioni né assoluzioni.

La performance di Parinaz Izadyar è devastante: il film si apre con lei in un centro estetico, intenta a prepararsi per un incontro con il suo uomo, ma col passare del tempo la vediamo imbruttirsi, dentro e fuori, fino a consumarsi. La sua Mahnaz è una donna che si è uccisa ma non è morta. In un passaggio del film, accusa bruscamente Hamid: “Tu non volevi una donna e un bambino, volevi una donna bambina“. Forse, nella sua solitudine, Mahnaz si allontana dai figli per diventare lei stessa figlia di sé stessa, nel disperato tentativo di trovare un senso a quanto di tragico accaduto.

Il regista iraniano costruisce un film furioso, che grida e urla, dove i personaggi si insultano costantemente – come già accadeva in Leila e i suoi fratelli, ma qui con un’intensità ancora maggiore. È un’opera che divide e fa discutere, e che mostra senza filtri il peso dell’incomprensione e dell’abbandono. In questo senso, la fragilità di Mahnaz non è il punto di partenza, ma l’esito finale di una società che non prevede spazio per donne così arrabbiate.

Hayley Atwell ha girato degli stunt di Mission: Impossible incinta di otto mesi

  • 2025
Chiara Guida
-
27 Mag 2025
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Hayley Atwell ha girato degli stunt di Mission: Impossible incinta di otto mesi

La star di Mission: Impossible – The Final Reckoning (qui la nostra recensione), Hayley Atwell, rivela che era incinta durante le riprese di una scena d’azione molto impegnativa. Diretto dal veterano del franchise Christopher McQuarrie, l’ottavo e apparentemente ultimo film di Mission: Impossible vede Tom Cruise tornare nei panni di Ethan Hunt, impegnato a concludere la sua lotta contro la malvagia intelligenza artificiale nota come L’Entità. Dopo la sua apparizione in Mission: Impossible – Dead Reckoning (2023), Atwell torna nel cast di The Final Reckoning nei panni di Grace, un’abile borseggiatrice, e una sequenza all’inizio del film mostra lei ed Ethan sfuggire alla cattura degli scagnozzi di Gabriel (Esai Morales) a Londra.

Durante una recente intervista al The Tonight Show Starring Jimmy Fallon, Hayley Atwell ha rivelato che questa cruda scena di lotta londinese presente in The Final Reckoning è stata girata mentre era incinta di otto mesi e mezzo. La star spiega che la produzione ha preso misure per garantire la sua sicurezza e il suo comfort, mentre lei era comunque determinata a girare gran parte dell’azione da sola. Guarda la sua spiegazione qui sotto: “Durante questa sequenza di lotta – ci siamo tornati sopra un paio di volte per aggiungere qualche elemento – e in questa clip sono effettivamente incinta di otto mesi e mezzo. E devo dire che mi sono presa cura di me stessa in modo impeccabile. Tutti mi hanno supportato molto e mi hanno detto: ‘Oh, puoi sederti e faremo fare il lavoro a una controfigura’. E io ho risposto: ‘No, ho lavorato troppo! Lascialo fare a me’. Quindi l’ho fatto.”

I Fantastici Quattro: Gli Inizi, anticipazioni sul faccia a faccia con Dottor Destino!

  • 2025
Chiara Guida
-
27 Mag 2025
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I Fantastici Quattro: Gli Inizi, anticipazioni sul faccia a faccia con Dottor Destino!

La star di I Fantastici Quattro: Gli Inizi, Joseph Quinn, condivide il suo entusiasmo per la sfida contro il Dottor Destino di Robert Downey Jr. in Avengers: Doomsday. Mentre il Marvel Cinematic Universe si prepara a presentare i Fantastici Quattro nella Fase 6, il celebre team viene coinvolto nella parte Avengers del franchise, con i quattro eroi che tornano come parte del cast di Avengers: Doomsday. Con Downey Jr. che torna nei panni di Victor von Doom, alias Dottor Destino, sarà la prima volta nell’MCU che il famoso villain affronterà non solo gli Avengers, ma anche la Prima Famiglia Marvel.

In una nuova intervista con Esquire, Quinn, che è uno dei membri confermati del cast di I Fantastici Quattro: Gli Inizi per Avengers: Doomsday, ha parlato dello scontro tra la Prima Famiglia Marvel e il Dottor Destino, dato che Avengers: Doomsday è attualmente in produzione, la star di Johnny Storm ha condiviso quanto segue:

Per fortuna, noi [Pedro, Vanessa ed Ebon] andiamo tutti d’accordo. Sono davvero entusiasta di lavorare con Doom, grande fan di RDJ, e di rivedere la mia adorabile famiglia dei Fantastici e di tornare a far parte del cast.

I trailer di I Fantastici Quattro: Gli Inizi hanno dimostrato che l’alchimia tra tutti i personaggi principali è incredibile, motivo per cui è logico sentire quanto Quinn sia entusiasta di riunirsi con i suoi membri del cast. Considerata l’iconicità dei Fantastici Quattro nel canone Marvel, riuscire a far emergere la loro dinamica nel loro primo film MCU è incredibilmente importante, poiché getterà le basi per il futuro del gruppo nel franchise. Questo include il loro grande ritorno in Avengers: Doomsday, soprattutto per quanto riguarda il Dottor Destino di Downey Jr.

I Fantastici Quattro: Gli Inizi

Il film Marvel Studios I Fantastici Quattro: Gli Inizi introduce la prima famiglia Marvel composta da Reed Richards/Mister Fantastic (Pedro Pascal), Sue Storm/Donna Invisibile (Vanessa Kirby), Johnny Storm/Torcia Umana (Joseph Quinn) e Ben Grimm/la Cosa (Ebon Moss-Bachrach) alle prese con la sfida più difficile mai affrontata. Costretti a bilanciare il loro ruolo di eroi con la forza del loro legame familiare, i protagonisti devono difendere la Terra da una vorace divinità spaziale chiamata Galactus (Ralph Ineson) e dal suo enigmatico Araldo, Silver Surfer (Julia Garner). E se il piano di Galactus di divorare l’intero pianeta e tutti i suoi abitanti non fosse già abbastanza terribile, la situazione diventa all’improvviso una questione molto personale.

Il film è interpretato anche da Paul Walter Hauser, John Malkovich, Natasha Lyonne e Sarah Niles. I Fantastici Quattro: Gli Inizi è diretto da Matt Shakman e prodotto da Kevin Feige, mentre Louis D’Esposito, Grant Curtis e Tim Lewis sono gli executive producer.

Deliver Me From Nowhere: cosa pensa Bruce Springsteen della performance di Jeremy Allen White?

  • 2025
Chiara Guida
-
27 Mag 2025
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Deliver Me From Nowhere: cosa pensa Bruce Springsteen della performance di Jeremy Allen White?

Gaby Hoffmann parla dell’interpretazione di Jeremy Allen White in Deliver Me From Nowhere. Questo film è un biopic sull’icona musicale Bruce Springsteen, che racconta la storia del suo percorso nella realizzazione del suo album del 1982 Nebraska. Il film è diretto da Scott Cooper e vede White come protagonista. Hoffmann interpreta Adele Springsteen, la madre di Bruce. Oltre a White e Hoffmann, Deliver Me From Nowhere vanta un cast di spicco che include Stephen Graham, Paul Walter Hauser, Jeremy Strong e Marc Maron.

In un’intervista con ScreenRant per la seconda stagione di Poker Face, Hoffmann anticipa qualche dettaglio sull’interpretazione di White nel ruolo. Hoffmann osserva di “non aver effettivamente visto Jeremy impersonare Bruce” perché le sue scene sono state girate con una versione più giovane del personaggio. Ha comunque anticipato la reazione di Springsteen alla performance di White, notando che il musicista “non riusciva a credere che quella che stava sentendo non fosse la sua voce“. Pensa che White “ci abbia davvero dato dentro“. Ecco la citazione completa di Hoffmann qui sotto:

Mi dispiace dirlo, non ho informazioni sulla [data di uscita]. Non ho avuto modo di vedere Jeremy impersonare Bruce, perché interpreto la madre di Bruce, quindi sono in scene di flashback con un giovane Bruce. E non ero a New York durante le riprese, andavo e venivo solo in aereo, quindi non ho mai avuto la possibilità di vederlo. Ma ho sentito solo cose incredibili, il che, ovviamente, non mi sorprende affatto. Non so se mi è permesso dirlo, ma credo che lo farò: ho persino sentito che Bruce non riusciva a credere che quella che stava sentendo non fosse la sua voce quando ha sentito cantare Jeremy. Penso che sarà davvero impressionante come tutti si aspettano, perché è un attore così bravo, e credo che ci abbia messo davvero tanto impegno, e sembra che sarà incredibile. È stato un grandissimo privilegio far parte di quel film, di questa storia, di questo momento così personale e importante nella vita di Bruce. Sono stato davvero, davvero felice di essere lì, è stata un’esperienza bellissima.

Il film scartato con Henry Cavill avrebbe mostrato “la più grande paura di Superman”

  • 2025
Chiara Guida
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27 Mag 2025
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Il film scartato con Henry Cavill avrebbe mostrato “la più grande paura di Superman”

Se il sequel di Superman con Henry Cavill fosse mai stato realizzato, il DCEU avrebbe esplorato le paure dell’Uomo d’Acciaio, secondo il regista di Mission: Impossible, Christopher McQuarrie.

Uno degli aspetti più noti della cronologia cinematografica del DCEU sono stati i numerosi film in fase di sviluppo che non si sono mai concretizzati. Quando si è trattato della versione di Superman di Cavill, c’erano stati vari piani su cosa fare con la sua interpretazione dell’Uomo d’Acciaio. Nell’ultimo episodio di Happy, Sad, Confused, a McQuarrie è stato chiesto delle idee che aveva per un film di Superman con Cavill, dopo aver lavorato con la star britannica in Mission: Impossible – Fallout. Secondo McQuarrie, il sequel di Superman con Cavill avrebbe esplorato lati più profondi dell’icona DC, dato che l’attore de L’Uomo d’Acciaio aveva anche condiviso alcuni suggerimenti sulla direzione da dare al personaggio:

E poi, come si fa con Superman? Henry aveva già dato un’idea. Mi sono improvvisamente reso conto di come questi due personaggi avessero queste incredibili somiglianze, che hanno anche permesso un conflitto incredibile e una risoluzione straordinaria che ha ampliato l’universo.

Ma vi racconterò i primi cinque minuti del mio film di Superman, che era… immaginate Up della Pixar, una sequenza senza dialoghi che trattava proprio quel personaggio nei primi cinque minuti. I primi cinque minuti del film erano un’introduzione, dopo la quale si capiva esattamente cosa spingeva Superman, e esattamente di cosa aveva più paura, e perché Superman aveva fatto le scelte che aveva fatto, e sarebbe stato epico. Sarebbe stato epico, in cinque minuti, la portata del film sarebbe stata assolutamente straordinaria. L’altra cosa, e spero che chiunque guardi questo film, che si goda il finale di questo film [Mission: Impossible – The Final Reckoning], sia la sensazione che vorrei che vi lasciaste, perché è proprio questo che rappresenta Superman. È speranza, è fonte di ispirazione, e la gioia che crea.

Lilo & Stitch, l’unica omissione del live action che cambia il senso del film

  • Approfondimenti
Chiara Guida
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27 Mag 2025
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Lilo & Stitch, l’unica omissione del live action che cambia il senso del film

Il remake live-action Disney di Lilo & Stitch ha omesso una scena importante, cambiando radicalmente la storia di Lilo nel film del 2025. Come tutti i remake live-action Disney, Lilo & Stitch è stato incredibilmente controverso. Il remake ha omesso una parte essenziale del personaggio di Lilo, a dimostrazione del fatto che con il nuovo Lilo & Stitch si perde il cuore dell’originale.

Rispetto ad altri remake live-action Disney, Lilo & Stitch del 2025 è sorprendentemente fedele al materiale originale. Non ci sono grandi espansioni nella storia come in Biancaneve o La Sirenetta, e i personaggi assomigliano davvero a quelli che dovrebbero rappresentare. Sfortunatamente, la maggior parte dei cambiamenti nell’adattamento si presenta sotto forma di tagli di materiale dal film originale. Mentre i principali snodi della storia sono tutti presenti, il remake taglia molti momenti vitali per i temi e gli archi narrativi dei personaggi.

Il remake live-action di Lilo & Stitch ha omesso un dettaglio fondamentale sui genitori di Lilo

Non spiega come siano morti

In entrambe le versioni di Lilo & Stitch, Lilo viene cresciuta dalla sorella maggiore Nani. Nel film originale, la morte dei genitori delle due sorelle è solo accennata. I genitori vengono menzionati molto di più nel remake live-action, e vediamo anche delle loro foto. Jumba entra persino nella camera da letto dei genitori di Lilo nel momento culminante del film, dimostrando che il remake sta cercando di rendere la loro morte un elemento più emotivamente significativo.

Tuttavia, il remake non rivela come siano morti i genitori di Lilo e Nani. Nel cartone animato, in una scena Lilo dice a Stitch che i suoi genitori sono morti in un incidente d’auto a causa del maltempo. Questo dettaglio è stato omesso nel film live-action, lasciando un mistero sulla causa della loro morte. Non si sa perché il remake abbia deciso di tagliare questa scena, ma dimostra che i registi del remake hanno fondamentalmente frainteso l’importanza di questo dettaglio.

La morte dei genitori di Lilo durante una tempesta è direttamente collegata al motivo per cui lei nutre Pudge

È un meccanismo di difesa per Lilo

lilo & stitchAll’inizio di Lilo & Stitch, Lilo nuota nell’oceano. Dà un panino a un pesce, e in seguito spiega questa tradizione alla sua insegnante di hula. Lilo dà da mangiare panini a un pesce di nome Pudge perché, come dice lei, Pudge “controlla il tempo“. Sembra che voglia far contento Pudge, il che spiega perché si sforza di trovare qualcosa di diverso dal tonno per preparare il panino.

Questo dettaglio inizialmente sembra solo frutto dell’immaginazione di una bambina. Tuttavia, acquista più senso quando Lilo rivela in seguito il destino dei suoi genitori. I genitori di Lilo sono morti a causa del maltempo, quindi la convinzione di Lilo di poter accontentare un pesce che controlla il tempo è chiaramente un meccanismo di difesa. Non ha ancora superato la morte dei suoi genitori, e questo dettaglio dimostra quanto profondamente l’abbiano segnata. Nel remake, il dettaglio di Pudge che controlla il tempo è ancora presente. Senza una spiegazione della loro morte, questa gag non ha alcuno scopo tematico.

Perché il cambiamento di Lilo & Stitch è deludente

Dimostra un po’ di superficialità rispetto al modo di fare di Lilo

Il remake di Lilo & Stitch che omette questo dettaglio dimostra che, nonostante il tentativo di realizzare un film più toccante dal punto di vista emotivo, non coglie l’emozione dell’originale. L’indebolimento della battuta di Pudge è solo un esempio di come il remake utilizzi ripetutamente l’iconografia dell’originale Lilo & Stitch, ma ne annacqui lo scopo.

Nell’originale, Jumba è un cattivo all’inizio della storia, ma la sua accettazione nella famiglia di Lilo rafforza i temi del film. Nel remake, Jumba rimane un cattivo. Nell’originale, Lilo è interessata ai turisti e alla musica di Elvis perché la fanno sentire una straniera a casa sua. Nel remake, Lilo apprezza ancora Elvis, ma questa idea tematica è completamente assente. Nell’originale, Nani canta “Aloha ‘Oe” a Lilo perché il governo che porta via Lilo è il simbolo della distruzione delle famiglie da parte degli Stati Uniti quando colonizzarono le Hawaii. Nel remake di Lilo & Stitch, il lieto fine è che Nani consegna Lilo allo stato.

Spider-Man: Brand New Day, Mark Ruffalo nel film per una scena “epica”?

  • 2025
Chiara Guida
-
27 Mag 2025
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Spider-Man: Brand New Day, Mark Ruffalo nel film per una scena “epica”?

Prima che Spider-Man: Brand New Day fosse ufficialmente il titolo del film, circolavano voci piuttosto inquietanti su vari eroi e cattivi che si supponeva sarebbero apparsi in diversi momenti del film. Una delle indiscrezioni più accreditate sosteneva che la storia avrebbe potuto ruotare attorno a Spidey che si alleava con The Punisher (Jon Bernthal) per affrontare un Hulk infuriato. Sebbene il coinvolgimento di Frank Castle sia probabilmente un’ipotesi remota, sembra che potremmo comunque vedere il Golia Verde.

Secondo Nexus Point News, Mark Ruffalo tornerà nei panni di Bruce Banner in Brand New Day. Il sito riporta che “l’apparizione di Banner sarà molto più di un cameo e Ruffalo avrà un ruolo sostanziale nel film”. Che Banner si trasformi o meno in Hulk, il fatto che il personaggio possa avere un “ruolo sostanziale” nel film è sicuramente interessante.

Potremmo vedere Parker cercare l’altra metà dei “science – bro” per vedere se può aiutarlo nella sua attuale situazione dopo gli eventi di No Way Home? Qualunque sia il ruolo che Banner interpreterà, è probabile che in qualche modo si tratti di gettare le basi per Avengers: Doomsday.

Il sito condivide anche un aggiornamento sulla produzione, sottolineando che le riprese di Brand New Day dovrebbero iniziare a fine luglio a Londra.

In seguito alla notizia, non confermata, che Spider-Man: Brand New Day avrà Hulk, interpretato da Mark Ruffalo, in un ruolo da co-protagonista, sono emersi nuovi dettagli su quella che potrebbe essere una scena d’azione epica nel film.

Secondo Alex Perez di The Cosmic Circus, tramite Discord, i Marvel Studios stanno cercando di realizzare “una delle più grandi, se non la più grande, sequenze di stunt dell’MCU per [Spider-Man: Brand New Day]”. Si prevede che ci vorrà più di un mese per girarla e sarà una sequenza con effetti reali, anche se questo non significa che Hulk non possa essere aggiunto in un secondo momento, visto che il Gigante di Giada viene solitamente rappresentato sul set tramite motion capture.

La scena sarà girata all’aperto in quella che, nel film, sarà un’area densamente popolata (il che suggerisce che questo combattimento si svolgerà nelle strade di New York) e, comprensibilmente, è previsto un notevole coordinamento della sicurezza. Sembra incredibile, senza alcun gioco di parole, e con le voci che circolano su riprese internazionali di Spider-Man: Brand New Day, possiamo solo fare congetture su cosa combinerà il lancia-ragnatele in questo film. Purtroppo, nonostante le numerose affermazioni azzardate, i dettagli ufficiali sono pochi e sporadici.

Spider-Man 4 è stato recentemente posticipato di una settimana dal 24 luglio 2026 al 31 luglio 2026. Destin Daniel Cretton, regista di Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, dirige Spider-Man: Brand New Day da una sceneggiatura di Chris McKenna ed Erik Sommers. Tom Holland guida un cast che include anche Zendaya, Sadie Sink e Liza Colón-Zayas. Michael Mando è stato confermato mentre per ora sono solo rumors il coinvolgimento di Steven Yeun e di Mark Ruffalo.

Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

Vision: la serie Marvel ha trovato la sua Jocasta

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Chiara Guida
-
27 Mag 2025
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Vision: la serie Marvel ha trovato la sua Jocasta

Dopo un susseguirsi di rumors, Deadline ha confermato che l’attrice T’nia Miller entrerà nel cast di Vision e interpreterà Jocasta, la sposa di Ultron dei fumetti, e che abbiamo “visto” in un Easter Egg di Avengers: Age of Ultron divenuto ormai famoso. Il personaggio è descritto come “astuto, potente e spinto dalla vendetta”.

I primi dettagli sul ruolo la identificano come la villain della serie, per la quale Paul Bettany tornerà a interpretare Vision, ma c’è la possibilità che in futuro finisca per unirsi agli Avengers. Nei fumetti, Jocasta, in seguito nota come Jocasta Pym, fu creata per essere la sposa di Ultron e le furono donate le stesse onde cerebrali di Janet van Dyne. Resta da vedere se il personaggio avrà un’origine simile per il suo debutto nel live-action.

Miller vanta numerosi ruoli cinematografici e televisivi, e si è distinta negli adattamenti Netflix di Mike Flanagan, The Haunting of Bly Manor e La caduta della casa degli Usher.

Il progetto Vision, ancora senza titolo ufficiale, che potrebbe o meno essere intitolato Vision Quest, è stato descritto come “la terza parte di una trilogia iniziata con WandaVision e che continua con Agatha All Along“.

Oltre a Paul Bettany, James Spader di Avengers: Age of Ultron riprenderà il ruolo di Ultron (“non è chiaro se Ultron tornerà come robot o in forma umana”). Non c’è stato alcun accenno al potenziale coinvolgimento di Elizabeth Olsen, ma la serie sarà ambientata dopo gli eventi di WandaVision, “mentre il fantasma di Visione presumibilmente esplora il suo nuovo scopo nella vita”.

Il finale di WandaVision ha rivelato che la Visione con cui avevamo trascorso del tempo nel corso della stagione era in realtà una delle creature di Wanda, ma la vera “Visione Bianca” è stata ricostruita dalla S.W.O.R.D. e programmata per rintracciare e uccidere Scarlet Witch. Questa versione del personaggio si è allontanata verso luoghi sconosciuti verso la fine dell’episodio, dopo essersi dichiarata la “vera Visione”.

Per quanto riguarda Wanda, l’ultima volta che abbiamo visto la potente strega era mentre devastava gli Illuminati e si faceva crollare una montagna addosso in Doctor Strange in the Multiverse of Madness.

Anche l’attore di Picard, Todd Stashwick, è nel cast, nei panni di “un assassino sulle tracce di un androide e della tecnologia in suo possesso”.

Resurrection: recensione del film di Bi Gan

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Agnese Albertini
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27 Mag 2025
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Resurrection: recensione del film di Bi Gan

Resurrection di Bi Gan è un viaggio allucinato e poetico nella memoria del cinema e nella struttura del tempo, una riflessione meta-narrativa divisa in sei capitoli che attraversano decenni di storia, generi, sogni e disillusioni. In concorso a Cannes 2025, il film rappresenta una delle proposte più radicali e visivamente audaci del festival, confermando il talento visionario del regista cinese, già autore di Long Day’s Journey Into Night.

Il sogno che viene dall’origine del tempo

Il film si apre con un cartello enigmatico che annuncia una dicotomia tra due umanità: da una parte chi vive per sempre ma non può più sognare, dall’altra chi sogna ma è destinato a morire. In questo futuro immaginario — o forse già presente — una voce narrante si presenta come “resuscitatrice”, incaricata di restituire vita e corpo a questi ultimi, cancellando ogni traccia del loro passato. A incarnare questa funzione salvifica è proprio questa figura femminile che torna di episodio in episodio, come un’ombra onnipresente. Ma è soprattutto il personaggio del Fantasmer, interpretato in molteplici versioni da Jackson Yee, a dare coerenza a una narrazione frammentata e pulsante.

Ogni episodio adotta uno stile visivo e narrativo diverso, omaggiando tappe fondamentali della storia del cinema. Dal muto e i codici dell’espressionismo tedesco — con chiari riferimenti a Nosferatu e Frankenstein — ai chiaroscuri del noir anni ’40, dai melodrammi provinciali alla nouvelle vague asiatica, fino a un lungo piano sequenza ambientato nella notte del 31 dicembre 1999, Resurrection è un atlante cinefilo in forma di racconto speculare. I riferimenti si stratificano: Orson Welles, Wong Kar-wai, Hou Hsiao-hsien, Tarkovskij. Ma l’ambizione di Bi Gan non si esaurisce nella citazione: ogni stile diventa pretesto per interrogarsi su cosa significhi guardare, sognare, sopravvivere al tempo.

La proposta più audace e visionaria di Cannes 78

La struttura a episodi, più che unitaria, risulta modulare. Alcuni segmenti sembrano cortometraggi autonomi, legati tra loro da un filo emotivo e concettuale più che narrativo. È possibile che il film sia nato proprio come raccolta di esperimenti, tenuti insieme successivamente da un’idea guida più ampia. Ma nonostante questo, Resurrection non perde mai potenza: ogni sequenza è concepita come un esercizio sensoriale estremo, dove il suono, la luce e il corpo diventano materia viva.

I riferimenti a sogni, visioni, illusioni e reincarnazioni sono costanti, in un gioco filosofico che evoca più volte la natura illusoria del cinema stesso. Il tempo, a sua volta, viene trattato come un’entità instabile: può scorrere, arrestarsi, riavvolgersi. E proprio quando il Fantasmer chiude le orecchie, il mondo sembra riprendere a girare.

Il segmento ambientato nel 1999 rappresenta il culmine emotivo e tecnico del film. Girato in un unico, lunghissimo piano sequenza, segue un ragazzo in fuga e la donna che ama attraverso una notte densa di desiderio, angoscia e promesse mai mantenute. Le luci al neon, la musica pop, i karaoke e le feste clandestine ricreano una dimensione sospesa tra la fine del secolo e la fine del mondo. In questo spazio-tempo liquido, Bi Gan riflette sul potere delle immagini di fermare ciò che è destinato a dissolversi.

Bi Gan firma un’opera sul cinema e per il cinema

La parte conclusiva riporta lo spettatore al punto di partenza. Lo fa con una malinconia struggente, mostrando come il tempo, alla fine, divori ogni cosa, compresi i sogni stessi. Ma è proprio nel sogno che Bi Gan trova una possibilità di resistenza, di rinascita, di resurrezione. Resurrection è un film impossibile da riassumere, da spiegare, forse persino da comprendere fino in fondo. Ma come accade solo con il grande cinema, rimane addosso, nel corpo e nella mente, molto più di quanto lasci intendere la sua superficie rarefatta.

Con questa terza regia, Bi Gan firma un’opera di rottura, che va oltre le logiche delle piattaforme e dell’accessibilità immediata, abbracciando un cinema che sfida e accoglie, che chiede partecipazione e offre, in cambio, stupore.

Romería: recensione del film di Carla Simón

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Agnese Albertini
-
27 Mag 2025
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Romería: recensione del film di Carla Simón

La regista spagnola Carla Simón torna in concorso a un festival dopo aver vinto l’Orso d’oro a Berlino con Alcarràs – L’ultimo raccolto nel 2022. Sfortunatamente Romería, suo ultimo lungometraggio presentato sulla Croisette, non è all’altezza di quella interessante riflessione sulla strenua resistenza di una famiglia di contadini di fronte alla minaccia dell’installazione di pannelli solari sui loro terreni.

Cosa sarei oggi se mi avesse cresciuta la famiglia di mio padre?

La storia si svolge nel 2004 e ha per protagonista Marina (Llúcia Garcia), una studentessa di cinema che vive a Barcellona e si reca a Vigo, in Galizia, per conoscere la famiglia del padre biologico, con la quale non ha mai avuto contatti da quando è stata data in adozione. Il viaggio la porta a incontrare prima uno dei suoi zii, Lois (Tristán Ulloa), la moglie di lui e una serie di cugini, sia coetanei sia più piccoli, che non aveva mai conosciuto. Con loro Marina riesce a stabilire un legame, condivide storie e momenti, ma appare subito evidente che il vero ostacolo sarà affrontare i nonni, i quali non hanno mai davvero accettato le scelte di vita del figlio. Al punto che, nel certificato di morte, non è nemmeno menzionata l’esistenza di una figlia, circostanza che causa a Marina diverse complicazioni legali.

Il film – che presenta diversi elementi autobiografici e potrebbe essere visto quasi come un seguito di Verano 1983 – accompagna Marina in un percorso di scoperta, che include anche una visita alle isole Cíes, dove i suoi genitori trascorsero del tempo insieme. Mentre ricostruisce la storia del padre, si trova di fronte a una famiglia complessa, carica di tensioni e segreti che il film fatica a rendere pienamente sullo schermo.

Nascondere le vite degli altri

Romería si configura come un racconto marittimo, una sorta di diario di bordo scritto negli anni ’80 e letto nei primi anni 2000, tra barche e palazzoni grigi in cui Marina immagina la vita dei genitori vissuta in libertà, contrapposta a quella della famiglia d’origine, benestante e repressiva, che ha cercato di nascondere la malattia e la sofferenza del padre perché “ci sono cose di cui non si parla in questa famiglia”. Nel corso della narrazione si percepiscono pesanti non detti, una sorta di scetticismo nei confronti di Marina, come se provenisse da una pagina della storia familiare che tutti i parenti hanno cercato di rimuovere.

“Non eravamo morti, ci avevano solo nascosti”, dirà, in una parentesi onirica, la proiezione del padre di Marina alla figlia. Proprio da questo sogno a occhi aperti, in cui la ragazza incontra i genitori, prende forma una parte più interessante del film, incentrata sull’immaginazione e sull’interpretazione del diario della madre. Non viene raccontato nulla della vita attuale di Marina né della sua famiglia adottiva: si sentono solo alcune telefonate, che non lasciano intuire insoddisfazione, quanto piuttosto il senso che questo sia davvero un viaggio – un pellegrinaggio, come suggerisce il titolo Romería – alla ricerca delle proprie origini.

Carla Simòn al varco: Romería non regge il confronto con Alcarràs

Purtroppo, Romería rimane un film piuttosto superficiale, un coming-of-age di scoperta che non riesce a farci entrare davvero in empatia con la protagonista e con la sua ricerca, soprattutto perché non comprendiamo mai appieno come lei stia reagendo di fronte alle nuove consapevolezze. La narrazione imbastita da Simòn risulta molto manichea, forse perché vuole adottare il punto di vista della ragazza che, nel raccogliere informazioni contraddittorie sulla propria famiglia, cerca di costruirsi una propria idea della gioventù dei genitori, da custodire come appiglio. Tutto rimane sussurrato, e nel contesto di un festival ricco di grandi immagini e storie tra loro simili, Romería finisce per passare nettamente in secondo piano. Un vero peccato, perché Simón è una regista interessante e, confezionando qualcosa di analogo ad Alcarràs, avrebbe potuto davvero ambire al Palmarés.

Sirât: recensione del film di Oliver Laxe

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Agnese Albertini
-
27 Mag 2025
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Sirât: recensione del film di Oliver Laxe

Il giovane regista franco-spagnolo Oliver Laxe è arrivato sulla Croisette e ha trasformato il Festival di Cannes in un rave party. Dopo aver presentato i suoi precedenti tre lungometraggi in sezioni parallele della prestigiosa kermesse, approda ora nel concorso ufficiale con Sirât, già uno dei film più politici e radicali dell’anno, forte di una poetica personalissima e che parla a gran voce del nostro presente.

Il road movie più atipico dell’anno

Luìs (Sergi Lopez) e il figlio Esteban (Bruno Núñez Arjona) stanno cercando la figlia Mar tra i rave party del deserto marocchino: da 5 mesi non ne hanno più notizie, ma sanno che la giovane potrebbe trovarsi in questi territori. Laxe ci immerge subito in una sorta di rilettura di Climax di Gaspar Noè nelle distese desertiche. Insiste con inquadrature sui partecipanti del rave, per farci pensare che tra questi volti possa proprio nascondersi Mar. Un gruppo di individui alquanto bizzarri gli dice che la ragazza potrebbe trovarsi a una festa più avanti, alla quale forse si uniranno anche loro. All’improvviso, irrompono però plotoni di soldati che dichiarano uno stato di emergenza, ordinando a tutti i cittadini dell’EU di salire immediatamente sui loro veicoli e abbandonare il posto. A quanto pare, una guerra è esplosa nel corso della notte. La situazione socio-politica non verrà mai definita nei dettagli da Laxe, così come non sappiamo esattamente come i protagonisti si posizionino nei confronti di questa tragedia: stanno scappando? Sono profughi? L’avventura che inizia apre a molteplici interpretazioni.

A questo punto, i raver incontrati poco prima da Luìs ed Esteban sterzano violentemente, decisi a proseguire la loro danza nel deserto. Padre e figlio, per niente equipaggiati, li seguono nella speranza che possano effettivamente condurli dalla figlia scomparsa. Il gruppo suggerisce all’uomo – padre di famiglia nel senso più comune e “bonario” del termine –  che dovrà adattarsi al deserto se vuole seguirli, ma percepiamo fin da subito che non è l’habitat naturale di questa famiglia spagnola e che qualcosa dovrà per forza succedere. Per sopravvivere, dovranno iniziare a collaborare e condividere le risorse disponibili, anche se il padre si mostra piuttosto restio. Dopo una serie di eventi tragici, tuttavia, sarà costretto ad abbracciare il loro concetto di famiglia e una nuova forma di esistenza.

È la fine del mondo già da troppo tempo

Il film di Oliver Laxe inizia con una didascalia volta a spiegare nell’immediato il significato del termine sirat: ‘ponte’, ma anche ‘via’ che, nella religione islamica, collega l’inferno al paradiso.Tuttavia, il titolo effettivo del film compare su schermo solo a venti minuti inoltrati di visione, stagliandosi sopra le macchine roboanti in moto. Il senso di Sirât è proprio quello di un viaggio, di chi anima questo deserto, i protagonisti di un Mad Max sotto acidi da cui è impossibile distogliere lo sguardo.

Sirât film

Loro sono Richard Bellamy, Stefania Gadda, Joshua Liam Henderson, Tonin Janvier, Jade Oukid: non attori professionisti, ma gente che viene dalla controcultura, immersi in spazi di esistenza che Laxe tenta finemente di catturare. Un gruppo di personaggi che sembrano prelevati da una favola, con corpi diversi e impossibili da etichettare, che riproducono al meglio il concetto di un’esistenza indefinibile.

Tra thriller e riflessione su una nuova via per esistere

La genialità di Laxe sta nel fatto che non solo infonde la narrazione di un senso di sospensione immanente, ma riesce a costruire anche un thriller tesissimo, perfino insostenibile, quasi a voler proprio ricalcare il significato del termine sirat, un passaggio talmente sottile e tagliente come una lama. Ai rumori roboanti dei fuoristrada si sostituisce poi man mano il silenzio. Sirât ci lascia così a riflettere su una nuova modalità di esistenza, un ritrovato rapporto con la natura che può fagocitarci da un momento all’altro. Il deserto diventa uno spazio pre fine del mondo ma, in fondo, tutto è già finito. E allora, non resta che danzare.

Firebrand – L’Ultima Regina: recensione del film con Alicia Vikander – Cannes 76

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Agnese Albertini
-
27 Mag 2025
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Firebrand – L’Ultima Regina: recensione del film con Alicia Vikander – Cannes 76

In concorso al Festival di Cannes 2023 c’è anche un film a sfondo storico: si tratta di Firebrand, nuova prova registica di Karim Aïnouz (La vita invisibile di Euridice Gusmao). Basato sul romanzo Queen’s Gambit del 2013 di Elizabeth Fremantle, il film è incentrato sulla figura di Katherine Parr, la sesta e ultima moglie di Enrico VIII e interpretato da Alicia Vikander, Jude Law, Sam Riley, Eddie Marsan, Simon Russell Beale ed Erin Doherty.

La trama di Firebrand – L’Ultima Regina

Nell’Inghilterra dei Tudor intrisa di sangue, Katherine Parr, sesta e ultima moglie di Enrico VIII, viene nominata reggente mentre il tiranno Enrico sta combattendo oltreoceano. Katherine ha fatto tutto il possibile per promuovere un nuovo futuro basato sulle sue convinzioni protestanti radicali. Quando il re torna, sempre più malato e paranoico, si accanisce contro i radicali, accusando di tradimento l’amica d’infanzia di Katherine e mettendola al rogo. Inorridita e addolorata, ma costretta a negarlo, Katherine si ritrova a lottare per la propria sopravvivenza. La cospirazione si ripercuote nel palazzo. Tutti trattengono il fiato: che la regina faccia un passo falso, che Enrico la voglia decapitare come le le mogli precedenti. Con la speranza di un futuro libero dalla tirannia a rischio, Katherine si sottometterà all’inevitabile per il bene del re e del Paese?

Eresia a corte?

Nell’anno 1546, in cui Firebrand – L’Ultima Regina è ambientato, il re era ancora percepito come una figura divina. Enrico VIII aveva chiuso ogni rapporto con la Chiesa cattolica romana per il rifiuto di quest’ultima di concedere l’annullamento del suo primo matrimonio, e lui e i suoi consiglieri religiosi temevano che i riformatori protestanti potessero minare l’intero sistema.

La storia di Firebrand – L’Ultima Regina inizia mentre Enrico è all’estero e Katherine lo sostituisce come reggente. Sfidando l’autorità ecclesiastica, Katherine si allontana di nascosto per andare a trovare Anne Askew (Erin Doherty), una controversa predicatrice protestante e amica di lunga data. In seguito, assumendosi un grande rischio, Katherine insiste affinché Anne accetti una preziosa collana che Henry le aveva regalato, sostenendo di fatto la sua causa eretica.

Una scena di Firebrand (2023)

Ritratti femminili

Quella di Aïnouz è una Katherine Parr carismatica, dai numerosi interessi e con uno sguardo più vasto del mondo di corte. Alicia Vikander la interpreta anzitutto con compostezza, prima qualità che ci si sarebbe aspettati da una regina dell’epoca, ma riesce a offrirci un ritratto sfaccettato dell’ultima moglie di Enrico VIII. Katherine è consapevole del suo ruolo a corte e anche delle sue conoscenze: non è un caso che la giovanissima Elisabetta, figlia di Enrico e Anna Bolena e futura sovrana di Inghilterra, la ammiri, le faccia spesso domande e non la perda mai di vista.

Anche se Alicia Vikander interpreta il personaggio principale della pellicola, la voce femminile che risuona con più potenza è, forse, proprio quella indesiderata e tanto temuta: quella di Anne. Dalle prime sequenze in cui vediamo Anne e Katherine incontrarsi nei boschi dove la prima tiene delle sorti di comizi con gli altri eretici, ci viene illustrato il rapporto che intercorre dalle due: Katherine tenta di avvisarla, vuole che Anne scappi. Con Enrico VIII al governo, il suo destino è segnato.

Jude Law è Enrico VIII

Inizialmente, almeno per quanto riguarda la presenza su schermo, siamo di fronte a un film di donne: da Katherine ad Anne, passando per Elizabeth, abbiamo un ritratto di quello che l’Inghilterra era al momento, di quello che voleva abbattere e di ciò che il Paese sarebbe diventato. Come l’Enrico VIII di Jude Law irrompe sulla scena, capiamo che la minaccia in tutte le sue variazioni, domestica, politica e anche fisica – il sovrano ha la gotta ed è continuamente circondato da medici – sarà la parola d’ordine della narrazione di Firebrand.

Jude Law dà vita al ritratto forse più verosimile del sovrano inglese che sia mai stato rappresentato al cinema. Burbero, malato, violento, ma anche ironico, compositore – alcune delle canzoni che sentiremo nel film sono state veramente composte da Enrico VIII – il sovrano fiuta la minaccia e se la carica anche sul corpo, sempre meno curato, abnorme, facendone volutamente percepire la pesantezza a Katherine.

Con una messa in scena dettagliata e precisa, costumi curatissimi e performance convincenti, Firebrand – L’Ultima Regina riesce a distinguersi come dramma storico e prima prova del brasiliano Aïnouz in lingua inglese. Qualche revisione storica potrebbe forse non conquistare l’ammirazione di troppi spettatori, ma il calore con cui abbraccia e cuce addosso ad Alicia Vikander questo ruolo femminile è assolutamente degno di nota.

Eagles of the Republic: recensione del film di Tarik Saleh

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Agnese Albertini
-
27 Mag 2025
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Eagles of the Republic: recensione del film di Tarik Saleh

Con Eagles of the Republic, Tarik Saleh chiude idealmente la sua trilogia sulla corruzione e le dinamiche del potere nell’Egitto post-Mubarak, dopo El Cairo Confidential (2017) e Boy From Heaven (2022), premiato proprio a Cannes per la miglior sceneggiatura. Ancora una volta, il regista svedese di origini egiziane esplora le fratture politiche e sociali del suo Paese natale da lontano, dopo essere stato espulso dall’Egitto. Tuttavia, questa volta non mette al centro non l’apparato religioso o giudiziario, bensì l’industria cinematografica, trasformata in strumento diretto della propaganda di Stato.

Il potere vuole lo spettacolo

George Fahmy (Fares Fares), superstar del cinema egiziano, è un divo consumato: divorziato, distante dal figlio, amante delle giovani attrici, vive un’esistenza in equilibrio tra popolarità e superficialità. La sua vita cambia quando riceve una “proposta” dalle autorità: interpretare il presidente Abdel Fattah Al-Sisi in un film celebrativo del suo colpo di stato ai danni dei Fratelli Musulmani. George rifiuta, inizialmente. Ma in Egitto, anche il no è un atto politico — e a volte si paga caro.

Eagles of the Republic prende il via da questa promessa satirica che sembra voler demolire dall’interno le dinamiche del potere autoritario e la sua ossessione per il controllo narrativo. In un Paese dove il cinema è da sempre terreno di scontro ideologico, George diventa l’icona perfetta da piegare, usare, mettere in vetrina. E Fares Fares incarna con mestiere l’archetipo della star decadente, costretta a confrontarsi con l’ipocrisia del sistema che lo ha reso celebre.

Satira che si affievolisce, tensione che non esplode

La prima parte del film si muove sul terreno del grottesco, tra divi arroganti, funzionari zelanti e una produzione cinematografica che somiglia a una parodia di Stato. C’è sarcasmo, c’è ritmo, e c’è l’ombra lunga della censura che avanza scena dopo scena. Ma questa promettente miscela comica e politica non regge a lungo. Superata la metà, Eagles of the Republic abbandona l’ironia per un registro più drammatico, con svolte da thriller complottista che appesantiscono la narrazione senza mai scuoterla davvero.

A differenza di film come Boy From Heaven o El Cairo Confidential, che riuscivano a fondere genere e denuncia con maggiore tensione interna, qui Saleh sembra più prudente. Il conflitto tra arte e propaganda permane, ma viene trattato in modo didascalico, quasi come se il film stesso temesse le conseguenze del proprio messaggio. Ogni svolta — i ricatti, le minacce, i misteri sul passato del presidente — arriva nei tempi giusti, ma senza mai sorprendere. E la riflessione sulla responsabilità degli artisti in regime autoritario, centrale nel film, resta più dichiarata che interrogata.

Un film su come si fa (e si impone) un altro film

Uno degli elementi più interessanti di Eagles of the Republic è la sua mise en abyme: il film parla di un film che si sta girando, e nella finzione si moltiplicano le ingerenze del potere. Gli script vengono rivisti dai militari, le scene devono essere approvate, le comparse sono soggette a controlli. Il set diventa una zona di conflitto, dove la finzione serve a riscrivere la Storia in modo funzionale al regime.

Tuttavia, questa dinamica metacinematografica non viene mai portata fino in fondo. A differenza di Argo, Eagles si limita a illustrare il meccanismo, senza mai smontarlo davvero. Persino i riferimenti cinefili — dai poster di classici egiziani ai richiami stilistici anni Settanta — risultano più decorativi che sostanziali.

Un’operazione europea su un dramma egiziano

Girato interamente in Turchia e finanziato da un consorzio europeo (Svezia, Francia, Germania, Danimarca e Finlandia), il film segna il ritorno di Saleh con un budget visibilmente superiore rispetto ai titoli precedenti. Eppure, la regia resta funzionale, televisiva, più interessata a far scorrere la trama che a scavare nei suoi sottotesti. Si ha spesso la sensazione che l’urgenza del discorso politico sia stata sacrificata in favore dell’accessibilità del prodotto, come se l’autore cercasse una via di mezzo tra il thriller da festival e il titolo da catalogo streaming.

La stessa figura del protagonista resta ambigua: George non è un eroe, ma nemmeno un complice. È una vittima privilegiata, talvolta lucida, talvolta passiva, e il film non riesce mai a scegliere se raccontarlo con empatia o distacco.

O agente segreto: recensione del film con Wagner Moura

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Agnese Albertini
-
27 Mag 2025
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O agente segreto: recensione del film con Wagner Moura

Brasile, 1977. In mezzo alla strada, un cadavere giace abbandonato da ore. Nessuno lo reclama, la polizia interroga ma non agisce. È da questo dettaglio disturbante che prende il via O agente secreto, il nuovo film di Kleber Mendonça Filho, ambientato nella Recife della dittatura militare, e costruito come una riflessione a più strati sulla sorveglianza, l’identità e il peso della storia. Non un film di spionaggio in senso classico, nonostante il titolo, ma un dramma politico e personale in cui tutti sembrano avere almeno due nomi, due vite, due versioni dei fatti.

Un Brasile sotto controllo

Marcelo (Wagner Moura), ex docente universitario, torna nella sua città natale per cercare il figlio e, insieme a lui, un documento in grado di dimostrare l’esistenza della madre, scomparsa nel nulla. Ma Recife non è un rifugio, bensì un territorio minato, popolato da militanti, doppi giochi, ex torturatori oggi mercenari e forze clandestine della resistenza. Braccato da chi lo vuole trasformare in un “burattino” — come suggerisce la minaccia di perforargli la bocca — Marcelo si muove tra quartieri, stazioni di polizia, vecchi cinema e case rifugio, mentre la tensione si fa sempre più pressante.

Una narrazione a spirale tra memoria e testimonianza

Mendonça Filho imbastisce una narrazione labirintica e volutamente discontinua, che alterna passato e presente, documenti e ricordi, testimonianze e flashforward: una struttura a spirale, simile a quella di Zodiac di David Fincher, dove il bisogno di verità si scontra costantemente con il vuoto delle prove e il rumore del potere. Alcuni decenni dopo, due ricercatrici universitarie ascoltano le registrazioni dei dialoghi originali: ciò che vediamo potrebbe essere il frutto delle loro ricerche, o delle loro ricostruzioni, mai del tutto affidabili.

Come in Retratos Fantasma, Mendonça torna a riflettere sul ruolo del cinema e della memoria: le sale d’epoca, le proiezioni dell’epoca, persino Lo squalo di Spielberg diventa parte integrante della narrazione, tra apparizioni metaforiche (una gamba umana ritrovata nello stomaco di uno squalo) e inserti da film horror di serie B. L’atmosfera generale rimanda al miglior cinema politico degli anni Settanta: paranoia, ambienti notturni, rifugi improvvisati e sorveglianza costante. Ma non mancano parentesi surreali, momenti di humour nero e riflessioni emotive sul lutto e la paternità.

Un racconto corale tra luci e ombre

Wagner Moura regge sulle spalle gran parte del film, ma il mosaico è popolato da figure secondarie interessanti: amici, collaboratori, ex guerriglieri, militari degradati, burocrati corrotti. Non mancano i passaggi violenti, alcuni molto espliciti, ma ciò che colpisce di più è la dimensione emotiva e psicologica della persecuzione. “Quante persone stai aiutando?”, chiede Marcelo a uno dei personaggi. È una domanda che riecheggia più forte di molte altre, in un film dove le responsabilità individuali e collettive si fondono e si confondono.

Il limite principale dell’opera sta nella sua ampiezza narrativa: O agente secreto cerca di tenere insieme molti fili — il dramma famigliare, la denuncia storica, l’indagine sul trauma — ma non sempre ci riesce con equilibrio. Il risultato è un film pieno di intuizioni forti, ma anche dispersivo, a tratti ridondante, che accumula significati e simboli a scapito della coesione.

The History of Sound: recensione del film con Paul Mescal

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Agnese Albertini
-
27 Mag 2025
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The History of Sound: recensione del film con Paul Mescal

Nello spiegare a due bambini incontrati nel loro peregrinare tra i boschi cosa sia effettivamente il suono, Lionel, protagonista del film di Oliver Hermanus, lo descrive come qualcosa di invisibile ma che può avere una presenza fisica: purtroppo The History of Sound, l’ultima pellicola del regista di Living, presentata in Concorso a Cannes 78, non riesce però a vivere di questa sensuale sinestesia di una fisicità emotiva, che dovrebbe attraversare una storia d’amore, quindi di corpi, con la voce e la musica, qualcosa di impalpabile e che parla alle sfere più profonde della nostra psiche.

La storia del suono negli Stati Uniti di inizio Novecento

Tratto da un racconto breve di Ben Shattuck (anche autore della sceneggiatura), il film intreccia il racconto della relazione tra due giovani uomini al grande viaggio della musica folk americana. Lionel, un ragazzo del Kentucky cresciuto tra le canzoni popolari che suo padre cantava sul portico di casa, nel 1917 lascia la fattoria per iscriversi al Conservatorio di Boston. Qui conosce David, brillante studente di composizione. Ma la guerra incombe, e David parte per il fronte. I due si ritrovano qualche anno più tardi, nel 1920, per intraprendere insieme un viaggio attraverso i boschi e le isole del Maine, con l’intento di registrare e preservare le canzoni tradizionali tramandate oralmente, destinate altrimenti a scomparire.

La narrazione si estende su un arco temporale che va dal 1917 agli anni ’80, attraversando non solo gli Stati Uniti – dal New England all’America rurale – ma anche l’Europa: Oxford, l’Italia, il Lake District inglese. Un itinerario vasto e ambizioso, quasi da road movie storico, che tuttavia si rivela privo di vera densità narrativa. Il film si segue senza difficoltà, anzi con una certa scorrevolezza pensata per un pubblico ampio. Ma proprio questa facilità è parte del problema: la leggerezza non diventa mai profondità, il coinvolgimento emotivo è costantemente tenuto a distanza.

Una love story che non vibra mai

The History of Sound poggia su un vagabondaggio tra spazi e periodi temporali diversi sostenuti da un fastidioso voice-over che deve spiegare tutto quello che (non) accade in scena. Un meccanismo che cozza con la base formale del film: la narrazione e la direzione sono piuttosto chiari – è un film che si segue senza grossi intoppi e particolarmente adatto al grande pubblico – e che finisce per creare esattamente quello che vorrebbe scongiurare: distacco nello spettatore.

Così, una storia che dovrebbe fare dell’emotività la sua forza trainante si stanzia su binari austeri e fin troppo altisonanti: sembra paradossale da ammettere, ma non c’è romanticismo né attrazione tra due attori che altrove, probabilmente, l’avrebbero sprigionata molto meglio (le prove di Paul Mescal in Estranei e di Josh O’Connor in La terra di dio e Challengers parlano da sole).

Paul Mescal in The History of Sound
Paul Mescal in The History of Sound. Foto di MUBI – © MUBI

Due grandi interpreti sprecati per una narrazione faticosa

“Mi sento sempre come se fossi alla fine di qualcosa”: Lionel è un personaggio irrisolto e inquieto, biglietto da visita perfettamente coerente con la tipologia di personaggi che Mescal è solito interpretare. Il problema è che manca l’espressione di questo scontro interno che lui sente, non c’è mai un momento di rilascio e, soprattutto, l’esplorazione di questo sentimento tramite la musica, come si potrebbe pensare all’inizio.

Il tutto esplode in un finale estremamente didascalico e verboso, che priva ulteriormente la storia del suo potenziale evocativo. Qualcosa di sinceramente inaspettato, dato che Hermanus sceglie come protagonisti due attori che avrebbero potuto far capire tutto senza dire niente. History of Sound rimane, purtroppo, una love story in cui manca totalmente il linguaggio dei corpi, in cui la ricerca del suono dovrebbe essere centrale ma non è mai affrontata in relazione al rapporto tra i personaggi.

Fuori: recensione del film di Mario Martone con Valeria Golino

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Agnese Albertini
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26 Mag 2025
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Fuori: recensione del film di Mario Martone con Valeria Golino

Il nuovo film di Mario Martone, presentato in concorso al Festival di Cannes 2025, è un’opera che sfugge a ogni definizione rigida. Fuori prende ispirazione dalla figura e dalla biografia di Goliarda Sapienza, ma non ne costituisce affatto ritratto didascalico. Non si tratta di una biografia, né di un adattamento canonico: è piuttosto un affresco emotivo e impressionista, costruito sulle immagini, sulle relazioni e sui silenzi. Un sogno che nasce da un incubo – quello del carcere – ma che riesce a trasformare le sbarre in aperture, le ferite in legami, la prigionia in possibilità.

Fuori, insomma, non è un biopic e non vuole esserlo. Si configura come un ritratto “per impressioni” che Mario Martone e Valeria Golino tracciano di Goliarda Sapienza con rara grazia e pudore. Siamo ben lontani dall’agiografia, e ancor di più dal melodramma carcerario: qui la prigione è lo spazio mentale in cui queste donne si muovono, sopravvivono, si sostengono e, soprattutto, immaginano. Sognano fuori, anche se il dentro non è mai veramente alle spalle.

Le ore del nostro presente sono già leggenda

La Goliarda Sapienza interpretata da Golino è una donna che non ha più nulla: senza lavoro, senza un futuro, reduce da un arresto per furto di gioielli. Eppure, è viva. Costretta a ricominciare tutto da capo, si rifugia in un microcosmo femminile fatto di dolore, ironia e desiderio di rinascita. Andando avanti e indietro nel tempo, scopriamo che nel carcere di Rebibbia nel 1980 ha stretto un intenso legame con Roberta, giovane detenuta interpretata da una straripante Matilda De Angelis, che domina la scena con una carica viscerale. Tra le due si crea una dinamica complessa: materna, erotica, polemica, ma sempre vera. Roberta la sfida, la riporta coi piedi per terra, la fa ridere quando non dovrebbe. È in lei che si riflette quella “arte della gioia” che Goliarda stessa ha insegnato senza predicarla.

Martone abbandona ogni tono didascalico per cedere a una poetica visiva che sembra affiorare direttamente dai sogni delle protagoniste. La luce filtra come in un ricordo, le inquadrature sfumano nell’onirico, e le risate – fragorose, liberatorie – diventano gesto rivoluzionario. Perché queste donne, persino quelle più segnate – come Barbara (Elodie), che è riuscita ad aprire una profumeria dopo aver tentato il suicidio in carcere – resistono alla vita trasformando ogni frattura in un legame.

Valeria Golino, Matilda De Angelis ed Elodie in Fuori

Il carcere racconta l’anima delle protagoniste

Golino, che conosce intimamente la materia di Goliarda Sapienza dopo essersi occupata dell’adattamento della sua opera magna L’arte della gioia, regala un’interpretazione costruita dall’interno, come se avesse inglobato la penna della scrittrice nel proprio corpo. Il suo è un personaggio che non sa stare al mondo, o forse risiede in un altro, più fragile e più vero.

La regia di Martone è avvolgente: non spiega, ma suggerisce. Non denuncia, ma incanta. La prigione non è mai il centro, è piuttosto il simbolo di una condizione esistenziale: quelle donne sono “dentro” anche quando sono “fuori”, perché a mancare è sempre un posto nel mondo. Eppure, Fuori non è un film triste. È una celebrazione del potere salvifico delle relazioni, della famiglia che ci si sceglie, della risata che rompe il silenzio, della parola che cura. Goliarda non ruba gioielli, ma vite, storie, immagini. È una ladra di realtà, perché solo chi è capace di ascoltarla può davvero raccontarla.

La trama fenicia: recensione del film di Wes Anderson

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Agnese Albertini
-
26 Mag 2025
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La trama fenicia: recensione del film di Wes Anderson

Non c’è Cannes senza Wes Anderson (equazione che si potrebbe anche leggere al contrario). Il cineasta della geometria estetica non ha infatti perso l’opportunità di presentare il suo La trama fenicia sulla Croisette, che lo aveva già visto tra le fila del concorso qualche anno fa con The French Dispatch (2021) e Asteroid City (2023).

Un progetto da annali

Protagonista del film è Anatole “Zsa-zsa” Korda (Benicio del Toro), un miliardario detestato e continuamente preso di mira da tentativi di omicidio. Convinto che la sua fine sia vicina, sceglie di affidare tutto a Liesl (Mia Threapleton), la figlia maggiore, una giovane che ha sempre rifiutato il suo stile di vita e che lui preferisce apertamente ai suoi altri otto figli, considerati “inutili”. La sua paternità resta però un mistero, dato che tutte le sue ex mogli sono morte in circostanze sospette.

Il racconto si articola attraverso gli incontri tra Korda, Liesl e un entomologo norvegese bizzarro e divertente di nome Bjorn (Michael Cera), con i partner coinvolti nel cosiddetto “Phoenician Scheme”, un progetto industriale globale tanto visionario quanto spietato, che promette il controllo assoluto su ogni settore economico a costo della schiavitù dei lavoratori. Il trio si confronta così con una galleria di personaggi pittoreschi interpretati da celebrità in gustosi camei: tra gli altri, Willem Dafoe, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, Riz Ahmed, Jeffrey Wright, Bill Murray (nel ruolo di Dio) e, nel finale, un intenso Benedict Cumberbatch nei panni dell’antagonista più temibile.

Gli irresistibili Mia Threapleton e Michael Cera (e tutti gli altri…)

Mia Threapleton è la vera stella de La trama fenicia, una ventata di aria fresca in un parco attoriale ormai fin troppo noto, che riesce a esimersi dalla nozione di mero cameo andersoniano per raccontare effettivamente l’evoluzione di un personaggio. È nella sua evoluzione da suora pia e compita a spalla del padre, anche affarista e chiaramente più disinibita, che La trama fenicia dimostra di avere qualcosa da dire. Per certi versi, potrebbe addirittura essere definito il film più politico di Wes Anderson: è proprio la ragazza che, riavvicinandosi al padre dopo essere stata nominata unica erede del suo patrimonio, lo consiglierà e indirizzerà, tanto dal punto di vista professionale quanto da quello personale. Il tutto, ovviamente, inquadrato dalla consueta angolazione ironico-grottesca tipica della filmografia di Anderson.

Benicio Del Toro, Michael Cera e Mia Threapleton in La trama fenicia
Benicio Del Toro, Michael Cera e Mia Threapleton in La trama fenicia

Spicca inoltre una “new entry” nel macrocosmo andersoniano, Michael Cera, che si cala perfettamente nel ruolo di un eccentrico professore che nasconde in realtà molte identità diverse. Sembra quasi impossibile pensare che l’attore di Su×bad non fosse stato assoldato dal regista prima d’ora, perchè risponde in maniera sconcertante all’idea del personaggio-burattino che abita le narrazioni di Anderson. Il resto, è una trafila di volti familiari che fanno man mano la loro comparsa: ci sono Brian Cranston e Tom Hanks, Scarlett Johansson e Benedict Cumberbatch, tra gli altri. Ogni attore rappresenta possibili minacce per il grande progetto di Zsa-zsa, siparietti comici che vanno a rinvigorire ulteriormente il rapporto tra padre e figlia.

Wes Anderson… a ripetizione circolare

Lo diciamo subito: anche questa volta, Wes Anderson fa Wes Anderson. Tradotto in maniera sintetica, La trama fenicia conquisterà i fan di lunga data del regista e, molto probabilmente, resterà a debita distanza di sicurezza dai detrattori o dagli spettatori che non riescono più a distinguere un guizzo di unicità nelle sue più recenti produzioni. In conferenza stampa, Anderson ha svelato che lo script originale de La trama fenicia era molto più oscuro. Ecco, avremmo sicuramente preferito visionare questa bozza iniziale, perchè i semi di una storia più radicale e politica ci sono tutti. Purtroppo, ciò che resta è l’ennesimo esperimento andersoniano autoreferenziale, chiuso nelle sue intenzioni all’apparenza puramente estetiche e mai realmente contenutistiche.

Alpha: recensione del film di Julia Ducournau

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Agnese Albertini
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26 Mag 2025
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Alpha: recensione del film di Julia Ducournau

Assaggiare la carne cruda per conoscersi e passare d’età. Convincersi di condividere lo stesso sangue pur di appartenere. L’enfant prodige della new wave horror francese Julia Ducournau, già vincitrice di una storica Palma d’oro nel 2021 con Titane, torna in concorso al Festival di Cannes 2025 con Alpha. Abbandonando momentaneamente i codici più puri del body horror, la regista regala al pubblico il terzo capitolo di un’ipotetica trilogia sulla famiglia. Dopo l’iniziazione “scolastica” in Raw e il trasformismo vitale di Titane, Alpha ragiona sull’amore come forma di resistenza assoluta vagliando ogni suo movimento potenzialmente opposto: la malattia, il disagio, l’isolamento e la morte.

Alpha: l’inizio della fine

Alpha è una ragazzina di 13 anni nel pieno dell’adolescenza, che vive da sola con la mamma. Un giorno, torna a casa dopo una festa con un tatuaggio sul braccio, probabilmente eseguito con un ago infetto e in condizioni non esattamente appropriate. La madre, dottoressa che da anni cura i pazienti affetti da un misterioso virus le cui modalità di trasmissione sono simili all’AIDS, e trasforma gli umani in statue marmoree, è visibilmente preoccupata e porta Alpha a eseguire un test in ospedale. Ma le notizie viaggiano veloci e a scuola si diffonde presto la voce che la ragazzina abbia contratto qualcosa di inenarrabile.

Da queste premesse post-apocalittiche – in realtà il film è ambientato a cavallo degli anni ‘80 e’90 – parte un racconto dalle sfumature bibliche, in cui il non si tingono gli stipiti delle porte con il sangue dell’ agnello ma ci si marchia a vita per cercare di resistere. La trasmissione non è altro che unione, (com)patire il dolore dell’altro, accompagnarlo in un abbraccio fitto di lacrime. Ma è anche, e soprattutto, la storia di un fratello e una sorella, in cui una parte vira verso la morte e l’altra non vuole lasciarlo sprofondare nell’abisso a qualunque costo. Golshifteh Farahani e Tahar Rahim restituiscono un ritratto straziante della forza totalizzante dell’amore. “Troppo amore a volte fa impazzire le persone”, confesserà Amir ad Alpha. In effetti, il concetto di intenso legame emotivo qui schizza da tutte le parti: passa per il lasciare andare, tracciare un confine nei rapporti simbiotici, e al contempo ridare dignità a chiunque sia stato abbandonato e rinchiuso negli armadi della memoria che non perdona.

Golshifteh Farahani e Mélissa Boros in Alpha
Golshifteh Farahani e Mélissa Boros in Alpha

Un sogno dentro al sogno

Alpha non racconta l’evolversi rovinoso di una epidemia nel modo in cui ci aspetteremmo, quanto un tentativo di fare “ammalare” il pubblico tramite il più grande strumento dell’essere umano: l’empatia. Come se una ragazzina di 13 anni stesse facendo la vita di un junkie, cercasse di assumere su di sè il dolore degli altri. Condividere l’incubo che diventa un sogno, muoversi all’unisono, coreografare la sofferenza.

Come Ducournau con Raw aveva scoperto la prorompente Garance Marillier, qui Mélissa Boros è una vera forza della natura, che riesce a incarnare a 360 gradi l’essere adolescenti, dalla ribellione nei confronti dell’istituzione famigliare alle paure che possiamo affrontare solo se presi per mano dalle nostre mamme. C’è una sovrapposizione continua di ruoli e traumi, quasi a voler suggerire un’idea di famiglia fluida, in cui non importano le etichette ma quello che si fa per gli altri, i tentativi di comprendersi senza mai abbandonare l’altro.

Il deserto rosso non dimentica

In Alpha, di Julia Ducournau c’è tutto e niente. Citando le sue stesse parole in un’intervista concessa a Vanity Fair, è come se con questo nuovo film dovesse reintrodursi al mondo del cinema come regista. C’è sicuramente il lavoro sul corpo, ma qui prende le distanze dal genere, osa entrare nel territorio delle emozioni da tutt’altra prospettiva: quella più umana, perfettibile, piena di contraddizioni e ambiguità. E così è il film: non un altro maestoso horror che avrebbe potuto confezionare partendo dal concept dell’epidemia. Qualcosa di nuovo, un’opera lirica mortifera, un coming-of-age a tre punte, le piaghe d’Egitto della contemporaneità.

Michael Douglas al Taormina Film Festival

  • 2025
Redazione
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26 Mag 2025
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Michael Douglas al Taormina Film Festival

Il Taormina Film Festival annuncia che Michael Douglas, leggendaria figura del cinema mondiale, sarà l’ospite d’apertura della 71° edizione. L’attore e produttore, vincitore di due Premi Oscar e tra i più grandi protagonisti della scena hollywoodiana, riceverà il prestigioso Taormina Excellence Achievement Award nella suggestiva cornice del Teatro Antico di Taormina, la sera del 10 giugno.

L’evento rappresenta un’occasione straordinaria per celebrare l’inimitabile carriera di Douglas, che da oltre cinquant’anni incarna con carisma, talento e impegno la grande tradizione cinematografica americana. Per l’occasione, sarà proiettato il capolavoro Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest), prodotto da Douglas nel 1975 e vincitore di cinque Premi Oscar, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua uscita.

Tiziana Rocca, Direttrice Artistica del Festival, ha dichiarato: “È con grande emozione e orgoglio che annunciamo la presenza di Michael Douglas come ospite d’onore della serata di apertura del Taormina Film Festival. Icona del cinema mondiale, attore e produttore straordinario, Michael Douglas ha segnato intere generazioni con interpretazioni indimenticabili e un impegno costante nella valorizzazione dell’arte cinematografica. Ma la mia stima nei suoi confronti è anche di carattere personale, ricordo ancora benissimo e con emozione la serata organizzata a Roma in onore del padre Kirk.

Nel suggestivo scenario del Teatro Antico di Taormina, renderemo omaggio alla sua straordinaria carriera con la consegna del Taormina Excellence Achievement Award, un riconoscimento che celebra non solo il suo talento, ma anche il suo contributo duraturo alla cultura cinematografica internazionale.

La sua presenza rappresenta per noi un grande onore e un segno dell’importanza che il nostro Festival riveste nel panorama mondiale. Sarà un momento di grande emozione, un’apertura memorabile che darà il via a un’edizione ricca di cinema, incontri e passioni condivise.”

Anche Sergio Bonomo, Commissario straordinario della Fondazione Taormina Arte Sicilia, accoglie con entusiasmo l’ufficialità della prestigiosa partecipazione di Michael Douglas, icona del firmamento cinematografico internazionale: “La 71^ edizione del Taormina Film Festival certamente tornerà a brillare di luce propria non solo per il ritorno del concorso cinematografico, ma anche  per la  partecipazione di numerose star, coinvolte grazie all’intenso lavoro della Direttrice Artistica Tiziana Rocca. E certamente le sorprese non sono terminate…”

Oltre alla cerimonia e alla proiezione, Michael Douglas sarà protagonista di un incontro speciale con gli studenti, un momento unico di confronto e ispirazione per le nuove generazioni, durante il quale condividerà esperienze, riflessioni e aneddoti legati alla sua straordinaria carriera e alla storia del cinema.

Il Taormina Film Festival rinnova così la sua vocazione a essere ponte tra il grande cinema e il pubblico, offrendo ogni anno appuntamenti di eccezionale valore culturale e artistico. La presenza di Michael Douglas, figura emblematica del cinema contemporaneo, conferma l’importanza internazionale della manifestazione e la sua capacità di attrarre i grandi protagonisti della settima arte.

Il Taormina Film Festival è un’iniziativa organizzata dalla Fondazione Taormina Arte Sicilia, direttamente promossa dall’Assessorato del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo della Regione Siciliana, con il sostegno del MiC, Ministero della Cultura – Direzione Generale Cinema e audiovisivo.

Renoir: recensione del film di Chie Hayakawa

  • Recensioni
Agnese Albertini
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26 Mag 2025
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Renoir: recensione del film di Chie Hayakawa

Dopo il passaggio nella sezione parallela Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022 con Plan 75, la regista giapponese Chie Hayakawa porta ora in concorso sulla Croisette Renoir, coming-of-age ambientato nella periferia della Tokyo anni ‘80, in cui una ragazzina si trova a dover fare i conti con l’idea che il padre, malato terminale, sta per lasciare per sempre lei e la madre.

Il lutto attraverso gli occhi di una ragazzina

Il padre di Fuki, Keiji, è gravemente malato e passa continuamente dall’ospedale alla casa. La madre, Utako, è sopraffatta: deve occuparsi di lui mentre porta avanti un lavoro a tempo pieno. Intanto Fuki, che ha undici anni, si rifugia nella propria fantasia. Affascinata dalla telepatia, inizia a immergersi sempre di più in un mondo immaginario tutto suo…

Fuki (Yui Suzuki) fa sogni strani e ha un’immaginazione unica. Nella sequenza iniziale del film la sentiamo descrivere la sua morte come se fosse già avvenuta, solo per scoprire più tardi che sta leggendo le righe di un tema scolastico. Fin da subito, è chiaro che la protagonista di Renoir ragiona spesso sulla morte perché avverte di avercela già in casa – dirà addirittura che vorrebbe essere orfana – eppure si tratta sempre di elaborazioni mentali “lontane”, che non prendono mai di petto quello che sta effettivamente succedendo nella sua famiglia, ma lo aggirano esattamente come farebbe una ragazzina sola, a cui non è stato spiegato nulla e che deve costruire un significato su misura alla morte.

Ritratto impressionista

Renoir pittore ha ritratto la giovane Irene Cahen d’Anvers “in un momento di grazia e spontaneità”, mentre Chie Hayakawa tenta di inquadrare lo sguardo sul lutto, il territorio insidioso e anche inesplorato della bolla in cui ci la giovane protagonista si rifugia per non affrontare la realtà. Fuki non sa bene quale dovrebbe essere la sua reazione di fronte a una perdita così grave, vede solo quelle degli adulti. Immersa nella noia e nella solitudine di un’estate di passaggio, la ragazzina prova ad approcciare svariate vie d’uscita: lo studio della telepatia, un’amicizia speciale, e anche svaghi decisamente inappropriati per la sua età, come l’intrattenimento telefonico per adulti.

Yui Suzuki in Renoir
Yui Suzuki in Renoir

Purtroppo, pur contando su una protagonista semplicemente deliziosa, a Renoir manca quella grandezza del cinema giapponese nel costruire narrazioni potenti contando su un senso di grande misuratezza. Ci sono echi di qualcosa di oscuro (in tutto il film ricorre ad esempio l’idea del pedofilo), ma si tratta di qualcosa di abbozzato per mettere in risalto la mentalità matura di Fuki rispetto alle “cose da grandi”. Tuttavia, è proprio in quelle pieghe che si nasconde un grande film, un macrocosmo a cui purtroppo non abbiamo totale accesso e che rimane tra i tanti aspetti che suggeriscono un’ipotetica eccezionalità di Fuki nel reagire e confrontarsi con il mondo.

La scoperta Yui Suzuki

Yui Suzuki è la vera forza di Renoir: unisce con una trasparenza disarmante il senso di responsabilità che attraversa Fuki, assieme a quell’ingenuità che vorrebbe conservare ancora per un po’. Nonostante i limiti del film, è una protagonista che non dimenticheremo facilmente, che ha “abbassato” la linea di frontiera tra la vita e la morte, restituendoci lo sguardo infantile su uno dei temi cardine del concorso di Cannes 78: l’andarsene per sempre, la resistenza di chi resta.

Nouvelle Vague: recensione del film di Richard Linklater – Cannes 78

  • Recensioni
Agnese Albertini
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26 Mag 2025
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Nouvelle Vague: recensione del film di Richard Linklater – Cannes 78

Esattamente come nel 2022 Richard Linklater portava alla Mostra del Cinema di Venezia il suo Hit Man, una ventata di aria fresca in un anno segnato dalla quasi totale assenza delle celebrità a causa degli scioperi, il cineasta di Austin arriva al Festival di Cannes 2025 con Nouvelle Vague, un omaggio a Jean-Luc Godard e alla rivoluzione cinematografica partita dai Cahiers du Cinema nel 1959.

Tutti vogliono… Godard!

C’è un momento, tra le citazioni brillanti e i sogni cinematografici di Nouvelle Vague, in cui Jean-Luc Godard – o meglio il suo alter ego interpretato dal sorprendente Guillaume Marbeck – pronuncia una frase apparentemente semplice: «Ogni giorno voglio cercare quello che devo filmare, non prepararlo». È forse questo l’approccio con cui anche Richard Linklater ha costruito il suo omaggio più sentito e cinefilo, un film che non ambisce a riscrivere la storia, ma a condividerne l’energia. A viverla, più che a raccontarla.

Dopo Tutti vogliono qualcosa, dove l’idea di gruppo era già centrale, Linklater torna a esplorare una comunità di giovani uomini e donne uniti da un amore comune: non più il baseball, ma il cinema. Nouvelle Vague è prima di tutto un film sull’essere insieme. Sulla complicità intellettuale, sull’energia collettiva di chi si riconosce in un’idea e in un’utopia. È il racconto di come si diventa autori prima ancora di esserlo, grazie a una rivista (i Cahiers du cinéma), a una cinepresa rubata, a una teoria che prende fuoco appena diventa azione.

La Nouvelle Vague sembra rivivere: un cast incredibile

Zoe Deutch – già nel cast di Tutti vogliono qualcosa – qui ha finalmente la sua occasione per brillare davvero: nel ruolo di Jean Seberg sembra uscita direttamente da una pellicola degli anni Sessanta. Ha la grazia, la presenza, ma anche quella nota straniante che Linklater sfrutta benissimo nel contrasto con lo stile ruvido e imprevedibile del giovane Godard. Ma è il cast francese a sorprendere di più: ogni attore che interpreta un membro dei Cahiers – da Truffaut a Rivette – dona al personaggio un’umanità inattesa, affettuosa e ironica. Il Godard di Marbeck, in particolare, è irresistibile: presuntuoso, vulnerabile, affamato di cinema e incapace di nasconderlo. Sembra un Danny Zuko cinefilo, con la sigaretta sempre accesa e un’idea radicale ogni cinque minuti.

Il film racconta le settimane che precedono e accompagnano il set di Fino all’ultimo respiro, ma più che una cronaca filologica è una fuga libera tra la ricostruzione e l’invenzione. Si citano i dettami estetici («una ragazza e una pistola»), le insicurezze di Godard rispetto agli amici già affermati («è troppo tardi»), e quella strana idea che più take fai, più il film perde vita. Le regole non valgono, se non per infrangerle. La realtà non è continuità. Il cinema è un affare morale, dice Godard. Ma anche romantico, risponde Linklater.

Zoey Deutch in Nouvelle Vague
Zoey Deutch in Nouvelle Vague

Il fare cinema come esperienza collettiva

In effetti, tutto in Nouvelle Vague è attraversato da un’ironia dolceamara che rende il film una vera delizia. Non ha l’urgenza del presente né una visione sul futuro – e probabilmente non vincerà premi – ma possiede quella grazia sottile che appartiene solo alle opere fatte per il piacere della condivisione. Come spesso accade nei film di Linklater, il tempo diventa un alleato: Nouvelle Vague trova la sua misura perfetta nel minutaggio contenuto, senza un secondo sprecato, capace di restituire lo spirito di un’epoca in cui venti giorni sembravano una vita intera.

«L’arte non può finire, può solo essere abbandonata» dirà a un certo punto Gordard. E forse Nouvelle Vague è proprio questo: una lettera d’amore lasciata aperta, un tributo non definitivo ma necessario, scritto da un regista che ha sempre saputo come restituire il battito vitale delle relazioni umane, che fossero d’amore, d’amicizia o – come in questo caso – di cinefilia.

Bostik – La Bodega de D1OS: la recensione del film omaggio a Maradona

  • Recensioni
Annarita Farias
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26 Mag 2025
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Bostik – La Bodega de D1OS: la recensione del film omaggio a Maradona

Bandiere bianco-azzurre sventolano tra i vicoli come se il vento stesso sapesse per chi tifare. Le bancarelle traboccano di sciarpe, bombette e gadget in ogni sfumatura di azzurro, mentre festoni con dediche d’amore alla città fanno da cornice a un popolo in festa. Le strade pullulano di volti accesi dall’emozione, stretti in magliette che non sono solo simboli sportivi, ma veri e propri atti di fede. Sui muri resistono ancora le locandine dello scorso venerdì: annunciavano le proiezioni improvvisate nei pub, nei chioschi, nei cortili, spazi trasformati in curve estemporanee dove si piange, si urla, si ride e ci si abbraccia con perfetti sconosciuti. Ma a Napoli, in quei momenti, sconosciuti non esistono.

Perché il Napoli ha vinto. Di nuovo. Per la quarta volta è campione d’Italia, e la città esplode in un’esultanza pura, infantile, commovente. Qui non si sceglie per chi tifare: a Napoli, il Napoli è un’appartenenza genetica, una verità che si eredita. È in questo clima, saturo di gioia e identità, che arriva Bostik – La Bodega de D1OS, il nuovo documentario di Mauro Russo Rouge. Un film che sembra sbocciare nel momento più giusto, raccogliendo l’energia di un popolo e restituendola sullo schermo come racconto collettivo e personale insieme.

Prodotto da Systemout e scritto dallo stesso regista insieme ad Alessio Brusco, Bostik – La Bodega de D1OS arriva nelle sale italiane poco dopo la conclusione del campionato di calcio 2024-2025, che ha visto il Napoli vincitore del quarto scudetto. Distribuito da Piano B Distribuzioni, il film – un omaggio a Maradona e all’inattesa storia di Antonio Esposito, conosciuto come “Bostik” – sarà proiettato nelle sale come evento speciale il 26, 27 e 28 maggio.

BOSTIK – LA BODEGA DE D10S: la storia di un pellegrinaggio calcistico

Dopo il secondo scudetto conquistato dal Napoli negli anni ’90, un gruppo di tifosi partenopei, con il sostegno di Antonio Esposito – noto a tutti nei Quartieri Spagnoli come “Bostik” – commissionò a Mario Filardi, giovane artista locale, un murale dedicato al leggendario campione argentino, il Pibe de Oro. È così che, grazie a Bostik, figura ormai considerata una vera e propria istituzione popolare, nasce quello che oggi è conosciuto come la “vera tomba di Maradona”: un luogo mistico, divenuto meta di pellegrinaggio calcistico per tifosi provenienti da ogni parte del mondo.

Magliette, foto, statuette: negli anni, quel piccolo angolo nascosto di Napoli si è trasformato in un altarino commemorativo, una delle principali attrazioni turistiche della città. Ed è proprio questo che tenta di raccontare il film scritto da Alessio Brusco: come un luogo un tempo segnato dal degrado e dallo spaccio sia diventato, quasi per miracolo, un simbolo di rinascita e un punto di riferimento internazionale per gli amanti del calcio e del mito maradoniano.

Nel nome di Diego: il calcio vissuto come fede

Sguardi commossi, gesti carichi di significato, colori vividi e voci tremanti per l’emozione. Fin dalle prime inquadrature, Bostik – La Bodega de D10S trascina lo spettatore in un viaggio profondamente immersivo tra le strade palpitanti di Napoli, intrise di storia, malinconia, vitalità e desiderio di riscatto. Quella raccontata da Mauro Russo Rouge e Antonio Esposito è, prima di tutto, una storia di rinascita: una narrazione che mostra come il calcio possa essere molto più di uno sport, un linguaggio universale, uno strumento d’identità, un collante sociale capace di unire mondi lontani. In particolare, il film mette in luce il legame viscerale tra Napoli e l’Argentina, due popoli separati da un oceano ma uniti da un’unica, inconfondibile fede: Diego Armando Maradona.

La figura del Pibe de Oro viene raccontata non solo come mito sportivo, ma come icona spirituale, quasi divina, al centro di una nuova religione laica. Una fede che si esprime attraverso riti collettivi, cori, pellegrinaggi e altari votivi. Non si tratta solo di celebrare il campione, ma di mostrare come la sua eredità abbia trasformato luoghi e coscienze, restituendo dignità a un quartiere e speranza a un’intera comunità.

Un film imperfetto ma onesto

Con poche scene essenziali, talvolta reiterate, ma dense di significato, Bostik – La Bodega de D10S ci guida con fermezza e solennità tra i vicoli palpitanti di Napoli, immergendoci nei ricordi e nelle celebrazioni dedicate a Maradona. Ma il documentario firmato da Mauro Russo Rouge va oltre il mito del campione: è un omaggio profondo, quasi carnale, al popolo napoletano. Non ambisce a essere un ritratto esaustivo della città, né pretende di abbracciarne tutte le contraddizioni. Piuttosto, costruisce un affresco emotivo e viscerale di come il calcio venga vissuto a Napoli: non come semplice sport, ma come linguaggio collettivo, come tradizione familiare, come collante sociale. In questo racconto, Maradona non è solo un idolo: è il simbolo vivente di un riscatto morale, il volto di una comunità che troppo a lungo si è sentita ai margini e che, nel genio argentino prima e nella squadra azzurra poi, ha trovato una forma di legittimazione e orgoglio.

Il film non è privo di sbavature stilistiche: l’insistenza su immagini di opulenza e feste notturne finisce talvolta per appesantire il tono e allontanare il racconto dalla sua autenticità. Eppure, Bostik mantiene intatta una sua “grazia popolare” narrativa. Racconta con dignità e una punta di ironia una storia di identità e di riscatto, una vicenda collettiva in cui il calcio diventa bandiera, ideologia, modo di stare al mondo. Bostik – La Bodega de D10S non è un documentario perfetto. Ma è un’opera onesta. Ed è in questa sua onestà che, forse, risiede il suo valore più profondo.

Dogville di Lars Von Trier di nuovo al cinema il 2, 3 e 4 giugno con Movies Inspired

  • Trailer
Chiara Guida
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26 Mag 2025
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Dogville di Lars Von Trier di nuovo al cinema il 2, 3 e 4 giugno con Movies Inspired

Lars Von Trier torna al cinema: Movies Inspired riporta nelle sale tre film del grande regista danese. Tre uscite evento, ciascuna di tre giorni, ciascuna in edizione interamente restaurata in 4K, di tre dei titoli più amati del grande regista danese.

Da oggi è disponibile il nuovo trailer, realizzato appositamente per il ritorno in sala di DOGVILLE. Un evento di tre giorni, solo il 2,3, 4 giugno 2025. Lo scorso anno Movies Inspired, che detiene i diritti per l’intera library del cinema di Von Trier in Italia, aveva già distribuito i primi tre film del cineasta co-fondatore del Dogma 95: L’elemento del crimine, Epidemic ed Europa. Quest’anno sarà la volta di tre titoli fra i più amati dell’intera opera di Von Trier.

Dogville (2-3-4 giugno), Dancer in the Dark (9-10-11 giugno) e Le onde del destino(23-24-25 giugno), tutti restaurati in 4k. I film saranno distribuiti in Italia da Movies Inspired.

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