Nel
terzo giorno della Festa del Cinema di
Roma, il pubblico ha avuto la
possibilità di partecipare ad un interessante Incontro
Ravvicinato con l’attrice
Isabelle Huppert.
Parigina, ha recitato in oltre 100 film, in modo
versatile e mettendosi sempre alla prova, lavorando con i più
grandi registi, da Jean-Luc Godard,
Cimino, Haneke, i fratelli Taviani e Olivier
Assayas, tra gli altri.
Tra
le più premiate al mondo, l’attrice francese è stata accolta da
Antonio Monda e Richard Pena per aggiungere un altro traguardo al
suo lunghissimo curriculum: il Premio alla
Carriera, che le è stato
consegnato da Toni Servillo.
Bellissima, con un lungo abito avorio di
Giorgio Armani, la Huppert è salita sul palco per
parlare delle sue più grandi interpretazioni in una piacevole e
informale chiacchierata, sorprendendo tutti rispondendo alla prima
domanda in un quasi perfetto italiano, poi virando sull’inglese e
poi arrendendosi al suo elegantissimo francese.
Quanto è importante per lei aver
lavorato in teatro?
Per
me non c’è una divisione tra cinema e teatro. L’attrice è sempre la
stessa, sia sul palcoscenico che sullo schermo. A teatro spesso ci
si imbatte di più in personaggi più conosciuti nella memoria
collettiva, come i grandi classici, mentre il cinema ti offre ruoli
più inediti e grazie alle persone con cui ho lavorato ho potuto
fare entrambi, partendo dalla mia formazione teatrale. Lo
spettatore teatrale è molto cambiato. Il teatro è sempre più vicino
al cinema, si usano anche spezzoni video e la domanda di Monda
quindi è molto pertinente, perché penso che la frontiera tra cinema
e teatro stia un po’ scomparendo dal punto di vista
estetico.
Sono
state scelte sei clip per rappresentare la carriera di Isabelle
Huppert, partendo dal premiatissimo “Elle”, film
di Paul Verhoeven del
2016.
Quanto è cambiato il personaggio
nel corso delle riprese, anche con l’aiuto del regista?
Abbiamo avuto molte conversazioni con Paul, ma
c’erano delle scene che potevano fare un po’ paura o che erano più
provate, ma devo dire di no: si tratta di film che sfuggono alla
psicologia in maniera generale e ancora di più ad una psicologia di
tipo classico… Quindi o le si capisce dall’interno o non si riesce
a spiegarle, non si può dire ‘Forse facciamo così’ o ‘Forse è
meglio così’. In realtà non ci siamo detti quasi nulla: ci
salutavamo la mattina, quello certamente, ma abbiamo parlato
veramente pochissimo, non abbiamo mai fatto effettivamente una
conversazione sul film. Io ho la mia teoria: credo che la messa in
scena sia una risposta a tutte le domande che ci si può porre ed è
la regia che risponde, dipende dalla distanza della macchina da
presa, dipende dall’inquadratura, se è solo il volto o il
corpo.
È
questo che risponde alle domande che possiamo farci: il cinema è
questo, non è soltanto una questione di sentimenti o il percorso di
un personaggio. È l’insieme di elementi che raccontano un
personaggio e quindi improvvisamente lo spettatore riesce a vedere
tutto quello che racconta il mio personaggio, che però viene
‘agito’ dagli altri ed è qualcosa che accade nel momento. Ed
un’altra cosa che ho constatato con Paul è l’arte del movimento e
lui è un maestro in questo: è impossibile da spiegare, la macchina
da presa si muove insieme all’attore e mentre dico questo penso ad
una citazione di Rossellini che al primo film con Ingrid Bergman un
po’ spaventata dal suo modo di lavorare, pare le abbia detto
‘Muoviti affinché io riprenda ciò che c’è intorno a te’ e trovo sia
una bellissima definizione del rapporto tra l’attore e il
film.
La
seconda clip è stata tratta da “La
pianista”, film di
Michael Haneke del 2001 e
successivamente il film di Marco Bellocchio
del 2012, “Bella
Addormentata”.
Preferisce un regista che lascia
spazio all’interpretazione o si attiene alla sceneggiatura?
Il
mio grande amico Bob Wilson dice “Acting is improvisation”: nella
mente della gente l’improvvisazione fa pensare ad un qualcosa
inventato su due piedi, ma anche se si recita un testo imparato, è
sempre improvvisazione. L’improvvisazione è molto difficile da
gestire e il regista con cui l’ho fatto in modo più significativo è
Maurice Pialat in ‘Loulou’: ci sono nel film scene totalmente
improvvisate, non erano proprio state scritte e poi invece c’erano
anche scene molto scritte. Mi fa piacere abbiate scelto questa
scena del film di Haneke perché l’abbiamo girata 48 volte! Sì
perché nel libro era descritto molto bene il mio personaggio e il
tipo di espressione che doveva avere in questa scena, un po’
animalesca e Haneke cercava in me proprio
quell’espressione.
Quanto è importante per te
relazionarti o essere vicina al personaggio che interpreti?
In
realtà non ho nulla a che vedere con questi personaggi, non mi sono
per nulla vicini. E’ come se incontrassi una sconosciuta per strada
e poi improvvisamente divento lei: un po’ il paradosso dell’attore,
è lontano ma è vicino contemporaneamente. Ma la prossimità non
significa che devo amarle: nasce dell’empatia e la volontà di
riconoscerle e capirle.
Il passaggio dalla pellicola al
digitale ha influito sul suo modo di recitare?
Certo
si possono fare tantissime inquadrature, ma a me non cambia molto
sul piano del lavoro. È un cambiamento che interessa di più i
registi. Forse si, cambia un po’ perché ci facciamo meno domande
però non ho l’impressione che il regista prenda questa possibilità
per cambiare modo di girare.
Per
rappresentare la grandissima collaborazione con Claude
Chabrol, è stata mandata una
clip dal film “Il buio nella mente”, dove Isabelle Huppert
interpreta un personaggio molto particolare e che ha segnato la sua
carriera.
Cosa le è piaciuto maggiormente
di questo personaggio?
La
scena che avete mostrato, dove Jeanne e Sophie sparano a tutta la
famiglia, è straordinaria. Una scena sconvolgente: quando il film è
uscito si è detto che era un film marxista, sulla lotta di classe,
però trovo che Chabrol sia geniale in questa scena. La bellezza,
qualcosa di selvaggio al contempo… C’è tutto. Quando mi ha chiesto
di scegliere tra i due personaggi sapeva benissimo quale avrei
scelto perchè si vedeva che il personaggio che poi andò a Sandrine
Bonnaire parlava di più,mentre il mio personaggio era molto buffo e
al contempo terrificante, in lei troviamo tutto
l’orrore.
Le
ultime due clip presentate sono state tratte dal film “La
Truite” di Joseph
Losey e infine “I
cancelli del cielo”, opera del
1980 di Michael
Cimino.
C’è qualche ruolo che ha
rifiutato e poi se ne è pentita?
Sì
c’è un ruolo, sempre un film di Haneke, “Funny Games”, che poi ha
fatto Susanne Lothar, che purtroppo non è più con noi ed era
un’attrice straordinaria. Mi piaceva dire che con HAneke avevamo
iniziato ‘Non facendo un film insieme’: prima mi aveva proposto
Funny Games, poi Time of the wolfs e non abbiamo potuto farlo e poi
finalmente abbiamo fatto insieme La Pianista. Di Funny Games avevo
letto la sceneggiatura e non posso dire di aver rimpianto quel
ruolo, perchè non c’era nulla che facesse appello al mio
immaginario, invece poi Susanne Lothar e suo marito sono stati
straordinari. Era un film molto significativo, ma non l’ho
rimpianto.
Come è stato lavorare con Michael
Cimino?
È
stata un’avventura incredibile. Già se sento la musica mi ritornano
le lacrime agli occhi e rivedere questa scena mi emoziona. Michael
ormai non c’è più da 4 anni ma tutta la sua vita è stata segnata da
questo film: il fallimento di questo film non lo ha mai superato e
che lo ha un po’ trasformato alla fine della sua vita, in un
personaggio completamente distaccato da tutto. Io credo che sia
stato un regista geniale ma talmente iconoclasta e particolare che
c’è stato qualcosa che forse non ha resistito ad un certo
classicismo Hollywoodiano. Anche se ha fatto film notevolissimi
dopo, credo non si sia mai ripreso da questo fallimento e io quando
rivedo il film ne rimango sconvolta perché è un film anche molto
concettuale. Con tutti questi movimenti concentrici che raccontano
la vita che gira un po’ in tondo, un film da una regia
straordinaria e la macchina da presa vagava un po’ ovunque. Infatti
Michael diceva che questo film andava preso come se fosse stato un
sogno. Il film è estremamente personale, singolare ma anche
politico, contro il mito dell’America e forse è stato questo il
problema.