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#RomaFF13: Manuel Agnelli e gli Afterhours festeggiano i trent’anni della band

Trent’anni in un concerto. La voce profonda di Manuel Agnelli accompagna l’arrivo degli Afterhours sul palco del Forum di Assago, filmati “in segreto” dal regista Giorgio Testi durante lo storico live del 10 aprile 2018. Una festa, oserebbe dire, per festeggiare i primi trent’anni di carriera di una band che ha radicalmente scosso le radici della musica alternativa italiana portando nel paese della canzone popolare qualcosa di nuovo e mai sentito.

Le immagini riprese da Testi sono confluite nel docu-film Noi siamo Afterhours, presentato in anteprima assoluta alla Festa del Cinema di Roma, e che alterna le fasi più emozionanti della serata ai ricordi di Agnelli sugli esordi – quando il gruppo si esibiva ancora in inglese – passando per le tournée internazionali in America e i cambi di formazione fino alla line up attuale.

Tutto nasce con un errore: quello di Manuel all’inizio del concerto quando ha preso la nota sbagliata“, confessa il regista, “Ed è stato un po’ la nostra benedizione. Penso davvero che ciò che abbiamo fatto con questo documentario sia assolutamente inedito nel panorama italiano, soprattutto nella scena rock“. La struttura di Noi siamo Afterhours è infatti stramba, per come è stato pensato e realizzato, e a spiegarlo è lo stesso Agnelli: “Di solito quando decidi di girare qualcosa del genere hai a disposizione tre date da cui selezionare le scene migliori. Qui invece si trattava di un solo concerto, e poteva andare tutto storto. Ma è proprio questo che ha contraddistinto il film: la magia di quella sera al Forum. Con più giorni forse sarebbe stato impossibile riprodurre quell’effetto.

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Abbiamo iniziato a parlare del progetto circa un anno prima dell’evento, partendo dell’aspetto scenografico, quindi dalla disposizione del palco all’uso degli effetti visivi, e poi siamo entrati più dettagliatamente nel discorso registico“, spiega Testi, “Sapevamo però di avere tra le mani un’occasione irripetibile. Non era soltanto un concept film come quello realizzato per Hai paura del buio? nel 2014, ma anche un modo per raccontare trent’anni di storia della band attraverso spezzoni e parentesi più poetiche. A questo ho aggiunto un elemento che mi affascina da sempre, ovvero i momenti precedenti allo spettacolo, quando gli artisti escono da se stessi e si trasformano in altro; nel mentre però pensano e ripensano, c’è della roba che gli frulla in testa, un’incertezza…a questo serviva la voce di Manuel come narratore, in quanto leader degli Afterhours“.

Tanta preparazione non ha impedito al “caso” di intervenire sul concerto, come dichiarato da Agnelli in conferenza stampa: “È stato casuale trovarsi ed è casuale ciò che ne è uscito, nonostante il nostro estenuante lavoro di prove. Ma immaginate quanto sarebbe stato inutile tutto questo se il caso non fosse intervenuto positivamente. Non decidi tu, è il concerto a farlo, e se rimani nella media non rischi. Se ti lasci andare però rischi il disastro ma se hai abbastanza fortuna riesci a raggiungere un certo livello emotivo. Ed è ciò che ci è successo quella sera grazie alla magia, al suono, al pubblico“.

noi siamo afterhours

La cura maniacale per i dettagli, dal missaggio sonoro alla valorizzazione degli strumenti, in un solo giorno di riprese è risultata una sfida non indifferente per la band, che un po’ corrisponde perfettamente all’atteggiamento degli Afterhours nei confronti della musica: mai statico e sempre sul limite del pericolo. Al video sono state poi aggiunte delle battute in voiceover di Manuel Agnelli che si manifestano in vari modi, in forma di pensiero rispetto al concerto, alla storia degli Afterhours, ai vari volti del gruppo.

Il film fotografa benissimo il nostro momento storico, perché è un punto di arrivo e di ripartenza, ed esprime la pausa di riflessione che ci siamo presi per non ripeterci e per capire che cosa vogliamo diventare“, continua Agnelli. “Non abbiamo più nulla da dimostrare a noi stessi, ma siamo coscienti e consapevoli di cosa ci serve per andare avanti“. E su ciò che rende la band così unica, il frontman dichiara che Siamo persone molto diverse, e diversi sono i motivi per cui facciamo ciò che facciamo. Io ho bisogno di esprimere ciò che non riesco ad esprimere tutti i giorni, nella vita quotidiana, cose scure o violente, e di certo non vado in giro a tirare testate alla gente. Eppure lo vorrei. D’altronde è qualcosa che appartiene a tutte noi come esseri umani, il non riuscire ad esprimere le cose che ci teniamo dentro. Sul palco invece mi sento libero di farlo, e questo lavoro mi ha aiutato a crescere e a superare e capire certi momenti.

Benedetti da una nuova popolarità, gli Afterhours sono pronti per le prossime sfide. “Siamo cambiati, come persone, ed è cambiato il significato del nostro fare musica”, chiude Agnelli. “All’inizio volevamo solo essere disturbanti e scatenare reazioni… finivano sempre con l’essere negative. Poi abbiamo deciso, o meglio, è successo che abbiamo cercato un nuovo modo di rapportarci con il pubblico. E finalmente da qualche anno l’abbiamo trovato, modo più empatico, accettando di essere diventati diversamente disturbanti. L’energia ci arriva dai ragazzi giovani, e la soddisfazione più grande è continuare ad avere un senso per qualcuno. Non siamo memoria ma presente, che trasmette emozioni a persone che adesso sono la realtà“.

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#Romaff13, George Tillman Jr.: “Una sola voce può essere l’inizio del cambiamento”

Il regista George Tillman Jr. è arrivato a Roma per presentare alla Festa del Cinema il film The Hate U Give, tratto dall’omonimo romanzo di Angie Thomas che narra la storia di Starr, una ragazza Afro americana che assiste alla morte del suo amico Khail per mano della polizia. 

Quando ha scoperto questo romanzo e cosa l’ha colpita di questa storia?

A gennaio 2016 stavo lavorando alla serie tv Luke Cage per la Marvel e la Disney e fui molto fortunato perché il libro non era stato ancora pubblicato e io l’ho letto in anteprima. Appena l’ho iniziato a leggere ho capito che ero realmente connesso alla storia e mi ci sono subito ritrovato. Per prima cosa ho parlato al telefono con la scrittrice Angie Thomas e una delle cose che più mi hanno colpito era questa idea di identificazione che c’era alla base. Nella cultura afroamericana cec questo modo di comportarsi che si chiama “code switching”, che in poche parole significa che sei un afroamericano quando sei nella tua comunità ma quando vai nel mondo dei bianchi cambi quello che sei. Diventi qualcun altro solo per far sentire meglio le altre persone e questa è una cosa che tutti gli afroamericani affrontano ogni giorno anche se va bene essere se stessi. Ero molto legato alla storia personale di Starr: sentivio che l’idea della police brutality fosse una storia importante ma è la storia di Starr che cerca la sua voce rimanendo se stessa e non compromettendosi, che mi ha veramente colpito.

Non pensa che il problema alla base sia che la popolazione americana detiene il 40% delle armi nel mondo?

Certamente e infatti questa è un altra parte della storia della Thomas che mi ha colpito molto: c’è un enorme problema relativo al controllo delle armi. Ma perché la razza è un problema così grande? Io penso che sia possibile ricollegarlo al capitalismo e di conseguenza ai primi schiavi: quando gli schiavi cercavano di scappare c’erano le pattuglie che li prendevano e li riportavano nelle loro terre. Le forze di polizia in America sono un evoluzione delle pattuglie degli schiavi e una cosa dopo l’altra è normale che la razza sia così rilevante in questo discorso. La frase più importante che viene detta nel film secondo me è “Il colore della nostra pelle è la nostra arma”: tutto è riconducibili alla schiavitú, alle proprietà, al commercio… quindi riconducibile al controllo delle droghe nella comunità, dei lavori, delle prigioni e infine di nuovo al capitalismo. È tutto un enorme cerchio e chi è che ne paga le conseguenze? Il controllo delle armi è sicuramente un grande problema ed è per questo che ho voluto venisse rappresentato nel film.

All’inizio del film Starr viene istruita e le vengono detti quali sono i suoi diritti: non sarebbe giusto che ogni ragazzino, bianco o nero, ricevesse una lista dei diritti di cittadino?

C’è una grande divisione al momento nel paese di genitori che fanno discorsi ai propri figli. Il “discorso” che viene fatto ai bambini bianchi o privilegiati riguarda le api e i fiori, al fatto che vanno usati i preservativi e che bisogna essere rispettosi e rispettare l’altro quando si parla di sesso. Invece in altre comunità, che siano afroamericane o di ceto sociale più basso, bisogna affrontare il problema della violenza da parte della polizia, quindi il “discorso” è molto importante perché concerne la loro vita di tutti i giorni e il loro modo di sopravvivere. In alcune parti dell’America certe persone non hanno mai sentito questo tipo di “discorso” ed è per questo che il film inizia partendo dalla strada di questa comunità come tante fino a che non si avvicina ed entra nella finestra di questa famiglia. È una situazione di tutti i giorni. Quindi c’è una grande divisione su gente totalmente ignara di questa realtà perché la loro vita privilegiata gli ha permesso di mai doversi preoccupare di come comportarsi di fronte alla polizia. Penso che tutti i genitori però dovrebbero insegnare queste cose o almeno a rispettare gli altri, ascoltare, aiutare e far notare che il problema esiste.

Partendo dal libro, quale è il messaggio che voleva comunicare da regista?

C’è una scena alla fine che è stata una mia interpretazione rispetto a cosa c’è nel libro e il suo significato è che queste cose non devono continuare ad accadere e il saper usare la propria voce, sia da piccoli che da adulti, è molto importante. Lottare per le cose in cui si crede anche se bisogna superare grandi ostacoli è il messaggio che volevo far trasparire come regista e anche che una sola voce può influenzarne tante altre o far pensare a cose a cui ancora non si era pensato.

Alla Festa del Cinema è stato presentato il film di Barry Jenkins un film che affronta la stessa tematica e lui aveva un idea abbastanza precisa che nonostante tutto l’odio, abbiamo tanta bellezza, dignità e forza per superarlo. Dal punto di vista del suo film, crede che queste cose possano bastare a superare queste tragedie?

Si è questa è una cosa molto importante per me parlando di Starr e la famiglia Carter. Ricordo anche quando, negli anni 70, mio padre venne licenziato e circa nello stesso momento un giovane uomo venne ucciso non lontano da casa nostra. Lui ci disse che siccome era stato licenziato sarebbe stato un Natale più duro e ricordo perfettamente che nonostante questo è tutto quello che stava succedendo nella nostra comunità, la mia famiglia restò concentrata, felice, unita, gioiosa: c’erano risate e c’erano anche lacrime. La vita in famiglia era piena di alti e bassi, non solo nella nostra ma anche la vita dei nostri vicini, ma trovavamo sempre un motivo di gioia. Quello che volevo fare con la famiglia Carter era proprio questo: mostrare checnonostante fossero tempi duri, trovavano comunque il modo di essere uniti, felici, ridere e pregare insieme. E penso che questo sentimento sia universale: si trova sempre qualcosa di buono per andare avanti e questo è di grande ispirazione per me.

C’è in progetto di mostrare questo film nelle scuole, ai più giovani, visto che insegna quanto la parola possa essere potente se usata in modo corretto?

Si, quella è una lezione molto importante. Voglio veramente che i ragazzi vedano questo film perché per prima cosa i social media hanno un impatto molto grande nella loro vita: ad esempio in una scena Starr mette su Tumblr delle foto di altre persone uccise dalla polizia e la sua amica non ne è felice perché non vuole effettivamente vedere queste cose e questo le fa capire che è solo il primo passo nell’usare la propria voce. Ma una delle cose che facciamo con i più giovani è dirgli di dover usare la loro voce per poi censurare, magari dicendo “forse non lo dovevi dire” o “non lo hai detto nel modo giusto”. Questa era una cosa che volevo affrontare nel film: far capire che sei hai qualcosa da dire bisogna dirla, senza avere paura. Non volevo fare un film young adult, anche perché ho oltre quarant’anni: volevo fare un film per tutti perché so che i ragazzi sono molto sofisticati, sono svegli, si informano e sentono puzza di cavolate non appena le vedono. Per questo volevo un film che avesse un vero impatto su di loro. 

Avere Trump a capo del paese, cosa comporta per questo tipo di battaglia?

Riguardo a Trump, stanno per arrivare le elezioni di mezzo mandato quindi spero che ci sarà un cambiamento. Ho voluto fare questo film perché penso che gli USA siano molto divisi in termini di razza e classi più che mai e penso che Starr e gli altri giovani nel film possano raccontare bene cosa sta succedendo nel paese in questo momento. 

Parlando del titolo del film, non c’è il rischio che le nuove generazioni siano già compromesse? Lei è fiducioso?

Amo molto l’idea del titolo, The Hate U Give, che proviene da “Thug Life” (The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody), una cosa che si inventò Tupac ad inizio anni 90, dopo un confronto con un poliziotto ad Atlanta. Si tratta della gerarchia di potere e del fatto che tutto l’odio che si riceve da piccoli, dalla comunità, dalla mancanza di lavoro, dalla violenza della polizia… tutto torna indietro, perché i giovani sono svegli, stanno attenti e captano tutto. Quindi come si potrebbe cambiare? Cosa succederebbe se la gerarchia di potere desse amore invece che odio? Tornerebbe indietro amore. Per questo ho voluto fare il film, per farci questa domanda: come ricominciamo tutto da capo? Come facciamo a cambiare? Per prima cosa si deve fare una cosa molto semplice: iniziare a a trattarci tra di noi in modo migliore. 

#RomaFF13: Treno di Parole, Silvio Soldini presenta il film sul poeta Raffaello Baldini

È stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Riflessi, il documentario Treno di Parole, documentario diretto da Silvio Soldini e dedicato alla figura di Raffaello Baldini, poeta romagnolo apprezzato dalla critica ma sconosciuto ai più. Il documentario si avvale del contributo dell’attore Ivano Marescotti, che per anni ha recitato in teatro le poesie di Baldini.

“Abbiamo lavorato tantissimo a questo progetto. – dichiara Martina Biondi, che insieme al regista ha sviluppato l’idea del film – Volevo esportare Baldini dalla sua zona d’origine, nel quale era confinato per via dell’uso del dialetto. Nessuno lo conosceva, e lo scopo era proprio quello di far entrare quanta più gente possibile in contatto con le sue opere. Ho scelto di affidarlo a Silvio perché anche lui è dotato di un linguaggio poetico.”  

Il film attinge ad una grande varietà di materiale lasciato dal poeta: le registrazioni delle poesie lette dalla sua stessa voce, i filmini in 8mm da lui girati negli anni ’60 e ’70, fotografie, appunti e interviste radiofoniche e televisive. Attraverso questi elementi Soldini restituisce lo sguardo del poeta, da cui emergono i grandi temi umani, dalla solitudine all’amore, dalla morte al perdono.

“Baldini è un autore in grado di avere ancora molta presa sui giovani. – esclama Soldini – Mi sembra ci sia un vero e proprio seguito. La sua è una poesia della realtà, dai temi profondi, universali e attuali.”

In questo film, gli autori cercano di capire l’uomo Baldini anche attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto. Prende a tal proposito la parola Ivano Marescotti, che fu amico stretto di Baldini e dal quale riuscì a farsi comporre quattro testi teatrali. “La mia identità di attore si divide tra il cinema e il teatro, ma in entrambi la figura di Baldini è per me fondamentale. Dalla lettura delle sue poesie e dei suoi monologhi teatrali ho appreso molto per la mia formazione di attore.”

“Le sue poesie sono storie, molto cinematografiche per di più. – continua Marescotti – Aveva una grande capacità di comunicare non solo tramite l’uso del dialetto, ma anche tramite delle immagini molto efficaci e d’impatto. In ogni sua poesia c’è del tragico, ma per noi romagnoli la tragedia è sempre accompagnata da un velata comicità.”

Soldini conclude con una propria riflessione sul film, sottolineando l’importanza della diffusione delle opere di Baldini. “Mi preoccupava l’idea di fare un film su qualcuno che non c’è più. Per i miei precedenti documentari ero abituato a seguire attivamente le persone su cui si basava il film. La mia fortuna per questo progetto è stata quella di aver trovato dell’ottimo materiale da cui poter partire. Questo film vuol fare rivivere la realtà di un poeta attraverso il suo sguardo sul mondo. Credo che la cosa più bella che questo film offre sia proprio la possibilità di essere presi per mano dallo stesso Baldini, che ci racconta del suo mondo, dei i suoi personaggi, e delle sue storie.”

Martin Scorsese racconta la sua passione per il cinema #RomaFF13

Martin Scorsese racconta la sua passione per il cinema #RomaFF13

Uno degli eventi più attesi della Festa del Cinema di Roma ha avuto luogo nella giornata del 22 ottobre. Dopo essere stato ospite durante la prima edizione della Festa, nel 2006, il regista premio Oscar Martin Scorsese è tornato per un incontro ravvicinato con il pubblico e per ricevere il premio alla carriera. Per questo speciale incontro, il regista newyorkese ha selezionato nove film italiani, quelli che più lo hanno ispirato prima di diventare regista. Attraverso la visione di ben precise scene di questi, Scorsese ha come sempre dimostrato un profondo amore per il cinema, ripercorrendo allo stesso tempo la sua lunga carriera.

Al suo ingresso, Scorsese viene accolto da una standing ovation dell’intera Sala Sinopoli, dove si trovavano tra gli altri il regista Giuseppe Tornatore, e i suoi collaboratori Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. A riempire la sala anche numerosissimi ragazzi e studenti universitari, a dimostrazione dell’influenza che questo gigante della storia del cinema riesce ad avere anche sulle nuove generazioni.

Dal momento in cui Scorsese prende il microfono per dare inizio all’incontro, questo si trasforma ben presto in una vera e propria lezione di cinema. I film italiani da lui scelti sono compresi in un periodo di tempo che va dal 1952 al 1962, e sono i titoli che più di altri hanno avuto un impatto e un’influenza nella sua formazione, prima che Scorsese iniziasse a sua volta ad essere un regista. Dalla lista sono rimasti fuori la maggior parte dei film del neorealismo, considerati dal regista newyorkese non dei film ma realtà.

Il primo film che Scorsese presenta è Accattone di Pier Paolo Pasolini. “Vidi questo film per la prima volta durante il New York Film Festival, nel 1963, e fu un’esperienza fortissima per me. – dichiara il regista – Io sono cresciuto in quartiere difficile, e questo è stato il primo film in cui sono riuscito ad identificarmi con i protagonisti. All’epoca non avevo idea di chi fosse Pasolini, però capivo quei personaggi, e più di tutto mi colpi la santità del film. Trovo meraviglioso il finale, dove si accostano personaggi popolari e infimi ad una spiritualità più alta. Accattone è un pappone, ma Pasolini lo fa morire in mezzo a due ladri, con uno dei due che si fa il segno della croce al contrario. Ho appreso moltissimo dalla combinazione che Pasolini fa di questi elementi, e anche dall’uso che fa della musica. Egli usa una composizioni sacre, usa Bach, per descrivere i suoi personaggi, e questa è una cosa che ho riportato in Casinò. Tutto ciò per me implica che le persone di strada, attraverso la propria sofferenza, sono più vicine a Cristo di quanto non lo siano coloro che stanno più in alto.”

Si passa poi a parlare di un altro dei grandi registi della storia del cinema italiano, Roberto Rossellini, con il suo film per la televisione dal titolo La presa del potere da parte di Luigi XIV. “Arrivato ad un certo punto della sua carriera Rossellini ha avuto la percezione che l’arte fosse troppo rivolta verso sé stessa, verso l’interno. Egli voleva farne altro, usando il valore del mezzo per realizzare film didattici, per insegnare. Di questo film in particolare sono stregato dalla composizione. C’è una grande ispirazione pittorica, da Velázquez a Caravaggio. Egli riduceva tutto all’essenziale, come aveva fatto in Paisà, e questo stile mi ha spinto verso nuove riflessioni sulla natura del cinema, decidendo poi di riutilizzarlo in film come Toro Scatenato, ma anche nei miei più recenti.”

È poi la volta di Umberto D. di Vittorio De Sica. “Questo film è l’apice del neorealismo, dopo non sarà più lo stesso. La cosa interessante di questo film è che non è affatto sentimentale. Certo, la musica ha un crescendo emotivo, ma il film parla sempre e solo di un uomo anziano che ha bisogno di mangiare. È così sinceramente umano che è impossibile non riconoscersi in questa umanità.”

Il posto, di Ermanno Olmi, è un film veramente speciale. – continua Scorsese – Questo film, insieme a I fidanzati, ha questo suo stile “sottomesso”, economico, scarno, che è un po’ lo stile documentaristico alla John Cassavetes, ed è per questo che lo sento così vicino a me. Ammiro il modo in cui Olmi ci parla della progressione dell’industrializzazione e della conseguente perdita di umanità.”

“Il primo film di Michelangelo Antonioni che vidi fu L’avventura. – dichiara il regista – Dovetti imparare come leggerlo. L’ho guardato ripetutamente, studiando il suo ritmo e l’utilizzo dello spazio. Questa sua narrazione ottenuta attraverso lo spazio, la composizione, la luce, l’oscurità, sembra per certi aspetti analitica. Ma uno dei finali più belli in assoluto è quello de L’eclisse. In questo film c’è un passaggio dove prima vediamo Monica Vitti camminare per strada, poi si allarga all’intero paesaggio, e lì la composizione è utilizzata come narrazione, facendoci capire l’alienazione, la mancanza di spirito, la mancanza d’animo. Antonioni ha ridefinito il linguaggio cinematografico. Egli prende i canoni della narrazione e dei personaggi e se ne libera, proprio come avviene a Lea Massari in L’avventura. Un po’ come fa Alfred Hitchcock in Psycho con Janet Leigh, ma almeno che fine fa lei lo sappiamo.”

Scorsese passa poi a presentare tre film ambientati in Sicilia, che era la terra dei suoi nonni prima che questi emigrassero a New York in cerca di fortuna. Il primo di questi film è Divorzio all’italiana di Pietro Germi. “Quando preparavo Quei bravi ragazzi, ho studiato questo film per prepararmi. Adoro come i movimenti della macchina da presa riescano a generare un umorismo genuino. Ogni volta che lo guardo mi colpisce poi particolarmente il bianco e il nero, e l’uso che si fa di questo.”

Il secondo dei film ambientati in Sicilia è invece Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, di cui viene  mostrata la scena della madre che piange il figlio morto. “La madre che vediamo non è una madre, è la madre. Quando vidi questo film per la prima volta, e questa scena in particolare, mi cambiò la vita. Rosi ti mostra i fatti, eppure i fatti non sono la verità, e le radici della corruzione vanno sempre più in profondità. I miei nonni si trasferirono a New York nel 1910, e mi sono sempre chiesto perché non si fidassero delle istituzioni. Vedendo questo film ho realmente capito tante cose della mia famiglia.”

Per il terzo film sulla Sicilia Scorsese non poteva che aver scelto Il Gattopardo, di Luchino Visconti. “Le opere di Visconti hanno avuto una grande influenza sul mio film L’età dell’innocenza. Quello che mi interessa qui è l’aspetto antropologico, l’antropologia di quella vita. Egli raccontava le cose dal minimo dettaglio al macrocosmo. L’opera di Visconti sembra combinare l’impegno politico con il melodramma più sfrenato. Ma ciò che più mi emoziona dei suoi film è il passaggio del tempo, il modo in cui il principe Salina capisce che i vecchi valori lasceranno il posto a qualcosa di nuovo che però non porterà a nessun cambiamento, e che quindi è arrivato per lui il momento di andarsene, fondamentalmente di morire.”

L’ultimo film italiano presentato da Scorsese è Le notti di Cabiria, di Federico Fellini. “Il finale di questo film è sublime. Una vera e propria rinascita spirituale. Ho sempre ammirato Fellini, con tutte le sue particolarità che lui sapeva far funzionare. Ho avuto il piacere di incontrarlo più volte, e verso gli anni novanta stavamo anche lavorando al progetto di un documentario insieme, purtroppo però lui scomparse poco dopo e la cosa non si fece più. Ad ogni modo, il suo modo di raccontare i personaggi e di catturarne l’essenza è inarrivabile.”

L’incontro si chiude poi con il conferimento a Martin Scorsese del premio alla carriera, consegnatogli come da lui richiesto da Paolo Taviani. Quest’ultimo ringrazia Scorsese per il suo omaggio al cinema italiano, e per l’amore che ha saputo trasmettere agli altri riguardo questi film. Scorsese appare visibilmente commosso, e dopo aver tenuto tra le sue mani il premio, prende un’ultima volta il microfono, per ringraziare l’Italia per i suoi capolavori cinematografici, senza i quali lui oggi non sarebbe quello che è. Dimostrando un’umiltà di cui solo i grandi sono capaci, Martin Scorsese ottiene in cambio il calore di un pubblico che da tempo vede in lui uno dei più grandi maestri della storia del cinema mondiale.

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MCU: 10 personaggi che meriterebbero più spazio sul grande schermo

Mentre la Fase 3 del MCU si avvia alla sua conclusione con Avengers 4, è lecito pensare al futuro del franchise e alle direzioni che prenderà la linea editoriale dei Marvel Studios.

Come dichiarato da Kevin Feige, i fan dovranno aspettarsi qualche sorpresa e inediti cambi di rotta nella Fase 4, il che non esclude che possano tornare volti noti dell’universo cinematografico già apparsi sullo schermo.

Tuttavia ci sono alcuni personaggi che meriterebbero senza dubbio più spazio, proprio per approfondire la loro storia al cinema o in tv. Se volete scoprire quali sono, leggete qui sotto:

Loki

Se contiamo anche la breve apparizione nel prologo di Avengers: Infinity War, finora Loki ha collezionato ben cinque presenze nel MCU, tuttavia non sembra abbastanza (almeno per i fan). Merito di Tom Hiddleston e della sua interpretazione magistrale di uno dei villani più complessi e intriganti che l’universo condiviso abbia mai avuto.

A quanto pare le preghiere saranno esaudite, dal momento che la Disney dovrebbe annunciare a breve la produzione di una serie (da trasmettere sul proprio servizio streaming) interamente dedicata al Dio dell’Inganno. Nel caso venisse confermata sarà interessante capire come il personaggio cambia se non associato a qualche supereroe…

Rocket Racoon

Rocket è uno dei membri più amati dei Guardiani della Galassia, e nonostante il carattere burbero è riuscito a guadagnarsi un posto speciale nel cuore dei fan. Introdotto come un cacciatore di taglie senza capacità di compassione, trova in Groot un amico e si apre all’affetto dei suoi compagni di squadra; nel secondo capitolo dei Guardiani lo vediamo infatti crescere e svilupparsi, pur mantenendo questa maschera un po’ aggressiva che lo contraddistingue.

La speranza è che gli venga dedicato più spazio all’interno del MCU (magari una serie presule dove scoprire il suo passato e gli eventi precedenti al primo film), accontentando così il desiderio degli appassionati.

Scarlet Witch

Da quando l’abbiamo incontrata in Avengers: Age of Ultron (dove ha visto morire suo fratello gemello Pietro alla fine della battaglia di Sokovia) Wanda Maximoff aka Scarlet Witch è cresciuta esponenzialmente fino ad Avengers: Infinity War, tuttavia la sensazione è che il personaggio non sia ancora sfruttato al massimo delle sue potenzialità.

Con l’acquisizione dei diritti sugli X-Men da parte della Disney i Marvel Studios potrebbero ampliare la descrizione dell’eroina associandole le qualità che la rendono una dei mutanti più pericolosi sulla Terra. Da qui si aprirebbe un ventaglio di possibilità narrative riferite ai fumetti che eleverebbero Scarlet Witch in una posizione di rilievo nel MCU.

E se è vero che è stata ridotta in cenere in Infinity War, non è detto che non possa tornare in futuro in una serie standalone (come si vocifera da qualche mese).

Avvoltoio

marvel fase 4

L’ingresso di Adrian Toomes nel MCU tramite Spider-Man: Homecoming è stato uno dei più riusciti della storia del franchise, e gran parte del merito va riconosciuto all’interpretazione magistrale di Michael Keaton. Non soltanto ci ha consegnato un classico villan sfaccettato, ma l’attore è stato capace di rendere umane e comprensibili le motivazioni del personaggio. Potevamo persino provare empatia per lui, senza dimenticare i crimini che aveva commesso.

Ovviamente Avvoltoio rientra tra quegli antagonisti che vorremmo rivedere sullo schermo, e quanto pare succederà prima del previsto grazie al sequel di Homecoming, Spider-Man: Far From Home.

Visione

Introdotto in Avengers: Age of Ultron, Visione è un personaggio dalle mille possibilità che dovrebbero essere sfruttate al meglio nel MCU, tuttavia non è chiaro quale sarà il suo destino nel futuro del franchise visto che risulta tra gli eroi caduti alla fine di Infinity War. Rimaniamo comunque fiduciosi e speriamo possa tornare al fianco dei suoi colleghi Vendicatori.

Occhio di Falco

Membro fondatore e imprenscindibile degli Avengers, Occhio di Falco ha combattuto fianco a fianco con Vedova Nera per anni ma del suo passato non sappiamo granché. Che sia arrivato il momento per dedicargli uno spazio nel MCU che non si limiti ad una semplice e fugace apparizione?

I Marvel Studios hanno deciso di escluderlo (speriamo ragionevolmente) da Avengers: Infinity War, e la sua mancanza si è fatta sentire, ma sappiamo che Clint si trova agli arresti domiciliari proprio come Scott Lang in seguito alla firma degli accordi di Sokovia. Atteso in Avengers 4, Occhio di Falco otterrà l’attenzione che merita?

Valchiria

L’inedita Valchiria di Tessa Thompson ha debuttato nel MCU soltanto di recente in Thor: Ragnarok e sul personaggio gravitano ancora molti misteri. Da dove viene? Qual è il suo passato? Cosa ha da offrire all’universo Marvel? Ogni possibile storyline è stata accantonata da Infinity War, nel quale non vi è stata traccia della guerriera asgardiana, ma se dovesse tornare in azione già da Avengers 4 sarebbe cosa assai gradita…sicuramente per noi!

Nebula

Nebula è un personaggio affascinante per svariati motivi, uno dei quali riguarda la storia della sua infanzia e il rapporto complicato con la sorella Gamora e il padre adottivo Thanos. Aspetti del suo carattere sono stati affrontati ed esplorati nel corso del franchise sui Guardiani della Galassia e brevemente anche in Avengers: Infinity War, dove l’abbiamo vista unirsi ai Vendicatori nella lotta contro il Titano Pazzo.

La sensazione è che Nebula abbia ancora talmente tanta rabbia irrisolta nei confronti di Thanos da meritare più spazio sullo schermo, a partire da Avengers 4

Peggy Carter

Hayley Hatwell Peggy Carter Avengers: Infinity War

Peggy Carter ha fatto il suo debutto ufficiale nel MCU in Captain America: Il Primo Vendicatore, apparendo più tardi anche in Captain America: The Winter Soldier, Avengers: Age of Ultron e Ant-Man e nelle serie televisive Agent Carter e Agents of SHIELD. Praticamente una veterana.

E il bello è che nonostante tutte questi minuti sullo schermo, i fan chiedono a gran voce altri momenti di Hayley Atwell nei panni del co-fondatore dello S.H.I.E.L.D., pure se piccoli come cameo e flashback in altri film dei Marvel Studios.

Lady Sif

Sopravvissuta alla strage di Thor: Ragnarok per mano di Hela, Lady Sif è dispersa in un luogo ignoto che non è Asgard, e i fan desiderano di rivederla in azione nel prossimo futuro del MCU sempre interpretata da Jaimie Alexander.

Il personaggio è comparso per la prima volta in Thor del 2011 e poi in Thor: Dark World del 2013, sfoderando tutte le qualità di un’incredibile guerriera e combattendo al fianco di Thor, Fandral, Hogun e Volstagg.

Leggi anche, MCU: il modo migliore per prepararsi all’arrivo di Avengers 4

Il Grande Lebowski reunion: Bridges, Goodman e Buscemi insieme per i 20 anni del film

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Il cast de Il Grande Lebowski si è riunito per una foto in occasione del 20° anniversario del film. La pellicola è stata diretta dai Fratelli Coen ed è uscita nel 1998. Il personaggio più riconoscibile del film è Drugo, interpretato da Jeff Bridges, mentre in ruoli altrettanto importanti comparivano John Goodman, Julianne Moore e Steve Buscemi.

Il Grande Lebowski racconta di Jeffrey Lebowski, che viene aggredito da due criminali che lo hanno scambiato, a causa di una scomoda omonimia, per un milionario. Durante l’aggressione, i due urinano anche su un tappeto di Jeffrey. Per ottenere un risarcimento per questo tappeto, il Drugo accetta di aiutare il milionario, consegnando un riscatto per liberare la Signore Lebowski, rapita proprio dai malviventi. Per aiutarlo nel suo viaggio, Drugo recluta i suoi due compagni di bowling, Walter Sobchak (Goodman) e Donny Kerabatsos (Buscemi).

Sul suo account Twitter, Bridges ha pubblicato una foto in cui compare al fianco dei suoi colleghi di set, per il film dei Coen, Goodman e Buscemi, in occasione della reunion e della celebrazione del 20° anniversario del film. Con loro, in foto, anche Harry Smith della NBC.

Nel cast del film comparivano anche Philip Seymour Hoffman e David Huddleston, che purtroppo sono morti, negli anni a seguire.

Mentre un sequel tanto richiesto de Il Grande Lebowski non è mai stato realizzato, l’attore John Turturro sta lavorando a uno spin-off intitolato Going Places, incentrato sul suo personaggio Jesus Quintana, il pittoresco avversario di Lebowski e dei suoi amici a bowling.

Anche se il film è uscito da 20 anni, Il Grande Lebowski ha ancora un grande impatto sulla cultura pop. Il film è tornato nelle sale in più di un’occasione ed è stato anche l’ispirazione per un bar in Arizona e un ristorante in Iowa.

Wonder Woman 1984: posticipata l’uscita del film con Gal Gadot

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È Gal Gadot in persona ad annunciare che l’uscita di Wonder Woman 1984 è stata posticipata fino al 2020. Warner Bros. e DC Films hanno messo a segno un ottimo colpo al box office nel 2017, con l’uscita primaverile di Wonder Woman. La stella di Gal Gadot è esplosa grazie al film, e con lei anche la reputazione, già buona, della regista Patty Jenkins ha ricevuto una notevole spinta nel panorama hollywoodiano.

L’annuncio del sequel è stato quindi scontato, mentre la produzione del film è attualmente in corso, visto che il film era previsto per la fine del 2019. Si tratta di uno slot forte per affluenza di pubblico, ma circondato, come c’è da aspettarsi, da tanti altri titoli, e quindi molta concorrenza. Così, anche grazie all’ottima performance al box office durante la stagione calda, la WB ha deciso di spostare il film.

Gal Gadot ha annunciato che Wonder Woman 1984 uscirà al cinema il 5 giugno del 2020, invece che il 1° novembre 2019. Con questo spostamento, il film DC evita la concorrenza al box office di Sonic, Terminator 6, e di Frozen 2, con una possibilità in più di arrivare a eguagliare quell’incasso di 820 milioni che ha sorpreso la stessa produzione.

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Con la produzione ancora in corso, questo ritardo garantirà a Patty Jenkins e alla sua squadra tanto tempo in più per lavorare al film, con più spazio per riprese aggiuntive e post-produzione. Per quanto riguarda le prossime uscite DC al cinema, sono in programma Shazam!, già girato, e Birds of Prey con Margot Robbie e Joker con Joaquin Phoenix.

Wonder Woman 1984: ecco come tornerà Steve Trevor?

Il film vedrà ancora come protagonista Gal Gadot opposta a Kristen Wiig, scelta per interpretare la villain Cheetah. L’ultimo acquisto del cast è Pedro Pascal, di cui non è stato ancora confermato il personaggio. Il film sarà ambientato durante la Guerra Fredda e la sceneggiatura è stata curata da Goeff Johns e Patty Jenkins.

Wonder Woman 1984 arriverà al cinema il 5 giugno del 2020.

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Mark Hamill paragona Luke a un drogato: ecco cosa ha ucciso il Jedi

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Mark Hamill ha confermato che è stata la Forza ha uccidere Luke Skywalker alla fine di Star Wars: Gli Ultimi Jedi. Quando Rey incontra per la prima volta il vecchio Maestro Jedi su Ahch-To, Luke era ormai lontano da quella eroica leggenda di cui la ragazza aveva tanto sentito parlare. Dopo aver fallito nell’educazione di Ben Solo, Luke divenne un recluso, scegliendo di allontanarsi dal conflitto e di vivere i suoi ultimi giorni in isolamento sull’isola. Tuttavia, come abbiamo visto nel film di Rian Johnson, l’ultima lezione di Yoda lo ha poi incoraggiato ad aprirsi nuovamente alla Forza, preparando la strada per quello che è stato il suo epico e sacrificale gesto contro Kylo Ren su Crait.

Gli Ultimi Jedi ha introdotto l’idea della proiezione astrale attraverso la Forza nei film di Star Wars, ed è così che Luke si è trasportato attraverso la galassia, da Anch-To a Crait, per aiutare la Resistenza. Come stabilito all’inizio del film, ci vuole una notevole quantità di energia per farlo, e questo può potenzialmente uccidere la persona che sta usando la Forza in quel momento. Quasi un anno dopo l’uscita di Episodio VIII, Hamill ha soppesato l’ironico destino di Luke. Su Twitter, Mark Hamill ha condiviso delle tavel del fumetto che raffigurano la morte di Luke, paragonando il Jedi a un tossicodipendente.

La forza ha ucciso Luke. Dovete essere a conoscenza dell’ironia del suo fato. Quasi come un drogato che ha preso a calci la sua abitudine freddo-tacchino, è rimasto pulito per decenni, solo per riutilizzare solo una volta e poi, tragicamente, overdose.

Luke Skywalker

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Per la maggior parte degli spettatori (specialmente dopo la prima conversazione “via Forza/Skype” tra Kylo Ren e Rey), è stato chiaro cosa stava accadendo nel momento in cui Luke è morto, nel film. Secondo il parere di tutti, Skywalker sapeva che la sua straordinaria impresa gli sarebbe costata la vita, il che non ha fatto che aumentare la potente emozione di quel momento. Ma mentre è vero che la Forza ha ucciso Luke fisicamente, per il vecchio Jedi abbracciare di nuovo quell’abitudine in realtà gli ha dato la vita eterna.

Diventare un tutt’uno con la Forza permetterà a Luke di ritornare come un fantasma di Forza nell’episodio IX, mentre se si fosse attenuto al suo piano originale, avrebbe vissuto miseramente il resto dei suoi giorni su Ahch-To, cessando semplicemente di esistere con una morte “comune”. Ciò che ha ucciso Luke lo ha anche reso più forte, più potente di quanto potesse immaginare Kylo Ren.

Fonte: Mark Hamill

Cinema gratis Under 26 alla Festa del Cinema

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Nell’ambito dell’iniziativa LA REGIONE LAZIO TI PORTA AL CINEMA realizzata in collaborazione con ANEC Lazio, è prevista una promozione speciale che consente a tutti gli under 26 che acquisteranno un biglietto della Festa del Cinema di andare gratis al Cinema !

Acquistando un biglietto della Festa (18 – 28 ottobre 2018) i ragazzi tra 18 e i 26 anni riceveranno direttamente in biglietteria un coupon omaggio da utilizzare per l’ingresso gratuito in uno dei cinema aderenti all’iniziativa MERCOLEDÌ AL CINEMA da utilizzare in un mercoledì a scelta dal 24 ottobre al 19 dicembre 2018 (esclusi i festivi, le proiezioni in 3D, le prime e gli eventi speciali).

Per usufruire del biglietto gratuito gli under 26 dovranno presentare alla cassa del cinema il coupon omaggio unitamente al biglietto d’ingresso della Festa.

#RomaFF13: Thierry Frémaux e gli Afterhours all’Auditorium

Appuntamenti imperdibili della sesta giornata di Festa del Cinema di Roma 2018 sono Noi siamo Afterhours, docufilm sulla band italiana, e Thierry Frémaux, il direttore artistico del Festival di Cannes, che sarà insolito ospite di un Incontro ravvicinato con il pubblico.

Alle ore 22 si terrà Noi siamo Afterhours, docufilm in cui il regista Giorgio Testi, prendendo spunto dal concerto sold out al Forum di Assago del 10 aprile scorso, racconta i trent’anni di storia della band guidata da Manuel Agnelli, dagli esordi in inglese alle tournée internazionali, dai cambi di formazione fino alla line up attuale. Le immagini del concerto si alternano a quelle del passato in un racconto affidato all’io narrante di Manuel Agnelli che conduce lo spettatore in un viaggio intimo attraverso la musica di una band entrata nella storia del rock italiano. Alla proiezione per il pubblico sarà presente la band che, a seguire, sarà protagonista di un breve showcase elettroacustico.

Thierry Frémaux

Thierry Frémaux, dal 1997 Direttore Generale dell’Istituto Lumière di Lione, dal 2001 ai vertici del Festival di Cannes prima come Direttore Artistico e poi come Delegato Generale, sarà protagonista di un Incontro Ravvicinato che si terrà in Teatro Studio Gianni Borgna Sala Siae alle ore 17.30.

In qualità di organizzatore di una delle più prestigiose rassegne cinematografiche, Frémaux ha saputo coniugare le due anime del cinema, quella commerciale e quella artistica. Una vita passata a visionare più di mille film all’anno, a cercare e selezionare opere in giro per il mondo, a convincere attori, registi e artisti a far parte delle giurie. Di questa vita ha raccontato nell’autobiografia “Sélection officielle”, pubblicata nel 2017 in Francia dall’editore Grasset: seicento pagine di ricordi e aneddoti su imprevisti, conversazioni e soluzioni diplomatiche per le situazioni più complicate.

Di recente, Frémaux ha fatto parlare di sé per le scelte rigorose e, in alcuni casi controcorrente, attuate in occasione dell’ultima edizione della kermesse. L’incontro tra Frémaux e il pubblico della Festa del Cinema sarà l’occasione per discutere l’attuale significato dei festival cinematografici e la loro possibile evoluzione.

#RomaFF13 – Segui lo speciale di Cinefilos.it

#RomaFF13: Martin Scorsese sul tappeto rosso dell’Auditorium

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#RomaFF13: Martin Scorsese sul tappeto rosso dell’Auditorium

Il regista newyorkese Martin Scorsese ha colmato di fan l’Auditorium. Fiumi di fan si sono riversati ai lati del tappeto rosso che nella serata del quinto giorno di rassegna ha visto sfilare il regista premio Oscar, ospite d’onore e vincitore del Premio alla Carriera.

Ecco le foto (di Aurora Leone) in cui Scorsese posa al fianco di Monda e Delli Colli.

Box Office ITA: A Star Is Born sempre in testa

Box Office ITA: A Star Is Born sempre in testa

A Star Is Born regge saldamente in testa al box office italiano, seguito da Venom e Pupazzi senza gloria.

box officeDopo un ottimo esordio la scorsa settimana, A Star Is Born regge saldamente in testa al box office italiano con 1,2 milioni di euro incassati in un numero di sale quasi equivalente al debutto. Così il film di e con Bradley Cooper arriva a quota 3,6 milioni di euro.

Seconda posizione invariata, con Venom che raccoglie altri 728.000 euro con cui giunge a ben 7,5 milioni.

Il terzo gradino del podio è occupato dalla new entry Pupazzi senza gloria, che apre con 612.000 euro incassati in 221 sale a disposizione.

Seguono le novità Soldado (603.000 euro) e Piccoli Brividi 2: I fantasmi di Halloween (597.000 euro).

Johnny English colpisce ancora precipita al sesto posto con altri 543.000 euro per un totale di 1,6 milioni alla sua seconda settimana di programmazione.

Il Verdetto – The Children Act debutta con 482.000 euro incassati in 143 sale disponibili, mentre Zanna Bianca totalizza 1 milione con altri 417.000 euro.

L’italiano Nessuno come noi esordisce con soli 276.000 euro incassati in 255 sale, mentre Gli Incredibili 2 chiude la top10 con altri 264.000 euro con cui giunge a 11,4 milioni complessivi.

Guillermo del Toro dirige Pinocchio per Netflix

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Guillermo del Toro debutta alla regia del suo primo lungometraggio di animazione con Pinocchio, un film originale Netflix, un progetto che ha cuore da tutta la vita. Sarà un musical realizzato in stop motion, di cui il regista Premio Oscar firmerà anche la sceneggiatura e la produzione.

La personale versione di Guillermo del Toro della celebre favola di “Pinocchio” sarà il suo primo film dopo il successo di “La forma dell’acqua”, vincitore di quattro premi Oscar agli ultimi Academy Awards, tra cui Miglior Regia e Miglior Film.

Del Toro inaugura un nuovo modo di raccontare la fiaba classica di “Pinocchio”, ambientata in Italia negli anni Trenta. Il progetto segna un momento chiave nella già consolidata relazione tra Netflix e il celebre regista, che proprio per Netflix aveva creato la trilogia di DreamWorks “Tales of Arcadia”, con il primo capitolo “Trollhunters”, vincitore di diversi premi Emmy, il secondo “3Below”, che debutterà il 21 dicembre 2018, e il terzo capitolo “Wizards” previsto nel 2019. Del Toro è anche il creatore della prossima serie Netflix “Guillermo del Toro Presents 10 After Midnight”, che arriverà prossimamente sulla piattaforma.

Scary Stories to Tell in the Dark: si arricchisce il cast del film prodotto da Guillermo del Toro

“Pinocchio” è una produzione di Guillermo del Toro, The Jim Henson Company (“The Dark Crystal: Age of Resistance”) e ShadowMachine (“Bojack Horseman”, “The Shivering Truth”), che ospiterà la produzione animata in stop motion. Insieme a del Toro, il film verrà prodotto da Lisa Henson, Alex Bulkley di ShadowMachine, Corey Campodonico e Gary Ungar di Exile Entertainment. Blanca Lista sarà co-produttrice. Patrick McHale (“Over The Garden Wall”, “Adventure Time”) ne scriverà la sceneggiatura insieme a del Toro. Mark Gustafson (“Fantastic Mr. Fox”) si occuperà della regia insieme a del Toro, mentre Guy Davis sarà co-production designer, partendo dall’originale concezione dell’illustratore Gris Grimly del personaggio di Pinocchio. I pupazzi del film saranno realizzati da Mackinnon e Saunders (“La sposa cadavere”). L’inizio della produzione “Pinocchio” è previsto questo autunno.

Guillermo del Toro ha così commentato: «Nessuna forma d’arte ha influenzato la mia vita e il mio lavoro quanto l’animazione e nessun personaggio ha avuto un legame profondo con me quanto Pinocchio. Nella nostra storia, Pinocchio è un’anima innocente con un padre indifferente che si perde in un mondo che non può comprendere. Il nostro protagonista si imbarca in un viaggio straordinario che lo condurrà ad una profonda comprensione di suo padre e del mondo reale. Ho da sempre voluto realizzare questo film. Sono estremamente grato a Netflix e al suo eccezionale team per questa opportunità unica nel suo genere, che mi permetterà di presentare la mia personale versione di questo strano burattino al pubblico di tutto il mondo».

Melissa Cobb, Netflix Kids and Family Vice President, ha aggiunto: «Durante tutta la sua illustre carriera, Guillermo ha dimostrato la sua maestria nell’inspirare le persone attraverso i suoi magici mondi pieni di personaggi indimenticabili, dai mostri di Pan’s Labyrinth alla bestia acquatica di “La forma dell’acqua”. Siamo incredibilmente entusiasti di approfondire ulteriormente la nostra relazione con Guillermo e siamo certi che la sua personale visione artistica profondamente toccante porterà in vita una nuova versione di Pinocchio, che sarà accolta dal pubblico di tutto il mondo».

The Shape of Water: il film di Guillermo del Toro immaginato da sette illustratori italiani

Boy Erased: la recensione del film di Joel Edgerton

Boy Erased: la recensione del film di Joel Edgerton

Boy Erased è l’altra faccia di The Miseducation of Cameron Post, più composta ma soprattutto meno rassicurante del film di Desiree Akhavan che racconta con sentimento nostalgico e partecipazione la storia di un non-tanto-tradizionale coming of age di una ragazza gay spedita in un centro di “riconversione”. Quello di Joel Edgerton (qui alla sua seconda regia) invece prende in esame lo stesso tema ma da una prospettiva diversa, denunciando senza appello il sistema che partorisce lo scenario di cui si parla: ad oggi, negli Stati Uniti, 700.000 adulti hanno subito un trattamento terapeutico che dovrebbe guarirli dalla loro omosessualità, e circa la metà di questi sono adolescenti; i metodi descritti dai testimoni sono crudeli e spesso violenti, e vanno da sedute di elettroshock a giochi di controllo mentale volti a convincere i “pazienti” LGBT che i loro orientamenti sono scelte dettate da relazioni disfunzionali con le famiglie.

Boy Erased, il film

Edgerton tiene le statistiche in una mano, e il memoir di Garrard Conley (Boy Erased: A Memoir, pubblicato negli Stati Uniti nel 2016 e tradotto in italiano con Boy Erased. Vite cancellate) nell’altra, realizzando un film che per linguaggio, messa in scena e toni sembra destinato ad un pubblico adulto (diversamente dai teenagers di Cameron Post). O almeno vorrebbe fornirli gli strumenti per debellare questo pericolosissimo “virus” di ignoranza e incomunicabilità che esiste ancora fra genitori e figli, fra società e individui, fra istituzioni religiose e comunità civile.

Lo fa partendo dal’assunto che certe terapie forzate siano solo un’altra forma di persecuzione, non molto distante da quello che il regime nazista eseguì nei campi di concentramento, e in controtendenza rispetto ai tempi. Anni di progresso non hanno affatto scalfito la definizione stessa del termine, con cui si intende l’insieme delle azioni di forza e di atti ostili dirette a eliminare un gruppo etnico o sociale inferiore. È proprio ciò che accade al protagonista di Boy Erased e alla protagonista di The Miseducation of Cameron Post; a cambiare, nel film di Edgerton rispetto a quello della Akhavan, sono la natura distaccata della messa in scena (suggerendo così un insopportabile senso di oppressione), la palette di colori fredda scelta dal direttore della fotografia Eduard Grau (che conferisce alle immagini un’idea di memoria che si vuole dimenticare), infine le prove degli attori sempre misurate entro certi livelli di livore, che in fondo testimoniano la stessa voglia di ribellione “educata” e mai rabbiosa dell’autore del romanzo da cui il film è tratto.

Il trailer

The Little Drummer Girl: recensione della serie con Michael Shannon #RomaFF13

Il regista sudcoreano Park Chan-Wook firma la regia della sua prima serie tv, The Little Drummer Girl, ispirata all’omonimo romanzo di John Le Carré. I primi due episodi sono stati presentati alla Festa del Cinema di Roma, gettando le basi per quella che potrebbe presto diventare una delle serie più in voga del momento.

The Little Drummer Girl è ambientata verso la fine degli anni ’70. Charlie (Florence Pugh) è una giovane attrice inglese intenta a trascorrere le vacanze in Grecia. Qui viene turbata dall’incontro con un misterioso sconosciuto, Becker (Alexander Skarsgard). Questi coinvolge la ragazza in un complicato intrigo internazionale orchestrato dalla spia Kurtz (Michael Shannon).

Risulta complesso inquadrare una spy-story come questa solamente dai primi due episodi. Si può però certamente individuare in questi delle ottime premesse che non fanno che aumentare le aspettative nei confronti della serie. Il regista di Old Boy sfoggia qui tutto il suo gusto estetico, regalando allo spettatore un incipit che contiene in sé spettacolarità visiva e gli elementi fondamentali per permettere un rapido inquadramento del contesto in cui ci troviamo. Curando minuziosamente l’aspetto formale, e facendolo intrecciare con la complessa trama a base di spionaggio, inganni e retroscena.

A convincere prima di tutto è infatti la messa in scena del regista, che riesce perfettamente a ricostruire la classica atmosfera da anni ’70 attraverso l’uso di giochi cromatici sia per le scenografie che per i costumi. Il tutto è sottolineato da una calda fotografia che sembra richiamare la qualità dell’immagine data dalla pellicola cinematografica. Successivamente quando con il procedere dell’episodio si fanno sempre più protagonisti i personaggi e la storia, sono questi a rubare l’attenzione dello spettatore.

Il primo episodio di The Little Drummer Girl ci presenta i tre personaggi principali, tra cui spicca un sempre impeccabile Michael Shannon. Ognuno di loro è dotato di buona caratterizzazione, che li differenzia l’uno dall’altro e che proprio per questo potrebbe in futuro dar vita ad interessanti conflitti. All’interno del primo episodio viene quindi costruita l’intera premessa della serie, e a partire dal secondo si mettono in moto la serie di eventi che porteranno i personaggi sempre più nel profondo di una pericolosa ricerca.

Per mestiere le spie mentono e sono il più riservate possibile, e altrettanto sembra promettere questa serie. Risulta infatti difficile prevedere l’evoluzione della storia proposta, a meno che non si sia letto il romanzo di Le Carré. Si ha spesso la sensazione che qualcosa ci venga nascosto, che gli autori della serie si divertano a privarci di alcuni elementi fondamentali, oppure insinuando il dubbio che ciò che ci è stato presentato non sia esattamente come sembra essere. Anche in questo gioco con lo spettatore sta il pregio di una serie che promette grandi risvolti.

The Little Drummer Girl, la recensione

Back Home: recensione del film di Magdalena Łazarkiewicz #RomaFF13

Presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma, Back Home è il nuovo film della regista polacca Magdalena Łazarkiewicz. Il film segue la storia di Ula, giovane ragazza di una piccola città polacca. Riuscita a fuggire dalla casa di tolleranza nella quale era stata segregata, Ula torna a casa dalla sua famiglia. Tuttavia, al suo rientro, riceve un’accoglienza tutt’altro che tenera, ed è costretta a subire l’ostracismo di una comunità chiusa e oscurantista.

Percorrendo l’accidentato itinerario che conduce all’indipendenza, la giovane troverà la propria definizione dei termini cruciali per l’esistenza e basilari per instaurare legami con altre persone: affinità, amore, dedizione, fratellanza, autonomia. Prima di riuscire ad arrivare a ciò, dovrà affrontare i propri demoni, ricostruendo da zero sé stessa.

Back Home è un film che ha inizio quando il principale evento riguardante la protagonista è già avvenuto. Noi non vedremo mai, se non attraverso rapidi e frammentati flashback, il periodo della sua prigionia. La regista decide invece di farci entrare nella sua storia in quello che altrove potrebbe essere un lieto fine. Ma in Back Home il ritorno a casa è tutt’altro che un finale, men che meno lieto. Lentamente entriamo nella vita e nelle problematiche di Ula, cercando di indagare insieme alla regista i suoi tentativi di rivalsa. Un ingresso forse troppo lento in realtà, che ha l’effetto di ritardare lo sviluppo della storia.

L’effetto che automaticamente si genera è quello di un notevole appesantimento di una storia già di suo tutt’altro che leggera. Ben presto si inizia ad avvertire un senso di stanchezza, amplificato dalla difficoltosa comprensione di alcuni eventi e comportamenti dei personaggi. Regista e sceneggiatrice sembrano infatti consegnarci troppi pochi elementi di analisi, finendo così con il rendere tutto troppo criptico per essere apprezzato.

Nonostante ciò, il film riesce a regalare una serie di belle immagini, capaci di comunicare elementi importanti della storia. Fortunatamente arrivando verso il finale il film si fa sempre più limpido, favorendo così non solo una maggior comprensione ma anche un maggior coinvolgimento.

Ciò che senza dubbio è interessante del film è l’analisi che viene fatta della giovane protagonista. Questa, vista dalla comunità come una peccatrice, è costantemente messa a confronto con l’elemento religioso. Questo rapporto tra fede e personaggio sembra conferire a quest’ultimo una natura quasi cristologica, di una martire in cerca di redenzione e perdono. Ed è in questa ricerca, intima e dolorosa, che si intravede un po’ di umanità in un personaggio presentatoci inizialmente in maniera troppo distaccata e piatta.

Nonostante rimanga un film difficile da seguire e apprezzare realmente, Back Home lascia intravedere in alcuni momenti una propria voce riguardo il percorso di redenzione del personaggio. Purtroppo è una voce troppo debole, frenata da una scrittura carente e un ritmo più pesante del dovuto.

The Old Man & The Gun: recensione del film con Robert Redford

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The Old Man & The Gun si basa sulla storia abbastanza vera, come scritto sui titoli di testa, di Forrest Tucker (Robert Redford), dalla coraggiosa fuga dal carcere di San Quintino all’età di 70 anni fino a una serie di colpi senza precedenti che incantarono il pubblico e lasciarono le forze dell’ordine a brancolare nel buio. A dare la caccia a Tucker sono il detective John Hunt (Casey Affleck), sempre più affascinato dalla dedizione di Forrest all’arte del furto, e una donna (Sissy Spacek) che lo ama nonostante la professione che si è scelto.

Uscire dalle scene con stile. The Old Man & The Gun, presentato all’ultimo festival di Toronto, è  introdotto come l’ultimo film di Robert Redford. L’attore, in attività da circa 40 anni e ora ultraottantenne, ha infatti deciso di ritirarsi dalle scene, forse per dedicarsi solamente alla sua altra attività di successo: il Sundance Festival.

I ruoli che Robert Redford ha ricoperto nella sua lunga carriera sono numerosi: da Sundance Kid in Butch Cassidy alla romantica controparte di Jane Fonda in A piedi nudi nel parco, dal campione di baseball ne Il migliore al boss supercattivo in Captain America: Winter Soldier. Come capita ultimamente a molti attori della sua generazione, ora affronta ruoli che hanno più a che fare con la sua età, come abbiamo visto l’anno scorso nel film prodotto da Netflix e presentato alla Mostra del cinema di Venezia Our souls at night, in cui ritrovava Jane Fonda in una storia d’amore che sfidava i limiti dell’età.

The Old Man & The GunIn The Old Man & The Gun, diretto da David Lowery, di cui al Sundance si è visto A ghost story, Redford ha più di un elemento in comune con il protagonista: come Tucker infatti, si diverte a fare ciò che gli piace di più, nel caso del primo recitare, nel caso del secondo fare rapine in banca. Il tutto è reso chiaro in una battuta del film: “Se penso che questo sia un buon modo di vivere? Per me questo è la vita”: Tucker sente di vivere solo nel momento in cui, con garbo e calma, rapina le banche, mostrando, senza mai estrarre, la pistola che dà il titolo alla pellicola e soprattutto, senza mai sparare un colpo.

Tucker è un ladro gentiluomo, che affascina persino chi gli sta alle calcagna, l’ispettore interpretato da Casey Affleck. A condividere vita e rapine ci sono poi altri due compari, coetanei e con caratteri complementari a quello di Tucker: Teddy e Waller, interpretati rispettivamente da Danny Glover e da Tom Waits, perfetto nel ruolo di un ladro con passione per la poesia e gli audiolibri. A completare il quadro, e a cercare di dare un equilibrio alla vita di Tucker, è il personaggio di Sissy Spacek, donna indipendente e comprensiva, che sa esattamente da che parte stare.

Costruito, a partire dai titoli di testa, nello stile dei polizieschi anni ’70 e girato in 35mm, dando quindi al film una grana che rimanda alle pellicole di quell’epoca, The Old Man & the Gunè un omaggio alla carriera di Robert Redford, di cui il regista riesce a inserire in maniera intelligente alcuni contributi e anche un’affermazione di resistenza da parte dello stesso attore, che  lascia le scene ma non certo perché le forze lo abbiano lasciato. Il film è in selezione ufficiale alla Festa del cinema di Roma 2018 e uscirà in sala con Bim a partire dal 20 dicembre.

The Old Man & The Gun il trailer

Avengers 4 teoria: Cap e Iron Man non si riconcilieranno mai sullo schermo

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Avengers: Infinity War ha mostrato a tutto il pubblico che la ferita tra Cap e Iron Man, che abbiamo visto aprirsi e sanguinare in Captain America: Civil War, è ancora fresca e brucia, e tutti i fan si aspettano che i due eroe, pilastri del MCU, si riconcilino in Avengers 4, ma questo, secondo una teoria diffusasi in rete, sembra molto lontano dalla verità.

Il conflitto è ancora vivo

Civil War ha trasformato per sempre il panorama del MCU. Gli accordi di Sokovia hanno messo alla prova il legame tra Steve e Tony, e alla fine del film, il gruppo era diviso in due schieramenti. Addirittura Cap e Iron Man sono arrivati allo scontro quasi letale a causa di Bucky e della sua responsabilità nella morte dei genitori di Tony. I due eroi sono riusciti a stento a non uccidersi a vicenda. Le conseguenze di ciò che è accaduto in quel film si sono ripercosse su tutto il resto del MCU. Steve si è dato alla clandestinità con Vedova Nera, Falcon e, ovviamente, Winter Soldier. Iron Man invece, dopo un breve tentativo di rifondare gli Avengers, rinuncia all’idea. Tuttavia custodisce gelosamente il telefono cellulare che Steve gli ha fatto avere alla fine di Civil War. Non importa quanto tra loro possano essere in disaccordo, di fronte a minacce più grandi saranno sempre schierati dalla stessa parte.

Originariamente la Marvel voleva risolvere il conflitto in Infinity War. I piani prevedevano un incontro tra Cap e Iron Man a metà film, e in quella occasione i due dovevano far pace e lavorare di squadra. Tuttavia lo sceneggiatore del film, Stephen McFeely, ha spiegato: “Significava rallentare il nodi narrativo di Thanos e le Gemme per affrontare dei conflitti provenienti da altre storie. E così, tutte le volte che abbiamo scritto quelle scene, è diventato chiaro che questo film doveva riguardare Thanos e ciò che lui rappresentava per i Vendicatori.”

Indubbiamente è stata la scelta giusta in termini di coesione narrativa per Infinity War, ma non ha certamente risolto questo conflitto così importante.

I viaggi nel tempo sembrano plausibili

Poco dopo l’uscita di Avengers: Infinity War, è stato suggerito che dovrebbe essere previsto una specie di salto temporale così che lo spettatore, in Avengers 4, possa rendersi conto di ciò che è conseguito allo schiocco di Thanos. Nel film, infatti, il Titano Pazzo insisteva che “il fine giustifica i mezzi” di fronte alle proteste di Gamora, e che il suo progetto di spazzare via metà delle forme di vita dell’universo era necessario per creare il paradiso.

Un salto nel tempo permetterebbe ai fratelli Russo di mostrare come l’atto di genocidio galattico di Thanos abbia cambiato il mondo. La natura di questi cambiamenti – crisi nel governo, tensioni politiche ed etniche, criminalità, qualsiasi cosa – aumenterebbe considerevolmente la posta in gioco. I Vendicatori dovrebbero quindi combattere per annullare lo schiocco (o, più probabilmente, per evitarlo grazie al viaggio nel tempo).

La portata e le conseguenze di Infinity War sono così importanti che è impossibile arrivare direttamente agli eventi di Avengers 4 senza una panoramica o una spiegazione preventiva. Il film non può semplicemente parlare solo dei Vendicatori che reagiscono allo schiocco e che vogliono salvare il mondo, ideando un piano per sconfiggere Thanos e annullare gli effetti del suo gesto.

Si intensificano i sostenitori della teoria che Avengers 4 comincerà cinque anni dopo la fine di Infinity War. Anche se non sono mai state confermate ufficialmente, queste voci si basano su ciò che abbiamo visto dal set: le foto scattate hanno mostrato a Robert Downey Jr. nei panni di un Tony Stark più anziano. Emma Fuhrmann è stata scritturata nei panni di una Cassie Lang più grande. Un commento da parte di Gwyneth Paltrow sembrava implicare che, in Avengers 4, Tony e Pepper avranno un figlio.

Secondo una teoria popolare, Scott Lang scapperà dal Regno Quantico attraverso uno dei misteriosi “vortici del tempo” e emergerà cinque anni nel futuro. Disturbato dal mondo distopico che scopre, si precipiterà a vedere sua figlia, solo per scoprire che ha cinque anni in più. Quando Scott raggiunge i Vendicatori, Tony Stark si rende conto che è la prova che il viaggio nel tempo è possibile. Così gli Avengers si lanciano in una missione per riscrivere la storia e annullare lo schiocco.

Che significa un salto nel tempo per Cap e Iron Man?

Tornando però al nocciolo della questione: se la Marvel adotterà davvero questo approccio, vorrà dire che ci verrà tolta l’emozione di assistere al momento in cui Steve e Tony si riappacificano.

Non c’è un modo ragionevole per sostenere che Tony Stark avrebbe impiegato cinque anni per tornare sulla Terra dopo essere stato bloccato su Titano con Nebula, che è abituata ai viaggi intergalattici. Probabilmente Tony riesce a tornare sulla Terra pochi giorni dopo lo schiocco e plausibilmente è lui a dare una mano ad arginare il caos scatenatosi a seguito della vittoria di Thanos.

Quindi cosa potrebbe accadere tra Tony Stark e Steve Rogers? Considerato il bagaglio emotivo trai due, si tratta comunque di eroi. Steve ha chiarito quanto rispetto abbia per Stark quando, in Avengers: Infinity War, si riferiva ancora a Tony come “il più grande difensore del pianeta“.

Se ci dovesse essere davvero un salto temporale di cinque anni, è inevitabile che Tony Stark e Steve Rogers abbiano risolto i loro conflitti in quell’arco temporale – e non lo vedremo mai sul grande schermo. Il payoff emotivo di Captain America: Civil War dovrà essere sacrificato per continuare la storia. Inoltre, non è la prima volta che questa domanda viene fatta ai Russo; quando gli spettatori hanno notato che la riunione tra Steve Rogers e Bucky in Avengers: Infinity War non è stata travolgente, i Russo essenzialmente si sono limitati a scrollare le spalle e dicendo che presumevano si fossero incontrati prima nel periodo di due anni che intercorre tra Captain America: Civil War e Infinity War.

Non c’è dubbio che non passerà molto tempo prima che i dettagli della trama di Avengers 4 vengano resi noti, e scopriremo se ci sarà davvero un salto temporale di cinque anni. Se ci sarà, per quanto possa essere eccitante nei termini della storia, questo potrebbe significare anche che non vedremo mai il momento della riconciliazione tra Steve e Tony.

Joker: ecco Brett Cullen nei panni di Thomas Wayne – foto

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Joker: ecco Brett Cullen nei panni di Thomas Wayne – foto

Continuano a New York le riprese di Joker, diretto da Todd Phillips e con Joaquin Phoenix. Oggi, grazie a Just Jared, possiamo vedere nuovi scatti dal set di Park Avenue in cui, in particolar modo, vediamo per la prima volta sul set Brett Cullen, che nel film interpreta Thomas Wayne, papà del giovane Bruce.

Il personaggio, negli anni, è stato interpretato da diversi, attori e la sua ultima incarnazione cinematografica, in Batman v Superman: Dawn of Justice, è stata Jeffrey Dean Morgan, che si è anche detto disponibile a tornare a interpretare il ruolo e Batman in Flashpoint. La foto ci mostra Cullen pettinato e vestito perfettamente à la Thomas Wayne.

Joker: Joaquin Phoenix a confronto con Romero, Nicholson, Ledger e Leto

Joker arriverà nelle sale il 4 ottobre 2019, come ufficializzato nelle ultime ore dalla Warner Bros e sarà diretto da Todd Phillips (Una notte da leoni).

Il film sarà ambientato nel 1980, e racconterà l’evoluzione di un uomo ordinario e la sua trasformazione nel criminale che tutti conosciamo.

Ufficiali nel cast del film Joaquin Phoenix, Zazie Beetz, Robert De Niro, Frances Conroy, Marc Maron.

Fonte: Just Jared

Avengers 4: dettagli della trama dal nuovo set LEGO

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Avengers 4: dettagli della trama dal nuovo set LEGO

Sembra che, come spesso accade, i set LEGO di Avengers 4 siano fonte di informazioni preziose in merito a ciò che accadrà nel film del Fratelli Russo atteso per maggio 2019. Secondo un video trapelato su Instagram, in cui si descrive il set di mattoncini dedicato, in Avengers 4 ci sarà spazio per un viaggio nello spazio per Hulk, Iron Man e Thanos, ma c’è anche al conferma che Tony Stark viaggerà verso il Regno Quantico in compagnia di Ant-Man.

La possibile descrizione non è ufficiale e il video è trapelato illegalmente, tuttavia sappiamo che lo stesso utente di Instagram aveva già precedentemente fornito informazioni corrette in merito ai film non ancora usciti. Inoltre sappiamo che il video in questione è stato rimosso, cosa che potrebbe essere stata causata da un interesse della produzione, evento che sembra quindi avvalorare la credibilità del video stesso.

Oltre al video che purtroppo non possiamo mostrarvi, c’è anhce una foto che mostra Thor, Cap, Thanos in armatura, Captain Marvel nella divisa Kree e quello che sembra essere davvero Ronin, ovvero la nuova evoluzione di Occhio di Falco.

avengers 4 lego

MCU: il modo migliore per prepararsi all’arrivo di Avengers 4

Avengers 4 arriverà al cinema ad Aprile 2019, sarà diretto da Anthony e Joe Russo e porterà a conclusione la Fase 3 del Marvel Cinematic Universe.

Nel cast del film Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo, Chris Evans, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Don Cheadle, Tom Holland, Chadwick Boseman, Paul Bettany, Elizabeth Olsen, Anthony Mackie, Sebastian Stan, Letitia Wright, Dave Bautista, Zoe Saldana, Josh Brolin, Chris Pratt, Jeremy Renner, Evangeline Lilly, Jon Favreau, Paul Rudd, Brie Larson.

#RomaFF13: è il grande giorno di Martin Scorsese

#RomaFF13: è il grande giorno di Martin Scorsese

La tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma celebra Martin Scorsese, uno dei più grandi cineasti della storia della settima arte: domani, lunedì 22 ottobre alle ore 19 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, il maestro statunitense riceverà il Premio alla Carriera, che sarà consegnato da Paolo Taviani.

Nell’occasione, Scorsese sarà protagonista di un Incontro Ravvicinato con il pubblico durante il quale ripercorrerà la sua carriera che lo ha visto autore di una straordinaria serie di capolavori da Mean Streets e Taxi Driver a Toro Scatenato, da Quei bravi ragazzi a Casinò, da Gangs of New York a The Departed – Il bene e il male, da The Wolf of Wall Street a Silence. Scorsese mostrerà inoltre alcune sequenze scelte fra i film italiani che hanno maggiormente influenzato la sua vita e la sua opera.

L’Incontro Ravvicinato con Martin Scorsese si svolgerà con il sostegno di Campari. Da sempre impegnato in primissima linea nella battaglia per la conservazione del cinema del passato, il regista ha poi selezionato per gli spettatori della Festa tre film per il cui restauro è stata impegnata la Film Foundation da lui promossa: domani, lunedì 22 ottobre, presso il Teatro Studio Gianni Borgna Sala Siae (ore 16.30) sarà la volta di Ganja & Hess di Bill Gunn (1973), restaurato da The Museum of Modern Art con il supporto di The Film Foundation.

Viste le numerose richieste, la Festa del Cinema ha organizzato un secondo appuntamento con Martin Scorsese, che incontrerà il pubblico prima della proiezione di San Michele aveva un gallo (mercoledì 24 ottobre ore 16 Sala Petrassi).

Aquaman: Vulko a cavallo di uno squalo corazzato – foto

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Aquaman: Vulko a cavallo di uno squalo corazzato – foto

Dopo il trailer esteso e il primo spot, cominciano a circolare anche altri elementi relativi ad Aquaman, il film di James Wan che vedrà Jason Momoa tornare a interpretare Arthur Curry, dopo il suo debutto ufficiale in Justice League.

Tra il nuovo materiale circolato nelle ultime ore, dobbiamo a James Wan in persona la diffusione di due nuove immagini di Vulko, interpretato da Willem Dafoe, a cavallo di squali corazzati, così come ci avevano suggerito i primi concept dal film. Il regista ha infatti condiviso su Twitter le immagini. La maggior parte dell’esercito atlantideo di Orm cavalcherà squali bianchi, in Aquaman, mentre l’esercito di Nereo sarà a cavallo di draghi di mare (una specie di cavallucci marini). Tuttavia, come si vede dalle foto, Vulko cavalcherà uno squalo-martello gigante corazzato. Nella seconda immagine, invece, vediamo Orm cavalcare un tylosaur, una variazione fantastica del tylosauro, una specie di incrocio tra squalo e coccodrillo. La creatura è stata vista la prima volta nel trailer, nella scena in cui si mostra il massiccio scontro sottomarino.

Ecco le immagini di seguito:

Inoltre, grazie a Screen Rant, possiamo osservare alcuni giocattoli. Dalle immagini vediamo Momoa nel suo costume “fumettisticamente accurato” con il tridente. E mentre questo è stato già visto alla fine del trailer del film, l’armatura gialla di Orm è un inedito. La prima confezione comprende anche Re Brine. Il secondo set di giochi, invece, comprende sempre  Aquaman, Orm (questa volta nel costume viola), Black Manta e il generale Murk.

Anche se questi giochi appartengono alla linea ufficiale del film, questo non significa necessariamente che tutti questi design di costumi saranno presenti nel film. È già capitato in passato che i giochi presentassero delle action figure che non si sono viste poi nel film, come il Lex Luthor corazzato delle action figure di Batman v Superman: Dawn of Justice.

Ecco di seguito le immagini:

Aquaman: il secondo trailer dal New York Comic Con!

Il film è stato diretto da James Wan (Insidious, L’evocazione The Conjuring, Fast and Furious 7) e vede protagonista Jason Momoa. Con lui ci sarà Amber Heard nei panni di Mera, Yahya Abdul-Mateen II, Patrick Wilson, Dolph Lundgren, Ludi Lin e  Willem Dafoe. Il cinecomic arriverà al cinema il 21 Dicembre 2018.

Aquaman è il re dei Sette Mari. Questo sovrano riluttante di Atlantide, bloccato tra il mondo della superficie, costantemente violento contro la vita nel mare e gli Atlantidei che sono in procinto di rivoltarsi, deve occuparsi di proteggere il mondo intero.

Se la strada potesse parlare: recensione del film di Barry Jenkins #RomaFF13

Tutto il cinema di Barry Jenkins si lascia guidare dai colori più che dalle parole, quindi dall’immaginario di piccoli gesti che scaturiscono al solo guardarli. Il grigio, in Medicine for Melanchony, descriveva l’incertezza di un rapporto nato per caso dopo una one night stand; il blu, in Moonlight, comunicava l’inquietudine nella vita di un giovane omosessuale cresciuto nei sobborghi di Miami; il giallo, nell’ultimo e bellissimo If Beale Street Could Talk (tratto dal romanzo di James Baldwin), trasmette un forte senso di speranza riscaldato dal calore di un abbraccio.

Quello che fisicamente e idealmente Jenkins traduce con un movimento di macchina sempre più dolce, protettivo, spesso doloroso ma non per questo insopportabile. Esasperando il lato emotivo della realtà rispetto a ciò che percepiamo come oggettivo, prediligendo il valore espressivo dei sentimenti, dei piccoli gesti, del modo in cui una tonalità interviene sulla scena. E nel caso di Beale Street, dove ancora una volta l’elemento estetico prevale su tutto il resto (senza trascurare il cuore, l’anima della storia), il giallo racchiude tra l’inizio e la fine il senso del film: un’ostinata ricerca di bellezza nel brutto, nella povertà, nell’ingiustizia, che timidamente si insinua come fa la luce del sole attraverso i vetri. Li trapassa ma non li infrange. 

Jenkins è l’unico dei cineasti neri contemporanei capace di prestare il fianco ad una riflessione politica sullo stato della comunità afroamericana, passata e presente, senza i pugni chiusi e il muso duro della denuncia sociale alla Spike Lee. Le immagini invece si nutrono di un romanticismo dimenticato, fatto di passeggiate sotto la pioggia tra i rifiuti di Harlem, di notti d’amore in uno scantinato, di sguardi innocenti e sogni di un futuro felice, vibrano come corde di violino, si tramandano come memorie condivise e universali.

In If Beale Street Could Talk ogni cosa fluisce e ogni cosa si sovrappone con grande eleganza, confermando che il regista premio Oscar non è soltanto il più vivo rappresentante di un nuovo storytelling, radicato nella cultura black e al tempo stesso rivolto all’esterno (dalle parti dell’espressionismo europeo), ma testimone lampante di quel processo di apertura e contaminazione che dovrebbe e potrebbe salvarci dall’ignoranza e dall’incapacità di immedesimarci negli altri.

Se la strada potesse parlare, il trailer

Fahrenheit 11/9: recensione del film di Michael Moore #RomaFF13

Fahrenheit 11/9: recensione del film di Michael Moore #RomaFF13

Nel 2004 il regista Michael Moore vince la Palma d’Oro al Festival di Cannes con il documentario Fahrenheit 9/11, controversa opera incentrata sui presunti legami tra il presidente Bush con l’attacco terroristico dell’11 settembre. A quattordici anni di distanza, Moore presenta alla Festa del Cinema di Roma il suo nuovo film, intitolato Fahrenheit 11/9, e incentrato sulle cause che portarono all’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti il 9 novembre 2016.

Il richiamo al film che ha reso celebre Moore nel mondo è evidente. Questo nuovo film sembra essere un vero e proprio sequel, o quantomeno la documentata involuzione del mondo post 11 settembre. Le conseguenze di quel terribile evento, che ha cambiato la storia per sempre, si manifestano qui in tutta la loro pericolosità.

Provocatorio e sarcastico come sempre, il regista apre il film ripercorrendo con materiale di repertorio quella che da tutti era considerata la sicura vittoria di Hillary Clinton per la presidenza. Feste, concerti, persone entusiaste o con lacrime di gioia. Tutti a festeggiare qualcosa che era stato dato per certo dai media, ma che nella concretezza dei fatti doveva ancora essere ufficializzato.

Con lo scorrere delle immagini davanti ai nostri occhi, Moore costruisce un’atmosfera sempre più festosa. Ci si rende presto conto, e con profonda tristezza, che in realtà ci sta dando un primo, sonoro, schiaffo. Impossibile non riconoscersi in quanti festeggiavano prima del dovuto, dando per certa l’impossibilità di vincere di Donald Trump. Difficile non provare rabbia, ma soprattutto delusione e tristezza, davanti alle immagini che Moore riunisce. Egli costruisce una narrazione che rapidamente porta lo spettatore a confrontarsi con una delle più pericolose crisi della nostra contemporaneità.

#RomaFF13, Michael Moore: “Sono molto preoccupato per la situazione del cinema oggi”

Fahrenheit 11/9 è senza dubbio un film sull’ascesa di Donald Trump. Egli è il protagonista assoluto del documentario, ma è un protagonista che rimane sullo sfondo. Perché Moore decide di concentrarsi non tanto direttamente su di lui, quanto su ciò che ha portato alla sua affermazione. Ha così inizio un lungo viaggio tra gli orrori degli dell’acqua avvelenata della cittadina di Flint, Michigan, i devastanti tagli all’istruzione, dalle colpe della stampa al silenzio politico riguardo le continue sparatorie nelle scuole, per arrivare agli errori dell’amministrazione di Obama e del Partito Democratico.

Moore non si schiera, attacca tutti come solo lui sa fare, con le prove dei fatti in una mano e la voce del popolo nell’altra. Questo suo nuovo documentario è un’opera dalle numerose sfaccettature, in grado di far ridere, arrabbiare, piangere e infine di lasciare un profondo senso di paura e smarrimento nell’animo e nella mente dello spettatore. Il risultato finale sembra essere che da quel fatidico 11 settembre, l’umanità abbia venduto la propria libertà in cambio della sicurezza. Una sicurezza fittizia, da cui Moore ci mette in guardia.

A riguardo il regista decide di togliere ogni dubbio, con una sequenza di immagini decisamente esplicative. Mentre scorrono foto e video di repertorio dell’avvento dei regimi dittatoriali nel primo Novecento, udiamo parole che commentano il recente affermarsi delle politiche neofasciste e neonaziste. Audio e video, pur provenienti da epoche diverse, si sposano perfettamente in un monito in grado di far gelare il sangue.

Kursk: recensione del film di Thomas Vinterberg #RomaFF13

Kursk: recensione del film di Thomas Vinterberg #RomaFF13

Il regista danese Thomas Vinterberg, celebre per film come Festen e Il sospetto, porta alla Festa del Cinema di Roma il suo nuovo film, Kursk, tratto dal romanzo A Time to Die di Robert Moore e basato sul reale incidente del sottomarino K-141 Kursk. Il film si avvale di un cast di attori europeo tra cui spiccano Matthias Schoenaerts, Colin Firth e Léa Seydoux.

Nel film Kursk il 12 agosto 2000 un sottomarino della Flotta del Nord della Marina Militare Russa subisce una serie di esplosioni interne, che lo fecero precipitare sul fondo delle acque artiche. Solo 23 dei 118 marinai a bordo sopravvissero. Nei nove giorni seguenti, i marinai lottarono per la sopravvivenza, mentre le operazioni di soccorso procedevano a rilento e i familiari si battevano contro gli ostacoli burocratici.

Come dichiarato da Vinterberg stesso, questo non vuole essere un film di denuncia, ma un’opera che pone al centro di tutto il concetto di umanità. Il regista inizia infatti con il presentarci il contesto famigliare dei marinai protagonisti, esaltandone i piccoli momenti che lo rendono tanto importante. Una volta svelata l’umanità privata dei protagonisti, possiamo dunque entrare nel freddo sottomarino, che diventa ancor più luogo claustrofobico al momento dell’incidente.

A partire dall’ottima sceneggiatura di Robert Rodat, già autore di Salvate il soldato Ryan, Vinterberg costruisce tre piani narrativi, intrecciati tra loro. Abbiamo il punto di vista dei marinai intrappolati in fondo al mare, quello delle loro famiglie che tentano disperatamente di sapere cosa stia accadendo, e quello politico, che vede la Russia più impegnata a non fare una brutta figura a livello internazionale piuttosto che salvare i propri marinai accettando aiuti esteri.

Così facendo, il regista ci offre una panoramica completa della storia, portandoci ora ad essere in apprensione per gli intrappolati, ora in profonda frustrazione per chi non riesce ad ottenere la verità. Si arriva dunque al film di denuncia, certo, ma il regista non si abbandona a del facile moralismo o sentimentalismo, intento invece a dare una lucida fotografia della situazione. Il suo interesse maggiore, e questo sarà sempre chiaro durante la visione del film, è incentrato sulla ricerca delle motivazioni che muovono i suoi personaggi. E questa ricerca dell’interiorità è certamente l’aspetto più coinvolgente del film, che si muove a partire dallo sguardo innocente dei bambini.

Allo stesso tempo Kursk non lascia fuori la componente di intrattenimento cinematografico, che al contrario è molto forte. Il film riesce così a reggersi in equilibrio tra spettacolarità visiva e impegno, toccando temi cari al regista danese. Dal nucleo famigliare, al disperato tentativo di sopravvivenza. Dalla lotta del singolo contro un potere più grande, alla paura della morte e della fine. Temi che si intrecciano tra loro per costruire una riflessione più ampia sull’importanza dell’umanità.

Certamente un film lontano dall’estetica del movimento Dogma 95, ideato da Vinterberg e Lars Von Trier negli anni novanta, ma non per questo meno importante per la filmografia del regista. Al contrario, Kursk afferma le doti registiche di Vinterberg anche su registri più spettacolari, senza perdere la propria impronta autoriale.

Kursk, il trailer

#RomaFF13, a Isabelle Huppert il Premio alla Carriera: “Non ho nulla in comune con i miei personaggi”

Nel terzo giorno della Festa del Cinema di Roma, il pubblico ha avuto la possibilità di partecipare ad un interessante Incontro Ravvicinato con l’attrice Isabelle Huppert.

Parigina, ha recitato in oltre 100 film, in modo versatile e mettendosi sempre alla prova, lavorando con i più grandi registi, da Jean-Luc Godard, Cimino, Haneke, i fratelli Taviani e Olivier Assayas, tra gli altri.

Tra le più premiate al mondo, l’attrice francese è stata accolta da Antonio Monda e Richard Pena per aggiungere un altro traguardo al suo lunghissimo curriculum: il Premio alla Carriera, che le è stato consegnato da Toni Servillo.

Bellissima, con un lungo abito avorio di Giorgio Armani, la Huppert è salita sul palco per parlare delle sue più grandi interpretazioni in una piacevole e informale chiacchierata, sorprendendo tutti rispondendo alla prima domanda in un quasi perfetto italiano, poi virando sull’inglese e poi arrendendosi al suo elegantissimo francese.

Quanto è importante per lei aver lavorato in teatro?

Per me non c’è una divisione tra cinema e teatro. L’attrice è sempre la stessa, sia sul palcoscenico che sullo schermo. A teatro spesso ci si imbatte di più in personaggi più conosciuti nella memoria collettiva, come i grandi classici, mentre il cinema ti offre ruoli più inediti e grazie alle persone con cui ho lavorato ho potuto fare entrambi, partendo dalla mia formazione teatrale. Lo spettatore teatrale è molto cambiato. Il teatro è sempre più vicino al cinema, si usano anche spezzoni video e la domanda di Monda quindi è molto pertinente, perché penso che la frontiera tra cinema e teatro stia un po’ scomparendo dal punto di vista estetico.

#RomaFF13: Michael Moore e Isabelle Huppert sul red carpet

Sono state scelte sei clip per rappresentare la carriera di Isabelle Huppert, partendo dal premiatissimo Elle, film di Paul Verhoeven del 2016.

Quanto è cambiato il personaggio nel corso delle riprese, anche con l’aiuto del regista?

Abbiamo avuto molte conversazioni con Paul, ma c’erano delle scene che potevano fare un po’ paura o che erano più provate, ma devo dire di no: si tratta di film che sfuggono alla psicologia in maniera generale e ancora di più ad una psicologia di tipo classico… Quindi o le si capisce dall’interno o non si riesce a spiegarle, non si può dire ‘Forse facciamo così’ o ‘Forse è meglio così’. In realtà non ci siamo detti quasi nulla: ci salutavamo la mattina, quello certamente, ma abbiamo parlato veramente pochissimo, non abbiamo mai fatto effettivamente una conversazione sul film. Io ho la mia teoria: credo che la messa in scena sia una risposta a tutte le domande che ci si può porre ed è la regia che risponde, dipende dalla distanza della macchina da presa, dipende dall’inquadratura, se è solo il volto o il corpo. 

È questo che risponde alle domande che possiamo farci: il cinema è questo, non è soltanto una questione di sentimenti o il percorso di un personaggio. È l’insieme di elementi che raccontano un personaggio e quindi improvvisamente lo spettatore riesce a vedere tutto quello che racconta il mio personaggio, che però viene ‘agito’ dagli altri ed è qualcosa che accade nel momento. Ed un’altra cosa che ho constatato con Paul è l’arte del movimento e lui è un maestro in questo: è impossibile da spiegare, la macchina da presa si muove insieme all’attore e mentre dico questo penso ad una citazione di Rossellini che al primo film con Ingrid Bergman un po’ spaventata dal suo modo di lavorare, pare le abbia detto ‘Muoviti affinché io riprenda ciò che c’è intorno a te’ e trovo sia una bellissima definizione del rapporto tra l’attore e il film.

La seconda clip è stata tratta da “La pianista”, film di Michael Haneke del 2001 e successivamente il film di Marco Bellocchio del 2012, “Bella Addormentata”.

Preferisce un regista che lascia spazio all’interpretazione o si attiene alla sceneggiatura?

Il mio grande amico Bob Wilson dice “Acting is improvisation”: nella mente della gente l’improvvisazione fa pensare ad un qualcosa inventato su due piedi, ma anche se si recita un testo imparato, è sempre improvvisazione. L’improvvisazione è molto difficile da gestire e il regista con cui l’ho fatto in modo più significativo è Maurice Pialat in ‘Loulou’: ci sono nel film scene totalmente improvvisate, non erano proprio state scritte e poi invece c’erano anche scene molto scritte. Mi fa piacere abbiate scelto questa scena del film di Haneke perché l’abbiamo girata 48 volte! Sì perché nel libro era descritto molto bene il mio personaggio e il tipo di espressione che doveva avere in questa scena, un po’ animalesca e Haneke cercava in me proprio quell’espressione.

Quanto è importante per te relazionarti o essere vicina al personaggio che interpreti?

In realtà non ho nulla a che vedere con questi personaggi, non mi sono per nulla vicini. E’ come se incontrassi una sconosciuta per strada e poi improvvisamente divento lei: un po’ il paradosso dell’attore, è lontano ma è vicino contemporaneamente. Ma la prossimità non significa che devo amarle: nasce dell’empatia e la volontà di riconoscerle e capirle.

Il passaggio dalla pellicola al digitale ha influito sul suo modo di recitare?

Certo si possono fare tantissime inquadrature, ma a me non cambia molto sul piano del lavoro. È un cambiamento che interessa di più i registi. Forse si, cambia un po’ perché ci facciamo meno domande però non ho l’impressione che il regista prenda questa possibilità per cambiare modo di girare.

Per rappresentare la grandissima collaborazione con Claude Chabrol, è stata mandata una clip dal film “Il buio nella mente”, dove Isabelle Huppert interpreta un personaggio molto particolare e che ha segnato la sua carriera.

Cosa le è piaciuto maggiormente di questo personaggio?

La scena che avete mostrato, dove Jeanne e Sophie sparano a tutta la famiglia, è straordinaria. Una scena sconvolgente: quando il film è uscito si è detto che era un film marxista, sulla lotta di classe, però trovo che Chabrol sia geniale in questa scena. La bellezza, qualcosa di selvaggio al contempo… C’è tutto. Quando mi ha chiesto di scegliere tra i due personaggi sapeva benissimo quale avrei scelto perchè si vedeva che il personaggio che poi andò a Sandrine Bonnaire parlava di più,mentre il mio personaggio era molto buffo e al contempo terrificante, in lei troviamo tutto l’orrore.

Le ultime due clip presentate sono state tratte dal film “La Truite” di Joseph Losey e infine “I cancelli del cielo”, opera del 1980 di Michael Cimino.

C’è qualche ruolo che ha rifiutato e poi se ne è pentita?

Sì c’è un ruolo, sempre un film di Haneke, “Funny Games”, che poi ha fatto Susanne Lothar, che purtroppo non è più con noi ed era un’attrice straordinaria. Mi piaceva dire che con HAneke avevamo iniziato ‘Non facendo un film insieme’: prima mi aveva proposto Funny Games, poi Time of the wolfs e non abbiamo potuto farlo e poi finalmente abbiamo fatto insieme La Pianista. Di Funny Games avevo letto la sceneggiatura e non posso dire di aver rimpianto quel ruolo, perchè non c’era nulla che facesse appello al mio immaginario, invece poi Susanne Lothar e suo marito sono stati straordinari. Era un film molto significativo, ma non l’ho rimpianto.

Come è stato lavorare con Michael Cimino?

È stata un’avventura incredibile. Già se sento la musica mi ritornano le lacrime agli occhi e rivedere questa scena mi emoziona. Michael ormai non c’è più da 4 anni ma tutta la sua vita è stata segnata da questo film: il fallimento di questo film non lo ha mai superato e che lo ha un po’ trasformato alla fine della sua vita, in un personaggio completamente distaccato da tutto. Io credo che sia stato un regista geniale ma talmente iconoclasta e particolare che c’è stato qualcosa che forse non ha resistito ad un certo classicismo Hollywoodiano. Anche se ha fatto film notevolissimi dopo, credo non si sia mai ripreso da questo fallimento e io quando rivedo il film ne rimango sconvolta perché è un film anche molto concettuale. Con tutti questi movimenti concentrici che raccontano la vita che gira un po’ in tondo, un film da una regia straordinaria e la macchina da presa vagava un po’ ovunque. Infatti Michael diceva che questo film andava preso come se fosse stato un sogno. Il film è estremamente personale, singolare ma anche politico, contro il mito dell’America e forse è stato questo il problema.

#RomaFF13: Go Home – A Casa Loro, recensione del film di Luna Gualano

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Nasce da una riflessione estemporanea, da una scintilla, il fuoco che ha portato Luna Gualano a realizzare Go Home – A Casa Loro, lo zombie movie presentato ad Alice nella Città durante al tredicesima Festa del Cinema di Roma. La regista ha infatti spiegato che l’idea è partita mentre discuteva con il suo compagno, il produttore musicale Emiliano Rubbi (autore della sceneggiatura) dell’omicidio a Fermo del migrante nigeriano, ucciso in seguito ai suoi tentativi di difendere la sua compagna, insultata.

“Questa rabbia, questo odio sembra quasi il tema del contagio dei film di zombie, dovremmo fare un film su questo” avrebbe detto Rubbi, e così è nata la storia di Go Home: un’epidemia zombie si diffonde durante uno scontro tra estremisti di destra e i responsabili di un centro di accoglienza.

Il film, dal budget bassissimo (stimato intorno ai 35mila euro), è la traduzione di questa riflessione: la rabbia e l’odio, concetti universali, sembrano pervadere sempre più a fondo la nostra società, dalle istituzioni alla quotidianità, e questi sentimenti forti generano l’infezione e quindi l’epidemia. Il racconto è elementare e riesce con questa semplicità a mettere in evidenza due punti interessantissimi. Il primo riguarda appunto lo stimolo che ha generato il film intero, il concetto di rabbia come malattia che corrompe e deforma i corpi e le menti delle persone, che siano essi estremisti di destra, migranti o chi cerca semplicemente di aiutare.

go home poster
Il poster firmato da Zerocalcare.

A questa riflessione si collega direttamente un ritorno dell’horror e in particolare dello zombie movie alla metafora politica, intenzione confermata dallo stesso sceneggiatore che chiama in causa George Romero, che con il suo Zombi ha trasformato il genere in un atto d’accusa verso il capitalismo. Lo zombi, in quanto creatura fantastica, si presta benissimo a questo tipo di utilizzo, diventando di volta in volta metafora di tante cose, a seconda del la lettura che si dà alla creatura stessa.

Dopo tanto cinema e tante televisione che hanno riportato in auge lo zombie, proponendolo in termini più leggeri ed edulcorati rispetto a quelli “politici” che Romero aveva raccontato nel 1978, la Gualano sceglie di tornare all’origine. Il suo approccio è sicuramente schierato dalla parte di chi accoglie i migranti, tuttavia riesce a rimanere imparziale nella rappresentazione dell’odio e della rabbia, che serpeggiano da entrambi i lati della barricata. Nessuno è immune e nessuno viene risparmiato.

Go Home – A Casa Loro è una fotografia impietosa e senza speranza, scattata attraverso la lente del genere fantastico, che attribuisce di nuovo al genere il suo valore sociale e politico.

Il progetto ha incontrato da subito il sostegno di tanti personaggi pubblici che hanno partecipato alla produzione, da Piotta, il Muro del piantoTrain to Roots , fino al fumettista Zerocalcare, che ha disegnato il poster.

Beautiful Boy: recensione del film con Steve Carell

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Beautiful Boy: recensione del film con Steve Carell

Arriva alla Festa del Cinema di Roma 2018, dopo essere stato annunciato in pompa magna sin dall’inizio delle riprese, Beautiful Boy, il film diretto da Felix Van Groeningen e basato su due libri di memorie, quello di David Sheff (padre) e quello di Nic Sheff (figlio). Entrambi i volumi parlano dell’adolescenza turbolenta di Nic, preda della dipendenza da alcol e da ogni tipo di droga. Van Groeningen si avvale di Steve Carell e Timothée Chalamet per dare il volto ai suoi protagonisti, portando sullo schermo una storia unica, che abbraccia i due punti di vista, e che, nella sua semplice tragicità, è la storia di un padre che vuole a tutti i costi salvare suo figlio, ma che si scopre di volta in volta impotente di fronte al mostro della dipendenza, che attanaglia il ragazzo.

In Beautiful Boy David è un giornalista freelance di grande successo, con un figlio nato dal suo primo matrimonio, Nic, appena diciottenne. Vive a San Francisco, in una casa di legno, un ambiente stimolante pieno di libri e quadri, dipinti dalla sua nuova moglie, dalla quale ha avuto altri due bambini, entrambi devotissimi (e ricambiati) al fratellastro maggiore. Nic, giovane di belle speranza, brillante, interessato alla lettura, alla scrittura e al disegno, inciampa nell’abuso di droghe. Appena il padre scopre il vizio del figlio, cerca in tutti i modi di aiutarlo, dando origine ad un lungo circolo vizioso, in cui ogni volta sembra che il ragazzo possa davvero allontanarsi dal baratro aperto sotto i suoi piedi, ricade, per rabbia, noia o debolezza.

Certamente non estraneo alle storie dolorose (si pensi ad Alabama Monroe – Una storia d’amore), Felix Van Groeningen sceglie di raccontare tutto il percorso di Nic e David, dalla prima rehab all’ultima disperata richiesta d’aiuto del figlio al padre. Un’altalena dolorosa che determinano un ritmo ripetitivo che mina la capacità del film di entrare in connessione con lo spettatore. Una scelta poco mirata che si causa il mancato “aggancio emotivo” con il pubblico, nonostante l’utilizzo di una musica invadente che arriva puntualmente a sottolineare, come una fastidiosa tautologia sonora, lo stato d’animo che la scena di volta in volta dovrebbe generare nello spettatore.

Beautiful Boy castDi fronte alla poca incisività del film si stagliano però i due protagonisti, straordinari. Da una parte c’è l’ormai consolidato Steve Carell, che offre una performance tutta in sottrazione, ritraendo con intensità un padre addolorato e spaventato, un uomo vittima anche di un senso di impotenza devastante di fronte alla possibilità, ogni volta più concreta, di veder morire il figlio. Di fronte a lui, spalle sempre più forti e talento brillante, c’è quel Timothée Chalamet che ha fatto battere il cuore di tutti gli spettatori nella scorsa stagione cinematografica in Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino. Sembra chiaro che questo film, o almeno queste performance, sono già con il collo allungato a guardare in avanti, verso la stagione dei premi.

Nella sua natura più elementare, Beautiful Boy è la storia di un padre che cerca in tutti i modi di aiutare il figlio, scoprendosi ogni volta impotente di fronte alla sua dipendenza. Un racconto che vorrebbe e potrebbe far leva su sentimenti comuni (il desiderio di un padre di proteggere sempre il proprio figlio), ma che per non rinunciare a raccontare tutti i fatti, fallisce nel raccontare le emozioni.

Beautiful Boy, il trailer

#RomaFF13, Barry Jenkins: “Il mio cinema celebra la bellezza della vita”

La vita di Barry Jenkins, regista cresciuto nel quartiere di Liberty City a Miami, è totalmente cambiata dopo l’Oscar vinto con Moonlight nel 2017 (ricordate la gaffe dei presentatori che pronunciarono per errore il nome di La La Land?). “Solo un po’, ma perché adesso – al contrario di qualche anno fa – la gente inizia a rispondere alle mie mail. Oggi la sfida è saper dire di no e rifiutare le proposte con saggezza“, racconta Jankins sorridente durante la conferenza stampa di If Beale Street Could Talk, terzo lavoro presentato alla Festa del Cinema di Roma dopo il passaggio a Toronto.

Il film traduce sul grande schermo il romanzo omonimo di James Baldwin, ambientato negli anni settanta nel quartiere di Harlem, a Manhattan, dove la diciannovenne Tish e il fidanzato Alonzo, detto Fonny, sognano un futuro insieme. Ma quando il ragazzo viene arrestato per un crimine che non ha commesso, Tish, che ha da poco scoperto di essere incinta, fa di tutto per scagionarlo, con il sostegno incondizionato di parenti e genitori.

If Beale Street Could Talk

Sono un fan di Baldwin fin dai tempi del college, dove fu una ragazza con cui stavo e che mi mollò a suggerirmi di leggere questo libro. Amo il suo modo di scrivere e l’espressione della sensualità attraverso una voce che riesce a combinare amore, passione e critica del sistema giudiziario e sociale nei confronti dei neri in America“, spiega Jenkins soffermandosi sul processo di adattamento cinematografico: “Come sceneggiatore e regista cerco sempre di restare fedele allo spirito del romanzo, m anche di riflettere nel film il mondo in cui sono cresciuto e tutto ciò che ho imparato semplicemente guardando gli altri e i piccoli gesti che compievano. Ciò che mi interessa è proprio questo, restituire i dettagli delle relazioni, che è quello che ci unisce come persone“.

If Beale Street Could Talk: il trailer del nuovo film di Barry Jenkins

Del libro di Baldwin, pubblicato nel 1979, il regista dice di aver conservato “la stessa idea di amore che aiuta a supera ogni difficoltà, anche nella situazioni difficili in cui si sono ritrovati gli afroamericani durante tutto il corso della storia a causa di fondamenta sbagliate. Perché nonostante il dolore e la sofferenza c’è ancora gioia, e con il cinema voglio ancora celebrare la bellezza della vita. E la bellezza per me è come un ricordo, non realistico, ma quasi evanescente, che appartiene ad un’altra realtà espressionista e romantica“.

Sulle differenze tra la protagonista di If Beale Street Could Talk e il personaggio principale di Moonlight, Barry Jenkins spiega che “non c’è somiglianza fra i due. Chiron era un ragazzo molto distante dal pubblico con cui era difficile relazionarsi perché stava fuggendo da se stesso; Tish invece rappresenta  qualcuno che vorresti proteggere, come fa la sua famiglia e come ho cercato di fare io come regista. Volevo che ogni scena fosse un abbraccio verso di lei.

If Beale Street Could Talk arriverà nelle nostre sale il prossimo 14 febbraio 2019 distribuito da Lucky Red.

#RomaFF13: Michael Moore e Isabelle Huppert sul red carpet

#RomaFF13: Michael Moore e Isabelle Huppert sul red carpet

Giornata ricca di ospiti internazionali e italiani, quella di sabato 20 ottobre alla Festa del Cinema di Roma 2018. Protagonista di un incontro ravvicinato con il pubblico è stata Isabelle Huppert, premiata da Toni Servillo con il riconoscimento alla Carriera. Con lei ha sfilato sul tappeto rosso dell’Auditorium anche Fabio Rovazzi, che, notizia di poche ore fa, presterà la voce a un personaggio secondario di Ralph Spacca Internet, della Pixar. Infine, la parata si è conclusa con il documentarista premio Oscar Michael Moore, che ha presentato alla Festa Fahrenheit 11/9, il suo ultimo film sulle elezioni presidenziali negli Stati Uniti che hanno visto trionfare Donald Trump.

Ecco le foto di Aurora Leone:

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