Il popolare spin-off
The Walking Dead: Daryl Dixon, ha cambiato location
per la sua
terza stagione, e il produttore senior di The Walking
Dead Greg Nicotero ha spiegato il perché. Alla fine della
seconda stagione di Daryl Dixon, il personaggio principale,
insieme a Carol, abbandona la Francia e decide di trasferirsi a
Londra.
Daryl Dixon è il quinto
spin-off di The Walking Dead. La terza stagione della serie
debutterà il 7 settembre 2025 su AMC e sarà disponibile anche in
streaming su AMC+. Daryl Dixon vede Norman Reedus nel ruolo del
protagonista, affiancato da Melissa McBride, che
faceva parte del cast principale di The Walking
Dead.
Nella terza stagione dello spin-off
di The Walking Dead, Daryl e Carol finiscono a Londra, ma
l’ambientazione principale della stagione è la Spagna. In
un’intervista con Owen Danoff di ScreenRant, Nicotero ha
rivelato che l’idea per Daryl Dixon è quella di ambientarlo
in un paese diverso ogni stagione. Questo per garantire che la
serie abbia una sua identità. Ecco i commenti di Nicotero:
ScreenRant: “Come mai avete scelto la Spagna?
C’era qualche altro paese in lizza, o avete mai pensato di rimanere
a Londra? Perché anche il primo episodio è davvero accattivante dal
punto di vista visivo”.
Greg Nicotero: “Beh, credo che fosse circa a
metà della prima stagione, quando eravamo in Francia, che è nata
l’idea di rendere Daryl più mobile. Ricordo di aver pensato: ‘Wow,
è un’idea fantastica; ogni stagione [potrebbe] essere ambientata in
un paese diverso e potremmo davvero spargere le nostre ali in tutta
Europa’. Abbiamo trascorso 15 anni della serie ad Alexandria e in
Georgia, e poter vedere come sarebbe stato il reset una volta che
l’apocalisse zombie fosse scoppiata in Francia o in Spagna. Penso
che a un certo punto abbiamo parlato della possibilità di
ambientare un’intera stagione a Londra. So che a un certo punto è
stata presa in considerazione l’Irlanda, e penso che l’idea fosse:
“Beh, lì è davvero verde”, e non volevamo che fosse troppo simile a
The Walking Dead in Georgia, dove il verde era ovunque. Quindi
abbiamo deciso consapevolmente di esplorare luoghi che ritenevamo
avessero molto materiale [e] cultura da sfruttare, e stiamo
parlando di migliaia di anni di cultura, il che era davvero
emozionante per noi”.
Cosa significa questo per
Daryl Dixon
Le prime due stagioni di Daryl
Dixon si sono svolte in Francia. Tuttavia, Nicotero lascia
intendere nella sua intervista che nessuna stagione si svolgerà
nuovamente nella stessa location della precedente. Sembra che la
serie stia diventando una sorta di antologia, ma con solo la
location che cambia invece della trama generale.
Gli attori spagnoli Eduardo
Noriega, Óscar Jaenada, Alexandra Masangkay, Hugo Arbués e Candela
Saitta si sono uniti al cast principale della terza stagione di
Daryl Dixon. Questo fa sperare che la stagione descriverà
accuratamente la cultura spagnola. La stagione potrebbe anche
rivisitare alcuni vecchi punti della trama di Walking Dead.
Nella terza stagione, il pubblico
avrà una visione più chiara e approfondita del mondo
post-apocalittico in cui si svolge Daryl Dixon. Ad esempio, nel
primo episodio, Daryl e Carol fanno una breve sosta in Inghilterra,
come avevano discusso nella seconda stagione, e la trovano
completamente desolata e priva di vita. Man mano che la stagione
prosegue, la devastazione causata dall’epidemia nel mondo sarà
probabilmente esplorata ancora più a fondo.
Romana Maggiora Vergano è una delle voci emergenti
più interessanti del cinema italiano. Nata a Roma nel 1997 e
formata alla prestigiosa Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria
Volonté, ha conquistato il pubblico grazie a ruoli intensi in film
e serie di alto profilo. Dopo il successo di C’è ancora domani, in cui interpretava
Marcella, e la sua intensa prova in Il tempo che ci vuole (per cui ha ottenuto un Nastro
d’argento come migliore attrice protagonista), è oggi nel cast
dell’horror La valle dei sorrisi, presentato a
Venezia 82 e in uscita il 17 settembre. Una carriera in rapida
ascesa, sia sul fronte nazionale che internazionale.
Andiamo ad approfondire le 10 curiosità più interessanti sulla sua
vita e carriera:
1.
Romana Maggiora Vergano: film e serie tv
Romana Maggiora Vergano è una delle giovani attrici italiane più
promettenti. Dopo i primi ruoli in teatro e sul piccolo schermo, si
è fatta notare in diverse serie tv italiane e internazionali, oltre che al
cinema, dove ha lavorato in film drammatici e commedie. Ha
debuttato in televisione in serie come Immaturi – La serie (2018), Don Matteo e Liberi tutti, per poi passare al cinema con
Il campione (2019). È
tornata sul piccolo schermo con Il silenzio dell’acqua e Fedeltà, ampliando la sua esperienza con progetti sempre
più diversi.
Il
successo di pubblico è arrivato nel 2023 con C’è ancora domani di
Paola Cortellesi, dove ha interpretato Marcella, figlia della
protagonista. Nel 2024 ha preso parte a produzioni di respiro
internazionale come Those About to Die di Roland Emmerich e al
film americano Cabrini.
Nello stesso anno ha recitato ne Il tempo che ci vuole, performance che le è valsa un
Nastro d’argento come
miglior attrice protagonista. Nel 2025 è tra le
protagoniste de La valle dei sorrisi di
Paolo Strippoli, presentato Fuori Concorso a Venezia 82,
confermando la sua crescita artistica e il riconoscimento a livello
internazionale.
2.
L’altezza di Romana Maggiora Vergano
Molti fan cercano curiosità legate al suo aspetto fisico, tra cui
l’altezza: Romana
Maggiora Vergano è alta circa 1,68 m, un fisico slanciato che le
permette di affrontare ruoli molto diversi tra loro, dalla commedia
brillante a personaggi più intensi.
3. Romana Maggiora Vergano su Instagram
Romana è molto attiva su Instagram, dove condivide sia scatti dal set e dai
red carpet, sia momenti più spontanei e personali. Il suo profilo
ufficiale (@romanamaggioravergano) è seguito da migliaia di fan,
che apprezzano la sua autenticità e il modo in cui alterna glamour
e vita quotidiana. Instagram è anche lo spazio in cui promuove i
suoi progetti professionali, avvicinandosi a un pubblico giovane e
internazionale.
4. L’agenzia che la rappresenta
Come molte attrici della sua generazione, Romana è seguita da
un’agenzia di
management che cura la sua immagine e la sua carriera. La
collaborazione con Toplay
Agency le ha permesso di costruire un percorso coerente e
ambizioso, garantendole l’accesso a produzioni di livello sempre
più alto, sia in Italia che all’estero.
5. Le origini
Romana Maggiora Vergano è nata a Roma il 27 novembre 1997. I genitori,
entrambi ginecologi, l’hanno cresciuta a Ostia insieme al fratello
gemello. Fin da bambina ha mostrato una forte inclinazione
artistica e una curiosità verso il teatro, che l’ha spinta a
frequentare corsi di recitazione amatoriale già in età scolare. Le
sue origini romane e il contesto culturale della capitale hanno
avuto un ruolo centrale nel suo avvicinamento al mondo del
cinema.
6. Gli studi
Dopo il liceo scientifico, Romana ha intrapreso un percorso di
formazione professionale presso la Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria
Volonté, una delle più prestigiose accademie italiane. Qui
ha avuto modo di perfezionare la sua tecnica, lavorando con
insegnanti e professionisti del settore. Ha inoltre partecipato a
workshop e laboratori internazionali che le hanno permesso di
ampliare la sua visione della recitazione.
Nonostante la sua popolarità crescente, Romana mantiene un profilo
basso sulla sua vita
privata. Riservata e discreta, preferisce non condividere
dettagli intimi sui social, limitandosi a raccontare il suo lavoro
e i suoi progetti. Questa scelta le ha permesso di costruire un
rapporto di fiducia con i fan, basato più sulla sua carriera che
sulla curiosità mediatica.
8. I Riconoscimenti
Il talento di Romana è stato premiato in più occasioni. Per
l’interpretazione di Marcella in C’è ancora domani (2023) ha ottenuto una candidatura ai
David di
Donatello come miglior attrice non protagonista. Nel 2025
ha vinto il Nastro
d’argento come miglior attrice protagonista per la sua
prova in Il tempo che ci
vuole, confermandosi tra i volti più apprezzati del panorama
italiano contemporaneo.
9. Esperienza internazionale
Oltre al cinema italiano, Romana ha cominciato a farsi notare anche
all’estero. Nel 2024 ha partecipato al film americano
Cabrini e alla serie
internazionale Those About to
Die, prodotta da Roland Emmerich. Questi progetti le hanno
dato visibilità anche fuori dall’Italia, aprendo nuove prospettive
di carriera.
10. Il futuro professionale
Il 2025, con la partecipazione a La valle dei sorrisi, rappresenta una tappa importante,
ma Romana Maggiora Vergano ha già altri progetti in cantiere. Il
suo obiettivo dichiarato è quello di continuare a scegliere ruoli
complessi e sfidanti, capaci di metterla alla prova. Con la sua
determinazione e il suo talento, si candida a diventare uno dei
nomi più rilevanti del nuovo cinema italiano ed europeo.
Accanto a Michele Riondino e al giovane
Giulio Feltri, al suo debutto sullo schermo, il
cast include Paolo Pierobon, Romana Maggiora Vergano, Sergio
Romano, Anna Bellato, Sandra Toffolatti e Roberto
Citran.
Già vincitore del Premio
Franco Solinas per il Miglior Soggetto (2019), il film è
sceneggiato da Milo Tissone, Jacopo del Giudice e dallo stesso
Paolo Strippoli. Il Direttore della fotografia è Cristiano Di
Nicola, la scenografia è di Marcello Di Carlo, i costumi sono di
Susanna Mastroianni e il montaggio è a cura di Federico Palmerini.
Musiche originali di Federico Bisozzi e Davide Tomat.
La valle dei sorrisi (la
nostra recensione) è prodotto da Domenico Procacci e Laura
Paolucci per Fandango e da Ines Vasiljevic e di Stefano Sardo per
Nightswim in coproduzione con Spok, in collaborazione con Vision
Distribution, con il contributo del MIC, di Lazio International e
della FVG Film Commission – PromoTurismoFVG. La valle dei sorrisi è
una co-produzione Italia e Slovenia FANDANGO, VISION DISTRIBUTION e
NIGHTSWIM con SPOK in collaborazione con SKY.
La trama de La valle dei
sorrisi
Remis è un paesino
nascosto in una valle isolata tra le montagne. I suoi abitanti sono
tutti insolitamente felici. Sembra la destinazione perfetta per il
nuovo insegnante di educazione fisica, Sergio Rossetti
(Michele Riondino), tormentato da un passato
misterioso. Grazie all’incontro con Michela, la giovane
proprietaria della locanda del paese (Romana Maggiora
Vergano), il professore scopre che dietro questa apparente
serenità, si cela un inquietante rituale: una notte a settimana,
gli abitanti si radunano per abbracciare Matteo Corbin
(Giulio Feltri), un adolescente capace di
assorbire il dolore degli altri. Il tentativo di Sergio di salvare
il giovane risveglierà il lato più oscuro di colui che tutti
chiamano l’angelo di Remis.
Sono passati quasi due anni da
quando il vincitore dell’Oscar Edward Berger è
stato scelto per dirigere Jason Bourne 6, e ora il
regista ha parlato dello stato del progetto. Anche se non è ancora
stato confermato se il protagonista della serie Matt
Damon riprenderà il ruolo che ha interpretato per la
prima volta nel 2002, l’attore ha già espresso la sua
disponibilità a tornare.
In precedenza, si era anche
vociferato che Berger fosse stato scelto per dirigere il tanto
atteso
Ocean’s 14. Tuttavia, il regista ha successivamente
smentito tali voci. Secondo quanto riferito, il regista di
The
Fall Guy David Leitch sarebbe attualmente il favorito per
dirigere quel particolare progetto.
Recentemente, parlando con The Hollywood Reporter del suo prossimo film Netflix, Ballad of a Small Player,Berger
ha parlato sia della sua presunta partecipazione a Oceans 14
sia del suo effettivo coinvolgimento in Jason Bourne 6.
Ammettendo che i franchise possono essere originali, avrebbe
volentieri realizzato Oceans 14, ma sta ancora sviluppando il
prossimo film di Bourne. Ecco i suoi commenti:
Un franchise
può essere originale. Se avessi inventato Oceans, l’avrei fatto
senza esitare. È un franchise fantastico. Sto sviluppando un film
di Bourne e lo realizzerò se Matt vorrà farlo.
Berger ha anche aggiunto che i suoi
piani dipenderanno dalla possibilità di convincere Damon a tornare
a interpretare il ruolo e che il sequel dovrà aggiungere “qualcosa
di nuovo” al franchise. Ha anche suggerito di non essere
interessato a realizzare un film che si limiti a riproporre temi
già noti. Ecco i suoi commenti finali:
Se riusciamo
davvero a dare la sensazione di aggiungere qualcosa di nuovo ai
grandi film di Bourne già esistenti. Questo sarà necessario per
convincere Matt a farlo e per convincere me a farlo. Non desidero
altro che realizzare un film divertente, costoso e con un budget
elevato che conquisti il pubblico. Ma questi film sono anche
difficili da trovare perché non voglio realizzare qualcosa che
secondo me è già stato fatto 20 volte da altri.
Cosa significano i commenti
di Edward Berger per Jason Bourne 6
Quando Damon ha interpretato per la
prima volta il ruolo di Jason Bourne nel film del 2002 The Bourne
Identity, l’abile adattamento del romanzo di Robert Ludlum ha avuto
un grande impatto sui thriller di spionaggio. Adottando una
sensibilità molto più seria e realistica rispetto ad altri
importanti film di spionaggio, il successo dei primi capitoli della
serie avrebbe influenzato anche la lunga serie di James
Bond.
Tuttavia, quando la serie ha
giocato con la possibilità di andare oltre l’eroe titolare di Damon
e ha invece tentato di introdurre Aaron Cross, interpretato da
Jeremy Renner, nel film del 2012
The Bourne Legacy, è diventato subito evidente che la serie
faticava senza il suo coinvolgimento diretto. Pertanto, è chiaro
perché i piani di Berger per Jason Bourne 6 dipendano dal ritorno
di Damon.
Sebbene Damon abbia accennato alla
sua disponibilità a riprendere il ruolo, i commenti di Berger
suggeriscono che il progetto è ancora lontano dal ricevere il
via libera ufficiale o la conferma definitiva del suo
ritorno.
Il reboot di Highlander
con Henry Cavill ha appena acquisito un
nuovo membro del cast che lo trasformerà in una sorta di reunion di
Il gladiatore. Il primo Highlander è uscito nel
1986 ed è diventato rapidamente un punto fermo della cultura pop,
generando numerosi sequel e altri media.
Dopo molti ritardi e false
partenze, nel 2021 è stato annunciato che Henry
Cavill avrebbe interpretato il protagonista di Highlander,
Connor MacLeod, in un reboot della fortunata serie che sarà diretto
dal regista di John Wick, Chad Stahelski. Ad affiancarli ci sarà
Russell Crowe, che interpreterà il
ruolo del mentore originariamente interpretato da Sean Connery nel
classico del 1986.
Ora, The Hollywood Reporter ha rivelato che anche
Djimon Hounsou, attore caratterista
noto per Shazam!,
Guardiani della Galassia e altri
film, si è unito al cast del film. È la prima volta che Hounsou e
Crowe appariranno nello stesso film dal 2000, quando recitarono
insieme nel film epico romano Il gladiatore. Honsou
interpreterà un guerriero immortale proveniente dall’Africa.
Cosa significa questa reunion
per Highlander
La reunion di Djimon
Hounsou e Russell Crowe in Highlander è più di una
semplice curiosità: è una testimonianza della qualità del casting
del reboot. Il reboot di Highlander di Henry Cavill segue le
orme del film originale in questo senso: il primo Highlander
vedeva la partecipazione di attori amati dal pubblico come Connery,
Clancy Brown e Roxanne Heart.
Sebbene il nome di Djimon Hounsou
non sia così famoso come quello di Crowe, l’attore è apparso in
numerosi film e franchise di grande successo come Guardiani
della Galassia di James
Gunn e A Quiet Place: Day One. È interessante notare
che, con
Dave Bautista anche in Highlander, Hounsou ritroverà sul
set molti dei suoi ex colleghi.
Il Signore degli Anelli: The Hunt For
Gollum potrebbe riportare in scena alcuni dei
personaggi più amati della saga, ma Orlando Bloom ha espresso la sua
opinione sulla possibilità di un suo ritorno. Il film, la cui
uscita nelle sale è prevista per dicembre 2027, vedrà
Andy
Serkis, l’attore che ha interpretato Gollum nella
trilogia originale, assumere il ruolo di regista.
Ad agosto, Sir Ian
McKellan ha rivelato che, oltre al ritorno di Gollum,
anche i personaggi di
Frodo e Gandalf avrebbero fatto la loro comparsa. Inoltre,
circolano voci secondo cui anche Viggo Mortensen, interprete di
Aragorn, potrebbe essere coinvolto, anche se l’attore ha
recentemente mantenuto il riserbo su questo fronte.
Durante una recente apparizione al
Today Show, a Bloom è stato chiesto del nuovo film
spin-off de Il Signore degli Anelli e se potrebbe essere
coinvolto. Rivelando di non aver sentito nulla riguardo a un
potenziale ritorno nel ruolo di Legolas, ha ammesso che tutto è
ancora possibile. Ecco i suoi commenti:
In realtà
non ne so nulla. Non lo so. So che si concentrerà su Gollum, quindi
tutto è possibile.
Bloom ha anche suggerito che,
sebbene gli sia piaciuto molto interpretare quel ruolo, non gli
piacerebbe affatto se il personaggio di Legolas fosse ricoperto da
un altro attore nel nuovo film. Leggi i suoi commenti finali
qui sotto:
È un ruolo
fantastico. Sono molto grato di aver fatto parte di quei film. Ma
non ne so nulla.
Senti, non
vorrei vedere nessun altro interpretare Legolas, capisci cosa
intendo? Cosa faranno? Metteranno qualcun altro nel ruolo di
Legolas?
Cosa significano i commenti
di Orlando Bloom per The Hunt for Gollum
Mentre la maggior parte dei
commentatori ha ipotizzato che The Hunt for Gollum seguirà la
trama originale di J.R.R. Tolkien contenuta nelle appendici de Il
Signore degli Anelli, in cui Aragorn ha il compito di catturare
Gollum dopo la festa di compleanno di Bilbo ne La compagnia
dell’anello, la tempistica della storia ha sollevato molte domande
sul casting.
Dato che saranno passati 24 anni
dalla conclusione della trilogia originale Il Signore degli Anelli
di Peter Jackson quando The Hunt for Gollum uscirà, è naturale
pensare che il nuovo spin-off dovrà ricoprire i ruoli chiave con
nuovi attori o affidarsi in larga misura alla tecnologia di
ringiovanimento digitale per riportare in scena gli attori
originali.
Se Serkis decidesse di ricoprire i
ruoli chiave del franchise, Bloom non sarebbe l’unico a rimanere
deluso. Con molti fan inizialmente riluttanti ad accettare i
nuovi attori nei ruoli di Galadriel ed Elrond in Il Signore degli
Anelli: Gli Anelli del Potere di Prime Video, una mossa del genere potrebbe essere
potenzialmente dannosa per i piani della Warner Bros. di rilanciare
il franchise.
Sydney Sweeney racconta come si è procurata un
occhio nero durante le riprese di Christy. Dal suo debutto al Toronto International Film
Festival, le recensioni di Christy sono state contrastanti, anche
se Sweeney è stata elogiata per la sua interpretazione coinvolgente
della pugile professionista Christy Martin.
Molto prima dell’uscita del film,
c’era già grande fermento intorno al progetto e si ipotizzava che
questo potesse essere il miglior film di Sydney Sweeney fino ad oggi.
Nonostante un punteggio iniziale del 64% su Rotten Tomatoes, le
lodi per la performance di Sweeney fanno ben sperare per le sue
possibilità di vincere un Oscar, anche se dietro le quinte è stato
un percorso straziante.
Durante un’intervista con Variety al Toronto International Film
Festival Sweeney racconta in dettaglio come “venivo
picchiata” durante le riprese delle scene del film drammatico
sulla boxe. Ha anche raccontato che le sequenze di boxe sono state
girate “una dopo l’altra” nel corso di una sola settimana,
durante la quale ha dovuto anche allenarsi nel tempo libero.
Una scena particolarmente
estenuante, in cui ricrea l’iconico incontro tra Martin e Laila
Ali, ha provocato a Sweeney “un occhio nero pazzesco”. Ecco
alcuni suoi commenti aggiuntivi:
Mi
mettevano impacchi di ghiaccio sul viso tra una ripresa e l’altra.
Mi stavano mettendo al tappeto. Dopo mi sono ritrovata con dei
lividi piuttosto brutti. Finivo le riprese dopo 12 ore e poi andavo
ad allenarmi per altre due ore. È stata una settimana
estenuante.
Cosa significa questo per
Christy
La prova fisica che Sweeney ha
dovuto affrontare per dare vita alla storia di Christy potrebbe
aumentare le sue possibilità di ricevere una nomination all’Oscar.
Molte interpretazioni candidate all’Oscar e vincitrici dell’Oscar
sono accompagnate da racconti strazianti dietro le quinte, e
Sweeney ha questo con il suo occhio nero.
Un racconto del genere contribuirà
probabilmente a promuovere il film prima della sua uscita nelle
sale il 7 novembre e a sottolineare gli sforzi compiuti da Sweeney
per immergersi completamente in un ruolo così impegnativo dal punto
di vista fisico.
Sebbene non si possa negare
l’impegno di Sweeney in questa interpretazione, altri fattori
potrebbero ostacolare una nomination all’Oscar.
The
Conjuring – Il rito finale (The Conjuring: Last Rites)
è destinato a battere il record della serie. Il film, interpretato
da Patrick Wilson e Vera Farmiga nei panni delle versioni
romanzate dei demonologi reali Ed e Lorraine Warren, è il nono
capitolo della serie Conjuring Universe, che comprende anche
gli spin-off Annabelle e The Nun.
L’uscita di The Conjuring – Il rito
finale è avvenuta il 5 settembre, rendendolo il primo grande film
in uscita a settembre. In precedenza, ha incassato 8,5 milioni
di dollari al botteghino nazionale durante le anteprime del giovedì
sera, battendo i record per il miglior giorno di apertura della
serie e la migliore serata di anteprima per un film horror del 2025
fino ad oggi.
Secondo Deadline, sabato
mattina, The Conjuring – Il rito finale dovrebbe incassare
circa 75 milioni di dollari nel weekend di apertura di 3 giorni al
botteghino nazionale, debuttando al primo posto. Questo segnerà
il miglior weekend di apertura dell’intero franchise,
battendo il precedente detentore del record, che era The Nun
del 2018 (53,8 milioni di dollari), con un margine sostanziale.
Questo weekend di apertura prolunga
anche la serie record della Warner Bros. di weekend di apertura con
incassi superiori ai 40 milioni di dollari. Sebbene la loro serie
di sei successi consecutivi (A Minecraft Movie,
Sinners, Final Destination Bloodlines, F1 The
Movie, Superman e Weapons)
fosse già senza precedenti per una singola casa di produzione,
The Conjuring porta ora il numero a sette.
Cosa significa questo per The
Conjuring – Il rito finale
Sebbene Il rito
finale dovrebbe superare di gran lunga gli incassi del weekend
di apertura dei precedenti film di Conjuring (il precedente detentore del record
prima di
The Nun era il film originale del 2013, che ha debuttato
con 41,8 milioni di dollari), resta ancora da vedere se potrà
diventare il film di maggior incasso della serie entro la fine
della sua programmazione.
I film horror tendono ad avere un
successo immediato, con cali sostanziali del 50% o più nel secondo
weekend, quindi sarà probabilmente il secondo weekend a
determinare il successo o il fallimento di The Conjuring –
Il rito finale piuttosto che il weekend di apertura.
Ciò è confermato dal fatto che,
mentre The Nun è il film di maggior incasso della serie con
366 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, TheConjuring è solo il terzo con 316,1 milioni di dollari.
Sebbene The Conjuring 2 del 2016 abbia avuto un weekend di
apertura inferiore (40,4 milioni di dollari), alla fine è salito
al secondo posto con un incasso mondiale di 321,4 milioni di
dollari.
Un altro fattore che potrebbe
potenzialmente limitare il rendimento del nuovo capitolo è il fatto
che The Conjuring – Il rito finale ha ottenuto un
punteggio Rotten del 55%, il più basso dei quattro film di punta
della serie Conjuring. Anche il suo B CinemaScore è il più
basso dei film di punta, quindi potrebbe non generare lo stesso
livello di passaparola.
Lastar
Corey Hawkins di Odissea (The
Odyssey) ha lasciato intendere che l’adattamento
cinematografico della saga greca antica realizzato da
Christopher Nolan sarà un’opera
epica molto diversa dalle altre. Tratto dal poema epico di Omero,
uno dei testi più antichi della letteratura, il film di Nolan
seguirà le vicende di Matt
Damon nei panni di Ulisse, re di Itaca, che
intraprende un pericoloso viaggio di ritorno a casa dopo la guerra
di Troia.
Parlando con ScreenRant al Toronto International Film Festival di
quest’anno per il suo nuovo thriller, The Man in My
Basement, Hawkins ha espresso la sua opinione sull’approccio
unico di Nolan a The Odyssey.Confrontando il lavoro di
Nolan con un film indipendente con un budget molto più elevato,
Hawkins ha elogiato l’attenzione del regista ai dettagli. Ecco i
suoi commenti:
È
interessante notare che Chris Nolan è molto simile, direi, a un
regista indipendente con un budget molto diverso, ma in realtà ci
sono molte somiglianze. Solo l’efficienza con cui lavora. È un
maestro dei dettagli e non vedo l’ora che la gente veda questo
film.
Hawkins ha anche suggerito che
Odissea (The Odyssey) offrirà al pubblico un
tipo di film epico molto diverso, anche se ha avuto cura di non
rivelare alcun dettaglio. Leggete i suoi commenti finali qui
sotto:
È davvero…
Sarà epico in un modo diverso. Si impara così tanto da lui. Sto
cercando di non dire tutte le cose che non dovrei dire
[ride].
Cosa significano i commenti
di Corey Hawkins per Odissea (The Odyssey)
Con L’Odissea e L’Iliade di Omero che rappresentano i
due testi più importanti e influenti dell’antica Grecia, Nolan ha
sicuramente puntato su un progetto ambizioso. Dato che L’Odissea ha
continuato a ispirare studiosi, artisti e scrittori per migliaia di
anni, il regista avrà il compito enorme di tradurla sullo
schermo.
Tuttavia, l’elogio di Hawkins per
l’approccio cinematografico di Nolan e la sua meticolosa attenzione
ai dettagli gli saranno probabilmente utili nel dare vita a
L’Odissea. Data la quantità di temi mitologici e di eventi
leggendari citati nel testo originale di Omero e le innumerevoli
rielaborazioni che ne sono seguite, Nolan avrà bisogno di tutta
la sua notevole abilità per rendere giustizia alla storia.
David Harbour, star di Stranger
Things, ha anticipato che la quinta stagione della
serie fantascientifica di grande successo includerà un finale
rivoluzionario per Jim Hopper. Harbour interpreta il capo della
polizia alcolizzato di una piccola città sin dalla prima stagione
di Stranger Things, trasmessa su
Netflix nel luglio 2016, e ha ricevuto due
nomination ai Primetime Emmy per il suo ruolo.
La quinta stagione di Stranger Things uscirà su Netflix il
26 novembre 2025 e fornirà una conclusione epica alla serie di
grande successo di Netflix. Molti archi narrativi dei personaggi e
trame dovranno essere risolti nell’epica battaglia contro Vecna, e
il destino di Hopper è stato oggetto di un’intensa attenzione.
Harbour ha anticipato un finale rivoluzionario.
Durante il panel dedicato a David
Harbour al Rose City Comic Con, condotto da ScreenRant,
Harbour ha parlato del finale rivoluzionario della quinta stagione
di Hopper. Pur evitando di rivelare alcun dettaglio, Harbour ha
anticipato che si tratta della “cosa più importante che gli
succede nella serie”. Ecco i commenti di Harbour:
SR:Quanto è stato difficile per te dire addio al
personaggio l’ultimo giorno sul set?
DH:Beh, è così surreale… per me le reazioni sono
sempre ritardate. Quasi non riuscivo a elaborarlo.
Beh, non
posso dirti com’è stato il nostro ultimo giorno sul set, perché
sarebbe un enorme spoiler, ma è stato un momento culminante molto
importante… e non riuscivo a credere che fosse il nostro ultimo
giorno. Ho pensato: “Oh mio Dio. Hanno davvero calcolato i tempi in
modo che il momento più importante della serie per lui, in un certo
senso, fosse proprio questo”. Quindi mi sono concentrato al massimo
per interpretare al meglio quel momento. E poi è successo e tutto è
finito.
Conosco i
Duffer Brothers da 10 anni, abbiamo passato così tante cose
insieme, e quel cast e quella troupe… è davvero difficile da
elaborare. Mi ci sono voluti altri sei mesi per capire davvero come
mi sentivo, ad essere sincero. È passato tutto così in fretta. È
stato molto, molto surreale.
Cosa significa questo per il
destino di Hopper in Stranger Things
Ci sono molte strade diverse che la
serie potrebbe prendere, e molti personaggi di Stranger Things sono
in grave pericolo nell’affrontare la stagione culminante. Non c’è
dubbio che Hopper sia uno dei personaggi il cui destino è precario,
e ci saranno grandi cambiamenti per il suo personaggio nella
stagione finale, soprattutto come figura paterna per i bambini, in
particolare Eleven.
La quinta stagione di Stranger
Things uscirà in tre parti tra il 26 novembre e il 31 dicembre.
Harbour non approfondisce se il
finale rivoluzionario di Hopper sarà positivo o negativo, ma parla
di quanto sia stato emozionante. Menzionando la natura surreale
della conclusione della serie a cui ha lavorato per 10 anni,
afferma che il finale di Hopper è sembrato un culmine, il che
potrebbe far luce su come sarà.
La crisi umanitaria di
Gaza è stata la protagonista nei discorsi di
ringraziamento dei vincitori, nel corso della cerimonia di chiusura
dell’82° edizione della Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica della Biennale di Venezia. La regista
tunisina Kaouther Ben Hania, che ha vinto Leone
d’Argento, Gran Premio della Giuria per The Voice of
Hind Rajab, ha offerto (c’era da aspettarselo) il
discorso più schietto e lucido in merito.
Il film sull’uccisione di Hind
Rajab, una bambina di sei anni, che si trovava in auto con i
familiari e che è stata colpita dalle forze israeliane mentre
cercavano di fuggire da Gaza City all’inizio del 2024, ha scosso il
festival all’inizio della settimana, ricevendo un’ovazione record
di 23 minuti e 40 secondi in occasione della premiere in Sala
Grande.
“Dedico questo mondo alla
Mezzaluna Rossa Palestinese e a tutti coloro che hanno rischiato
tutto per salvare vite umane a Gaza. Sono dei veri eroi. La voce di
Hind è la voce di Gaza stessa, un grido di soccorso che il mondo
intero ha potuto sentire, ma a cui nessuno ha risposto”, ha
detto Ben Hania.
“La sua voce continuerà a
risuonare finché non ci sarà una vera responsabilità, finché non
sarà fatta giustizia. Crediamo tutti nella forza del cinema. È ciò
che ci riunisce qui stasera e ciò che ci dà il coraggio di
raccontare storie che altrimenti potrebbero essere sepolte. Il
cinema non può riportare in vita Hind. Né può cancellare l’atrocità
commessa contro di lei. Niente potrà mai restituire ciò che le è
stato tolto”, ha continuato. “Ma il cinema può preservare
la sua voce, farla risuonare oltre i confini, perché la sua storia
non è solo sua. È tragicamente la storia di un intero popolo che
subisce un genocidio inflitto da un regime criminale israeliano che
agisce impunemente”, ha aggiunto. Una storia che parla
non solo di memoria, ma di urgenza.
Diversi altri vincitori hanno
lanciato appelli simili durante la serata, tra cui il nostro
Toni Servillo, che ha vinto il premio
come miglior attore per la sua interpretazione in La
Grazia; la co-protagonista di Silent
Friend Luna Wedler, che ha vinto il Premio Marcello
Mastroianni come miglior giovane attore emergente, e la regista
marocchina Maryam Touzani, che ha vinto il Premio
del Pubblico per Calle Malaga.
“La gioia che provo è profonda,
ma lo è anche il dolore che provo nel ricevere questo premio
oggi”, ha detto Touzani. “Provo dolore perché, come molti
altri, non riesco a dimenticare l’orrore inflitto con tanta
impunità, ogni secondo, al popolo di Gaza e al popolo
palestinese.”
Il Lido è stato anche testimone
della
manifestazione di domenica scorsa, quando migliaia di persone,
tra politico, attivisti e anche accreditati al festival, hanno
partecipato a una protesta pacifica per denunciare il genocidio
israeliano a Gaza.
La
82ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si è
conclusa con un red carpet che ha riunito i protagonisti
dell’edizione. A sfilare sul tappeto rosso della serata finale sono
stati i vincitori dei premi
ufficiali, celebrati dal pubblico e dagli obiettivi
dei fotografi, insieme al cast di Chien 51, film scelto per chiudere questa intensa
edizione del Festival.
Il
red carpet di chiusura ha rappresentato il momento culminante di
undici giorni di cinema, incontri e grandi emozioni. Tra applausi e
flash, i premiati hanno condiviso l’entusiasmo di un riconoscimento
conquistato in una delle vetrine più prestigiose al mondo, mentre
il cast di Chien 51 ha
salutato il pubblico veneziano con eleganza e orgoglio.
Le immagini raccontano l’atmosfera festosa della serata, con
interpreti, registi e membri delle troupe che hanno trasformato il
tappeto rosso in una passerella di talento e glamour. Un evento che
ha chiuso idealmente il cerchio di un’edizione caratterizzata da
opere di grande forza espressiva, autori affermati e nuove voci
pronte a imporsi sulla scena internazionale.
Sfoglia la nostra gallery per rivivere i momenti più belli del red
carpet di chiusura di Venezia 82 con i premiati e il cast di
Chien 51.
Dopo 12 giorni di Festival, film,
file, prenotazioni, proiezioni e applausi, arriva il momento della
premiazione per l’82° edizione della Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia.
In un anno in cui il Concorso
avrebbe offerto delle opzioni importanti per dare un segnale forte
rispetto alla situazione geo-politica mondiale, la giuria di
Alexander Payne ha deciso di assegnare i premi a
sua disposizione nella maniera più cauta e indolore possibile,
condannando (come era accaduto l’anno scorso) il Leone
d’Oro della Mostra all’oblio. Perché, per quanto
Father Mother Sister Brother sia la summa
dell’eleganza e del linguaggio di Jim Jarmusch, si
inserisce a pieno titoli nella lista dei suoi film minori.
Tutt’altra storia invece il
Gran Premio della Giuria, assegnato a The Voice of
Hind Rajab, di Kaouther Ben Hania, il
film più importante presentato alla Mostra e senza dubbio uno dei
film più importanti realizzati. Premio forse doveroso ma non
scontato e che potrebbe sostenere ulteriormente un film che è un
atto di denuncia urgente di un genocidio tutt’ora in atto.
“Niente può restituire quello che è stato preso ma il cinema
può conservare la sua memoria e portare avanti il suo
messaggio” ha dichiarato Hania in sede di premiazione.
Benny Safdie ha
invece portato a casa il Leone d’Argento per la Regia, per il suo
lavoro in The Smashing Machine, lavoro solido ma
ordinario, soprattutto se consideriamo la presenza in gara di
Kathryn Bigelow e Park Chan-Wook.
E mentre Valerie Donzelli si porta a casa il
premio alla sceneggiatura per il suo At Work, in
cui racconta un mondo di precarietà che forse non ha mai
conosciuto, Xin Zhilei e Toni Servillo si portano a casa le
Coppe Volpi, Gianfranco Rosi, a sorpresa,
conquista oltre ogni previsione il Premio della Giuria.
Un risultato impensabile alla luce
delle proiezioni e dei minuti di applausi che i singoli film hanno
registrato nel corso delle tante proiezioni di una Mostra mai come
quest’anno affollata di giovani, appassionati e professionisti.
All’interno della filmografia di Michael Mann,
Blackhat (qui
la recensione) rappresenta un capitolo peculiare e controverso.
Uscito nel 2015, il film porta la poetica visiva e narrativa del
regista – già consolidata in opere come Heat – La sfida o
Collateral – dentro un
contesto globale e tecnologico. Se nei suoi titoli precedenti Mann
aveva esplorato il rapporto tra individuo e sistema attraverso
criminalità organizzata, banche e multinazionali, qui lo fa
affrontando la minaccia invisibile del cybercrimine. È un passaggio
coerente con la sua ricerca sul contemporaneo, ma meno immediato
nel coinvolgere il grande pubblico.
L’idea di Blackhat nasce dall’interesse di Mann
per le nuove forme di criminalità informatica e per
l’interconnessione tra politica, economia e tecnologia. La
sceneggiatura di Morgan Davis Foehl si ispira a casi reali di
hackeraggio avvenuti negli anni precedenti, mostrando come un
singolo attacco informatico possa mettere in ginocchio intere
nazioni. Mann, affascinato dalla dimensione quasi astratta e
immateriale di questa minaccia, decide di affrontarla con il suo
stile iperrealista: una regia nervosa, digitale, che immerge lo
spettatore nel cuore delle infrastrutture elettroniche e nei codici
che governano la società contemporanea.
Il
film si muove nel genere del techno-thriller, con elementi
d’azione e di indagine investigativa, e affronta temi centrali
del presente: la vulnerabilità delle infrastrutture globali, il
confine sempre più sfumato tra sicurezza e libertà individuale, e
il rapporto tra tecnologia e potere. Nonostante le critiche
contrastanti e l’accoglienza tiepida al botteghino,
Blackhat resta un tassello importante per
comprendere l’evoluzione della poetica del regista. Nel resto
dell’articolo proporremo una spiegazione dettagliata del finale,
analizzando come Mann lo utilizzi per ribadire la sua visione del
rapporto tra uomo, tecnologia e destino.
La trama di
Blackhat
Protagonista del film è
Nicholas Hathaway, un abile e spregiudicato hacker
che si ritrova a scontare una condanna per alcuni reati di
pirateria informatica. Una svolta per lui arriva nel momento in cui
l’agente FBI Chen Dawai decide di avvalersi della
sua esperienza per una missione altamente complicata. I servizi
segreti si trovano infatti a dover fronteggiare una RAT, ovvero un
malware in grado di controllare un sistema da remoto scavalcando le
autorizzazioni previste. Così facendo, gli anonimi criminali
informatici hanno preso il controllo di una centrale nucleare di
Hong Kong e del Chicago Mercantile Exange. A patto di un
annullamento della pena, Nicholas decide di accettare
l’offerta.
Seguendo le direttive dell’agente
Carol Barrett, Nicholas inizia dunque ad indagare
sul misterioso hacker, cercando di scoprirne l’identità prima che
questi possa spezzare i delicati equilibri tra la Cina e gli Stati
Uniti. Incentivato dalla possibilità di ottenere la sua libertà,
come anche dal sentimento che sviluppa per Lien
Chen, Nicholas farà di tutto pur di conquistarsi una nuova
vita. Per riuscirci, però, si troverà a dover fare i conti con il
caso più complesso in cui si sia mai imbattuto. Il peso della pace
internazionale grava interamente sulle sue spalle e più passa il
tempo più Nicholas rischia di rimanerne schiacciato in modo
irrimediabile.
La spiegazione del finale del
film
Nel
terzo atto di Blackhat, l’indagine di Nicholas
Hathaway si sposta definitivamente a Jakarta, dove il protagonista
intuisce il vero piano del misterioso hacker Sadak. Le precedenti
incursioni informatiche, compreso l’attacco alla centrale nucleare,
non erano che una prova generale per un colpo più grande: sabotare
una diga in Malesia e allagare diverse miniere di stagno, così da
manipolare il mercato delle materie prime e arricchirsi. Per
contrastare questa minaccia, Hathaway decide di spostare la partita
sul piano finanziario, svuotando i conti del criminale e
costringendolo a un faccia a faccia. È una mossa rischiosa, che lo
espone a una trappola tanto prevedibile quanto inevitabile.
L’incontro avviene in un parco, durante una processione religiosa
affollata, ma Sadak e il suo braccio destro Kassar non rispettano i
patti e arrivano scortati da diversi uomini armati. Hathaway,
preparatosi con un’improvvisata armatura e armi artigianali,
dimostra di non aver mai smesso di pensare come un sopravvissuto.
Dopo essere stato perquisito da Kassar, riesce a sorprenderlo e
ucciderlo in uno scontro ravvicinato. Da lì la sequenza esplode in
una scarica di violenza improvvisa: Hathaway viene ferito più
volte, ma resiste, affrontando i sicari di Sadak in una lotta
disperata che culmina nell’eliminazione dello stesso hacker,
pugnalato a morte in un corpo a corpo tanto fisico quanto
simbolico. Ferito ma vivo, Hathaway riesce a ricongiungersi con
Lien, e i due lasciano l’Indonesia insieme.
Il
finale, pur essendo adrenalinico e costruito come un classico
showdown “manniano”, lascia trasparire più di una semplice
conclusione action. Il corpo martoriato di Hathaway diventa il
segno tangibile di quanto sia costato affrontare una minaccia che
non ha volto, se non quello che assume nel momento dello scontro
diretto. Mann sembra dirci che dietro l’astrazione del cybercrime
esiste sempre una mano, un corpo, una volontà che deve essere
smascherata e affrontata, anche a costo di passare attraverso il
dolore e la violenza. La lotta fisica, in questo senso, è un
ritorno al primitivo, un modo per restituire concretezza a un
conflitto che fino ad allora si era giocato nell’invisibile mondo
dei codici e dei flussi digitali.
Dal punto di vista emotivo, il finale non è catartico, ma amaro.
Hathaway sopravvive, ma perde tutti gli alleati lungo il cammino,
da Chen Dawai fino agli agenti che lo avevano supportato. Rimane
soltanto il legame con Lien, che diventa la sua ancora di salvezza
e il punto da cui ricominciare. L’eroismo del protagonista non
porta a un trionfo netto, ma a una fuga silenziosa, quasi
clandestina, segnata dalle cicatrici fisiche e psicologiche. Lo
spettatore resta con l’impressione che, pur avendo sventato la
minaccia immediata, Hathaway sia condannato a vivere sempre in
fuga, portando sulle spalle il peso delle sue scelte.
Cosa ci lascia il finale
di Blackhat
In
ultima analisi, il messaggio che Blackhat lascia è
quello di un mondo in cui il confine tra giustizia e illegalità,
tra lealtà e tradimento, è sempre più sottile. Hathaway è un hacker
che lotta contro un hacker, un uomo che usa gli stessi strumenti
del nemico per fermarlo, muovendosi in una zona grigia che riflette
l’ambiguità del presente. Il film non offre risposte consolatorie:
ci mostra invece la vulnerabilità dei sistemi globali e la
fragilità degli individui che cercano di opporsi a minacce
invisibili. Nel suo epilogo, Mann ribadisce la sua visione di
sempre: in un mondo dominato da forze più grandi di noi, l’unica
cosa che resta è la capacità dell’uomo di resistere, anche quando
tutto sembra perduto.
Colpevole d’innocenza (Double
Jeopardy) è un thriller giudiziario del 1999 con Ashley
Judd e
Tommy Lee Jones. Il trailer presenta
il personaggio interpretato dalla Judd, Libby Parsons, una donna in
prigione per un crimine che non ha commesso: l’inesistente omicidio
di suo marito Nick.
Una delle compagne di cella di
Libby le dà un consiglio legale interessante: se lo Stato sostiene
che Libby abbia già ucciso suo marito, non può condannarla una
seconda volta. Libby è libera di uccidere Nick quando uscirà di
prigione e le autorità non potranno fare nulla al riguardo.
Come viene rappresentata la
clausola del doppio giudizio nel film?
Dopo essere stata
falsamente accusata e ingiustamente condannata per l’omicidio
di Nick, Libby scopre che lui stava solo fingendo la sua morte.
Quando finalmente viene rilasciata sulla parola, decide di cercare
suo figlio e di regolare i conti con Nick. A un certo punto gli
dice: “Potrei spararti in mezzo al Mardi Gras e loro non potrebbero
toccarmi”.
Il doppio giudizio è
reale?
Il divieto di doppio giudizio è
reale. Il governo non può perseguire qualcuno più di una volta per
lo stesso reato. Ma, in questo caso, se Libby uccidesse Nick una
volta uscita di prigione, non sarebbe lo stesso omicidio che l’ha
mandata in prigione in primo luogo. Certo, la vittima è la stessa,
ma i presunti omicidi sarebbero avvenuti in momenti e luoghi
diversi: non si tratta dello stesso reato.
Ci rivolgiamo a Hollywood per la
fantasia, e la premessa giuridica alla base del film Double
Jeopardy è proprio questo: una fantasia.
Si può essere accusati di
omicidio senza un cadavere?
Un’altra questione legale che
alcuni spettatori di Colpevole d’innocenza (Double
Jeopardy) potrebbero porsi è se Libby avrebbe potuto
essere condannata per omicidio in primo luogo se il corpo di Nick
non fosse mai stato ritrovato. E anche se è difficile condannare
qualcuno per omicidio senza un cadavere, è possibile. I pubblici
ministeri utilizzano prove
indiziarie, ad esempio il fatto che la vittima sia scomparsa da
tempo e non abbia mai contattato i propri cari, per dimostrare che
la vittima è morta.
Nel film Alla ricerca di mia
figlia, film
thriller della Lifetime diretto da
Damián Romay, una madre
single di nome Beverly si ritrova intrappolata nel
suo peggior incubo quando sua figlia Carly
scompare durante una serata fuori a Miami, in Florida. Quando
arriva la notizia che Simone, l’amica intima di
Carly che era in viaggio con lei, è stata trovata in condizioni
critiche, Beverly deve recarsi a Miami per trovare risposte sulla
sorte di sua figlia. Tuttavia, le autorità locali le forniscono un
aiuto minimo, costringendola a condurre le indagini da sola. I suoi
sforzi disperati sono testimoniati da un barcaiolo locale di nome
Ray, che decide di aiutarla a trovare sua figlia e
ad arrivare al fondo del mistero.
Cosa accade nel film Alla
ricerca di mia figlia
Carly e Simone sono migliori amiche
del college che partecipano a una gita durante le vacanze di
primavera. La prima rimane in stretto contatto con sua madre,
Beverly, durante tutto il viaggio, mentre la seconda rivela che i
suoi genitori non si curano di lei. Carly ha recentemente rotto con
il suo ragazzo, Luke, dopo averlo lasciato per
cogliere l’opportunità di entrare nella facoltà di medicina dei
suoi sogni. Lei afferma però di non averlo ancora completamente
dimenticato. Tuttavia, Simone le dice di divertirsi, almeno per una
notte. Le due ragazze arrivano a Miami e lasciano i loro bagagli in
un deposito. Simone lascia anche il suo telefono nella borsa,
mentre Carly porta il suo con sé. Le due iniziano quindi a
frequentare bar e discoteche per tutta la notte, cercando di
divertirsi senza pensieri.
Nel frattempo, a chilometri di
distanza, Beverly si preoccupa per la sicurezza della figlia,
ricevendo continuamente messaggi sul suo telefono che la informano
su dove si trovano. Carly e Simone alla fine incontrano un ragazzo
di nome Pete in un bar locale che dice loro di
poterle portare a delle feste migliori. Anche se all’inizio sono
titubanti, le due ragazze intraprendono questo viaggio e si
ritrovano sulla spiaggia. Lì, Carly incontra il suo ex fidanzato
Luke, che a quanto pare è il cugino di Pete. Carly ha una serie di
scambi imbarazzanti con Luke durante la notte, mentre Simone prende
in giro Pete in modo scherzoso. Con il passare della notte, Carly
si rende conto che qualcosa non va quando Simone ha una crisi
epilettica e le sue labbra iniziano a schiumare. Allo stesso tempo,
lei si sente stordita e perde conoscenza.
Tommi Rose in Alla ricerca di mia figlia
Si scopre che Pete ha corretto i
drink delle ragazze per dare a Luke la possibilità di vendicarsi di
Carly. Lui era arrabbiato con Carly per averlo lasciato senza tanti
complimenti. Ora vuole punirla scattandole delle foto osé e
rovinandole la reputazione. Tuttavia, l’intero piano va in fumo
quando Simone va in overdose. Luke inizia a farsi prendere dal
panico perché la morte di Simone potrebbe essere un passo troppo
lungo. Pete interviene e ordina a Luke di prendere Carly in
ostaggio, lasciando Simone sul posto affinché altri la trovino. Il
giorno seguente, Beverly si sveglia e riceve la telefonata da Miami
che la informa che Simone è attualmente in coma. Nel frattempo, non
ci sono notizie sulla sorte di sua figlia.
Una volta a Miami e con l’aiuto di
Ray, Beverly si reca alla torretta dei bagnini, dove Carly e Simone
si stavano divertendo con Pete e Luke la notte precedente. Beverly
trova la borsa di sua figlia nascosta sotto la struttura.
All’interno trova una ricevuta del servizio di deposito bagagli
dove le due ragazze hanno lasciato le loro valigie. Nel frattempo,
Carly si sveglia in una capanna nel mezzo della palude delle
Everglades con le mani legate e un bavaglio in bocca. Pete e Luke
discutono sul fatto di aver preso Carly in ostaggio e di aver
esagerato. Il primo dice a Luke di calmarsi perché questa è la loro
unica scelta. Dice a Luke che sta tornando in città per occuparsi
degli affari e gli ordina di tenere d’occhio Carly.
Poiché quest’ultimo non si è mai
trovato in una situazione del genere, non riesce a svolgere il suo
compito e mostra compassione per Carly. La ragazza alla fine vede
un’opportunità e fugge dalla capanna. In città, Beverly e Ray
ricevono la notizia che Simone si è risvegliata dal coma. Ray dà a
Beverly la sua auto per andare a indagare sulla scomparsa di sua
figlia. Prima che lei possa raggiungere l’ospedale, Pete supera la
sicurezza medica ed entra nella stanza di Simone con l’intenzione
di ucciderla. Non può permetterle di vivere perché potrebbe
incriminare lui e Luke come i principali responsabili della
scomparsa di Carly. Tuttavia, prima che possa portare a termine il
suo compito, Beverly entra nella stanza e parla con Simone.
La ragazza si scusa per aver causato
così tanti problemi. Si sente responsabile del rapimento di Carly,
ma aggiunge alla madre della sua amica che il servizio di deposito
bagagli ha il suo telefono, che potrebbe aiutarla a trovare Carly.
Beverly mette quindi le mani sul dispositivo, ma non riesce a
capire dove si trovi effettivamente il pin, poiché è una straniera
a Miami. Intuendo l’opportunità, Pete interviene per aiutarla.
Decide di portarla con la sua barca nel luogo in cui si trova il
pin, nelle Everglades. Beverly condivide la notizia con Ray, che è
però preoccupato per la sua sicurezza. Mentre sono sulla barca,
Beverly si rende conto che qualcuno ha gettato il telefono di Carly
in acqua per nascondere la sua posizione.
Tori Spelling in Alla ricerca di mia figlia
La spiegazione del finale del film
Beverly si rende conto che Pete l’ha
portata lì per ucciderla e riesce a fuggire per tempo dalla barca
saltando nel fiume. Pochi istanti dopo, Ray arriva per salvarla e i
due iniziano quindi a setacciare la regione delle Everglades,
rendendosi conto che Carly deve essere da qualche parte nelle
vicinanze. Il film passa alla prospettiva di Carly, dove la vediamo
trovare rifugio a casa di Doyle, un pescatore locale. Tuttavia,
Luke la rintraccia. Doyle arriva appena in tempo per fermare i
disperati tentativi di Luke di mettere alle strette la ragazza.
Quando cerca di impedirgli di inseguire Carly, Luke uccide
accidentalmente Doyle e la ragazza fugge ancora una volta. Pete
arriva poco dopo e nota il cadavere di Doyle.
Dice a Luke che se ne occuperà lui,
ma in cambio Carly deve essere uccisa. Si separano mentre Ray e
Beverly raggiungono la casa di Doyle. I due mettono alle strette
Pete, che attribuisce la colpa della scomparsa di Carly a Luke.
Beverly va a cercare sua figlia mentre Ray tiene d’occhio Pete. I
due finiscono per litigare, e Pete viene morso da un serpente e poi
trascinato sott’acqua da un alligatore. Muore in modo
raccapricciante mentre Ray si cura una ferita da coltello. Beverly
riesce infine a trovare sua figlia proprio mentre Luke le sta
addosso. Madre e figlia lottano per uscire dai guai e tornano a
casa di Doyle. Trasportano Ray ferito sulla barca e si dirigono
verso le Everglades, con Luke che li segue da vicino.
Percorrono una lunga distanza in un
inseguimento ad alta velocità sulle acque della palude. Tuttavia,
tutto finisce quando la barca di Beverly e Carly si schianta e i
tre passeggeri finiscono a terra. Luke cerca di approfittare della
situazione, ma è già troppo tardi. La polizia arriva sul posto e lo
arresta. Con l’incubo ormai finito, madre e figlia possono
finalmente scambiarsi parole di sollievo mentre trasportano Ray
ferito sulla barca. Il film salta poi al futuro, dove vediamo
Beverly che si gode una giornata in spiaggia con Carly e Simone.
Più tardi, esce per un giro in barca con Ray, con cui ora ha una
relazione.
Scopri anche il finale di film
simili a Alla ricerca di mia figlia
Il regista Travis
Knight e la sceneggiatrice Christina
Hodson avevano il compito arduo di rendere
Bumblebee (qui la nostra recensione)
accattivante per il pubblico, allontanandosi al contempo dai
fallimenti di
Transformers – L’ultimo cavaliere del 2017. A giudicare dalle
reazioni ottenute da questo sesto capitolo della saga della
Paramount Pictures, ci sono riusciti in gran parte, posizionando
l’Autobot preferito dai fan come un rifugiato sulla Terra, in fuga
dai Decepticon che lo inseguono, mentre si prepara all’arrivo di
Optimus Prime e dei suoi compagni.
Tuttavia, nel film, i Decepticon
rintracciano ben presto Bumblebee nel 1987 a San Francisco, dove
collaborano con il Settore 7 del governo degli Stati Uniti per
imprigionare l’Autobot e estorcergli i suoi segreti. Questo porta a
un finale adrenalinico, ma anche emozionante, che vede Bumblebee
evolversi in qualcosa di più di un semplice soldato. In questo
approfondimento, andiamo dunque alla scoperta del finale del film e
di come colloca questo film nel resto della saga.
Il risveglio di Bumblebee
Dopo che la sua alleata umana
Charlie (Hailee
Steinfeld) e il suo vicino Memo
(Jorge Lendeborg Jr.) si intrufolano nella base
improvvisata del Settore 7, trovano Bumblebee spento dopo aver
ricevuto un colpo da Dropkick (doppiato da
Justin Theroux). I Decepticon hanno già
intercettato il messaggio di Optimus Prime sulla
sua venuta sulla Terra e i robot si dirigono verso una torre di
trasmissione in un porto vicino per trasmettere i dati al resto
dell’esercito di Megatron.
Tuttavia, Charlie prende i teaser
elettrici utilizzati dal Settore 7 per immobilizzare Bumblebee e li
trasforma in defibrillatori per riportare in vita l’Autobot. Ma
dopo uno scontro con l’agente Burns (John
Cena) e i suoi uomini, Bumblebee sembra pronto per
entrare in modalità uccisione, ma viene fermato da Charlie. Lei lo
calma e insieme partono a tutta velocità per sventare i piani dei
loro nemici.
Lo scontro finale
Al porto, Shatter
(doppiato da Angela Bassett) sta caricando la trasmissione
per Cybertron, il quale ordina a Shatter di finire Bumblebee.
Tuttavia, l’Autobot supera in astuzia il Decepticon incatenandolo
mentre cerca di trasformarsi in un elicottero, con il risultato che
viene fatto a pezzi. Nonostante sia indebolito dal combattimento,
Bumblebee salva l’agente Burns quando Shatter abbatte l’elicottero
del Settore 7, confermando che ha sempre dato la caccia ai robot
sbagliati. Destreggiarsi tra tutte queste azioni si rivela però
controproducente per Bumblebee, poiché Shatter lo coglie di
sorpresa.
Questo fa guadagnare tempo a
Charlie per interrompere la trasmissione a Megatron e disattivare
la torre. Ma proprio mentre Shatter, infuriata, sta per ucciderla,
Bumblebee atterra la sua nemica e poi abbatte una chiatta dal suo
magazzino, facendola schiantare contro Shatter e uccidendola.
Bumblebee finisce per rimanere bloccato sott’acqua, ma Charlie, che
ha smesso di fare immersioni professionali dopo la morte di suo
padre, si tuffa per aiutarlo a riemergere. L’agente Burns
finalmente li riconosce come eroi e trattiene i suoi soldati, dando
loro il tempo di fuggire.
L’arrivo di Optimus Prime
Bumblebee guida fino a una collina
che domina il Golden Gate Bridge, poiché è giunto il momento di
lasciare San Francisco. Invita Charlie a continuare le loro
avventure, ma lei gli dice che ha delle persone che hanno bisogno
di lei, proprio come lui. Concludendo un addio sentimentale, si
trasforma in una Camaro (un cenno al film Transformers di
Michael Bay del 2007) e se ne va. Le scene finali mostrano una
Charlie ispirata e sicura di sé che si ricongiunge con la sua
famiglia e con Memo, mentre Bumblebee si ritrova su un’autostrada
accanto a un camion rosso con rimorchio: Optimus
Prime nella sua classica forma Generation One.
Come il finale di Bumblebee riavvia
Transformers
La scena a metà dei titoli di coda
conferma ulteriormente l’arrivo del leader degli Autobot. Qui, lui
e Bumblebee vengono visti camminare insieme nella foresta. Entrambi
guardano in alto alla vista di altri sette Autobot che arrivano nel
cielo. Nonostante in precedenza fosse stato creato un ponte con i
Transformers di Michael Bay grazie alla trasformazione di
Bee in una Camaro, il fatto che Optimus Prime e gli Autobot siano
arrivati sulla Terra nel 1987 contraddice immediatamente il canone
di Bay: Transformers ha stabilito che Optimus e gli Autobot
non atterrano sulla Terra fino al 2007.
Tutti i Transformers dovrebbero
essere alla ricerca nell’universo del cubo
AllSpark scomparso (che non viene mai menzionato
in Bumblebee); è stato solo dopo aver appreso che Sam
Witwicky possedeva inconsapevolmente la mappa per
raggiungere l’AllSpark che Bumblebee ha inviato un segnale nello
spazio per avvisare Optimus Prime e invitare gli Autobot sulla
Terra. In Bumblebee, però, gli eroici Transformers
atterrano sul nostro mondo con due decenni di anticipo (e Bumblebee
ha già causato un buco nella trama con Transformers 5 – L’ultimo cavaliere, dove il
protagonista avrebbe dovuto combattere nella seconda guerra
mondiale).
Naturalmente, vent’anni separano
Bumblebee e Transformers, quindi
c’è ampio margine per un sequel che spieghi perché gli Autobot
hanno lasciato la Terra per qualche motivo, in modo da poter
tornare nel 2007. Non è chiaro quali Autobot seguano Bee e Prime
sulla Terra, ma durante la caduta di Cybertron si vedono
Wheeljack, Arcee,
Ironhide, Brawn e
Ratchet, quindi potrebbero essere loro a lanciarsi
sulla Terra. Inoltre, Jazz è con gli Autobot in
Transformers, quindi potrebbe far parte anche lui di questo
gruppo.
The
Wolf of Wall Street è una commedia nera di Martin Scorsese basata sulla
famigerata storia di frode finanziaria di Jordan Belfort,
agente di borsa. In The Wolf of Wall Street, Belfort
(Leonardo DiCaprio) diventa agente
di borsa e raggiunge un discreto successo finanziario prima di
perdere il lavoro nel crollo del Black Monday del 1988. Fonda
quindi la società di intermediazione mobiliare Stratton Oakmont,
che diventa rapidamente un’impresa criminale quando Belfort e i
suoi soci ingannano clienti ignari convincendoli a investire in
azioni senza mostrare loro le clausole scritte in piccolo.
Nel corso delle sue tre ore di
durata, The Wolf of Wall Street (qui
la recensione) segue l’ascesa e la caduta della Stratton
Oakmont e la ricchezza che Jordan Belfort accumula grazie ad essa.
Il film racconta anche la tumultuosa storia d’amore di Belfort con
sua moglie Naomi (Margot Robbie) e la sua dipendenza
dalla droga, sempre più fuori controllo. Belfort trascorre gran
parte di The Wolf of Wall Street cercando di stare un passo
avanti all’FBI, prima di essere costretto a consegnare se stesso e
la sua azienda alla giustizia nel finale di The Wolf of Wall
Street.
La spiegazione dell’arresto e
la detenzione di Jordan Belfort
Vari accordi hanno portato a
una pena più breve
Quando Belfort inizia finalmente a
liberarsi dalla sua dipendenza dalla droga dopo un’esperienza di
pre-morte a bordo del suo yacht in Italia (causata da lui stesso
quando ordina allo yacht di salpare verso Monaco durante una
tempesta), le autorità lo arrestano quando il suo socio bancario
francese Jean-Jacques Saurel (Jean Dujardin) viene arrestato. Dopo
aver tradito Belfort, Saurel accetta un patteggiamento per
raccogliere prove sui suoi colleghi della Stratton Oakmont in
cambio di una pena più lieve.
Durante una conversazione con il
suo complice Donnie Azoff (Jonah Hill), Belfort informa il suo
amico dell’indagine. Sfortunatamente per Belfort, l’FBI viene a
conoscenza del suo avvertimento, che costituisce una grave
violazione del suo patteggiamento. Ciononostante, alla fine di
The Wolf of Wall Street Jordan riceve una pena relativamente
lieve di 36 mesi in un carcere di minima sicurezza, e viene
rilasciato dopo soli 22 mesi.
L’abuso di cocaina rovina la
vita familiare di Belfort
Belfort e sua moglie Naomi
inizialmente hanno un matrimonio piuttosto felice. Tuttavia, ben
presto i due iniziano a litigare regolarmente e a insultarsi a
vicenda a causa delle attività illecite di Belfort, delle sue
relazioni extraconiugali e dell’abuso di droghe. La situazione
raggiunge il culmine durante il finale di The Wolf of Wall
Street, quando Belfort viene arrestato dalla SEC e dall’FBI e
Naomi dice a Jordan che vuole divorziare da lui e ottenere la
custodia dei loro due figli.
Belfort, infuriato, ricade
rapidamente nel consumo di cocaina. Dopo aver dato un pugno allo
stomaco a Naomi, cerca di lasciare la casa con la figlia piccola.
Belfort è in preda a una rabbia distorta e sotto l’effetto della
cocaina, quindi non va lontano e semplicemente si schianta con la
macchina mentre esce dal vialetto. Fortunatamente, lo fa senza
ferire sua figlia. Naomi riprende la figlia e Belfort rimane a
riflettere su quanto abbia rovinato la propria vita.
Il futuro di Stratton
Oakmont
L’attività di Befort viene
rapidamente chiusa
Il modello di business di Stratton
Oakmont si basava su quello che è noto come schema
“pump-and-dump”, in cui Jordan e i suoi colleghi trader
esageravano notevolmente il valore delle azioni per venderle a
prezzi più alti. Dopo che il cliente acquistava le azioni, il loro
prezzo calava, con il cliente che veniva truffato e Stratton
Oakmont che realizzava un grande profitto. Inutile dire che si
tratta di una forma di compravendita di azioni altamente illegale,
e l’ascesa insolitamente rapida di Stratton Oakmont attira
l’attenzione sia della SEC che dell’FBI.
Mentre le autorità iniziano a
stringere il cerchio intorno a Stratton Oakmont verso la fine di
The Wolf of Wall Street, Belfort fa un tentativo malcelato
di corrompere i federali con dei “fun coupon”, il suo
termine gergale per indicare il denaro. Tuttavia, lo stratagemma
viene smascherato quando Belfort è costretto a diventare un
informatore dell’FBI. Dopo la testimonianza di Belfort contro i
suoi complici, l’FBI chiude la Stratton Oakmont.
Cosa succede ai personaggi
reali dopo la fine di The Wolf of Wall Street
Jordan Belfort è ora un
motivatore
Il finale del film solleva
interrogativi su
cosa sia successo al vero Belfort dopo The Wolf of Wall
Street. Dopo aver scontato la sua pena di 22 mesi,
il vero Belfort è stato rilasciato dal carcere nel 2006. Da allora
è diventato un motivatore e ha scritto due libri sul periodo in cui
gestiva la Stratton Oakmont, uno dei quali, The Wolf of Wall
Street, è servito da base per il film di Scorsese. Inoltre,
Belfort è diventato anche un investitore in criptovalute.
L’ex moglie di Jordan, Nadine
Macaluso, che ha ispirato il personaggio di Naomi interpretato da
Margot Robbie, ha continuato a lavorare come terapeuta e consulente
matrimoniale. Macaluso ha anche tenuto conferenze sulle
relazioni abusive ed è autrice del libro Run Like Hell: A
Therapist’s Guide to Recognizing, Escaping, And Healing From Trauma
Bonds (Scappa come il vento: guida di una terapeuta per
riconoscere, sfuggire e guarire dai legami traumatici). Inoltre,
Macaluso ha consultato Margot Robbie e il suo coach per l’accento
per The Wolf of Wall Street per aiutare Robbie a sviluppare
l’accento di Naomi.
Azoff è l’analogo del vero socio
di Belfort alla Stratton Oakmont, Danny Porush, che è stato
condannato insieme a Belfort e ha scontato 39 mesi di prigione.
Dopo il suo rilascio dal carcere, Porush ha continuato a lavorare
per la Med-Care Diabetic & Medical Supplies. Porush stesso ha poi
affrontato ulteriori accuse di frode, con l’accusa che lui e altri
dipendenti della Med-Care avessero cercato di vendere in modo
fraudolento forniture mediche ad alcune aziende, anche se la
Med-Care ha respinto le accuse con una controquerela.
Cosa significa la sfida
“Vendimi questa penna” di Jordan Belfort
Il semplice esercizio dimostra
l’importanza della domanda e dell’offerta
Nella scena finale di The Wolf
of Wall Street, Belfort ha iniziato una nuova carriera tenendo
seminari sulle tecniche di vendita, con il vero Belfort che fa
persino un cameo presentando la sua controparte sullo schermo.
Richiamando una scena precedente del film, Belfort si avvicina a
ciascun partecipante con una penna in mano e chiede semplicemente:
“Vendimi questa penna.” Man mano che ogni partecipante
fallisce nel tentativo di vendere la penna a Belfort, lui la
riprende e pone la stessa domanda al membro successivo del
pubblico.
Nella scena precedente del film,
Belfort dimostra lo stesso trucco consegnando una penna al suo
amico Brad Bodnick (Jon Bernthal), che poi chiede a Belfort di
scrivere il suo nome. Quando Belfort dice di non avere una
penna, Brad risponde: “Esatto. Domanda e
offerta.“ Il finale di The Wolf of Wall
Street ripaga questo espediente mostrando, in modo astuto, che
la chiave del successo di Belfort era tutta nell’attirare i clienti
con qualcosa che non avevano, anche se la vendita stessa era
fasulla. Mentre i partecipanti al seminario si concentrano sul
rendere attraente la penna stessa, la metodologia di vendita di
Belfort è semplice e sfuggente per tutti loro.
Cosa cambia il finale di The
Wolf of Wall Street rispetto alla vita reale di Belfort
Ci sono diversi momenti di
dubbia accuratezza
Per quanto riguarda l’accuratezza
di The Wolf of Wall Street, Belfort ha affermato che la
sua tossicodipendenza era significativamente peggiore nella vita
reale. Secondo il racconto dello stesso Belfort, a un certo
punto era dipendente da ben 22 droghe diverse. Inoltre, secondo il
vero Belfort, anche le scandalose bravate alimentate dalla droga
nell’ufficio della Stratton Oakmont viste in The Wolf of Wall
Street sono molto accurate.
Macaluso ha anche affermato che il
film descrive in modo veritiero il suo matrimonio con Belfort.
Tuttavia, sia Belfort che Macaluso hanno fornito
descrizioni diverse della scena in cui Belfort aggredisce
Naomi. Attraverso il suo TikTok (tramite Daily Mail UK), Macaluso ha affermato che, invece di
picchiarla, Belfort le ha bruciato i vestiti e l’ha spinta giù
dalle scale dopo che lei aveva insistito affinché lui andasse in
riabilitazione. Ha anche detto che non ha minacciato di portargli
via i figli, ma che Belfort ha invece detto che sarebbe andato in
Florida con la loro figlia.
Belfort ha fornito una versione
leggermente diversa di questo incidente e afferma anche di non aver
picchiato Macaluso. Jordan ha dichiarato (tramite The Guardian) che “è stata più una lotta in cui lei
mi ha afferrato la gamba e io l’ho scalciata”, pur riconoscendo
che “è stato terribile quello che ho fatto” e che era sotto
l’effetto di “enormi quantità di droghe”. In ogni caso,
Macaluso ha detto che lei e il suo ex marito “oggi stanno
bene”. Secondo lei, Belfort le ha persino fatto visita
il giorno dell’uscita di The Wolf of Wall Street nel
2013.
Il vero significato del finale
di The Wolf of Wall Street
La commedia satirica trasmette
un messaggio contro l’avidità
Soprattutto, The Wolf of Wall
Street è un monito contro il potere inebriante dell’avidità,
anche se trasmette il suo messaggio sotto forma di una divertente
commedia nera. Quando Belfort inizia la sua narrazione
all’inizio de Il lupo di Wall Street, è un festaiolo
arrogante ed egocentrico che non si preoccupa minimamente delle
conseguenze delle sue attività illegali. È più turbato dal fatto di
aver guadagnato solo 49 milioni di dollari l’anno precedente
(“tre milioni in meno di un milione a settimana”, come
osserva). Con Belfort che si vanta apertamente della quantità di
droghe che assume all’inizio del film, l’eccesso va di pari passo
con la sua avarizia.
Nonostante tutta la ricchezza
che accumula grazie alla Stratton Oakmont, Belfort non è mai
veramente felice se non è sotto l’effetto di droghe, e tratta il
denaro più o meno allo stesso modo. La sua caduta definitiva, e
quella della Stratton Oakmont, sono entrambe il risultato dello
stesso impulso.
Nonostante tutta la ricchezza
accumulata grazie alla Stratton Oakmont, Belfort non è mai
veramente felice se non è sotto l’effetto di droghe, e tratta il
denaro più o meno allo stesso modo. La sua caduta definitiva, e
quella della Stratton Oakmont, sono entrambe il risultato dello
stesso impulso. Belfort e i suoi compagni sono costantemente alla
ricerca dell’euforia che sia il denaro che le droghe danno loro,
indipendentemente dal danno che causano a se stessi o agli altri.
Alla fine, Belfort impara alcune lezioni preziose sull’avidità e
l’eccesso in The Wolf of Wall Street, anche se rimane un
maestro della vendita, come dimostra il suo trucco con la
penna.
Come è stato accolto il finale
de Il lupo di Wall Street
Le scene finali non sono state
il momento clou del film biografico del 2013
Nel complesso, Il lupo di Wall
Street è stato un successo sia di critica che di pubblico. Il film
del 2013 ha attualmente un punteggio Tomatometer del 79% e un
punteggio Popcornmeter dell’83% su Rotten Tomatoes, a dimostrazione
di quanto abbia riscosso successo sia tra il pubblico generale che
tra i critici. Il film non è stato privo di polemiche,
naturalmente, poiché molti hanno trovato alcune scene gratuite o
hanno contestato il ritmo e la durata di 3 ore. Tuttavia, per la
maggior parte, la satira di Martin Scorsese è stata accolta con
elogi.
Molti critici hanno
apprezzato il modo in cui le scene finali del film hanno riassunto
molti dei suoi temi centrali, in particolare quelli della
dipendenza e di come questa porti alla rovina, in modo
incredibilmente efficace.
Sebbene il finale di The Wolf of
Wall Street e la trama in generale siano stati oggetto di molte
recensioni, soprattutto per quanto riguarda l’accuratezza e il modo
in cui è stato ritratto il personaggio di Jordan Belfort,
l’attenzione si è concentrata principalmente sui temi più profondi
della storia e sulle interpretazioni. Leonardo DiCaprio, in
particolare, è stato oggetto della maggior parte delle analisi, il
che è comprensibile dato che ha interpretato il controverso
personaggio centrale. Anche Margot Robbie, Matthew McConaughey e
Jonah Hill sono stati spesso citati in modo positivo. Questo è
degno di nota, poiché dimostra che The Wolf of Wall Street
avrebbe potuto lasciare un’eredità molto meno significativa se il
cast non fosse stato così forte.
Per quanto riguarda l’accoglienza
riservata al finale di The Wolf of Wall Street, c’è un
aspetto chiave che viene ripetutamente elogiato nelle recensioni.
Molti critici hanno apprezzato il modo in cui le scene finali
del film hanno riassunto molti dei suoi temi centrali, in
particolare quelli della dipendenza e di come questa porti alla
rovina. Tuttavia, anche in questo caso, le discussioni
suscitate dal finale de Il lupo di Wall Street riguardano
meno gli aspetti cinematografici delle scene finali e più il
messaggio centrale che trasmettono. Ad esempio, il critico Matt
Zoller Seitz, scrivendo per Roger
Ebert, ha espresso le seguenti riflessioni sul messaggio morale
che si può trarre una volta che iniziano a scorrere i titoli di
coda di The Wolf of Wall Street:
Dopo un
certo numero di decenni, dovremmo chiederci se il continuo sostegno
a tossicodipendenti come Belfort non significhi, in un certo senso,
che anche chi li sostiene sia dipendente, che loro (noi) facciano
parte di una ruota a moto perpetuo che continua a girare senza
sosta. Alla fine, “Wolf” non parla tanto di un singolo
tossicodipendente quanto della dipendenza dell’America dall’eccesso
capitalista e dalla mentalità del “chi muore con più giocattoli
vince”, che si è dimostrata durevole quanto l’immagine del gangster
ringhiante che prende ciò che vuole quando ne ha voglia.
In definitiva, ci sono molti
momenti in The Wolf of Wall Street che hanno fatto sì che il film
di Scorsese del 2013 rimanga per sempre un punto culminante della
sua carriera.
Il finale, sebbene soddisfacente,
non è uno di questi. Era una conclusione piuttosto prevedibile,
soprattutto perché basata su una storia vera, e il fatto che i
crimini e le dipendenze di Belfort lo avessero raggiunto era sempre
stato il punto adatto per concludere la narrazione. Non era affatto
un brutto finale, ma non era nemmeno il momento clou di The
Wolf of Wall Street.
The
Wolf of Wall Street racconta le gesta del magnate di
Wall Street Jordan Belfort, ma non approfondisce ciò che accade al
truffatore dopo gli eventi narrati nel film. The Wolf of Wall
Street è basato sulle memorie dello stesso Belfort, mettendo in
dubbio alcuni dei momenti più scandalosi descritti nel film.
Sebbene il film sia certamente fedele alle memorie di Belfort,
alcune figure chiave della sua vita hanno contestato
l’accuratezza di The Wolf of Wall Street rispetto alla vera
storia.
The Wolf of Wall Street
include brevi informazioni sulla successiva carriera di Belfort
dopo il suo arresto, ma gran parte di ciò che è accaduto dopo
rimane sconosciuto nel film. Il vero Belfort ha dovuto senza dubbio
affrontare le conseguenze finanziarie delle sue azioni illegali e,
secondo The Wall Street Journal, una grande percentuale
dei guadagni di Belfort serve come risarcimento per gli investitori
che ha truffato per milioni di dollari. Tuttavia, la successiva
mossa professionale di Belfort ha rappresentato un passo in qualche
modo positivo verso l’aiuto agli altri, anche se le polemiche hanno
continuato a seguirlo.
Il vero Jordan Belfort è
diventato un motivatore e scrittore dopo The Wolf of Wall
Street
La scena dell’epilogo di The
Wolf of Wall Streetoffre uno sguardo su una delle
iniziative intraprese dal vero Belfort dopo il suo rilascio dal
carcere: i discorsi motivazionali. Come riportato da Business Week, Belfort ha lasciato il mondo della
finanza per dedicarsi alle conferenze, che lo portavano a viaggiare
in tutta l’Australia. I seminari di Belfort hanno trattato diversi
argomenti, tra cui l’etica aziendale – una discussione in gran
parte aiutata dal racconto delle sue stesse pratiche commerciali
nefaste – così come la motivazione, le tecniche di vendita e
l’imprenditorialità.
Dopo il suo rilascio dal carcere,
Belfort ha scritto due libri di memorie: The Wolf of Wall
Street nel 2007, che è il materiale di riferimento per il film
di Scorsese, e Catching the Wolf of Wall Street nel 2009,
che racconta la sua vita dopo l’arresto. Entrambi i libri
presentano uno stile di scrittura e un linguaggio in linea con la
volgare interpretazione di Belfort da parte di Leonardo DiCaprio sul grande schermo. L’ex
truffatore ha scritto un terzo libro nel 2017 intitolato Way of
the Wolf: Straight Line Selling: Master the Art of Persuasion,
Influence, and Success, che delinea le tecniche di vendita che
hanno reso Belfort e i suoi complici così efficaci nel manipolare i
clienti di Wall Street.
Jordan Belfort è finito sotto
accusa per uno scandalo relativo a un corso di formazione in
Australia nel 2015
Belfort è rimasto sotto accusa dopo
la sua incriminazione per frode nella vita reale. Come riportato da
Investment News nel 2018, Belfort non stava effettuando
i pagamenti di risarcimento con la rapidità che avrebbe dovuto.
Tuttavia, lo scandalo più significativo in cui Belfort è stato
coinvolto di recente si è verificato in Australia nel 2015, dove
un’inchiesta giornalistica ha scoperto dei legami tra Belfort e
un’agenzia di formazione professionale. Come riportato dal Courier Mail, Belfort ha tenuto due seminari per
l’organizzazione Face to Face Training, che ha ricevuto denaro dai
contribuenti per condurre corsi di formazione e valutazioni, ma
secondo quanto riferito non lo ha utilizzato per i suoi eventi.
Belfort ha minimizzato il suo rapporto con Face to Face Training,
così come ha fatto il proprietario di maggioranza
dell’organizzazione.
Bumblebee, lo spin-off della saga di Transformers
diretto da Travis Knight, ha risposto a diverse
domande chiave sul film. Dà un’idea del tono e dello stile del
film, un’idea di alcuni dei conflitti che saranno esplorati dalla
trama e un forte senso di dove questo si inserisce nella
cronologia di Transformers.
Transformers – L’ultimo Cavaliere ha rivelato che
Bumblebee era attivo sulla Terra da molto più tempo di quanto
pensassimo inizialmente. Aveva visitato il pianeta durante la
Seconda Guerra Mondiale, in un periodo in cui era molto più
militarista e, francamente, insubordinato. All’inizio Bumblebee
aveva poca tolleranza per gli umani. Bee si era affezionato a
un’unità militare che aveva svolto un ruolo chiave durante la
guerra, e “gentile” non era una delle parole usate per
descriverlo all’epoca.
Questa era un’ovvia preparazione
per lo spin-off Bumblebee. Da qualche parte tra gli eventi
di L’ultimo Cavaliere e il primo film di Transformers,
Bumblebee sarebbe tornato sulla Terra e la sua esperienza lì
avrebbe cambiato per sempre la sua visione dell’umanità.
Bumblebee ha una trama guidata
dai personaggi
I film di Transformers sono stati
tipicamente film d’azione, ma questo primo trailer si concentra sui
personaggi. Sembra che, nel 1985, Bumblebee venga scoperto da
Charlie Watson, interpretata da Hailee Steinfeld. Lei diventa l’autista di
Bumblebee e i due stringono un forte legame. Una voce fuori campo
sottolinea che c’è un lato quasi spirituale nella loro relazione:
“È un legame mistico tra uomo e macchina”, viene detto agli
spettatori. Alcune scene rasentano persino il romanticismo!
Proprio come nel primo film di
Transformers, questa versione di Bumblebee non è in grado di
parlare; è Charlie che ha l’idea di comunicare attraverso la
musica. Lei gli dà una cassetta, che – in un momento esilarante –
Bumblebee rifiuta senza tanti complimenti. Il film utilizzerà
presumibilmente una colonna sonora classica per ricreare lo stile
dell’epoca.
Collegare Bumblebee alla
continuity di Transformers
Il trailer è in realtà piuttosto
leggero sia nell’azione che nella trama, evitando di rivelare
troppo. È importante ricordare che, negli anni ’80, i Decepticon
avrebbero setacciato la galassia alla ricerca di Megatron e
dell’All-Spark. Il trailer offre un assaggio del design di G1
Starscream, suggerendo che una manciata di Decepticon è arrivata
sulla Terra, quindi è possibile che Bumblebee sia qui per
monitorarli.
Il trailer sottolinea anche la
presenza del Settore 7, l’agenzia segreta fondata dal presidente
Hoover per monitorare il coinvolgimento degli alieni sulla Terra.
In realtà possiedono sia Megatron che l’All-Spark, e la tecnologia
dei Transformers è stata decodificata nel corso del XX secolo per
creare macchine umane. Bumblebee dovrà muoversi con molta
cautela: se i Decepticon si rendono conto che la tecnologia umana
deriva dalla scienza dei Transformers, capiranno che Megatron,
almeno, è sulla Terra. Ma non dovrebbero farlo fino al primo film
Transformers, ambientato decenni dopo.
Optimus Prime è confinato ad
apparire in Bumblebee, ma è probabile che avrà solo
un cameo. Questo è solo uno spettacolo con un solo robot, con un
unico eroico Autobot che lotta per proteggere l’umanità dalla
minaccia dei Decepticon.
La cantante Lady Gaga era stata precedentemente annunciata come
Rosaline Rotwood, una leggendaria insegnante di
Nevermore che incrocia il cammino di Mercoledì nella seconda stagione della
serie. Il personaggio era stato descritto come “avvolta nel
mistero, con una reputazione che la precede”. Presentata anche
come una visione velenosa, Rotwood è poi apparsa nell’episodio 6
della seconda parte della seconda stagione di
Mercoledì. Si scopre che l’accogliente cottage in
cui Morticia (Catherine
Zeta-Jones) e Gomez Addams
(Luiz Guismán) soggiornano vicino a Nevermore era
la sua casa molto tempo fa.
“Si inserisce perfettamente in
questo mondo”, ha detto lo showrunner Al Gough della
musicista. “In realtà è un personaggio molto importante per
quell’episodio e per la mitologia della serie. Quindi averla con
noi è stato fantastico”. Dopo che Mercoledì chiede a sua nonna
un altro modo per accedere al suo dono psichico,
Hester (Joanna Lumley) le
consiglia di andare alla tomba di Rosaline Rotwood, recitare
l’iscrizione che vi si trova e connettersi con la defunta
professoressa di Nevermore, che era anche una Raven.
Il talento psichico della Rotwood
era leggendario, ed era una professoressa quando Hester era
studentessa a Nevermore, dove insegnava Rune e Criptologia Antica,
oltre a Possessioni Avanzate. “Per quanto riguarda la creazione
del suo personaggio, volevamo renderlo qualcosa di radicato nella
mitologia di Nevermore, e il personaggio di Rosaline Rotwood ci è
sembrato naturale”, ha detto l’altro showrunner, Miles
Millar, a Deadline. “Si vede il cottage, è allestito,
è lì, e poi si scopre la storia attraverso l’interazione con
Mercoledì. È venuto fuori molto rapidamente”.
Cosa accade tra Mercoledì e la
Rosaline Rotwood di Lady Gaga
Mercoledì segue dunque il consiglio
di sua nonna, che Hester le dà con un piccolo avvertimento di stare
attenta. Nel cimitero, la lapide di Rotwood, intrisa della sua
energia oscura, sembra quella della visione di Mercoledì, con un
corvo appollaiato sopra, con le ali spiegate. L’iscrizione recita:
“All’ombra del corvo, concedimi l’uso della tua vista effimera.
Stai attenta. Se il mio sguardo dovesse essere spezzato, ti
giocherò un trucco mortale“. Come Hester aveva detto a sua
nipote, pronunciare queste parole l’avrebbe aiutata ad acquisire
temporaneamente il dono della chiaroveggenza.
Dopo aver recitato l’iscrizione,
Mercoledì viene trasportata in una stanza del cottage di Rotwood,
dove Gaga appare come la mitica professoressa Nevermore, vestita di
bianco e dall’aspetto etereo. Dice alla ragazza di non spezzare lo
sguardo del corvo tenendo il palmo della mano sopra una fiamma
accesa da una candela nera. Sfortunatamente, Enid (Emma
Myers) va a prendere Mercoledì al cimitero perché stanno
controllando il coprifuoco, quindi questo rompe lo sguardo. Rotwood
aveva detto che ci sarebbe stato “un prezzo da pagare” se ciò fosse
accaduto.
Il prezzo, a quanto pare, è uno
scambio di corpi tra Mercoledì ed Enid. Mercoledì nel corpo di Enid
si intrufola nella vecchia camera segreta di Rotwood, dove l’aveva
visitata alla tomba, nel cottage per cercare indizi su come tornare
indietro. Rotwood appare poi in un’altra apparizione spettrale e
dice a Mercoledì nel corpo di Enid che devono svelare i segreti
delle vite in cui sono entrate ed essere disposte a morire nelle
rispettive pelli.
Oltre ad apparire nella seconda
stagione, Gaga ha anche scritto una nuova canzone per lo show,
“The Dead Dance”, che è stata pubblicata insieme
all’arrivo della seconda parte su Netflix. La canzone accompagna la
routine di danza di gala di Enid e Agnes
(Evie Templeton). “Sapevamo che lei amava la
serie, il suo team ci aveva contattato, poi lei ha replicato la
danza di Mercoledì. Stavamo cercando un modo per averla nello show,
e poi lei ha pensato alla canzone per noi“, ha aggiunto
Gough.
”Si sente così emarginata a
causa della canzone “Bloody Mary” e del ballo, che è diventato
virale nella prima stagione. Poi è arrivata la canzone, e quando
l’abbiamo ascoltata per la prima volta, era su un link segreto,
potevamo ascoltarla solo una volta, ma era incredibile“. Sia
Gough che Millar hanno poi detto a Deadline che la porta è aperta
per il ritorno della cantante anche nella terza stagione.
Nel corso della cerimonia di
premiazione, tenutasi alle ore 16.30 di venerdì 5 settembre nella
Sala Perla del Palazzo del Casinò, sono stati annunciati i
vincitori dei tre premi ufficiali delle Giornate degli Autori: il
GdA Director’s Award,l’Europa Cinemas
Label e il Premio del
Pubblico.
La giuria delle
Giornate degli Autori, presieduta dal regista norvegese
Dag Johan Haugerud e composta dalla
produttrice italiana Francesca Andreoli, il
curatore del Dipartimento di Cinema presso il MoMA di New
York Josh Siegel, la regista e attrice
franco-palestinese-algerina Lina
Soualem e il direttore della fotografia
tunisino Sofian El Fani, ha decretato il
vincitore del GDA DIRECTOR’S AWARD, premio
dal valore di 20.000 euro per metà destinata al regista e per metà
al venditore internazionale del film.
Tra i dieci film in concorso della
22ª edizione delle Giornate degli Autori è Inside
Amir di Amir Azizi ad
aggiudicarsi il GdA Director’s Award 2025, con la seguente
motivazione:
“Il film che premiamo questa
sera è una meditazione sul quotidiano. Ci ricorda come le routine
di ogni giorno, i gesti e le conversazioni con gli amici, ci
offrano al tempo stesso sicurezza e libertà. Con uno sguardo che,
poco a poco, svela una vita complessa segnata dalla perdita e dal
lutto, sullo sfondo dell’esilio e dei turbamenti sociali, il film
ci pone domande fondamentali su cosa significhi appartenere e sui
dubbi esistenziali che emergono a partire da tali riflessioni. È un
film che si prende il tempo di ascoltare, e che mostra come
incontri inaspettati e spontanei creino una vita ricca. I dialoghi
precisi e la messa in scena restituiscono un forte senso di
presenza, e da spettatori ci sentiamo invitati con generosità a far
parte di un gruppo di amici, tanto nelle conversazioni intime e
profonde quanto in quelle più leggere e quotidiane… Un altro grande
piacere che questo film regala è il sottile uso di diversi periodi
temporali, spesso nella stessa inquadratura e persino durante lo
stesso giro in bici. È un onore assegnare il premio delle Giornate
degli Autori a Daroon-E Amir (Inside Amir) di Amir Azizi.”
L’EUROPA
CINEMASLABEL, creato da un network
di esercenti europei, con il sostegno del Programma MEDIA
dell’Unione Europea, è un premio dedicato ai film di produzione e
co-produzione europea, grazie al quale il vincitore può beneficiare
del sostegno promozionale di Europa Cinemas e di una migliore
distribuzione.
La giuria 2025, composta da
Manuel Asín (Cine Estudio del Círculo de
Bellas Artes, Madrid, Spagna), Simon
Blaas (Cinema Middelburg, Middelburg, Paesi
Bassi), Ivan
Frenguelli (PostModernissimo, Perugia, Italia)
e Signe-Annie Lindstedt (Zita Folkets
Bio, Stoccolma, Svezia) ha assegnato l’Europa Cinemas Label
a Bearcave di Stergios
Dinopoulos e Krysianna B.
Papadakis.
La giuria ha motivato così il
premio:
“Bearcave è un esordio
nel lungometraggio estremamente innovativo e vitale di Stergios
Dinopoulos e Krysianna B. Papadakis, supportati da una troupe
giovane e di grande talento. Il film segue la relazione tra due
giovani donne queer in un remoto villaggio tra le montagne dei
Balcani. L’opera, che al contempo unisce e contrappone antico e
moderno, ha un impianto che richiama quello di un thriller, ma è
attraversata da un marcato tocco di soprannaturale. Musica,
montaggio e fotografia risultano estremamente originali, e le
interpretazioni delle due protagoniste sono straordinarie. Speriamo
che l’assegnazione di questo premio possa incoraggiare i
distributori e il pubblico in tutta Europa.”
Il PREMIO DEL
PUBBLICO, decretato sulla base delle preferenze espresse
dagli spettatori in Sala Perla nel Palazzo del Casinò al termine
delle proiezioni della selezione ufficiale, è stato conquistato
eccezionalmente da due film
ex-aequo: Memory di Vladlena
Sandu e Asad
and beautiful world di Cyril
Aris, entrambi con il 77,4% di
preferenze da parte del pubblico.
La Settimana Internazionale della
Critica (SIC), sezione autonoma e parallela organizzata dal
Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI)
nell’ambito della 82. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
della Biennale di Venezia (26 agosto – 06 settembre 2025), ha
assegnato oggi, venerdì 5 settembre, i premi della 40esima
edizione.
La giuria internazionale composta da
Valentina e Nicole Bertani, Nathalie Jeung e Lee Hong-chi ha
assegnato il Gran Premio IWONDERFULL a “STRAIGHT CIRCLE” di Oscar
Hudson. Questa la motivazione: “Una coloratissima e assurda
commedia nera si trasforma progressivamente in un incubo a occhi
aperti, sullo sfondo di un mondo distopico in cui due soldati di
fazioni opposte si ritrovano stazionati sullo stesso confine
deserto. Di forte impatto visivo, il film ci ha colpito in
particolare per l’interpretazione impeccabile dei due protagonisti.
Si tratta di una parabola contro la guerra, in un tempo in cui le
dispute sui confini seminano discordia un po’ in tutto il
mondo”.
A “ISH”
del regista Imran Perretta va il Premio del Pubblico con una
votazione di 4.3/5.
Il Premio Luciano Sovena alla
Miglior Produzione Indipendente va ad “AGON” di
Giulio Bertelli, con la seguente motivazione: “Grazie a un lavoro
attento di costruzione e di cura, Agon si impone come esempio di
cinema indipendente capace di coniugare forza narrativa, ricerca e
tanta innovazione.
I produttori hanno saputo sostenere
con attenzione lo sguardo di un giovane autore, accompagnandolo in
un percorso complesso e rischioso, garantendo qualità artistica e
solidità produttiva pur in un contesto indipendente”.
“WAKING HOURS” di
Federico Cammarata e Filippo Foscarini si aggiudica il Premio Mario
Serandrei – Hotel Saturnia per il Miglior Contributo Tecnico,
assegnato da un’apposita commissione di esperti composta da Sara
D’Ascenzo, Davide Di Giorgio e Carlo Griseri, con la motivazione:
“Attraversando i tanti confini che lacerano il mondo, il film si
spinge in un autentico passaggio di stato dell’immagine dalla
materia all’astrazione, grazie al lavoro sperimentale (e mai fine a
sé stesso) della fotografia, che disegna nuove geografie umane in
isolati punti luce”.
“STRAIGHT
CIRCLE” si aggiudica, infine, anche il Premio Circolo del
Cinema di Verona come film più innovativo, assegnato dalla giuria
under 35 composta da Anna Sergio, Angela Giona, Giovanni Cicogna,
Giovanni Delaini e Adele Kekulthotuwage con la motivazione: “Il
cinema è un confine. Non tra realtà e finzione ma tra lo spettatore
e i confini stessi. La realtà cinematografica sfugge alla gabbia
della materia, assottiglia i confini e apre agli spettatori un
varco verso la luce. Una visione che ci ha fatto pensare al
confine, al nemico, alla terribile potenza di una riga, un segno,
un pezzo di terra con delle scritte. Una profonda riflessione
sull’incapacità di comprendere e superare le proprie insicurezze,
sull’indecisione, sull’odio che diviene intrinseca identità
dell’individuo. Un cerchio dritto, un confine che non è confine ma
prigione inesauribile e inevitabile che uccide il ricordo e la
coscienza”.
Nell’ambito della nona edizione di
SIC@SIC (Short Italian Cinema @ Settimana Internazionale della
Critica) la giuria, composta da tre professionisti dell’industria
cinematografica – Alessandra Speciale, Gianluca Matarrese e
Alessandro Amato, ha selezionato i seguenti vincitori tra i sette
cortometraggi in concorso:
Premio Miglior Cortometraggio
“MARINA” di Paoli De Luca con la motivazione: “Con
un approccio visivo fortemente sensoriale e un linguaggio che
privilegia l’esperienza estetica interiore, il film racconta con
autenticità e senza facili giudizi un percorso identitario ancora
in divenire ma vitale che, passando attraverso difficoltà emotive e
un turbamento irrisolto, giunge a una fragile serenità, immergendo
lo spettatore nella storia attraverso una narrazione fluida e
sospesa tra malinconia e dolcezza” che vince anche quello come
Miglior Contributo Tecnico con la motivazione: “Per una regia
capace di trasformare ogni inquadratura in un riflesso interiore,
con una messa in scena delicata ma potentemente espressiva, e per
una fotografia che costruisce un racconto emotivo che accarezza i
corpi, rivelando la complessità identitaria attraverso immagini di
rara intensità, coerenza formale e freschezza, come un tuffo in
piscina”.
Premio Migliore Regia “FESTA IN
FAMIGLIA” di Nadir Taji con la motivazione: “La regia consapevole e
potente affronta una storia cruda e drammatica, raccontando con
lucidità l’incapacità dei personaggi di confrontarsi con la
fragilità di una famiglia segnata da un trauma che rompe gli
equilibri.
La narrazione si affida a una
direzione attoriale precisa ed efficace, sorretta da una padronanza
del linguaggio che rinuncia ai manierismi per costruire una
drammaturgia solida, tesa e coerente dall’inizio alla fine”.
La stessa giuria ha assegnato una
menzione speciale a “EL PÜTI PÈRS” di Paolo Baiguera, con la
motivazione: “Per aver saputo intrecciare memoria personale e mito
popolare in un racconto narrativo sospeso tra realismo e fiaba, per
aver trasformato il dolore in simbolo, il bosco in uno spazio di
mistero e di perdita, il legno in scultura, restituendo l’enigma e
la persistenza di una ferita mai rimarginata”.
Il premio assegnato dal Centro
Nazionale del Cortometraggio va a “THE PØRNØGRAPHƏR” di HARIEL.
Questa la motivazione:
“Un antidoto al veleno nostalgico
che celebra il (cinema) classico. Un film breve che penetra lo
sporco, il deforme e l’errore, per ammaestrare l’algoritmo, lo
sguardo e la carne.Una ricognizione che non rinuncia all’empatia e
al gioco. Senza l’affanno indotto dall’eros, “THE PØRNØGRAPHƏR” di
HARIEL è anche la storia di tutti noi spettatori.”
“Quaranta edizioni per continuare a
credere in un cinema che sceglie, che rischia, che parla al
presente con voce propria. Questa edizione ha acceso immagini vive,
corpi che resistono, sogni che rivendicano spazio. E un pubblico
curioso, giovane, attento ha raccolto il messaggio. Il futuro non è
scritto, ma si può filmare.”commenta così questa edizione il
Delegato Generale Beatrice Fiorentino.
“Ancora una volta il pubblico della
Mostra ha premiato la Settimana Internazionale della Critica che da
40 edizioni segnala il cinema del futuro, dando spazio alla
sperimentazione e all’innovazione, mentre la Casa della critica,
per il quarto anno, ha ospitato critici, giornalisti, addetti ai
lavori e giovani appassionati dando occasioni importanti di
crescita e di networking” dichiara Cristiana Paternò, Presidente
del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani
(SNCCI).
Va a La grazia di Paolo Sorrentino
(Venezia 82) il Premio Francesco Pasinetti 2025 per il
miglior film italiano assegnato a Venezia, come
tradizione, dai Giornalisti Cinematografici Italiani (SNGCI). Fra
gli attori protagonisti sugli schermi della Mostra 82 il
prestigioso riconoscimento è attribuito a Toni Servillo, ancora per
La grazia e a Valeria Bruni
Tedeschi per Duse di Pietro
Marcello. Ad Anna Ferzetti, un
Pasinetti ‘speciale’ per la sua grande prova
d’attrice a fianco di Servillo nel film di Sorrentino.
Nel ricordare che i
‘Pasinetti’ sono i premi storici assegnati dalla stampa a Venezia
fra tutte le opere italiane presentate nelle diverse sezioni, i
Giornalisti Cinematografici segnalano un’annata di eccellenza
soprattutto nelle performance delle attrici che, a partire
dall’interpretazione di Barbara Ronchi in Elisa di
Leonardo Di Costanzo, hanno dato vita una galleria di straordinarie
protagoniste nei film italiani selezionati quest’anno. I
giornalisti sottolineano inoltre la qualità di una selezione ricca
di opere che confermano la vivacità e la varietà dell’offerta
proposta da quest’edizione della Mostra diretta da Alberto Barbera,
che ha offerto visibilità al cinema italiano e merita adesso anche
l’attenzione del pubblico nelle sale.
Ecco in sintesi le
motivazioni:
MIGLIOR FILM
La graziadi Paolo Sorrentino
Un film
Fremantle scritto e diretto da Paolo Sorrentino.
Prodotto da
Annamaria Morelli per The Apartment, società del Gruppo
Fremantle
da Paolo Sorrentino
per Numero 10 e da PiperFilm che lo distribuirà
in sala
“Un film
importante, sorprendente e inatteso, magnificamente costellato da
piccoli colpi di scena in cui ironia e leggerezza scandiscono il
tarlo del dubbio in una lunga riflessione esistenziale. Ricco di
dettagli che richiamano iconicamente tutto il cinema di Sorrentino,
il film è come sempre e più di sempre un viaggio che abbraccia la
politica come la vita. Il tormento del dubbio, in una magnifica
sceneggiatura, fa riflettere sull’amore e sul senso dei dilemmi
morali, sul tema del perdono e sull’impossibilità di sfuggire, nel
pubblico come nel privato, al senso di responsabilità.”
MIGLIORE ATTORE
PROTAGONISTA
Toni Servillo –La grazia
di Paolo Sorrentino
“Nel film di
Sorrentino ancora una volta una prova eccellente quella di
Servillo, con un personaggio diviso fra il tormento di un antico
dubbio sentimentale e l’impossibilità di elaborare un lutto, la
malinconia di una solitudine interiore e la tensione degli ultimi
giorni di un mandato al Quirinale – con la possibilità di
riconquistare un senso di fiducia in se stesso come nelle persone,
di cui costantemente dubita. Nel richiamo al senso di
responsabilità sui grandi temi che affronterà fino all’ultimo
istante del mandato presidenziale, è perfetto l’equilibrio fra
riflessione ed emozione, in una prova di recitazione sublime anche
nei momenti in cui ci regala la sorpresa di un inatteso intermezzo
di passione rap.”
PREMIO PASINETTI
SPECIALE
Anna Ferzetti –La grazia
di Paolo Sorrentino
“Preziosa
consigliera del padre Presidente, Dorotea è l’ago della bilancia
nel termometro del suo umore e dei suoi dubbi in un duetto che
alterna il complesso dibattito tecnico alla complicità
intellettuale, il costante invito a lasciar andare la malinconia e
quel certo immobilismo caratteriale che rischia a tratti di
appannare il ‘cemento armato’ del carattere presidenziale per
mancanza di coraggio. Con dolcezza e determinazione la Dorotea di
Anna Ferzetti è talmente incisiva nel confronto con il Presidente
Toni Servillo da essere presente anche nei momenti di assenza,
alternando la pazienza di una figlia comprensiva all’inevitabile
durezza di una giurista lucida e determinata.”
MIGLIORE ATTRICE
PROTAGONISTA
Valeria
Bruni Tedeschi –Dusedi
Pietro Marcello
“Una Eleonora
Duse immensa e straordinariamente moderna in un’interpretazione che
unisce lo spirito del teatro alla forza di un grande cinema in un
ritratto potente e inedito, ricco di sfumature. Una meravigliosa
interpretazione che riaccende di novità la figura di un’attrice qui
non solo iconica ma vitale, appassionata e tenace fino alla
fine.”
Franco
Maresco torna a Venezia con un’opera che è, insieme,
film e contro-film. Un film fatto per
Bene prende le mosse da un progetto ambizioso: un
lungometraggio dedicato a Carmelo Bene. Le
riprese, però, naufragano tra incidenti, ciak infiniti e ritardi
insostenibili. Andrea Occhipinti, produttore
esasperato, decide di tirare il freno a mano e interrompere tutto.
Maresco reagisce con un’accusa di “filmicidio” e sparisce
dalla circolazione. A raccogliere i cocci ci prova Umberto
Cantone, amico e complice di sempre, che si mette sulle
tracce del regista, interrogando colleghi, tecnici e testimoni di
un’impresa tanto folle quanto impossibile.
Il fantasma di
Maresco
La ricerca di Cantone si
trasforma presto in un viaggio dentro il mito maresciano: l’autore
che da decenni alterna comicità corrosiva e disperata riflessione
sull’Italia. Ma se in superficie seguiamo le testimonianze sul
naufragio del film, in profondità si intravede un altro percorso:
quello di un artista che si sottrae al presente,
quasi un eremita che continua a filmare lontano da tutto e da
tutti, con un solo scopo dichiarato: dare forma alla rabbia e
all’orrore per un mondo “di merda”. In questa prospettiva,
l’opera diventa un autoritratto involontario, una
confessione che oscilla tra ironia e abisso.
Satira
irriducibile
Come spesso accade nel
cinema di Maresco, lo spettatore è spiazzato da una satira che non
concede sconti. Tra immagini disturbanti, apparizioni grottesche e
improvvisi lampi comici, il film mette alla berlina non solo il
sistema produttivo italiano, ma anche l’idea stessa di cinema come
forma salvifica. Se negli anni Novanta le provocazioni con Ciprì
scuotevano censure e critici per blasfemia e oscenità, oggi Maresco
sembra concentrarsi su un bersaglio più intimo: se stesso.
Il risultato è un gioco di specchi in cui la realtà e la
finzione si inseguono, senza mai incontrarsi davvero.
Tra disperazione e
lucidità
Un film fatto per
Bene non è un’opera facile né conciliante. È lenta, a tratti
esasperante, eppure impossibile da liquidare. Dentro la sua
struttura caotica pulsa la voce di un autore che, pur dichiarando
di non credere più alla capacità del cinema di cambiare il mondo,
continua a usarlo come campo di battaglia personale. La frase che
chiude idealmente il film — “Da giovane sapevo che la bellezza
non avrebbe salvato il mondo, ma credevo che il cinema avesse
ancora un senso” — suona come un testamento. Amaro,
autoironico, disperato. In altre parole: perfettamente
maresciano.
Con
Scarlet
(Hateshinaki Scarlet),
presentato in concorso a Venezia 82, Mamoru
Hosoda firma il suo film forse più ambizioso e, al
tempo stesso, più fragile. Dopo aver raccontato famiglie ricomposte
(Wolf Children), futuri
digitali (Summer Wars) e
viaggi intergenerazionali (Mirai), il regista giapponese affronta il mito
shakespeariano di Amleto attraverso una principessa guerriera,
costruendo un’anime che mescola melodramma, fiaba medievale e
musical. Un’operazione che, almeno nelle intenzioni, vorrebbe
spingersi oltre i confini del fantasy tradizionale, ma che fatica a
trovare un vero equilibrio.
Una
principessa shakespeariana tra vendetta e perdono
Scarlet è una principessa e spadaccina che sogna
di vendicare l’assassinio del padre, orchestrato dall’usurpatore
zio Claudius. Tradita e avvelenata, precipita in un limbo
ultraterreno dove tempo e spazio si dissolvono: un
“Otherworld” sospeso tra passato e futuro, deserti e
castelli, cavalieri e banditi. Qui incontra
Hijiri, un giovane infermiere proveniente dal
presente, che diventa suo compagno di viaggio in una ricerca che si
trasforma progressivamente da vendetta a scoperta di sé. Hosoda
costruisce così una parabola che intreccia il destino individuale
con la responsabilità collettiva, tentando di trasformare l’iconico
“essere o non essere” in una riflessione sul valore della
pace in un mondo fondato sul conflitto.
Potenza visiva e fragilità narrativa
A
colpire, come spesso nel cinema di Hosoda, è la dimensione visiva:
le tempeste di sabbia, le eruzioni di lava, i tappeti ricamati in
prospettiva zenitale sono momenti di pura meraviglia, amplificati
da un sound design possente. L’animazione raggiunge punte di
raffinatezza notevole, confermando il regista tra i maestri
dell’immaginario contemporaneo. Tuttavia, la narrazione non regge
la stessa forza. Troppi registri si accavallano: l’epica medievale,
il melodramma, il musical (con un brano centrale in cui i
personaggi cantano “Tell me about love”) e le citazioni
shakespeariane finiscono per appesantire il racconto, che procede a
scatti, più interessato a ribadire concetti che a lasciare allo
spettatore la libertà di interpretarli.
Shakespeare in versione anime?
Il
tentativo di rileggere Amleto attraverso l’animazione poteva aprire a
un’esplorazione fertile delle emozioni e dei conflitti universali
del testo. Eppure, nonostante l’originalità dell’idea di gender
swap (una principessa al posto del principe), Scarlet non scava davvero nella complessità
dell’opera shakespeariana: i dilemmi diventano frasi a effetto, la
tragedia si stempera in moralismo, e il percorso di Scarlet si
risolve in una catarsi prevedibile. La stessa presenza di
personaggi come Polonio, Laerte, Rosencrantz e Guildenstern appare
più come un omaggio teatrale che come un elemento realmente
funzionale.
I
punti di forza sono evidenti: un design spettacolare, una resa
sonora e visiva immersiva, un mondo immaginifico che potrebbe quasi
sostenere da solo l’esperienza. Il limite, tuttavia, sta nella
scrittura: avrebbe giovato il respiro intimo che Hosoda padroneggia
in altre sue opere, qui sostituito da una tensione eccessivamente
decorativa.
È un concorso di piante quello di
Venezia 82. Le abbiamo viste ramificarsi nella
quotidianità e nell’animo del protagonista di No Other Choice; attraversare il fogliame carponi da
Hsiao-lee in Girl e, ora, ergersi a testimone silenzioso di tre
vite che si incrociano riflettendo sul bisogno di contatto umano e
la nostra vicinanza a diverse forme di esistenza, con
Silent Friend di Ildikó
Enyedi.
All’ombra di un Ginkgo biloba che
sovrasta un’università tedesca dal 1832 vanno intersecandosi le
storie di un professore universitario silenzioso (Tony
Leung) rimasto isolato nel campus allo scoppio della
pandemia da Covid 19; quella dell’unica studentessa femmina in una
classe di soli uomini nel 1908; infine, quella di uno studente di
letteratura degli anni ’70 che legherà con una ragazza appassionata
di esperimenti botanici.
L’albero che unisce
Il professore Wung
cerca tramite le neuroscenze di trovare metafore dei fenomeni del
mondo. Al momento, indaga sull’idea della conoscenza lantera,
ovvero il fatto che la mente dei bambini non smette mai di lavorare
di fronte a uno stimolo – “sono sempre sballati“, dirà –
finchè non sente la necessita di ramificare questo suo sapere
estendendolo anche al mondo vegetale, tramite l’aiuto di un’esperta
del settore (Léa
Seydoux).
Vi è poi Grete
(Luna Wedler), a cui una commissione tutta al
maschile si riferità senza soluzione di continuità come “una
femminista libera” o “una futura scienziata“. Nel
corso di un imbarazzante esame di ammissione, le vengono solo fatte
domande a sfondo erotico, ad esempio la classificazione della
piante in base al sesso elaborata da Carlo Linneo. La giovane,
tuttavia, dimostrerà una conoscenza invidibiale, guadagnandosi
l’ingresso in università. La sua sete di conoscenza, però, non si
limiterà alla botanica: verrà poi in contatto con la macchina
fotografica, strumento per studiare la fragile natura della realtà
e, forse, per leggere ancora meglio queste piante.
Infine c’è Hannes
(Enzo Brumm), unico studente vestito elegante in
mezzo ai capi leggeri e svolazzanti della gioventù anni ’70. Una
figura che funziona come una sorta di ponte tra passato e post ’68,
che legge Rielke e cita Goethe. Tramite la conoscenza con la
coinquilina Gundula e, soprattutto, il suo
geranio, si interesserà a un mondo di cui fino ad allora non si era
mai curato.
Tutto è foglia
In tutti i casi, l’obiettivo ultimo
dei nostri protagonisti è quello di trovare un linguaggio,
immortalare un’esperienza tra outsiders che è insieme
intima (tutti i personaggi sono in qualche modo alienati rispetto
al grande disegno accademico) e universale (neanche il passare dei
tempi può cancellare la curiosità umana e la spinta verso
l’altro).
Silent
Friend è un film anche sull’istitutuzione
universitaria, sul piacere della scoperta condivisa, slancio che la
pandemia ha irrimediabilmente accantonato, svuotando i campus e le
scuole, relegando la formazione culturale ad obbligo prima che
esperienza. Non c’è vita sociale nei giardini botanici, le piante
muoiono di solitudine, svelerà la scienziata interpretata da
Lea Seydoux, rispecchiando l’esperienza che noi
umani abbiamo vissuto negli ultimi anni.
Sopra ogni vetta è pace
Silent
Friend lavora soprattutto per immagini e mentiremmo
se dicessimo che solo qualcuna di queste ci è rimasta impressa. C’è
però un’inquadratura precisa che esemplifica da sè il senso stesso
dell’ampia riflessione imbastita da Enyedi, in cui il professore e
il custode diventano parte del fogliame: una nuova idea di
socialità che deve partire dalle radici per elevarsi verso l’alto,
lassù dove è pace.
I co-amministratori delegati della
DC Studios James Gunn e Peter Safran
hanno ripetutamente affermato di voler raccontare il maggior numero
possibile di storie diverse all’interno e intorno alla DCU. Tra le più intriganti c’è il film
d’animazione Dynamic
Duo di Swaybox.
Annunciato lo scorso ottobre, il film dovrebbe rappresentare
per la DC un punto di svolta nell’animazione pari a quello che
Spider-Man: Un nuovo universo ha rappresentato per
Marvel e Sony.
Ora, a distanza di quasi un anno,
arriva finalmente un aggiornamento sul progetto: è infatti stata
appena scelta una nuova coppia di sceneggiatori per riscrivere la
sceneggiatura e, insieme a questa notizia, sono stati rivelati
alcuni dettagli aggiuntivi sulla trama. Secondo The Wrap,
Scott Neustadter e Michael H.
Weber stanno ora lavorando a Dynamic Duo.
I due sono noti soprattutto per aver scritto
500 giorni insieme di Marc Webb e
aver ottenuto una nomination all’Oscar per The
Disaster Artist.
La rivista rivela poi che il film,
che “è una combinazione di miniature, modelli, marionette,
animatronica e animazione al computer” e ruoterà attorno a
Dick Grayson e Jason Todd, che in
questa storia hanno entrambi assunto il ruolo di Robin come spalla
di Batman. Si tratta di un cambiamento significativo rispetto ai
fumetti, quindi si sarà probabilmente sollevati nell’apprendere che
Dynamic Duo “si svolgerà in una linea temporale separata dai
film con Robert Pattinson e, a quanto ci risulta, al
di fuori dell’attuale canone dell’universo DC”.
Questo ha sicuramente più senso che
considerarlo un “prequel” di
The Brave and the Bold, un film che dovrebbe ruotare
attorno a Bruce Wayne che addestra suo figlio Damian a diventare
Robin (il che suggerisce che Batman abbia già protetto Gotham City
insieme a Dick, Jason e Tim Drake). Nei fumetti, Dick è stato il
primo a ricoprire questo ruolo prima di lasciare Batman per
diventare Nightwing. È stato accolto come pupillo di Bruce Wayne
dopo che i suoi genitori, gli acrobati Flying Graysons, sono stati
uccisi dai gangster.
Per quanto riguarda Jason, Batman lo
ha trovato mentre tentava di rubare una delle ruote della Batmobile
e lo ha preso sotto la sua ala protettrice. Jason non è però mai
stato il figlio obbediente che era Dick e finì per essere ucciso
dal Joker. Tuttavia, in seguito sarebbe risorto dai morti come il
violento vigilante Red Hood. Non sono mai stati Robin
contemporaneamente.
Dynamic Duo sarà un film
d’animazione realizzato da Swaybox
Swaybox utilizza
una tecnologia chiamata “Momo Animation”, descritta come un
incrocio tra animazione CGI, elementi pratici di stop-motion e
performance live-action in tempo reale. Il risultato è una
narrazione che si dice sia visivamente mozzafiato, dinamicamente
espressiva e più umana. James
Gunn e Peter Safran saranno
produttori per DC Studios, mentre Matt Reeves è a
bordo con il suo studio 6th & Idaho. Andersson e Michael Uslan di
Swaybox sono anche impegnati in ruoli di produzione.
All’inizio di quest’anno, il
co-amministratore delegato della DC Studios James Gunn ha suggerito
che potrebbe esserci un modo per rendere il Dynamic
Duo “canonico” in futuro. “Potrebbe esserci un modo
per inserirlo nella DCU”, ha anticipato. “Mi piacerebbe
che questo film d’animazione con pupazzi facesse parte della DCU.
L’idea mi piace molto, ma la storia è unica, quindi potrebbe non
funzionare nel nostro universo”.
Dynamic Duo, al momento, uscirà nelle sale
il 30 giugno 2028.
Nel quinto anniversario
della scomparsa di Willy Monteiro Duarte, Eagle Pictures — la
stessa casa di produzione de Il ragazzo dai pantaloni
rosa, campione d’incassi al box office — diffonde il trailer
ufficiale di 40 SECONDI, il
nuovo film diretto da Vincenzo Alfieri, tratto dal libro 40
SECONDI. Willy Monteiro Duarte. La luce del coraggio e il buio
della violenza di Federica Angeli (Baldini+Castoldi).
In arrivo nelle sale
italiane dal 20 novembre 2025, il film ricostruisce le ultime
ventiquattro ore prima della notte del 5 settembre 2020,
restituendo con sguardo autentico e asciutto la fragilità
giovanile, il senso di smarrimento di una generazione e l’assurdità
di una violenza improvvisa.
Un’opera che evita ogni
spettacolarizzazione, scegliendo un linguaggio diretto, vicino ai
più giovani, e preferendo porre domande piuttosto che offrire
risposte. 40 SECONDI non cerca colpevoli, ma invita a
riflettere.
Il regista e la
produzione hanno scelto di realizzare un attento street casting per
selezionare alcuni dei protagonisti, con l’obiettivo di affiancare
attori professionisti a volti nuovi e restituire così tutta
l’autenticità della storia. Dopo centinaia di provini è stato
scelto Justin De Vivo per la prima volta sullo schermo interpreta
Willy, affiancato da un ampio ensemble che annovera
Francesco Gheghi, Enrico Borello, Francesco Di Leva, Beatrice Puccilli,
Giordano Giansanti, Luca Petrini e con Sergio Rubini e Maurizio Lombardi.
Il film è scritto da
Vincenzo Alfieri e Giuseppe G. Stasi.
La trama di 40
Secondi
Un litigio per un
semplice equivoco si trasforma in un pestaggio di una violenza
inaudita ai danni di Willy Monteiro Duarte, un ragazzo di ventuno
anni che, in 40 secondi, viene ucciso. Ispirato a una storia
vera, il film ripercorre le ventiquattro ore che precedono il
tragico evento, in cui si intrecciano incontri casuali, rivalità e
tensioni latenti: un viaggio attraverso la banalità del male che
indaga la natura umana e i suoi condizionamenti.
Il film è prodotto e
distribuito da Eagle Pictures, con il contributo del Fondo per lo
sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo, il
patrocinio della Città di Guidonia Montecelio e la concessione del
Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia – Parco archeologico
Cerite e via degli Inferi.
La
regista è arrivata al Lido insieme al cast del film, sfilando sul
red carpet tra applausi e flash. La presenza della troupe ha reso
l’evento uno dei momenti più seguiti della giornata, con il
pubblico che ha accolto calorosamente Enyedi e i suoi
interpreti.
Le
immagini raccontano l’atmosfera della serata veneziana, tra
eleganza e entusiasmo, confermando Silent Friend come uno dei titoli più attesi e discussi
del concorso. Con la sua regia intima e poetica, Enyedi ha portato
ancora una volta al Lido il suo cinema sospeso tra realtà e
immaginazione, catturando l’attenzione della critica
internazionale.
Il red carpet ha rappresentato non solo un momento di celebrazione,
ma anche l’occasione per il cast e la regista di condividere con il
pubblico l’emozione di presentare il film a Venezia, in un’edizione
che si conferma ricca di opere autoriali e di forte impatto.
Sfoglia la nostra gallery per rivivere i momenti più belli del red
carpet di Silent Friend
a Venezia 82.