La senti quasi in bocca,
scricchiolare tra i denti, arrivare fino alle narici, toglierti il
respiro. La sabbia di Dune avvolge tutto e
ricopre un mondo che esce dai confini dello schermo per immergerti,
avvolgerti, farti suo.
Denis
Villeneuve non si limita a rileggere l’ostico romanzo di
Frank
Herbert, ma ricalca filologicamente quelle pagine per
creare un universo immersivo, visivamente magistrale e magnetico.
Non è un volo pindarico il suo, e nemmeno un mero esercizio di
stile. Villeneuve lo aveva già dimostrato precedentemente con
Arrival e
Blade Runner 2049: si
avvicina ai canoni strutturali del genere della fantascienza per
integrarlo con il proprio sguardo autoriale, arricchito di nozioni
filosofiche e associazioni dirette con il nostro
presente.
Perché alla fine questa è
la vera fantascienza: spogliata del lato ludico e di puro
intrattenimento con il quale è stato zavorrato negli ultimi anni,
il genere sci-fi nasce per immaginarsi il futuro parlando delle
ombre del proprio presente. E il nostro presente è claustrofobico,
buio, come il mondo che avvolge Paul Atreides, ammantato dall’ombra
del pregiudizio e della paura del diverso.
Con Dune,
Villeneuve completa pertanto la propria trilogia sul mondo
contemporaneo scritto con la lingua della fantascienza. Un saggio
che attinge a piene mani nel mondo immaginato da Herbert, e ridato
indietro con intelligenza, maestria, grazie anche a un comparto
visivo di pura bellezza estetica, sostenuto da una colonna sonora
roboante e a tratti angosciante firmata da Hans
Zimmer.
Un quadro in movimento di
radice romantica, sublime nella sua carica inquietantemente
magnetica e attrattiva, il Dune
di Denis Villeneuve. E come tutti i quadri, ha
bisogno di tempo per essere compreso, studiato e letto nei minimi
dettagli così da poter essere apprezzato appieno.
In Dune ogni
informazione viene restituita con la forza dell’immagine, più che
della parola. Basta la minima distrazione che il filo che tiene
unito il discorso formulato da Villeneuve si spezza e tutto si
sgretola come castelli di sabbia.
Dune, la
trama
Sul desertico pianeta
Arrakis si trova la Spezia, sostanza preziosa per una varietà di
motivi. Alla casata Atreides e al suo capo, il Duca Leto, viene
affidato il controllo del pianeta. In realtà dietro a questo
passaggio di controllo si nasconde una congiura per eliminarlo.
Leto ha però un figlio, Paul, il quale è dotato di particolari
poteri che sta sviluppando con l’aiuto di sua madre Lady Jessica.
Non passa molto tempo che oltre al casato, Paul erediterà il
pericolo di essere eliminato.
La parola agli
occhi
Ci chiede di stare
attenti, il regista canadese. Di affidare ogni forza interpretativa
ai propri occhi, piuttosto che alle proprie orecchie. Perché in un
mondo come quello che vede scontrarsi la Casa Atreides contro la
Casa Harkonnen, la parola perde di importanza. La struttura
narrativa c’è, ma è costruita su una funzione prettamente
informativa. Più che parte 1, il Dune di Denis Villeneuve in
uscita il 16 settembre 2021 e presentato alla 78.esima edizione
della Mostra del cinema di Venezia, è da considerarsi come una
“parte 0”. Talmente complesso l’universo che racconta, e le
sottotrame che si appresta ad affrontare, da sfruttare la potenza
immaginifica dei primi due atti per fornire ai propri spettatori
tutte le nozioni basilari per comprendere il suo mondo.
I sacrifici, i punti di
svolta, i tradimenti sono elementi che ordiscono una trama
complessa ma che Villeneuve rende comunque accessibile perché
totalmente affidata al racconto visivo, linguaggio non-verbale
universalmente comprensibile. Eppure è tra gli inframezzi del suo
più grande pregio che si nasconde anche il suo punto più debole.
Seguire un percorso costruito con la forza dello spettacolo visivo
significa chiedere tanta concentrazione al proprio pubblico, cosa
che dopo due ore porta a una prevedibile stanchezza.
Il viaggio dell’eroe di
un Paul investito di attese, speranze, un po’ Luke Skywalker, un
po’ Messia, prende e trascina il proprio spettatore al centro
dell’azione, estenuandolo nello stesso modo in cui estenuato è il
suo protagonista. Combaciano perfettamente il pubblico e i
protagonisti di Villeneuve; uno sdoppiamento perfetto che sussurra
a entrambe le parti le fattezze del proprio destino, spingendo a
chiudere gli occhi perché troppo opprimente il peso del futuro,
l’immagine di ciò che sarà, l’essenza di un destino che siamo
chiamati a modificare.
Universo di stelle e
sabbia
Per un universo che
appoggia la propria potenza immaginifica sulla forza dello sguardo,
risultava imprescindibile che a farsi presta-corpo dei personaggi
immaginati da Herbert, fossero degli interpreti capaci di
comunicare ogni singolo mutamento umorale con la forza della mimica
espressiva. Un minimo cenno della testa, uno sguardo, una più
piccola e impercettibile espressione, si fanno ponti diretti con
l’interiorità di Leto, Paul, e di tutta la galleria di uomini e
donne che abitano l’universo di Dune. Non c’è un attore che
non risponda con talento e profondità interpretativa alla chiamata
di Denis Villeneuve. Nello sguardo basso, e negli occhi a volte
assenti di
Timothée Chalamet si ritrova tutto quell’universo
abitato da timori e paure di Paul Atreides.
Complice la giovane età,
il corpo esile, e quella mimica così espressiva, l’attore di
Chiamami col tuo nome riesce a far trasparire
tutto il difficile percorso intrapreso dal suo protagonista:
un’educazione sentimentale e personale orientata alla scoperta del
vero senso del suo esistere e del compito che lo attende sia nelle
vesti di essere umano che erede di una delle più importanti casate
nobiliari.
Oscar Isaac cammina invece a testa alta, spalle
dritte, facendosi colonna umana di un’intera casata. Abbattuta
quella parete portante crolla tutta la forza di un popolo sostenuto
con fedeltà, lealtà e giustizia. Perfino
Jason Momoa riesce a far trasparire la sua carica più
drammatica, investendo di nuove sfumature una fisicità che per
quanto presente, passa comunque in secondo piano. Dal canto suo
Rebecca Ferguson è invece un camaleonte capace di
adattarsi a ogni situazione, traducendo ogni mutamento emotivo
della sua Lady Jessica in uno sguardo penetrante, sensibile e
coraggioso.
Riflessi eterogenei
provenienti dall’unicità dell’essere donna, che ritrovano una
costante nel discorso autoriale di un regista come Villeneuve,
sempre attento a destinare ai propri ruoli femminili, il risvolto
dell’intera faccenda. Prima lady Jessica, poi la Chani di
Zendaya, sono le donne le figure chiamate a portare
sulle proprie spalle il peso della rivoluzione, della democrazia,
dello sguardo puro e limpido in un mondo marcio e in decomposizione
(si pensi solo al personaggio di
Emily Blunt in
Sicario).
La sabbia di oggi in
quella di domani
Immortalati da riprese di
ampio respiro, che con campi lunghi, e totali, uniscono non solo
ogni personaggio a quell’ambiente desertico che lo sovrasta,
modella, crea come castelli di sabbia, ma anche e soprattutto con i
propri comprimari. Si necessita pertanto di una chimica tra i vari
interpreti che Villeneuve è riuscito a creare, stabilendo tra ogni
personaggio un legame che lo avvicini, o allontani empaticamente,
l’uno con gli altri.
Una giostra
caleidoscopica di umori, caratteri, psicologie, che ogni interprete
riesce a far suo, renderlo personale e allo stesso tempo
riconoscibile nutrendosi dalla sostanza dell’inchiostro di Herbert
per dar vita alla propria visione di Chani, Paul, Lady Jessica,
Leto, Stilgar ecc. Un universo di stelle investite da manti di
sabbia che parla al cuore e all’intelletto dello spettatore,
scuotendolo dal torpore della sala per indirizzarlo verso questioni
nodose e di forte impatto sociale come lo sfruttamento delle
risorse ambientali (vedi le Spezie), e di manodopera nel Terzo
Mondo.
È solo un’anticipazione
di quel che sarà, un antipasto servito con cura e maestosa eleganza
della durata di due ore e mezza questo Dune,
ma se i presupposti sono questi, il viaggio che ci aspetterà sarà
sicuramente uno di quelli che non ci scorderemo facilmente. Basterà
ricordarci di toglierci la sabbia dagli occhi.