“Ho un sogno”; “Se puoi
sognarlo puoi farlo”; “I sogni son desideri”. C’è un
fil-rouge di natura onirica che lega l’essere umano.
Chiudiamo gli occhi e sogniamo, ci perdiamo nei nostri obiettivi,
nei mondi che auspichiamo di abitare e fare nostri, ci immaginiamo
la vita che vogliamo avere, toccare con mano. Sognare fa parte di
noi, non fa distinzione. È un concetto così universale e allo
stesso tempo così lontano, inafferrabile, il sogno. La sua natura
ci sfugge, ritrovandocelo addosso, impresso nei libri di storia, o
posto sul trono delle grandi affermazioni. Lo stesso cinema è un
sogno a occhi aperti. Ed è proprio un sueñito, un piccolo
sogno, a fare da apripista all’universo cangiante, colorato,
ottimista, di Sognando a New York – In the
Heights. Ispirato all’omonimo spettacolo di Broadway di
Lin-Manuel Miranda (vincitore di due Tony Awards
come “miglior musical” e “miglior colonna sonora”), il musical è il
fratello maggiore di Hamilton;
un banco di prova su cui Miranda ha potuto lavorare, migliorarsi,
affinare la propria scrittura e sete creativa, per creare il
capolavoro dei musical, capace di seguire con orgoglio le orme del
proprio predecessore, riuscendo a ricavare al contempo una propria
identità senza scadere nella mera copia.
Sognando a New York – In
the Heights, la trama
Il quasi trentenne
Usnavi, figlio di dominicani immigrati a New York, gestisce una
piccola “bodega” a Washington Heights, il quartiere a nord di
Manhattan abitato da una popolazione prevalentemente ispanica.
Usnavi ha un sueñito, un piccolo (e grande) sogno:
restaurare il chiringuito che il padre possedeva a Santo Domingo e
abbandonare la vita di New York per abbracciare le proprie origini,
e con esse “i suoi ricordi più belli”. Ma il ragazzo appartiene al
quartiere, che è come una seconda famiglia: dalla “abuela”
Claudia che ha adottato tutto il barrio al cugino Sonny a Vanessa,
l’estetista sospinta dal sogno di diventare stilista e di cui
Usnavi è da sempre innamorato. Lasciare tutto alle proprie spalle,
abbandonando le strade di The Heights non sarà per lui così facile,
e il sogno ben presto cozzerà con la realtà.
Musica(l)
nell’aria
È un musical a tutti gli
effetti Sognando a New York – In the Heights. Le
battute lasciano spazio alle note, i movimenti a coreografie
dinamiche, le emozioni a musiche che riescono a tradurre in canzoni
pensieri e sentimenti altrimenti sottaciuti. Il film diretto da
Jon M. Chu (Step Up 2,
Now You See Me 2) recupera e sfrutta appieno
tutti gli aspetti canonici previsti dal genere, eppure – come
capitato anche con Hamilton – c’è un ingrediente segreto che
trascina il film fuori dai confini dell’opera, facendolo apprezzare
anche ai detrattori dei musical. Ogni più piccolo dettaglio, o
ampio passaggio, presenta una particolarità che lo rende
irriducibile all’omologazione, ribaltando emotivamente gli
stereotipi narrativi. È come se Miranda prima, e Chu poi, avessero
scoperto il Sacro Graal dell’immedesimazione spettatoriale sotto
forma di canzoni. I dettagli della scenografia si legano con cura
maniacale ai movimenti degli attori, fino a piegarsi, ribaltarsi,
adattandosi perfettamente alla loro libertà di amarsi,
abbracciarsi,
Musiche che vanno a
impersonare sentimenti, aspirazioni, timori. La forza del
sentimento e delle interpretazioni (ottimo Anthony
Ramos) bucano lo schermo fino a rendere la cornice visiva,
a volte al limite del kitsch (con tanto di richiamo all’opera di Baz Luhrmann) un’orpello di qualità. Pulsa il sangue delle vene, e si
sente il battito cardiaco dei propri personaggi tra le pause delle
note; vivono i personaggi di In the Heights – Sognando a New York,
sono esseri reali, catapultati in un universo magicamente irreale
dove i dialoghi sono cantati e i balli compiuti a testa in giù. Gli
occhi, il cuore, i corpi sono meccanismi attivati all’unisono che
si muovono in scena allo stesso ritmo di quelli che li ammirano al
di là dello schermo cinematografico, seduti ma con la mente
altrove, verso il quartiere di Washington Heights.
Esagerando di
ingegno
“Tanto”, ecco com’è
Sognando a New York: è “tanto” colorato, “tanto” urlato, “tanto”
gesticolato. Ogni carattere personale, aspetto psicologico, o
caratteristica culturale viene esacerbata, sottolineata ed
enfatizzata al limite della caricatura. Una volontà che collega il
musical all’opera precedente di Chu, Crazy & Rich,
e figlia di quell’interesse tutto particolare del regista nei
confronti delle minoranze etniche in America. La denuncia per un
mondo visto di sottecchi, con sguardi carichi di pregiudizio, si
allinea e abbraccia lo stereotipo. Un’esagerazione, questa, che
posta nel contesto musicale funziona in maniera impeccabile,
risultando coerente con il filtro sfruttato per registrare il mondo
del quartiere newyorchese.
Ed è proprio nel momento
in cui ci si stacca dal musical, per abbracciare una narrativa più
canonica, fatta di dialoghi parlati, che la magia si spezza. Si
insinua silente una certa dose di stucchevole retorica. Una patina
presto spazzata via dal respiro delle canzoni, lasciapassare su
mondi interiori ora aperti nella loro totalità e resi unici e
accessibili dal lato empatico e umano dai testi di Miranda,
commistione esplosiva di lirica, ritmi sudamericani, rap e hip-hop.
Ogni rivoluzione ha bisogno di un piano che la preceda, e quella
messa in atto da Hamilton nel 2015 nel campo del musical
teatrale (e poi cinematografico) ritrova in Sognando a New
York la perfetta carta carbone su cui ricalcare i punti di
forza di melodie, passati culturali e ritmi contemporanei, storia e
voci inascoltate, già sperimentati nello spettacolo del
2005.
Ma la vera chiave di
successo è da ritrovarsi nella struttura stessa su cui si fonda
l’opera diretta da Chu. Quella di Miranda è una mente che pensa nei
termini della settima arte e lavora affidandosi alla polvere del
palcoscenico teatrale. Ma è proprio questa prefigurazione
cinematografica che rende così coinvolgenti le sue opere. Chu non
ha dovuto far altro che prelevare l’essenza dell’opera immaginata e
portata in scena da Miranda e trasformarla in linguaggio
audiovisivo.
Musica come denuncia
sociale
Un sogno, grande o
piccolo che sia, rimane cullato nell’interiorità, mentre un
quartiere, per non scomparire, ha bisogno di essere pronunciato ad
alta voce e cantato a pieni polmoni. È il potere della parola,
quello di far rinascere dalle ceneri della memoria un interno
mondo. E quello di In the Heights è un luogo che ha bisogno di
vivere, ballare, con le proprie idiosincrasie, pazzie, genialità,
aspirazioni e delusioni. Che l’intero quartiere eserciti
un’influenza maniacale sui propri abitanti, modificandoli come
burattinai, e segnandone sogni e limiti, ci viene sottolineato sin
dall’inizio, con una galleria di dettagli del quartiere, corpo
disseminato nelle sue parti, per coglierne le diverse
anime.
Un concetto di
collettività e di unione, tra chi guarda e chi balla, ricordato
anche dai numerosi riflessi e da una catena di immagini
sovrimpresse che legano in un solo gioco di complice visione, due
mondi mai separati, ma sempre abbracciato. Perché nel mondo di The
Heights non c’è limite di confine a separare il tuo dal mio, ma
tutto vige sotto l’etica del nostro. Dietro la danza sfrenata, i
colori sgargianti, Miranda ancora una volta lascia che avanzino i
fantasmi della denuncia sociale.
Sognando a New
York – In the Heights non vuol essere, dunque, la storia
di uno, ma quella di un intero quartiere, e con esso, di una
comunità. I suoi sono ambienti intrisi di soggettività,
un’interiorità sprezzante che fuoriesce da ogni metro quadrato di
asfalto e più piccola crepa sui muri di casa. Secondo la cultura
popolare i media visivi, con il loro appeal delle emozioni, possono
eccitare l’immaginario collettivo della maggioranza silenziosa,
aprendo gli occhi su tematiche di particolare interesse e urgenza
quanto mai attuale.
Ogni passaggio musicale
si fa dunque transfert delle aspirazioni tanto personali, quanto di
un’intera comunità, troppo volte soffocata dalla forza di mani che
tengono le bocche chiuse, i polmoni senza aria e i corpi bloccati,
in nome di una superiorità inesistente.
Girandola caleidoscopica
di suggestioni accumulate per eccesso che si animano al ritmo di
palpiti lirico-sinfonici uniti alle rime dello stile hip-hop, il
quartiere di Washington Heights come luogo topografico,
riconoscibile, si fa archetipo, simbolo e metafora di una comunità.
Film sintomatico del contemporaneo, Sognando a New York –
In the Heights diventa il pretesto della vita e della
provincialità di una comunità latino-americana, oggetto di attacchi
discriminatori, soprattutto ai tempi della presidenza Trump.
Le condizioni collettive,
attraverso le storie degli uni, attraverso la finzione riflessiva
di un cinema hollywoodiano sgargiante e infinitamente illuminato
piuttosto che per mezzo di un linguaggio di matrice neorealista,
rende queste esistenze reali, uno spettacolo della vita di un
intero mondo che è teatro e musical.
