Girato in più fasi a
partire dall’inizio del lockdown, La Cura di
Francesco Patierno è presentato nella sezione in
concorso della Festa del Cinema di Roma, oggi che i giorni
più diffcili dell’emergenza pandemica possono sembrare un ricordo
lontano e ci si sta avviando verso una sorta di normalità.
D’altra parte, un evento
drammatico e inaspettato come la pandemia, che ci ha messo di
fronte a scenari impensabili, non poteva non finire sotto la lente
del cinema italiano. Nel caso di Patierno, con la rilettura del
romanzo La Peste di Albert Camus, che fin troppo bene si
adatta al recente passato.
La trama de La
Cura
Napoli. Una troupe cinematografica gira un film tratto da La
Peste di Camus durante i giorni più difficili della pandemia da
Covid -19. Le vicende di attori e tecnici si intrecciano con quelle
dei personaggi del romanzo. Bernard, Francesco Di Leva, è un
medico, la cui moglie gravemente malata, lascia
Napoli per curarsi. Intanto, in città si hanno i primi segni
del diffondersi di un’epidemia. Mentre il medico, assieme al
collega Castel, Giancarlo Cosentino, cerca di convincere le
autorità ad avvertire la popolazione del pericolo, l’epidemia si
aggrava sempre più e si rende necessario chiudere la città,
affinchè il contagio si diffonda il meno possibile. Di fronte
all’emergenza, c’è chi, come Tarrou, Alessandro Preziosi, si
mette a disposizione per ospitare chi ne ha bisogno e organizza un
gruppo di volontari per aiutare ad affrontare la situazione. Tra
lui e Bernard nasce una profonda amicizia. Rambert, Francesco
Mandelli, invece, è un attore che vuole tornare nella sua città
e cerca di farlo con ogni mezzo. C’è chi nega la pericolosità del
virus, chi dice di star bene, mentre soffre i primi sintomi del
male, come l’infermiere Grand, Antonino Iuorio; c’è chi
considera il male un flagello di Dio mandato sulla terra per punire
gli uomini, come Padre Paneloux, Peppe Lanzetta. Ci sono
vittime innocenti di un male sconosciuto in una
Napoli deserta. Su tutte, la piccola figlia del prefetto,
Andrea Renzi. La sfida per Bernard e i suoi colleghi, è
trovare al più presto un farmaco efficace, una cura contro il
virus.
Tra realtà, finzione
e metacinema
La Cura può
risultare nella prima parte un po’ confuso, vista la labilità del
confine tra la vita degli attori durante le riprese e la
messinscena de La Peste, tra realtà, finzione e riflessione
sul cinema, su se e come farlo in quei momenti drammatici. C’è il
rischio che diventi un mix farraginoso e poco chiaro. Invece, man
mano si entra nel meccanismo del film, i piani si fondono, diventa
più immediato seguire la vicenda e immedesimarsi. Non occorre molto
perché lo spettatore torni con la mente alle proprie giornate di
lockdown, mentre vede le immagini scorrere sullo schermo, grazie
anche a un gruppo di appassionati interpreti, su cui spiccano
Alessandro Preziosi e Francesco Di Leva. Ecco,
allora, la rappresentazione delle divisioni all’interno della
società, dei vari punti di vista che si sono scontrati anche in
modo acceso. Qualcuno si crede immune dal contagio, altri si
chiedono se “ne usciremo migliori”. Una costruzione d’impronta
teatrale, non verbosa, ma piuttosto minimalista, per trasporre il
romanzo di Camus e calarlo nel presente.
Napoli protagonista
ne La Cura
La vera protagonista del
film, tuttavia, è la
Napoli deserta del lockdown. È la città partenopea a destare la
maggiore impressione nello spettatore. La scelta dell’ambientazione
non poteva essere più appropriata.
Napoli, sempre così viva, piena di allegria, di schiamazzi e di
un vociare di per sé simbolo di vitalità, è invece qui silenziosa e
vuota. Rappresenta così, all’ennesima potenza, quello che è
accaduto nelle città italiane in quei mesi. Colpiscono le sue
strade vuote, in cui si sente solo il suono delle ambulanze o un
grido disperato. Quelle atmosfere sono le più efficaci per
riportare lo spettatore indietro a momenti che sembrano lontani,
sebbene con la pandemia ancora si conviva.
Umanità empatica e
pudore rispettoso del dolore e della morte
Da apprezzare anche il
pudore, il tatto, con cui Patierno tratta la malattia e la
morte, senza indulgere in esse, senza spettacolarizzarle. Il che,
nell’era della spettacolarizzazione eccessiva è una dote rara.
L’occhio della macchina da presa resta a distanza, rispetta, ci si
muove in punta di piedi.
La Cura è
poi un film con molti abbracci, quelli che sono mancati in quei
giorni, entrando a far parte dei “gesti proibiti” a causa del
virus. È anche un film senza troppi dispositivi di protezione,
neanche in ospedale. Ciò risulta un po’ straniante per lo
spettatore, ma sembra che il regista abbia tenuto a non perdere
l’umanità, il contatto anche fisico nel suo racconto, come invece
lo si è perso nella realtà. In questo modo, egli pone l’accento
sull’empatia, sul senso di comunità e dà spazio alla speranza e
alla fiducia nell’uomo, nonostante tutto. Sebbene al regista non
interessi esprimere un giudizio sui punti di vista e i
comportamenti che mostra, il suo sguardo è particolarmente benevolo
verso chi fa, chi si spende, aiuta e si sporca le mani, proprio
come i due protagonisti.
La Cura è
una lettura lucida e garbata dei giorni bui del lockdown, ma non
per questo meno appassionata. Invita lo spettatore a salvaguardare
i legami umani, l’amicizia, la comprensione, la solidarietà, a
riscoprire il senso di comunità. È questo che ha aiutato, assieme
alla scienza e al lavoro dei medici, a superare i momenti più
difficili.
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