Grande attesa e glamour al Lido per il red carpet di After the Hunt, il nuovo film di
Luca Guadagnino
presentato in concorso alla 82ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Prima
della proiezione ufficiale, il tappeto rosso ha accolto i
protagonisti del film, regalando al pubblico e ai fotografi uno
degli eventi più scintillanti del Festival.
A
dominare la scena è stata Julia Roberts,
alla sua prima collaborazione con Guadagnino, che ha incantato i
fan con il suo stile inconfondibile e il suo sorriso iconico. Al
suo fianco hanno sfilato Andrew
Garfield, elegante e sorridente, e Ayo Edebiri, tra le interpreti
emergenti più apprezzate di questa stagione. Sul red carpet erano
presenti anche Michael
Stuhlbarg e Chloë Sevigny,
completando un cast che unisce star affermate e volti del cinema
indipendente.
Il regista Luca Guadagnino ha accolto l’affetto del pubblico con
entusiasmo, confermando il legame speciale che lo unisce a Venezia,
dove in passato ha presentato titoli come Io sono l’amore e Bones and All.
Le foto raccontano un red carpet vibrante: Julia Roberts, al suo debutto in un film del
regista italiano, ha catalizzato l’attenzione dei media
internazionali, mentre i compagni di cast hanno contribuito a
creare un’atmosfera di complicità e grande eleganza.
Con After the Hunt,
Guadagnino porta in concorso un thriller psicologico che affronta
segreti e scelte morali, e il tappeto rosso di Venezia ne ha
anticipato l’impatto mediatico e glamour.
Dopo Decision To Leave (in italiano La
donna del mistero), titolo enigmatico con cui aveva raccontato
una figura femminile ancora più fugace, Park
Chan-Wook porta in concorso a Venezia 82 No
Other Choice – Non c’è altra scelta, titolo che –
almeno dal significato letterale – presuppone una certezza netta,
in chiaro contrasto con quel noir romantico dipinto con
l’acrilico.
Vieni,
autunno…
Man-soo è un uomo
comune che si è fatto da solo. Lavora da 25 anni nell’industria
della carta, ha una moglie e due figli e vive nella sua vecchia
casa di famiglia che è riuscito a comprare dopo tutta la fatica
fatta. Quando viene però improvvisamente licenziato, tra colloqui
che non portano mai a una svolta e i debiti che si rincorrono, la
moglie, inamovibile, comincia a scegliere su quali costi è giunta
l’ora di tagliare. In un mondo da cui si sente ormai
irrimediabilmente tagliato fuori, Man-soo capisce che non c’è altra
scelta se non quella di mettere in atto un piano terribile per
sbaragliare la concorrenza.
C’è solo una cosa che Man-soo non sa
di sè stesso: quale sia il suo punto debole. Una
domanda di rito rivoltagli da un datore di lavoro nel corso di un
colloquio che lo manda in crisi. Lui, semmai, sa quali sono i suoi
migliori attributi, e che quello che gli è successo è proprio
inspiegabile. Nel cercare di trovare una risposta al quesito,
interrogherà anche la moglie, alla quale verrà in mente una sola
cosa: “sei pieno di piante, sei un vegetale“.
È come se Man-soo stracciasse il suo
intero curriculum, ormai di scarso valore nell’epoca
dell’ipercompetizione, e finisse per costruirne uno nuovo con
l’intero film di Park Chan-wook. La lettera di
presentazione più brutale del mondo, ma che forse per la prima
volta va davvero alla ricerca di un punto debole nel suo
assistito.
Il curriculum della non-scelta
Come al solito, il regista
sudcoreano lavora minuziosamente sulle immagini, che sono davvero
parlanti: l’idea più precisa di No Other
Choice è che nonostante sia un film sul lavoro la
vera battaglia si svolge fuori, e questo esterno si accorda
elegantemente con la professione per cui il protagonista sta
lottando. Il personaggio interpretato da Lee
Byung-hun è immerso nei boschi, ha una serra che cura con
amore, una casa strutturata su più piani, che brilla di verde
rigoglioso.
Nonostante la precisione con cui ha
indirizzato la sua vita, Mon-soo è totalmente imbranato, cade e
scivola sempre, si scrive le cose da dire sulle mani, non è
credibile nei confronti del piano che deve attuare ma lo è nella
visione univoca che ha della sua passione e professione. Accanto a
lui e le altre figure maschili del film, principalmente uomini
licenziati, ci sono delle compagne che cercano di risvegliarli dal
torpore in cui sono rinchiusi, di suggerirgli di reinventarsi, che
prendono in mano le redini della situazione e mettono in uce come
il problema vero non sia aver perso il lavoro ma come i
loro mariti stiano affrontando la cosa.
Un affare di famiglia
“La nostra famiglia è in
guerra“: così sentenzierà Mon-soo con il figlio. A una prima
visione, i membri del nucleo famigliare protagonista di
No Other Choice risultano ancora
indecifrabili, ma quantomai intriganti. La moglie che gli dice che
non si regalano scarpe da ballo alla persona che si ama, altrimenti
potrebbe andarsene, ma che non si allontana da lui neanche per un
istante; il figlio maggiore che viene da un’altra relazione ma è
stato cresciuto da Mon-soo, e che compierà lui stesso un atto
criminale. Infine, una bambina di 10 anni che parla poco, e quando
lo fa è solo per ripetere frasi già dette da altri, nonchè con un
talento enorme nel violoncello. In questo caso, dunque, l’enigma
sembra più dentro alla famiglia (lo erà già, più sul versante
thriller-horror in Stoker) ma una cosa è certa: la battaglia che
combattono unisce tutti.
Non c’è
scelta: non si può pensare a una professione diversa,
immaginarsi un’altra vita, un’altra casa. L’era liquida in cui
viviamo, quella dei licenziamenti in tronco, della macchina
digitale, delle professioni di una volta che cessano di esistere,
non lo permette più. La sostituibilità è un requisito fondamentale
di ogni offerta di esistenza.
Con
Orphan,
presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia,
László Nemes prosegue la sua esplorazione dei
traumi del Novecento attraverso uno sguardo intimo e radicalmente
soggettivo. Il film, ispirato all’infanzia del padre nella Budapest
degli anni Cinquanta, racconta la storia di un ragazzo e della sua
ricerca di identità in un mondo segnato dalla perdita e dalla
frammentazione familiare. «Perché adesso? Perché questo è il
momento in cui sono riuscito a fare il film – ci ha spiegato
il regista, che abbiamo incontrato per una chiacchierata -.
Avrei potuto girarlo anche prima, ma c’è stato il coronavirus e
ci è voluto tempo. Credo però che sia una storia universalmente
umana, che attraverso una vicenda personale porta alla luce
qualcosa di fondamentale sui traumi del ventesimo secolo e
sull’esperienza di cercare un padre, dei genitori, di
avere o non avere genitori, di vivere in famiglie spezzate ed
essere soli al mondo. È molto, ma è anche qualcosa che mi
ossessiona dall’infanzia, perché è la storia di mio
padre».
Il
regista sottolinea come il peso della Storia resti presente ancora
oggi: «Pensavamo di poterla superare. Siamo qui a
Venezia, sembra lontana, ma non lo è. Leggete Morte a
Venezia: le cose accadono nei luoghi più belli del mondo, eppure
sono molto più difficili». Nemes lega questa riflessione a una
tendenza universale della civiltà umana: «Abbiamo questa
abitudine di dividerci: noi siamo i buoni, loro i cattivi; noi
siamo al sicuro, loro sono quelli che moriranno. Pensiamo
che la morte non ci riguarderà. Internet non ha aiutato,
ci ha resi ancora più inclini a questa divisione. Viviamo
in tempi difficili».
Al
centro del film c’è il lavoro con un giovanissimo protagonista,
accolto con entusiasmo dal pubblico. «Abbiamo fatto un enorme
casting a Budapest, abbiamo visto migliaia di self tape e fatto
centinaia di provini – racconta Nemes -. Quando ho visto
per la prima volta il video del bambino che poi è diventato il
protagonista, con il suo cagnolino che gli girava intorno, ho
capito che aveva carisma. Era come un mini-adulto,
con tante difficoltà personali alle spalle, ed è molto
intelligente. Quando abbiamo letto la sceneggiatura non gli ho dato
le ultime dieci pagine, non volevo che conoscesse il finale. Eppure
aveva domande su ogni singola battuta: “Qual è la mia motivazione
qui? Perché lo faccio?”. Voleva sapere tutto. È stato un
dono lavorare con lui, ha portato la sua intensità, la sua
energia, perfino la sua rabbia».
Come già accaduto con Il figlio di Saul e Sunset, anche Orphan adotta un punto di vista unico, immerso
nello sguardo del protagonista. «Prima di tutto, amo i film che
hanno un solo punto di vista – spiega Nemes -. Molti dei
film che amo, anche grandi film hollywoodiani degli anni Settanta,
hanno un solo punto di vista. Credo che questo porti
verità, la verità dell’individuo. Non voglio dare al
pubblico troppe informazioni a cui il protagonista non ha accesso.
Sono sempre più toccato da ciò che è realmente accessibile a un
essere umano. Siamo qui, non altrove. Internet ci
dà l’impressione di essere ovunque, ma non è così. Raccontare una
storia a livello umano è ciò che porto dentro».
Il
film nasce da un intreccio tra ricordi familiari e immaginazione:
«Avevo un background familiare a cui tornare, anche se mia
nonna non è più viva e sempre meno persone conoscono direttamente
quella storia. Mio padre sì, quindi ho parlato molto con lui. Ho
integrato elementi che volevo aggiungere e ho unito la
realtà del passato con la realtà della mia immaginazione.
Le fondamenta sono la storia di mio padre, ma poi ho fatto molte
ricerche, guardato fotografie, cercato di capire. Allo stesso tempo
ho ascoltato il mio cuore, per ricreare ciò che sentivo dentro.
È un film molto soggettivo».
Quando gli si chiede se ci sia un messaggio politico, Nemes
risponde con cautela: «Non sono mai direttamente politico.
Forse c’è del sottotesto, ma quello che faccio è lasciare
abbastanza libertà e spazio allo spettatore, così che
l’esperienza diventi personale. Credo che anche questo sia
una dichiarazione politica indiretta. Per me la
domanda centrale è sempre: cos’è umano e cos’è anti-umano? È una
questione morale. Gli esseri umani sono insieme buoni e cattivi, ed
è importante non dimenticarlo».
Come nei suoi lavori precedenti, anche qui il regista ha scelto la
pellicola. «Amo la pellicola. Quando guardo il
video è una delusione. Il digitale va bene, ma il vero cinema è il
35mm. Se spegniamo tutto e affidiamo ogni cosa alle macchine,
finiremo in un mondo molto triste. La pellicola obbliga a
prendere decisioni, a disciplinarsi. Il cinema è prendere
decisioni, e perderlo significa ridursi a qualcos’altro. Sono
orgoglioso di poter mostrare il film in 35mm: metà del tempo sei
nel buio, sei con te stesso, con il tuo inconscio. Perdere questo
sarebbe davvero triste: rimarrebbero solo pixel,
informazioni».
Un’attenzione particolare è stata data alla fotografia. «Con il
mio direttore della fotografia abbiamo guardato molte
immagini a colori degli anni Cinquanta, Sol
Leiter, Ernst Haas. Fotografie molto umane ma piene di strati.
Volevo intrecciare durezza e delicatezza, come
nell’infanzia: la vita durissima di un bambino
abbandonato, ma anche una qualità magica. Per questo abbiamo
cercato bianchi e neri autentici, senza quelle tonalità gialle del
digitale, e colori primari forti, con il rosso che
spiccasse».
Il
film, però, non rinuncia a una dimensione più leggera: «Sono io
stesso un bambino traumatizzato, cresciuto negli anni Ottanta in
Ungheria, in un periodo difficile. Mi sentivo solo e abbandonato, e
ho voluto portare qualcosa di quel mondo interiore sullo schermo.
Ma credo che ci siano anche momenti di leggerezza: nel film ci sono
scene divertenti, momenti di stupidità umana su cui si può ridere.
Tutte le buone commedie, però, hanno un nucleo tragico. E
penso che sia lì che la vita diventa più vera».
Il finale di The Bourne
Legacy (qui
la nostra recensione) non garantiva il ritorno di Aaron Cross,
interpretato da Jeremy Renner, ma apriva la strada a Jason Bourne, il quarto film con Matt Damon nei panni dell’ex agente della CIA.
Unico film della serie Bourne in cui Damon non compare, The
Bourne Legacy è ambientato nello stesso periodo di
The Bourne Ultimatum. Renner interpreta un
agente della CIA geneticamente potenziato nell’ambito del programma
di operazioni segrete chiamato Operation Outcome.
Tuttavia, con gli eventi di
The Bourne Ultimatum che portano alla divulgazione
pubblica delle operazioni segrete della CIA, i membri di Outcome
come Cross devono fuggire per salvarsi la vita. La situazione
peggiora ulteriormente poiché Cross dipende da pillole che
migliorano le prestazioni chiamate “chems”. The Bourne
Legacy è diretto da Tony Gilroy, che è
stato lo sceneggiatore principale dei primi tre film di Bourne e
questo thriller d’azione del 2012 vanta un cast stellare.
Vi recitano infatti i candidati
all’Oscar Jeremy Renner ed Edward Norton e la vincitrice dell’Oscar
Rachel Weisz, ma ha comunque ricevuto
recensioni contrastanti rispetto ai suoi predecessori. L’assenza di
Damon si fa sentire, anche se appare nelle fotografie e viene
ripetutamente menzionato per nome. Tuttavia, alla fine, The
Bourne Legacy funziona come un intrigante complemento a
The Bourne Ultimatum e offre a Renner
l’opportunità di mostrare il valore del suo personaggio.
Come fa Aaron Cross a essere
vivo?
In tutto The Bourne
Legacy, Aaron Cross lotta per sopravvivere, mentre il
colonnello Eric Byer (Norton) supervisiona
un’operazione volta a eliminare tutti gli agenti dell’Operazione
Outcome. Con i droni del governo alle calcagna e le scorte di
farmaci in esaurimento, l’alleata di Cross, la dottoressa
Martha Shearing (Weisz), gli suggerisce di volare
a Manila, dove potrà trovare un virus in grado di salvargli la
vita. È questo virus che bloccherà in modo permanente i
potenziamenti mentali nel suo corpo. Quindi, una volta che l’agente
geneticamente potenziato avrà accesso a questo virus, non avrà più
bisogno dei farmaci.
Ma ottenere questo virus diventa
difficile, con LARX#3 (Louis Ozawa Changchien), un
super soldato sottoposto al lavaggio del cervello, che lo insegue.
Pochi istanti prima dell’inseguimento in moto, Cross riesce a
infettarsi con il virus vivo. Ma dato che il virus ha bisogno di
tempo per familiarizzare con il sistema di Cross, è comprensibile
che egli si trovi in uno stato di debolezza. Anche se viene colpito
e perde conoscenza, Shearing riesce a salvarlo uccidendo LARX#3.
Cross sopravvive comunque all’intera prova, poiché ha riportato
solo ferite superficiali alla gamba e alla spalla.
Cosa significano le parole “No
More”?
Mentre Cross e Shearing fuggono sani
e salvi per iniziare una nuova vita alla fine di The Bourne
Legacy, la squadra di Byer visita l’appartamento di Manila
dove si nascondevano i due. Byer intravede uno specchio su cui sono
state scarabocchiate con un pennarello le parole “No More”. Accanto
allo specchio sono appese le piastrine di Cross, a indicare che non
ha più bisogno delle sostanze chimiche per sopravvivere. È ovvio
che sia stato Cross o Shearing a scrivere questa frase per chiedere
alla CIA di non disturbarli più.
Uccidere Jason Bourne era l’unico
obiettivo dell’operazione Blackbriar?
Il finale di The Bourne
Legacy vede la CIA nascondere opportunamente il suo
tumultuoso passato relativo a operazioni segrete come
Treadstone e Blackbriar. La
narrazione è collegata all’arco narrativo di The Bourne
Ultimatum incentrato sull’ex vicedirettrice della CIA
Pamela Landy (Allen). Il supervisore di Blackbriar
Noah Vosen (Strathairn) dichiara pubblicamente al
Senato che l’unico motivo di Blackbriar era quello di dare la
caccia all’agente ribelle Jason Bourne. Nel
frattempo, Landy viene dichiarata colpevole di tradimento per aver
divulgato alla stampa documenti riservati su Treadstone.
Sebbene questa mossa impedisca
qualsiasi azione contro Vosen e Byer, la verità è che Blackbriar va
oltre il semplice rintracciare Bourne. Il primo film, The Bourne Identity, ha stabilito che
l’operazione Treadstone aveva lo scopo di addestrare super spie
come Bourne per svolgere compiti top-secret in tutto il mondo, con
alcune missioni che prevedevano il rovesciamento di governi
internazionali e l’uccisione di civili.
Quando Bourne ha smascherato
Treadstone, The Bourne Supremacy e The Bourne
Ultimatum hanno trattato il successore aggiornato di
Treadstone, Blackbriar, che prevedeva analogamente l’invio di
agenti fisicamente potenziati per eseguire gli ordini della CIA. La
furia omicida di Bourne ha spinto gli agenti di Blackbriar a dargli
la caccia, ma anche se fossero riusciti a catturarlo,
l’insabbiamento finale in The Bourne Legacy
chiarisce che Blackbriar avrebbe comunque continuato a svolgere
altre missioni segrete.
C’era il potenziale per un
sequel?
Prima di The Bourne
Legacy, i fan della serie conoscevano solo le operazioni
Treadstone e Blackbriar. Tuttavia, il passato di Cross con
l’Operazione Outcome ha rivelato che la CIA aveva molte altre
missioni riguardanti super soldati addestrati come agenti segreti e
assassini fedeli. Anche se Byer sembra arrendersi alla fine del
film, le scene precedenti nella sua sala di controllo indicano come
avrebbe potuto essere il sequel che non è mai stato realizzato.
Dato che Byer chiede al suo team di collegarlo a “tutti i programmi
beta” e a una certa operazione chiamata “Emerald Lake”, è possibile
che un “The Bourne Legacy 2” avrebbe
esplorato questi altri programmi e i rispettivi agenti.
La battaglia finale coinvolge anche
un agente sottoposto a lavaggio del cervello chimico chiamato
LARX#3, il che implica che questi è un altro programma della CIA
che prevede la modificazione genetica degli agenti. Il sequel
avrebbe probabilmente visto un Cross più potente, poiché non
dipende più dai suoi farmaci ed è potenziato dal virus vivo. Mentre
i viaggi futuri di Cross e Shearing sono lasciati aperti
all’interpretazione alla fine di The Bourne
Legacy, un sequel avrebbe potuto anche approfondire
ulteriormente la loro collaborazione.
Il vero significato del finale di
The Bourne Legacy
Per molti versi, The Bourne
Legacy rispecchia lo stile di The Bourne
Identity. Proprio come Jason Bourne, Aaron Cross è
braccato dall’agenzia per cui un tempo lavorava fedelmente. In
entrambi i casi, gli insabbiamenti e le operazioni di caccia
all’uomo giocano un ruolo altrettanto significativo. Tuttavia, il
finale di questo film rende il film di Tony Gilroy
un comodo spin-off. C’è abbastanza potenziale per un sequel, ma
riesce comunque a concludere l’arco narrativo del personaggio di
Cross, dando vita ad un’avventura canonica a sé stante.
Lussuria – Seduzione e
tradimento (2007), diretto da Ang Lee, è uno dei film più controversi e al
tempo stesso raffinati della sua carriera. Dopo il successo
internazionale di I segreti di Brokeback Mountain, il regista taiwanese
si misura con un racconto radicato nella storia cinese, adattando
un racconto breve di Eileen Chang. L’opera segna
un ritorno di Lee alle proprie origini culturali, ma filtrato
attraverso uno sguardo universale, capace di indagare le dinamiche
del desiderio e del potere con lo stesso rigore emotivo e
stilistico che caratterizza tutta la sua filmografia.
All’interno del panorama
cinematografico cinese, il film occupa un posto peculiare: prodotto
con grandi mezzi, distribuito a livello internazionale e vincitore
del Leone d’Oro a Venezia, si è però scontrato con la censura
cinese per le esplicite scene di sesso. Nonostante ciò, è diventato
un punto di riferimento per il cinema d’autore cinese
contemporaneo, dimostrando come sia possibile unire eleganza
visiva, tensione narrativa e profondità tematica. La sua
rappresentazione della Cina occupata dai giapponesi negli anni ’40
aggiunge anche una forte valenza storica, mescolando melodramma e
thriller politico.
Dal punto di vista dei generi,
Lussuria – Seduzione e tradimento si muove tra
melodramma,
erotismo, spionaggio e
noir, ma al centro restano i grandi temi cari a Lee: la
repressione dei sentimenti, il conflitto tra desiderio e dovere, la
lacerazione interiore di personaggi divisi tra passioni personali e
vincoli sociali. La storia d’amore pericolosa tra Wong Chia Chi e
Mr. Yee diventa così una metafora delle dinamiche di potere, del
tradimento e della fragilità umana davanti all’attrazione erotica.
Nel resto dell’articolo, si analizzerà nel dettaglio il finale del
film, cercando di comprenderne i significati e le implicazioni
emotive.
Tang Wei e Tony Leung in Lussuria – Seduzione e
tradimento
La trama di Lussuria –
Seduzione e tradimento
Il film segue le vicende di
Wong Chia Chi (Wei Tang)
durante l’occupazione giapponese della città di Shangai nel 1942.
La timida e giovane studentessa è stata lasciata sola dal padre,
fuggito in Inghilterra. Mentre frequenta il primo anno di
università, Wong Chia Chi entra a far parte di una compagnia
teatrale fatta da studenti patriottici. Il gruppo di giovani
universitari decide di pianificare l’assassinio di un direttore dei
servizi segreti del governo fantoccio giapponese, tale
signor Yee (Tony Chiu-Wai
Leung).
Vista la sua abilità come attrice,
la parte di Wong Chia Chi nel piano è quella di conquistare la
fiducia del bersaglio, diventando prima sua amica e poi sua moglie.
Nei panni della signora Mek, la giovane protagonista subisce mano a
mano una profonda trasformazione interiore e, nel corso della lunga
recita, non capisce più cosa sia finzione e cosa sia realtà. Il
dubbio di essersi realmente innamorata di Yee, travolta da una
passione infuocata, si insinua dentro di lei.
La spiegazione del finale del
film
Nel terzo atto di Lussuria –
Seduzione e tradimento, la tensione raggiunge il suo
culmine. Chia Chi, ormai stremata dal doppio ruolo di amante e di
spia, implora i suoi superiori di accelerare l’assassinio di Yee,
desiderosa di liberarsi da quel legame distruttivo. Ma la decisione
viene rimandata per motivi strategici, lasciandola intrappolata in
una spirale di conflitti interiori. Quando Yee le affida una
lettera sigillata per ritirare un anello, la donna scopre che le ha
regalato un rarissimo diamante rosa. È in quel momento che il piano
della resistenza prende forma: l’uomo, privo di scorta, diventa
finalmente vulnerabile.
La scena della gioielleria è il
punto di svolta: Chia Chi, indossando l’anello, si trova davanti
all’occasione decisiva per portare a compimento la missione.
Eppure, sopraffatta da sentimenti contraddittori, mormora a Yee di
fuggire, salvandolo dall’attentato. Il gesto la condanna: i
compagni vengono arrestati e condotti al patibolo, mentre Yee,
devastato, firma personalmente le condanne a morte. In un finale
cupo e silenzioso, la donna viene giustiziata insieme agli altri,
mentre l’uomo che avrebbe dovuto uccidere siede in solitudine sul
suo letto vuoto, incapace di rivelare al mondo il legame che lo
univa a lei.
Tang Wei e Tony Leung nel film Lussuria – Seduzione e
tradimento
Il significato di questo finale
risiede proprio nella contraddizione: Chia Chi tradisce la missione
per amore, o forse per pietà, pagando con la vita la sua scelta. Il
film non offre risposte semplici, ma costringe lo spettatore a
interrogarsi sulla natura dei sentimenti che legano i due
protagonisti: erano amore, ossessione, bisogno di riconoscimento?
In ogni caso, Ang Lee mostra come il desiderio possa sovvertire
ogni logica politica, trasformando la spia in vittima del suo
stesso cuore.
Dall’altra parte, il personaggio di
Yee emerge come figura tragica: sopravvissuto al complotto, ma
svuotato, incapace di confessare l’affetto per la donna che l’ha
salvato e condannato. La sua freddezza esteriore nasconde un dolore
intimo, che rimane sospeso e mai espresso. Il finale non chiude la
vicenda con un trionfo o con una sconfitta chiara, ma con un senso
di incompiutezza e di rimpianto, che lascia nello spettatore la
percezione di un sacrificio inutile e struggente.
Cosa ci lascia il
film Lussuria – Seduzione e tradimento
Lussuria – Seduzione e
tradimento ci lascia un ritratto amaro dell’animo umano,
in cui l’intreccio tra politica, desiderio e moralità diventa
terreno di conflitti irrisolvibili. Ang Lee ci mostra come il
potere dei sentimenti possa essere tanto devastante quanto la
guerra stessa, e come il confine tra amore e tradimento possa
sfumare fino a scomparire. È un film che resta dentro per la sua
ambiguità, per il coraggio di non offrire catarsi, e per la sua
capacità di raccontare la fragilità di chi, pur combattendo per una
causa più grande, si lascia travolgere dalla passione.
È sempre bello quando un film sfida
il pubblico a continuare a riflettere su di esso, invece di
presentare tutto in modo ordinato affinché lo consumino e lo
dimentichino pochi giorni dopo. Questo è ciò che caratterizza
La
Chimera (qui
la nostra recensione): una storia fantasiosa sull’amore, la
perdita e il sottile filo che collega il presente e il passato. Il
nuovo film di Alice Rohrwacher funziona meglio se
viene sentito piuttosto che compreso, ed è questo che lo rende
bello. Il viaggio di Arthur (Josh
O’Connor) è quasi mitico, pieno di simbolismo e
personaggi archetipici, che ci permettono anche di avere un’idea di
ciò che sta accadendo.
Quando incontriamo Arthur, sembra
una sorta di antieroe picaresco, ma pian piano rivela che c’è molto
di più in lui. Ha recentemente perso la sua amata,
Beniamina (Yile Yara Vianello), e
il suo atteggiamento nei confronti della madre di lei,
Flora (Isabella
Rossellini), dà l’impressione che possa aver causato
la morte di Beniamina per approfittare di Flora, ma alla fine
scopriamo che non è affatto così. Il suo comportamento lunatico e
silenzioso fa sembrare che nasconda sempre qualcosa, ma,
fortunatamente, in realtà è il tipo di persona che non ha segreti:
è solo… insolito. La particolarità di Arthur è che è bravissimo a
trovare tesori nascosti usando una bacchetta da rabdomante in
legno.
Lavora con un gruppo di tombaroli
che profanano tombe etrusche e rubano preziosi manufatti per
venderli a un trafficante del mercato nero. Ogni volta che ne trova
uno, di solito ha una breve visione, una chimera. Spesso viene
mostrato a testa in giù quando ne trova uno, sia perché la
telecamera stessa si sposta, sia, nel caso dell’ultima tomba,
attraverso il suo riflesso in una pozza d’acqua. Quest’ultima tomba
è il culmine di tutto il viaggio di Arthur. Dopo lo scontro con
Spartaco (Alba
Rohrwacher), Arthur si rende conto che ciò che sta
cercando, un modo per ricongiungersi con Beniamina, “non è per gli
occhi umani”.
Dopo essere stato diseredato dai
tombaroli, inizia a lavorare con i saccheggiatori di tombe di
Spartaco, e la prima tomba che trova per loro crolla proprio dietro
di lui mentre entra. Non è chiaro se si tratti di un incidente o se
la banda lo faccia apposta per ucciderlo, ma non ha importanza.
All’interno della tomba, trova ciò che ha sempre cercato: un filo
rosso. Durante tutto il film, vediamo frammenti di Beniamina che
cerca di tirare questo filo rosso, che pende dal suo vestito, dal
terreno. Ora, Arthur lo trova e finalmente la raggiunge. Quindi, in
senso oggettivo, sì, Arthur muore alla fine, ma è quello che
voleva.
Il viaggio di Arthur è pieno di
simbolismo mitico
Un aspetto affascinante dei film di
Alice Rohrwacher è il modo in cui fondono
perfettamente realtà e fantasia, uno stile spesso descritto come
neorealismo fantastico. Sono pensati per sembrare onirici e strani,
e sono più interessati a raccontare storie usando una struttura
mitologica che a raccontare una storia oggettiva. Questo è il cuore
di La chimera. Arthur, ad esempio, è una
rappresentazione di Orfeo. Ha perso la sua Beniamina, la sua
Euridice, ma continua a cercarla in ogni tomba che saccheggia e
alla fine capisce che lei è al di là della sua portata quando
trovano la statua. Trascorre letteralmente la sua vita cercandola
negli inferi.
Quando finalmente la trova, c’è un
altro strumento mitologico: il filo rosso del destino. Questo
è presente soprattutto nella mitologia orientale e simboleggia il
legame tra due persone destinate ad essere anime gemelle. L’atto di
tirarlo, però, proviene dalla mitologia greca, poiché tirare il
filo del destino è legato all’idea di agire sul proprio destino,
che a sua volta è tessuto da un trio di sorelle conosciute come,
avete indovinato, le Parche. Questa nozione di destino divenne
popolare in seguito grazie all’adattamento di William Shakespeare
nelle sue opere teatrali, come ad esempio Macbeth, e alle tre
streghe che simboleggiano le Parche.
Quindi le forze in gioco quando Artù
tira il filo rosso sono molto più grandi di lui, al di là della
comprensione umana. Un altro personaggio interessante è
Italia (Carol Duarte), che
rappresenta l’Italia stessa. Arthur non ha una vera e propria casa.
È inglese ed è conosciuto come tale ovunque vada, ma l’unico posto
in cui si sente legato a qualcosa è l’Italia, dove saccheggia
tombe. Non ama necessariamente l’Italia, ma la rispetta e ne trova
persino i tesori: le tombe nel sottosuolo e i figli letterali di
Italia, che lei nasconde a Flora. Infatti, è Italia a dire ad
Arthur che i tesori che trova non sono destinati agli occhi umani,
perché lei comprende meglio di chiunque altro il rapporto
conflittuale tra passato e presente.
Potrà anche essere un po’ pazza, ma
cerca di farlo sentire benvenuto nonostante la tendenza di tutti a
fargliela pagare, ed è anche trattata male da tutti quelli che la
considerano una plebea. I suoi due figli stranieri la fanno
sembrare la lupa che allattò i fondatori di Roma, legandola anche
al suo ruolo nella comunità, aiutando donne come lei costruendo una
casa per loro in una stazione ferroviaria abbandonata. Mentre gli
italiani sono solitamente affascinati dal loro glorioso passato,
l’Italia rimane una madre single che deve sbarcare il lunario nel
presente e viene criticata per questo, per quanto buone siano le
sue intenzioni.
La chimera parla
del sottile velo che separa i vivi dai morti
In tutto il film La
chimera accadono cose strane, come se il film raccontasse
una storia nella storia. La morale di tutte queste storie è che il
passato è più misterioso di quanto possiamo immaginare e non è
detto che sia destinato a essere compreso da noi. Il primo di
questi incontri mitici avviene quando Arthur è sul treno. I treni
simboleggiano il collegamento tra luoghi e regni, dove il velo
della realtà è spesso più sottile. Arthur parla alle ragazze del
loro aspetto, in particolare del loro famoso naso etrusco, senza
rendersi conto di chi siano realmente.
Segue immediatamente la didascalia,
che mostra figure etrusche con lo stesso identico naso, rivelando
che le ragazze, il controllore dei biglietti e il venditore di
calzini sono in realtà persone le cui tombe sono state saccheggiate
da Arthur. Lo scopre più tardi, e tutto è una metafora di come egli
profani le tombe di questi antichi popoli senza curarsi del loro
vero significato. Anche i tombaroli e Spartaco sono simboli di
quanto i vivi trattino male il passato. La banda è spesso descritta
come una sorta di Robin Hood, che sfugge alla polizia e vive delle
ricchezze che la terra gli offre, ma a costo di mancare di rispetto
al passato e ai morti, motivo per cui le persone sul treno danno la
caccia ad Arthur.
Anche Spartaco: lei non conosce
nemmeno la dea raffigurata dalla statua senza testa, nonostante la
chiami “Cibele d’Etruria”. Gli Etruschi adoravano effettivamente
una divinità chiamata Sibilla, ma l’intera statua assomiglia ad
Artume, un’altra dea etrusca. Per Spartaco e i tombaroli, però, non
ha importanza, purché la statua li faccia guadagnare dei soldi.
Arthur capisce che la statua è un simbolo del rapporto tra i vivi e
i morti: sono state create per gli dei che rappresentano, non per
gli occhi umani. Per quanto il film sia ricco, ci saranno
sicuramente molti altri riferimenti a questo tema in La Chimera,
quindi merita una seconda visione, e anche più di una, se
possibile.
Dopo il sottovalutato (e
un po’ bistrattato dalla distribuzione) Queer, dello
scorso anno, Luca Guadagnino torna al Lido, questa volta
Fuori Concorso, con After the Hunt – Dopo la
caccia. Il nuovo film è un thriller psicologico che
affronta un tema quanto mai attuale: le dinamiche di potere, le
accuse di molestie e la complessità morale che si nasconde dietro
ogni vicenda in cui desiderio, carriera e segreti personali si
intrecciano.
Con una sceneggiatura
originale firmata dall’esordiente Nora Garrett e un cast di
primissimo piano – Julia Roberts, Ayo Edebiri, Andrew Garfield, Michael Stuhlbarg e
Chloë Sevigny – il film si
presenta come un’opera corale, ma il fulcro è senza dubbio Alma, la
protagonista interpretata da una Julia Roberts in stato di grazia.
Una professoressa
nell’occhio del ciclone
La trama si concentra
proprio su di lei, docente di Yale in attesa di una promozione
cruciale per la sua carriera. La donna vede crollare l’equilibrio
della propria vita quando una sua studentessa modello le confida di
essere stata vittima di molestie da parte di un collega. L’uomo in
questione non è un semplice conoscente: è un professore che Alma
conosce bene, che la ammira e con cui condivide un legame ambiguo,
fatto di stima reciproca ma anche di tensione sottile.
A complicare
ulteriormente la vicenda, c’è l’elmetto fondamentale costituito dal
fatto che il collega in questione nutre una certa fascinazione nei
confronti di Alma, e le confessa un episodio controverso con la
ragazza che l’ha accusato. Alma si ritrova così al centro di un
vortice: da una parte l’allieva, che ripone in lei fiducia
assoluta; dall’altra un collega che chiede comprensione. E intanto,
come un’ombra che si allunga sul presente, riaffiora un oscuro
segreto del passato della docente, che rischia di incrinarne
irrimediabilmente reputazione e carriera.
La complessità delle zone
grigie
Uno dei tratti più
interessanti del film è la sua rinuncia a proporre una verità
univoca. Guadagnino sceglie consapevolmente di non trasformare
After the Hunt in un pamphlet moralistico, ma
di immergere lo spettatore nella complessità di un sistema di
relazioni in cui la linea tra vittima e carnefice, innocenza e
colpa, fragilità e manipolazione non è mai del tutto chiara.
Il risultato è un
racconto caleidoscopico, che si muove attraverso i diversi punti di
vista senza privilegiare una prospettiva assoluta. In questo modo,
il regista restituisce la stratificazione reale delle dinamiche di
potere nel mondo accademico e lavorativo: luoghi in cui desiderio e
ambizione, fiducia e abuso, possono convivere fino a diventare
indistinguibili.
Una ricerca continua
dell’immagine, ricordando Woody Allen
Dal punto di vista
stilistico, Guadagnino sorprende ancora una volta. I titoli di
testa rimandano esplicitamente a Woody Allen, sia nel font che
nella pulizia grafica, quasi a suggerire una parentela con il
cinema morale e intellettuale dell’autore newyorkese, senza
ovviamente eguagliarne i dialoghi brillanti. Allo stesso tempo,
però, il regista non rinuncia alla sua cifra personale, fatta di
sensualità visiva e di attenzione maniacale ai dettagli.
L’omaggio a Allen si
avverte anche in alcuni momenti nella colonna sonora, firmata da
Trent Reznor e Atticus Ross, che accompagna le tensioni
interne del film con un tappeto sonoro inquieto e pulsante. È una
scelta che contrasta con la leggerezza apparente di alcune scene e
amplifica il senso di incertezza, facendo di After the Hunt
un’opera sospesa tra dramma esistenziale e thriller
psicologico.
Ancora una volta
Guadagnino si conferma straordinario direttore di attori. Julia Roberts, nel ruolo di Alma, offre una
delle interpretazioni più sfaccettate della sua carriera recente:
un personaggio fragile e forte allo stesso tempo, capace di
trasmettere allo spettatore sia il carisma di una donna di successo
sia le crepe profonde della sua vita privata.
Accanto a lei,
Andrew Garfield e Ayo Edebiri
interpretano rispettivamente il collega accusato e la studentessa,
incarnando con precisione due archetipi opposti: l’uomo carismatico
e ambiguo, e la giovane brillante ma vulnerabile. Michael
Stuhlbarg e Chloë Sevigny arricchiscono ulteriormente il
quadro, offrendo personaggi secondari incisivi che contribuiscono a
rendere la vicenda corale e stratificata.
Uno scontro
generazionale
Il film affronta anche la
frattura tra generazioni. Alma appartiene a un mondo accademico e
professionale in cui le regole non scritte hanno per decenni
coperto silenzi e complicità. La sua studentessa, invece,
rappresenta una generazione che rifiuta il compromesso e pretende
la trasparenza. Guadagnino mette in scena questo scontro senza mai
forzarlo, lasciando che emerga attraverso dialoghi serrati e scelte
di messa in scena asciutte. In questo senso, After the
Hunt diventa un film sul presente e sulla difficoltà
di ridefinire il confine tra autorità e abuso, tra autorevolezza e
privilegio. È proprio in questa tensione che si colloca il cuore
pulsante della storia.
Non mancano, certo,
alcuni limiti. La sceneggiatura di Nora Garrett,
pur sorprendente per un esordio, a tratti indulge in ridondanze e
in passaggi un po’ didascalici. Tuttavia, questi piccoli inciampi
non scalfiscono la forza complessiva del racconto, che resta
un’opera coraggiosa e ricca di spunti di riflessione.
Con After the
Hunt – Dopo la caccia, Luca
Guadagnino realizza un film che riflette sulla nostra
contemporaneità, mettendo a nudo le ambiguità di un mondo in cui
potere e desiderio, etica e ambizione si intrecciano. Non offre
soluzioni né risposte facili: piuttosto, costruisce un mosaico di
punti di vista che restituisce la complessità del reale.
Grazie a una regia
elegante, a un cast in stato di grazia e a un approccio che oscilla
tra introspezione e tensione thriller, After the
Hunt si impone come uno dei titoli più stimolanti del
percorso di Guadagnino. Un’opera che forse dividerà, ma che
difficilmente lascerà indifferenti.
La seconda stagione di Uno
splendido errore (leggi
qui la recensione della Stagione 1) ha visto molti colpi di
scena drammatici (e romantici), poiché il ritorno di Jackie Howard
al ranch della famiglia Walter ha riportato a galla molti
sentimenti irrisolti. Tuttavia, questa stagione non si è limitata
al triangolo amoroso centrale della serie tra Jackie (Nikki
Rodriguez), Alex (Ashby Gentry) e Cole
(Noah LaLonde). Gli sceneggiatori hanno cercato di
dare a tutto il cast di Silver Falls il proprio momento di gloria,
consentendo agli altri personaggi di crescere ed esplorare le
proprie storie.
Ciò ha incluso una nuova e
inaspettata storia d’amore tra la sedicente nerd Kiley (Mya
Lowe) e l’atleta Dylan (Kolton Stewart),
un secondo triangolo amoroso che coinvolge il giovane e
impressionabile Nathan (Corey Fogelmanis) e la
lotta degli adulti per il futuro del ranch come affascinante
attività turistica. Tutto culmina nel finale della seconda stagione
di Uno splendido errore, preparando il terreno per
la terza stagione già confermata. Jackie è costretta a rivelare i
suoi veri sentimenti, Alex e Cole compiono passi concreti verso il
loro futuro e la famiglia Walter affronta un’altra tragedia
devastante.
Cosa succederà ad Alex e Cole dopo
il finale della seconda stagione di Uno splendido
errore
Sebbene sia Alex che Cole siano
ancora legati a Jackie nella seconda stagione, questo non impedisce
loro di perseguire i propri sogni. Alex ottiene un’ambita
sponsorizzazione come cavaliere di bronchi, grazie alla sua nuova
tutor, Blake (Natalie Sharp). Cole, nel frattempo,
si afferma come assistente allenatore dei Bighorns, aiutandoli a
vincere la partita finale quando l’allenatore Allen (Jesse
Lipscombe) se ne va prima del previsto. Le rispettive
attività sportive di Alex e Cole sono una parte importante della
trama di questa stagione, dando loro la possibilità di esplorare le
loro passioni al di fuori della loro complicata dinamica romantica
con Jackie.
Anche così, Cole ha ora una
possibilità genuina e meritata di ottenere una laurea, che potrebbe
avvicinarlo a Jackie, mentre lei continua a perseguire un futuro a
Princeton. I sogni di Alex, d’altra parte, potrebbero allontanarlo
da Jackie. Anche se il suo sostegno significa tutto per lui, con la
sponsorizzazione sarà costretto a viaggiare molto di più, e una
relazione a distanza potrebbe non essere ciò che entrambi
desiderano. Considerate le altre possibilità romantiche
all’orizzonte per Alex, tra cui l’allenatore Blake e la sua
migliore amica Kiley, quella distanza potrebbe essere la soluzione
migliore.
Noah LaLonde e Kolton Stewart in Uno splendido errore. Cortesia di
Netflix
Come Jackie trova la sua
indipendenza a Silver Falls
Uno splendido
errore è ancora la storia di Jackie; fortunatamente,
questa stagione le dà la possibilità di crescere al di là del
triangolo amoroso centrale. Non solo la seconda stagione di Walter
Boys esplora in modo realistico il suo dolore e il suo rapporto con
la famiglia, ma la serie le dà anche la possibilità di trovare il
suo posto e il suo ruolo all’interno della comunità di Silver
Falls. Organizza il ballo d’autunno, si candida come rappresentante
di classe e dice a Katherine Walter (Sarah
Rafferty) che vuole essere trattata alla pari nella
famiglia Walter.
Nel finale della seconda stagione di
Uno splendido errore, Jackie ottiene finalmente la
patente di guida e vince il Silver Falls Young Sparkler Award, che
riconosce il suo sostegno alla scuola e ai suoi studenti. Nella
prima stagione, il senso di appartenenza di Jackie alla sua nuova
famiglia e alla scuola dipendeva in gran parte dal suo legame con i
fratelli Walter. È bello vederla cambiare rotta in questa stagione,
anche se è ancora confusa tra Alex e Cole. Si sta costruendo una
vita tutta sua, che le permetterà di superare qualsiasi difficoltà
sentimentale possa incontrare in futuro.
Cosa succede alle altre relazioni
in Uno splendido errore nella seconda
stagione
L’imbarazzante riunione tra Jackie,
Cole e Alex non è stato l’unico dramma sentimentale in gioco in
questa stagione. Altre tre sottotrame romantiche hanno influenzato
la narrazione di questa stagione, tra cui la continuazione della
relazione tra Danny Walter (Connor Stanhope) ed
Erin (Alisha Newton), la svolta drammatica della
storia d’amore tra Nathan e Skylar Summerhill (Jaylan
Evans) e la nuova dinamica tra Kiley e Dylan. Sebbene
Danny ed Erin sembrassero andare forte e abbiano persino concluso
la stagione con un bacio, la loro relazione è piena di
tensione.
Entrambi sanno che i loro rispettivi
sogni li allontaneranno, quindi per quanto tempo potranno davvero
mantenere viva la loro relazione? È un peccato, perché sono stati
una delle sorprese più piacevoli della prima stagione di
Uno splendido errore, ma il modo in cui la loro
storia finisce nella seconda stagione di Walter Boys è
innegabilmente realistico e comprensibile. Sono stati una piacevole
presenza rassicurante in una stagione piena di colpi di scena
romantici travolgenti, soprattutto se paragonati al triangolo
amoroso secondario tra Nathan, Skylar e il manipolatore Zach
(Carson MacCormac).
Connor Stanhope e Alisha Newton in Uno splendido errore. Cortesia
di Netflix
Una volta chiarito il vero motivo
per cui Zach voleva conquistare Nathan (voleva usarlo per tornare
con Skylar), Nathan ha provato un sincero rimorso per le sue
azioni. Sebbene fosse comprensibile il bisogno di Nathan di essere
accettato dopo aver fatto coming out, era altrettanto ragionevole
l’incapacità di Skylar di fidarsi nuovamente di lui. Tuttavia, dato
che sia Nathan che Skylar hanno ammesso di amarsi ancora, c’è
spazio per una riconciliazione nella terza stagione. Mentre Danny
ed Erin sono stati la coppia più piacevolmente inaspettata della
stagione 1, questo primato spetta a Kiley e Dylan nella stagione
2.
Anche se all’inizio era difficile
capire dove sarebbe andata a parare la loro storia, Kiley ha avuto
un impatto davvero positivo sul carattere di Dylan e sul suo
percorso come calciatore, e lui era sinceramente interessato a
conoscerla, cosa che lei meritava dopo essere stata ignorata da
Alex una volta arrivata Jackie. Il loro bacio al festival è stato
dolce, ma l’espressione impassibile di Alex in risposta suggerisce
che potrebbero esserci ancora dei problemi in serbo per loro. Kiley
ha completamente superato Alex, o il suo nuovo interesse implicito
per lei la allontanerà da Dylan?
Perché Jackie è ancora combattuta
tra Alex e Cole
Nel finale, Cole chiede finalmente a
Jackie perché sia così determinata a rimanere amici, anche se lei
ha nascosto la sua relazione ripresa con Alex. Lei gli dice che lui
è l’unica persona che l’ha mai fatta sentire fuori controllo, ed è
per questo che non può stare con lui, anche se lo ama. Cole forse
non capisce Jackie, ma le sue ragioni sono sensate. Dopo la
tragedia che ha colpito la sua famiglia, il bisogno di controllo di
Jackie è un riflesso automatico. Poiché non prova lo stesso livello
di passione per Alex, mantiene il controllo nella loro relazione.
Questo non è necessariamente giusto nei confronti di Alex, ma è
chiaro il motivo per cui lei si comporta così.
Cosa è successo a George Walter nel
campo in cima alla collina?
Subito dopo il confronto tra Jackie
e Cole, il fratello maggiore dei Walter, Will (Johnny
Link), arriva di corsa a casa, mentre un’ambulanza appare
nel vialetto. È successo qualcosa al patriarca dei Walter, George
(Marc Blucas), mentre era fuori ad esplorare i
confini più remoti del ranch. Non è chiaro cosa sia successo, però,
creando un secondo drammatico colpo di scena alla fine della
seconda stagione di Uno splendido errore. Con lo
stress di tutto ciò che era successo al ranch, compreso lo
sviluppo, la petizione della città, l’incendio del fienile e il
nuovo accordo con la cantina, qualcosa doveva pur spingerlo oltre
il limite. All’inizio della stagione era stata accennata una
malattia, quando George si era stretto brevemente l’addome durante
la sua serata con Katherine, quindi questa trama era in sviluppo
già da un po’.
Marc Blucas e Johnny Link in Uno splendido errore. Cortesia di
Netflix
Come il finale della seconda
stagione di Uno splendido errore prepara la terza
stagione
Netflix ha già confermato che
Uno splendido errore tornerà con la terza
stagione, quindi fortunatamente tutti i filoni narrativi e i colpi
di scena di questa stagione troveranno una risoluzione. Cosa
succederà a George è difficile da prevedere. Tuttavia, considerando
ciò che Jackie ha già dovuto sopportare, sarebbe una mossa
sorprendente da parte degli autori della serie scrivere della morte
di George. È più probabile che non sarà in grado di aiutare con il
ranch per un po’ di tempo dopo la degenza in ospedale, il che
potrebbe portare a una potenziale posizione di leadership per
Will.
Eppure, se Will e sua moglie Hayley
(Zöe Soul), appena tornata, sono intenzionati a
vedere il mondo insieme, come lei ha suggerito nel finale della
seconda stagione di Uno splendido errore, questo
potrebbe causare problemi al ranch e ulteriori disaccordi tra gli
adulti della famiglia Walter. Per quanto riguarda gli adolescenti,
ora che Alex sa cosa prova davvero Jackie per Cole, potrebbe
finalmente riuscire ad andare avanti. La sua amicizia con Kiley sta
lentamente migliorando, ma c’è un’aria di gelosia che circonda le
sue interazioni con lei. Lei lo ha desiderato ardentemente nella
prima stagione. Lui la desidererà ardentemente nella terza
stagione? O finirà comunque con Blake, che sembra ancora
interessata a lui?
Jackie, nel frattempo, potrebbe non
voler rinunciare al suo senso di controllo, ma ora che Cole è sulla
strada giusta, potrebbero davvero essere una bella coppia. Lui può
aiutarla a lasciarsi andare, mentre lei può aiutarlo a lavorare per
il suo nuovo futuro. Se il triangolo amoroso è finalmente giunto al
termine, potremmo vedere Cole e Jackie portare la loro relazione
fuori dall’ombra e condividerla con la loro famiglia. Resta da
vedere come reagiranno gli altri nella prossima stagione di
Uno splendido errore.
Al suo ritorno in
Concorso alla Mostra di Venezia, Valérie Donzelli firma
con A Pied D’Oeuvre (At Work) un film
sobrio, capace di inserirsi con naturalezza in un filone che sembra
emergere con forza in questa 82ª edizione: quello delle
rappresentazioni del lavoro come dispositivo di alienazione e
precarietà sotto il capitalismo contemporaneo. Se in altri titoli
come Bugonia o No Other Choice questo tema assume toni
distopici o apertamente politici, Donzelli sceglie la strada del
racconto intimo, adattando il romanzo autobiografico di Frank
Courtes e portando sullo schermo una parabola esistenziale che
oscilla tra la dignità della scelta e l’umiliazione della
miseria.
Un ricco diventato
povero
Il protagonista Paul
(interpretato da Bastien Bouillon) è un uomo di 42 anni che
conosciamo mentre prende a martellate un muro di cartongesso. La
scena non è soltanto un’immagine concreta, ma la metafora di
un’esistenza che va in frantumi. Ex fotografo affermato, con
guadagni mensili tra i 3.000 e gli 8.000 euro, Paul ha deciso di
rinunciare a una vita agiata per inseguire il sogno di diventare
scrittore. Il suo terzo libro, un resoconto autobiografico del
naufragio matrimoniale, viene giudicato invendibile dall’agente.
Intanto l’ex moglie (interpretata dalla stessa Donzelli) si è
trasferita a Montréal con i due figli, e lui si ritrova in un
monolocale minuscolo, sopravvivendo tra royalties esigue e lavori
saltuari.
La sua decisione di
iscriversi alla piattaforma “Jobbing” segna un passaggio cruciale:
Paul diventa un lavoratore precario, un handyman disposto a
tutto pur di guadagnare poche decine di euro per ore di fatica. È
l’inizio di una caduta sociale che non viene mai spettacolarizzata,
ma mostrata attraverso i dettagli minimi e quotidiani di un corpo
che si piega e di una mente che cerca disperatamente di
resistere.
A Pied
D’Oeuvre e la nuova economia della precarietà
Uno dei meriti del film è
quello di restituire con precisione i meccanismi del lavoro
digitale a cottimo. La piattaforma notifica i nuovi incarichi con
un ping, a cui segue una gara al ribasso tra i lavoratori. Paul
offre spesso 20 euro per compiti che richiedono ore, finendo per
guadagnare meno del salario minimo. La sua “zeal of the beginner”
gli consente inizialmente di trovare spazio, ma la logica
sottostante è spietata: chi vince è chi accetta di svendersi.
Insomma, un caporalato legalizzato.
Donzelli coglie con
sguardo quasi documentario le micro-umiliazioni di questa dinamica:
il sorriso forzato di Paul davanti alla webcam mentre scatta la
foto per il profilo, la domanda di una cliente che lo guarda con
sospetto (“non ha l’aria del manovale”), le conversazioni
smozzicate con i colleghi migranti. In queste crepe narrative
emerge la riflessione più ampia: non basta vendere la propria forza
lavoro, occorre anche recitare benessere, competenza, affidabilità.
È il capitalismo delle app, che monetizza non solo il tempo ma
l’immagine, la disponibilità, persino il sorriso.
Se A Pied D’Oeuvre
evita accuratamente ogni romanticizzazione della povertà, resta
evidente l’elemento della scelta. Paul non è un migrante
senza alternative, né un disoccupato espulso dal sistema: riceve
ancora 200-300 euro di royalties al mese, “non la povertà, ma un
punto di vista chiaro su di essa”, come scrive lui stesso. La
sorella lo rimprovera di non essere un “vero povero”, accusandolo
di cercarsi i guai. Ma Paul è mosso da una convinzione profonda:
“alcuni schiavi oggi sono ben pagati”.
In questo paradosso sta
la cifra politica del film. Paul ha assaporato i privilegi di un
lavoro creativo remunerato, ma avvolto nelle logiche di consumo e
di status. La precarietà, per lui, è l’unica via d’uscita da
un’altra forma di schiavitù, meno visibile ma ugualmente
soffocante. È un cammino verso la libertà che assomiglia a una
spirale discendente: il rischio costante è che la rinuncia alla
sicurezza non apra spazi di creazione, ma solo abissi di debito e
frustrazione.
A metà film, Donzelli
introduce un momento rivelatore. Paul, alla guida, incontra un
vecchio collega del mondo della fotografia. L’uomo, con casa grande
e viaggi di lusso, osserva con curiosità la sua scelta: “Stai
riducendo, è un bene”. Il dialogo non è caricaturale, ma sottolinea
la frattura tra due mondi che un tempo erano lo stesso.
Da questi incontri Paul
trae ispirazione per la scrittura: i clienti che lo osservano, i
colleghi che competono con lui, i familiari che lo giudicano. Tutti
diventano materia narrativa, alimentando un romanzo che rischia di
riprodurre proprio l’esperienza che lo ha distrutto come fotografo:
la trasformazione della vita privata in merce culturale. Donzelli,
però, evita il finale consolatorio: Paul non diventa ricco
scrivendo la sua “povertà”. Il film resta sospeso, come un diario
incompiuto, fedele alla precarietà che descrive.
Lo stile di Donzelli è
privo di orpelli: macchina da presa discreta, montaggio lineare,
osservazione attenta dei gesti e degli spazi. In questa austerità
si nasconde la forza del film, che non indulge né in estetizzazioni
della miseria né in derive melodrammatiche.
Bastien Bouillon
regge quasi da solo l’intero racconto. Il suo volto, mutevole a
seconda dell’angolazione, trasmette tanto l’orgoglio quanto
l’umiliazione del personaggio. La sua fisicità – più intellettuale
che manuale – diventa parte integrante della narrazione: Paul non
“sembra” un lavoratore, eppure lavora. È in questa frizione tra
immagine e realtà che si produce l’energia drammatica del film.
Una favola amara per
il presente
A Pied D’Oeuvre (At
Work) potrebbe sembrare un film “minore”, quasi dimesso,
nell’ambito del Concorso veneziano. Ma la sua forza sta proprio
nella modestia: nel raccontare senza fronzoli la microfisica del
lavoro precario, Donzelli coglie l’essenza di un fenomeno
universale.
Il film non è una
denuncia programmatica, né un pamphlet ideologico. È un ritratto
preciso e umano di un uomo che cerca di scrivere una storia, e che
nel farlo mette a rischio la propria esistenza. Una parabola che
parla di Francia ma potrebbe parlare di qualsiasi Paese
occidentale, di chiunque si ritrovi intrappolato tra il desiderio
di libertà e la realtà di un mercato del lavoro che riduce tutto a
competizione e ribasso.
Negli ultimi giorni il nome di Alan
Ritchson è tornato al centro dell’attenzione dei fan
DC, dopo che alcune voci lo avevano accostato al ruolo di Batman
nel nuovo universo narrativo guidato da James Gunn e Peter Safran.
L’attore, oggi protagonista della serie Reacher,
ha confermato durante un’intervista con Variety di aver avuto uno
scambio di parole con Gunn, pur chiarendo che difficilmente lo
vedremo indossare il mantello del Cavaliere Oscuro.
“Beh, non è una novità il fatto che James
Gunn sia un mio fan. Lo ha detto lui stesso. E io sono un fan
di James Gunn? Assolutamente. Ma non voglio fuorviare le persone.
Sì, ci sono state parole scambiate su Batman. Ma sono fermamente
convinto che Batman non sia nel mio futuro. Credo però che ci sia
qualcosa nel mio futuro con la DC. E vorrei che questo resti
vero.”, ha affermato Alan Ritchson.
Parole che lasciano
intendere come l’attore potrebbe essere effettivamente coinvolto in
uno dei prossimi progetti targati DC Studios, ma con un ruolo
diverso da quello dell’iconico Cavaliere Oscuro. Sebbene questa
notizia possa essere una delusione per chi invece vorrebbe vederlo
con indosso il costume di Batman, sapere che Ritchson potrebbe
unirsi al franchise spinge a questo punto a chiedersi chi potrebbe
interpretare e in quale progetto. Al momento, però, non sembrano
esserci piani confermati al riguardo.
Tutto quello che sappiamo sul film
con Batman The Brave and the Bold
Parlando l’anno scorso dei piani dei
DC Studios per
The Brave and the Bold, James Gunn ha detto: “Questa è
l’introduzione del Batman del DCU. È la storia di
Damian Wayne, il vero figlio di Batman, di cui non conoscevamo
l’esistenza per i primi otto-dieci anni della sua vita. È stato
cresciuto come un piccolo assassino e assassina. È un piccolo
figlio di puttana. È il mio Robin preferito“. “È basato
sulla run di Grant Morrison, che è una delle mie run preferite di
Batman, e la stiamo mettendo insieme proprio in questi
giorni“.
Il co-CEO dei DC Studios, Peter
Safran, ha aggiunto: “Ovviamente si tratta di un lungometraggio
che vedrà la presenza di altri membri della ‘Bat-famiglia’
allargata, proprio perché riteniamo che siano stati lasciati fuori
dalle storie di Batman al cinema per troppo tempo“. Alla
sceneggiatura, oltre a Muschietti, dovrebbe esserci anche
Rodo Sayagues, noto per aver firmato le
sceneggiature di
La casa,
Man in the Dark e Alien:
Romulus.
Tuttavia, per James Gunn, quando si tratta di decidere quali
progetti DCU riceveranno il via libera, ciò che conta è la
storia, e questo progetto era perfetto agli occhi del regista. La
produzione si sta attualmente preparando per iniziare a Liverpool,
in Inghilterra, e abbiamo ora una prima anteprima di alcuni veicoli
del Dipartimento di Polizia di Gotham City. Ci sono state voci su
un’ambientazione a Los Angeles, ma questo conferma che possiamo
aspettarci di trascorrere un po’ di tempo anche nella casa di
Batman.
Quale Batman? Beh, nonostante
Matt Reeves sia stato coinvolto come produttore e
Clayface fosse originariamente pensato come un
film Elseworlds ambientato nello stesso mondo di The
Batman, è stato chiarito che sarà a tutti gli effetti un
film DCU. La speranza è però che il Cavaliere Oscuro possa fare un
cameo in questa storia horror. Anche se questo è certamente
possibile, sembra che possiamo davvero dimenticarci che il Batman
di Robert Pattinson venga inserito nella DCU.
Come si può notare dalle immagini
diffuse (le si può vedere qui, qui e qui), il design dei veicoli del
GCPD non corrisponde a quello visto in The Batman.
La cosa può sempre cambiare in post-produzione, ma potrebbe essere
il momento di abbandonare questo sogno. A parte questo, queste
immagini ci danno anche un primo assaggio allettante di come sarà
la Gotham della DCU, dopo che un cartello in Superman ha confermato che si
trova a breve distanza da Metropolis.
Al momento sono stati rivelati pochi
dettagli sulla trama, ma abbiamo appreso che Matt Hagen sarà al
centro dell’attenzione. Nei fumetti, era il secondo
Clayface, un avventuriero che si è trasformato in
un mostro dopo aver incontrato una pozza radioattiva di
protoplasma. Questo è cambiato in Batman: The Animated
Series, dove è stato ritratto come un attore che usava una
crema anti-età per sembrare più giovane. Dopo essersi scontrato con
il suo creatore, Roland Daggett, Hagen viene immerso in una vasca
di quella sostanza e diventa il “classico” Clayface che tutti
conoscete dai fumetti.
Stando ad alcuni rumor emersi
online, la storia di Clayface sarà incentrata su
un attore in ascesa il cui volto è sfigurato da un gangster. Come
ultima risorsa, il divo si rivolge a uno scienziato eccentrico in
stile per chiedere aiuto. All’inizio l’esperimento ha successo, ma
le cose prenderanno presto una piega inaspettata.
Poiché Clayface
sarà ambientato nell’universo DC, i fan dovrebbero aspettarsi molti
collegamenti con l’universo più ampio, e saremmo molto sorpresi se
Batman apparisse o fosse anche solo menzionato. Il produttore
Peter Safran ha condiviso alcuni nuovi dettagli
sulla sceneggiatura di Flanagan, sottolineando che il film sarà
effettivamente un film horror in piena regola, sulla scia di La
mosca di David Cronenberg, ma si dice
trarrà anche ispirazione dal successo horror di Coralie
Fargeat, The
Substance.
“Clayface, vedete, è una storia
horror hollywoodiana, secondo le nostre fonti, che utilizza
l’incarnazione più popolare del cattivo: un attore di film di serie
B che si inietta una sostanza per rimanere rilevante, solo per
scoprire che può rimodellare il proprio viso e la propria forma,
diventando un pezzo di argilla ambulante”, ha dichiarato
Safran.
Tom Rhys Harries interpreterà il personaggio
principale di Clayface,
il film dei DC Studios. Il film è basato su una storia di
Mike Flanagan, attore di La caduta della casa
degli Usher (l’ultima bozza è stata firmata da Hossein
Amini, sceneggiatore di Drive), con James
Watkins, regista di
Speak No Evil, alla regia.
Clayface è attualmente previsto per l’arrivo
nelle sale l’11 settembre 2026.
Laura
Poitras,
Leone d’Oro a Venezia nel 2022 con All the Beauty and the Bloodshed, torna
alla Mostra – questa volta Fuori Concorso – con
Cover-Up, co-diretto da Mark
Obenhaus. Il film non racconta un’inchiesta inedita, ma la
vita e il metodo di Seymour Hersh, forse il più grande giornalista
investigativo americano del secondo Novecento. A ottantotto anni
Hersh continua a pubblicare su Substack, ma il documentario di
Poitras e Obenhaus ha il sapore di un testamento morale: un monito
sull’urgenza di un giornalismo che non si limiti a registrare il
presente, ma lo scavi fino a scoprire ciò che il potere vuole
occultare.
Cover-Up e l’assenza
di Seymour Hersh
La scelta del titolo è
emblematica: Cover-Up non è solo il
ritratto di Hersh, ma la constatazione che viviamo in uno “stato
permanente di insabbiamento”. Il film si apre con il ricordo delle
sue prime inchieste – dal disastro chimico di Dugway, in Utah, al
massacro di My Lai – e subito mette a fuoco un contrasto: allora il
giornalista doveva faticare per abbattere muri di silenzio, oggi i
muri restano, ma le grandi testate sembrano aver rinunciato a
scalfirli.
Il documentario
ricostruisce le origini di Hersh. Figlio di immigrati ebrei,
aiutava i genitori nella lavanderia di Chicago prima di
intraprendere per caso la strada del giornalismo. Al Pentagon
beat per l’Associated Press, cominciò a vagare nei corridoi
durante i briefing ufficiali, coltivando relazioni informali con
gli ufficiali. È così che intercettò la prima traccia del massacro
di My Lai.
La sequenza, che mostra
Hersh copiare al volo un documento lasciato su una scrivania, ha il
ritmo di un thriller, ma rivela soprattutto la tenacia di un uomo
che non si arrendeva di fronte agli ostacoli. Il talento di Hersh è
quello del segugio: pazienza, capacità di fiutare la pista giusta e
di non lasciarla più, oltre a un costante lavoro di relazioni.
Tuttavia, Poitras e
Obenhaus non nascondono le contraddizioni del loro protagonista.
Hersh non è un santino, e infatti fanno “rumore” le sue posizioni
discutibili su Assad, quando minimizzò le responsabilità del
dittatore siriano nell’uso di armi chimiche. Il film mostra un uomo
spigoloso, diffidente, spesso ostile persino con i registi: quando
Poitras gli chiede di parlare delle sue fonti, lui reagisce come se
avesse toccato un nervo scoperto, ribadendo che il rispetto della
confidenzialità è questione di vita o di morte.
Proprio in questi momenti di tensione Cover-Up si fa più
interessante: emerge la personalità di un giornalista che vive il
mestiere come missione etica, ma che al tempo stesso resta
vulnerabile alle proprie convinzioni e ai propri errori.
L’epoca d’oro del
giornalismo investigativo
Il documentario
restituisce con forza l’atmosfera degli anni Settanta, quando
Hersh, Woodward e Bernstein trasformarono il giornalismo americano
in un’arma di controllo democratico. L’inchiesta sui “Family
Jewels” della CIA, le rivelazioni sul Watergate, la documentazione
della tortura ad Abu Ghraib: ogni volta Hersh ha smontato la
narrazione ufficiale, mostrando come la verità non sia mai data per
scontata ma vada conquistata, passo dopo passo.
Rivedere oggi quelle imprese significa anche comprendere quanto sia
cambiato il rapporto tra media e potere. Come sottolinea Hersh
stesso, il giornalismo contemporaneo è spesso “troppo accomodante”:
invece di scavare, preferisce mantenere l’accesso privilegiato alle
istituzioni. La lezione di Cover-Up è che senza giornalisti
disposti a rischiare tutto, le verità scomode resteranno
sepolte.
Il pregio maggiore del
film sta nel suo valore contemporaneo. Non è un documentario
storico, ma un intervento politico sul presente. In un’epoca in
cui, ad esempio, la richiesta di trasparenza sul caso Epstein si
riduce allo slogan “Release the files!”, Hersh ci ricorda che i
file non verranno mai pubblicati spontaneamente: serve un
giornalismo che scovi ciò che il potere non vuole rendere
pubblico.
Dopo il Leone d’Oro del
2022, Laura Poitras conferma la sua capacità di intrecciare la
memoria del passato con le urgenze del presente. In
Cover-Up, insieme a Mark Obenhaus, costruisce un ritratto
che è insieme biografia, lezione di giornalismo e invito
all’azione.
La riflessione finale di Cover-Up è
amara ma necessaria: l’insabbiamento non è un’eccezione, è la
regola. La democrazia ha bisogno di reporter che rompano questa
regola. In assenza di un Hersh, di un Woodward o di una Poitras, la
verità rischia di restare invisibile.
The Terminal List: Lupo
Nero è uscito prima della seconda stagione della serie
originale (leggi
qui la nostra recensione), sollevando interrogativi sullo
spin-off. The Terminal List è stato un thriller
d’azione di grande successo per il catalogo in continua crescita di
Prime Video, con la notorietà di
Chris Pratt che ha contribuito alla crescita
della serie. La prima stagione è stata rilasciata tre anni fa e,
come anticipato, un seguito è in arrivo.
Prima di questa, tuttavia, è
arrivata The Terminal List: Lupo Nero, che porta
il franchise in una direzione diversa. Questo potrebbe confondere
il pubblico, che voleva vedere di più della ricerca di vendetta del
comandante James Reece dopo che la stagione 1 aveva accennato a
ulteriori azioni future. Eppure, questa stagione spin-off aggiunge
ulteriore materiale narrativo utile a quella che sarà a tutti gli
effetti il proseguimento della prima stagione.
The Terminal List: Lupo
Nero è un prequel della serie The Terminal
List
Anziché perseguire immediatamente
una seconda stagione di The Terminal List, la
nuova serie d’azione di Amazon ha optato per un prequel,
The Terminal List: Lupo Nero. Il prequel si
concentra sull’agente della CIA Ben Edwards
(Taylor
Kitsch), fornendo così il suo retroscena. Per chi
ricorda il finale della prima stagione di The Terminal
List, un colpo di scena ha rivelato che Edwards era in
parte responsabile della morte della famiglia di James Reece,
rendendolo l’ultimo nome della lista del titolo.
Questo rende il prequel un episodio
curioso, poiché la serie racconta la storia di un personaggio ora
morto invece di portare avanti gli eventi. Quindi, invece di andare
avanti, The Terminal List: Lupo Nero esamina gli
eventi del passato, il che dovrebbe fornire al pubblico un contesto
aggiuntivo durante l’attesa della seconda stagione. Anche la
seconda stagione della serie principale è in fase di sviluppo,
basata sul romanzo True Believer, che continuerà la
narrazione di Reece.
Taylor Kitsch nella serie The Terminal List
Lupo Nero. Cortesia di Prime Video
The Terminal List: Lupo
Nero mostra perché Ben Edwards è stato congedato dai Navy
SEAL
Dalla prima stagione di The
Terminal List sapevamo dunque che Ben Edwards era stato un
Navy SEAL e compagno di classe di James Reece al BUD/S, ma non
sapevamo esattamente perché fosse entrato nella CIA. Dato che la
serie è particolarmente incentrata sul cameratismo che lega i SEAL,
questa sembra una domanda fondamentale. Il primo episodio di
The Terminal List: Lupo Nero mostra dunque
l’episodio che ha portato all’espulsione di Edwards dai SEAL.
Dopo aver appreso che uno dei loro
obiettivi principali, Al-Jabouri, era un
informatore protetto, Edwards, Reece e il tenente Raife
Hastings (Tom Hopper) hanno disobbedito
agli ordini e lo hanno inseguito. Sebbene avessero salvato
Zaynab, la figlia dell’amico di Ben, Al-Jabouri
continuava a minacciare di vendicarsi. Spinto al limite, Ben
Edwards sparò all’uomo, giustiziandolo sul posto. Lui e Hastings
furono congedati dopo l’incidente.
Perché la storia di Ben Edwards è
stata omessa dalla prima stagione di The Terminal List
Sebbene la storia di Ben Edwards
potesse sembrare importante per la prima stagione di The
Terminal List, è comprensibile il motivo per cui non sia
stata inserita. Non solo la serie è incentrata quasi interamente su
James Reece e sulla sua situazione, ma rivelare troppo su Edwards
avrebbe potuto svelare il colpo di scena finale. Abbiamo
l’impressione che Ben Edwards sia una sorta di ribelle in
The Terminal List e che, sebbene sia devoto ai
suoi amici, abbia dei problemi personali.
Tuttavia, è ancora abbastanza
affabile da non far sospettare al pubblico il suo ruolo nel
complotto farmaceutico che ha causato la morte della famiglia di
Reece. Lo scopo di The Terminal List: Lupo Nero è
ora quello di tornare indietro ed esaminare Ben Edwards,
dimostrando perché potrebbe aver fatto ciò che ha fatto. La
rivelazione dell’ultimo minuto nella prima stagione ha lasciato il
pubblico diviso sul suo destino, e questa nuova serie dovrebbe
fornire uno sguardo sulla psicologia che ha portato a quelle
scelte.
Taylor Kitsch e Chris Pratt in The Terminal List Lupo Nero.
Cortesia di Prime Video
The Terminal List: Lupo
Nero si collega al finale della prima stagione di
The Terminal List
I creatori di The Terminal
List: Lupo Nero hanno però condiviso alcune interessanti
riflessioni sul motivo per cui il prequel è stato realizzato prima,
con lo showrunner David DiGilio che ha affermato:
“Una delle cose che è emersa dalla prima stagione di The
Terminal List è stato un grande dibattito sul finale”,
riferendosi alla reazione controversa che ha circondato il destino
di Ben. Dato che molti spettatori ritenevano che Ben non meritasse
di morire, i creatori hanno ritenuto che il personaggio di Kitsch
fosse il veicolo perfetto per una serie spin-off.
Hanno anche rivelato che lo show
continuerà, si spera, per altre stagioni, quindi, sebbene si tratti
di un prequel, avrà una vita propria. Invece di considerare
The Terminal List: Lupo Nero come un passo
indietro, pensate alla serie prequel come a un passaggio indietro
che permette al franchise di riorganizzarsi e costruire meglio il
mondo per le serie future. Nelle sole tre puntate ad oggi
rilasciate, The Terminal List: Lupo Nero amplia
già il franchise con sviluppi emozionanti e personaggi che
potrebbero apparire nella serie principale in futuro.
Negli ultimi anni gli adattamenti
dei videogiochi sono migliorati notevolmente e, sebbene ci siano
ancora alcuni casi di insuccesso, il genere sembra finalmente
ottenere il giusto riconoscimento sia sul grande che sul piccolo
schermo. Il film Minecraft
non ha riscosso un grande successo di critica quando è uscito
all’inizio di quest’anno, ma è destinato a diventare uno dei
maggiori successi al botteghino del 2025. Il film Super Mario Bros. è stato ben accolto su
entrambi i fronti; The
Last of Us e Fallout, invece,
hanno ricevuto ampi consensi in televisione. Secondo Puck, Call of Duty sarà il prossimo
ad essere adattato in un film live-action.
Il sito riporta che la
Paramount Pictures è in trattative per acquisire i
diritti cinematografici della longeva serie di videogiochi e,
sebbene sia ancora presto, si tratta di un segnale promettente. Non
si sa ancora quale gioco verrà adattato né se si tratterà di una
storia originale. I film di guerra non sono più popolari come un
tempo, come dimostra il film
Warfare della A24 uscito quest’anno (che ha incassato
33 milioni di dollari con un budget di 20 milioni).
La serie, sviluppata principalmente
da Infinity Ward, Treyarch e
Sledgehammer Games, è iniziata con Call of
Duty nel 2003. Inizialmente uno sparatutto in prima
persona per PC ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, era
incentrato su campagne militari realistiche. Il suo successo ha
portato a Call of Duty 2, seguito da Call
of Duty 3. Call of Duty 4: Modern Warfare
ha poi cambiato le regole del gioco, passando a ambientazioni
moderne e introducendo personaggi iconici come il capitano Price e
una campagna cinematografica per giocatore singolo. La sua modalità
multiplayer ha rivoluzionato il gioco online, mentre World
at War ha introdotto l’ormai iconica modalità zombie.
Non resta a questo punto che
scoprire come evolverà la vicenda, con la Paramount che in caso di
effettivo acquisto dei diritti vorrà sicuramente dar seguito a
questo investimento con film per il cinema o serie TV da destinare
alla piattaforma Paramount+.
È online il nuovo trailer di
After the Hunt, il nuovo film di Luca Guadagninopresentato
oggi alla Mostra del Cinema di Venezia.
Il film è un avvincente dramma psicologico scritto da Nora
Garrett in cui una professoressa universitaria (Julia
Roberts) si trova in un momento cruciale della sua
vita personale e professionale, quando una studentessa modello
(Ayo
Edebiri) muove delle accuse verso uno dei suoi
colleghi (Andrew
Garfield) e un oscuro segreto del suo passato rischia
di venire alla luce.
Prodotto da Imagine Entertainment (Brian Grazer, Allan
Mandelbaum, Jeb Brody), il film ha una durata di 139 minuti ed è
girato in lingua inglese. Il cast è di altissimo livello: oltre a
Julia Roberts,
alla sua prima collaborazione con Guadagnino, Ayo Edebiri, Andrew
Garfield, il cast è composto anche da
Michael
Stuhlbarg (che ha già recitato per Guadagnino in Chiamami col tuo nome) e
Chloë Sevigny
(vista invece in Bones and All).
Nel cast, oltre ai tre attori
citati, si ritrovano anche Michael Stuhlbarg e Chloë Sevigny. La fotografia da
Malik Hassan
Sayeed, il montaggio da Marco Costa, la scenografia da
Stefano Baisi e
i costumi da Giulia
Piersanti. La colonna sonora è composta da
Trent Reznor e
Atticus Ross,
duo premiato con l’Oscar, mentre il suono è curato da
Yves-Marie
Omnes, Craig
Berkey e Davide
Favargiotti, con gli effetti visivi affidati a
Fabio
Cerrito.
Con After the Hunt, Luca Guadagnino porta a Venezia
un’opera che esplora temi di potere, colpa e verità nascoste,
confermando la sua capacità di fondere cinema d’autore e tensione
drammatica.
Il
film racconta la storia di Man-su, specialista nella produzione di carta con 25
anni di esperienza, che vive serenamente con la moglie e i figli
fino al giorno in cui viene improvvisamente licenziato. Determinato
a trovare un nuovo impiego, l’uomo affronta mesi di colloqui
falliti, lavori precari e l’incubo di perdere la casa. Umiliato
dall’azienda che lo ha escluso, prende una decisione drastica: se
non c’è un posto per lui, dovrà crearselo da solo.
Nel suo commento, Park Chan-wook ha dichiarato di essersi ispirato
al romanzo The Ax di
Donald E. Westlake, trovando in Man-su una figura specchio delle
difficoltà e delle responsabilità familiari che attraversano la
vita di molti uomini contemporanei.
Il teaser trailer anticipa le atmosfere tese e drammatiche di un
film che unisce realismo e allegoria, e che conferma l’autore
sudcoreano come uno dei registi più radicali e coerenti del cinema
internazionale.
No Other Choice – Non c’è
altra scelta uscirà prossimamente nelle sale italiane,
distribuito dopo il suo passaggio veneziano.
Adler Entertainment
è lieta di diffondere il teaser della riedizione di Lo
squalo, il capolavoro di Steven Spielberg, il primo blockbuster estivo,
capostipite degli shark movie e autentico manifesto della tensione
cinematografica, che tornerà nei cinema italiani
dall’1 al 3 settembre, in occasione del 50°
anniversario e dopo aver terrorizzato milioni di spettatori al
mondo.
La storia ha inizio quando ad Amity,
una piccola località sulla costa atlantica, un enorme squalo bianco
attacca i bagnanti, il capo della polizia (Roy
Scheider), un giovane biologo marino (Richard
Dreyfuss) ed un cacciatore di squali (Robert
Shaw) decidono di affrontare il terribile animale prima
che colpisca ancora.
Uscito negli Stati Uniti nell’estate
del 1975 e accolto da un successo planetario, Lo
squalo ha terrorizzato intere generazioni con la sua
minaccia invisibile e inarrestabile che arriva dal profondo.
L’iconica colonna sonora firmata da John Williams,
che grazie ad essa vinse il suo secondo Oscar, è entrata
nell’immaginario collettivo: due sole note che bastano a far
crescere la paura per un predatore che non lascia scampo.
Fu proprio con Lo squalo che venne
lanciata la carriera di Spielberg, allora ventisettenne,
spalancando la porta per i suoi futuri successi. La produzione non
fu semplice: lo squalo meccanico da usare per le riprese non
funzionava a dovere, le inquadrature sul mare erano continuamente
rovinate dalle imbarcazioni di passaggio e il tempo di lavorazione
triplicò rispetto a quanto previsto inizialmente.
Ma nonostante tutti gli imprevisti
il film fu un enorme successo al boxoffice mondiale e segnò il
passo per tutti i blockbuster successivi, dalle strategie di
marketing e distribuzione alle tecniche narrative e perfino alle
caratterizzazioni dei protagonisti. A cinquant’anni dalla sua prima
apparizione, questo film conserva intatta la sua forza: un ritmo
perfetto, una regia magistrale, personaggi iconici e una colonna
sonora da urlo, tanto che anche Quentin Tarantino lo ha definito
“il più grande film mai realizzato”.
Il ritorno in sala è un’occasione
unica per vivere (o rivivere) su grande schermo l’esperienza di un
classico assoluto, che ha dato il via a un intero genere e che oggi
continua a influenzare l’immaginario contemporaneo, dagli shark
movies ai film di sopravvivenza, dalle serie TV ai videogame.
Lo squalo, come già riportato, sarà in sala con
Adler dal 1 al 3 settembre.
L’estate non è ancora
finita ma è già tempo di prepararsi al ritorno sui banchi di scuola
con il trailer ufficiale di RIV4LI, la nuova serie
TV per ragazzi e ragazze creata da Simona
Ercolani,
presentata in anteprima al Giffoni Film Festival e disponibile
solo su Netflix dall’1 ottobre 2025.
RIV4LI
esplora i conflitti e le scoperte della preadolescenza: i primi
amori, la costruzione della propria identità, le aspirazioni dei
ragazzi e le aspettative degli adulti, la forza dell’amicizia, ma
anche i pregiudizi che decretano chi è dentro o fuori dal
“gruppo”.
RIV4LI
sono, infatti, i protagonisti della serie, divisi inizialmente in
due gruppi contrapposti. Siamo a Pisa, nella Terza D della scuola
media Montalcini: è questo il regno degli Insiders, il cui leader è
il ragazzo più popolare della scuola, Claudio
(Samuele Carrino), spalleggiato dal suo migliore
amico Dario (Edoardo Miulli). A
sfidarli sarà la nuova arrivata, Terry
(Kartika Malavasi) che, appena trasferita da Roma,
formerà un nuovo gruppo, quello degli Outsider. La rivalità è da
subito accesissima, ma quando la scuola sarà divisa in due da un
vero muro, Insider e Outsider sapranno unirsi per abbattere le
barriere fisiche e relazionali che li separano.
Nel cast anche
Lorenzo Ciamei (Luca), Eugenia
Cableri (Sabrina), Melissa Di Pasca
(Marzia), Joseph Figueroa (Alessio),
Duccio Orlando (Paolo), Andrea
Arru (Pietro).
RIV4LI è
una serie di Simona Ercolani, prodotta da Stand by
me con la regia di Alessandro Celli. Scritta da
Simona Ercolani con Serena Cervoni, Mauro
Uzzeo, Chiara Panedigrano, Sara Cavosi, Angelo Pastore, Ivan
Russo. Produttrice esecutiva è Grazia
Assenza.
Il club dei delitti del
giovedì è l’ultimo giallo su Netflix, e il finale ricco di colpi di scena
della storia deve essere analizzato nei dettagli per essere
compreso. Con una serie di libri da adattare e un cast incredibile
che include Pierce Brosnan, Helen Mirren e Ben Kingsley, il film potrebbe facilmente
diventare un franchise di successo per la piattaforma di streaming.
Il nuovo film apporta alcune modifiche al materiale originale, tra
cui il personaggio di Ron interpretato da Brosnan, ma rimane fedele
allo spirito dei romanzi.
Con un ottimo mistero, un umorismo
accessibile e una scenografia incredibilmente abile, guidata dal
regista di Mamma ho perso l’aereo,Chris
Columbus, c’è molto da apprezzare nel nuovo film. Con
componenti così efficaci, non sorprende che le recensioni di
Il club dei delitti del giovedì siano state molto
positive. Il nuovo film ha uno spirito così affascinante che
sicuramente sarà un grande successo per la piattaforma di
streaming. Con un finale così dettagliato, tuttavia, vale la pena
analizzare la conclusione in dettaglio.
Un membro de Il club dei
delitti del giovedì ha ucciso Peter Mercer
Il film inizia con il club che dà il
titolo al film che si riunisce per discutere della misteriosa morte
di Angela Hughes avvenuta decenni prima. Il caso
irrisolto sembra sospetto fin dall’inizio, con il fidanzato di
Angela, Peter Mercer, che afferma di aver visto un
uomo mascherato scappare dalla sua casa dopo aver gettato Angela
dalla finestra. L’uomo mascherato non è mai stato catturato, ma
sembra ovvio a tutti che Peter Mercer fosse il vero assassino.
Nonostante ciò, nessuno dei poliziotti ha mai avuto dubbi sulla sua
innocenza, tranne Penny Grey, ex membro della
polizia del Kent e co-fondatrice del club.
Penny, convinta che ci fosse stato
un errore giudiziario, ha preso la legge nelle sue mani e ha ucciso
Peter Mercer. Questo la portò a nascondere questo particolare caso
ai suoi compagni, e il club lo scoprì solo dopo che Penny era
diventata troppo malata per lavorare con loro. Al giorno d’oggi,
questo è importante a causa dello stato di Cooper’s Chase. I resti
di Mercer furono sepolti nella proprietà, e il progetto di sviluppo
in cui è coinvolto Ian Ventham prevederebbe lo
scavo del territorio.
Dopo che Tony,
l’ultima speranza per Cooper’s Chase, viene ucciso,
John, il marito di Penny, si sente con le spalle
al muro. Decide di farsi giustizia da solo, proprio come sua
moglie, per nascondere il suo senso di colpa. Con una dose di
fentanil procuratasi grazie al suo precedente lavoro di
veterinario, John uccide Ian. Sfortunatamente per entrambi,
l’intero complotto alla fine viene scoperto. Tuttavia, piuttosto
che andare in prigione, John prende l’importante decisione di porre
fine alla propria vita e a quella di sua moglie. Il film si
conclude con il funerale dei personaggi, avvolto da un’aura di
oscurità e tristezza.
Helen Mirren, Ben Kingsley e Pierce Brosnan e
Celia Imrie in Il club dei delitti del giovedì. Foto di Giles
Keyte/Netflix
Un incidente con Bogdan ha causato
la morte di Tony
Naturalmente, l’omicidio principale
del film ha poco a che fare con le azioni di John e Penny. Tony
Curran, comproprietario della Cooper’s Chase, sembra essere l’unico
a prendersi cura dei residenti della casa di riposo e si rifiuta di
vendere la proprietà ai costruttori. Questo inizialmente lo rende
un eroe. Purtroppo, non tutto è così semplice con Tony. L’uomo è in
realtà piuttosto disonesto, come viene rivelato nel corso della
storia. Lui e Bobby Tanner sono coinvolti in un piano che li vede
coinvolgere uomini disperati provenienti dall’estero per
lavorare.
Quando arrivano, Tony prende i loro
passaporti in modo che non possano andarsene e li sfrutta come
manodopera a basso costo. Bogdan, che all’inizio del film viene
portato a lavorare per Ian, è una di queste vittime. Stanco
dell’oppressione che ha subito e con una madre malata a casa,
Bogdan va a casa di Tony per riprendersi il passaporto. Purtroppo,
la situazione degenera e, nonostante le sue intenzioni contrarie,
Bogdan finisce per uccidere Tony accidentalmente.
Cooper viene salvato e Joyce entra
a far parte del club in modo permanente
Il finale del film vede la
formazione di una nuova versione del club, con Joyce che diventa un
membro più permanente. Nonostante le battute di
Elizabeth durante tutta la storia, tra le due
donne molto diverse inizia a formarsi un legame.
Joyce, in quanto ex infermiera, ha qualcosa di
molto speciale da offrire al club e si è guadagnata il loro
rispetto durante tutto il film. Inoltre, il Cooper’s Chase viene
fortunatamente acquistato dalla persona migliore possibile.
Joanna, la figlia di Joyce, investe nella
proprietà, sperando di renderla ancora migliore. L’amata casa di
riposo continuerà a vivere e il club omonimo avrà ulteriori
possibilità di risolvere altri omicidi negli anni a venire.
Ben Kingsley, Helen Mirren e Pierce Brosnan in Il club dei delitti
del giovedì. Foto di Giles Keyte/Netflix
Il vero significato di Il
club dei delitti del giovedì
Nonostante alcuni momenti di
autentica oscurità e alcuni temi pesanti, la sceneggiatura del film
è caratterizzata da una grande leggerezza. Tutti i membri del cast
hanno la possibilità di brillare in alcuni momenti emozionanti,
immergendosi in un dramma straziante e in una commedia edificante.
Questo equilibrio è difficile da trovare, ma il film ci riesce bene
con il suo sguardo sorprendentemente profondo sulla vita e la
mortalità, così come sul bene e sul male. Nessuno degli assassini
del film è il vero cattivo. Bogdan ha ucciso Tony, ma è stato un
incidente e il risultato del fatto che lui stesso era vittima di
abusi.
Lo stesso vale per Penny, che
desiderava semplicemente vedere fatta giustizia. Le azioni di John,
nell’uccidere Ian, sono forse le più egoistiche, ma sono state
compiute per proteggere la sua amata moglie. Niente è perfetto e
ciascuno dei personaggi ha una sorta di tristezza nella propria
vita. Il rapporto di Elizabeth con il marito, affetto da demenza, è
molto emotivo. La sua perdita arriverà alla fine, come è successo
anche a Penny. I personaggi del film sono complessi, ed è per
questo che la storia funziona.
Sono nella fase avanzata della loro
vita e devono fare i conti con la propria mortalità e le proprie
malattie, il che fa sembrare alcuni di questi omicidi molto più
piccoli e meno importanti. Il nuovo film di Netflix trova un
equilibrio sorprendente nella sua storia avvincente che rende il
film così straordinariamente efficace. Con una visione del mondo
più olistica, The Thursday Murder Club crea un legame emotivo con
gli spettatori che dura anche dopo che l’affascinante mistero è
stato risolto.
Il finale tortuoso di Una
scomoda circostanza –Caught Stealing è
ricco di sangue e colpi di scena inaspettati. Film poliziesco di
Darren Aronofsky basato sull’omonimo libro di
Charlie Huston, in esso si racconta la storia di
un barista di New York City che, accettando di badare al gatto del
vicino, finisce per essere trascinato in una complessa rete di
inganni e morte nella malavita della città. Si tratta di un film
frenetico, caotico e nel complesso divertente, soprattutto quando
Hank, interpretato da Austin Butler, diventa sempre più disperato (e
pericoloso) nei suoi tentativi di sfuggire ai suoi inseguitori.
I colpi di scena tengono Hank (e il
pubblico) con il fiato sospeso, anche quando amici e nemici vengono
eliminati in sparatorie e omicidi. Tutto questo porta a un finale
soddisfacente per l’arco narrativo del personaggio, che potrebbe
anche essere facilmente utilizzato per dare il via a un adattamento
del sequel del romanzo originale. Scopriamo allora con questo
approfondimento cosa succede a Hank nel finale di Una
scomoda circostanza –Caught Stealing e
come questo prepara potenziali future avventure del
personaggio.
Cosa succede a Hank nel finale di
Una scomoda circostanza –Caught
Stealing?
Hank è l’unico grande sopravvissuto
della trama caotica di Una scomoda circostanza –Caught Stealing, riuscendo alla fine a sfuggire
alle autorità fuggendo dal paese con la piccola fortuna in cui si è
imbattuto. Hank non sembra davvero un cattivo ragazzo quando viene
presentato, semplicemente un uomo in difficoltà che sta lottando
con i propri traumi e complessi, ma che in generale si presenta
come una persona perbene. Anche quando il caos del film di
Aronofsky diventa sempre più pericoloso, Hank mostra un notevole
autocontrollo.
Anche il suo omicidio di Russ,
causato da ripetuti traumi alla testa, è descritto in gran parte
come accidentale, con Hank che cerca (senza riuscirci) di portare
Russ in ospedale quando questi sviene a causa delle ferite
riportate. Hank conclude il film consapevole che le autorità lo
ritengono almeno coinvolto negli omicidi, ma con 4 milioni di
dollari a disposizione, che usa per fuggire a Tulum con Bud. Anche
se manda dei soldi a sua madre, questo permette a Hank di
ricominciare da capo, cosa che sembra accettare di buon grado, dato
che ordina una soda invece di un alcolico e si dichiara disposto a
spegnere una partita di baseball.
La morte di Yvonne (Zoe
Kravitz) all’inizio di Una scomoda
circostanza –Caught Stealing aumenta
enormemente la posta in gioco e aggiunge un tocco tragico (seppur
nauseante) al caos che ne consegue. Inizialmente, Hank crede che
siano stati Colorado e i suoi uomini ad uccidere Yvonne, poiché ha
deciso di chiamarli e ha sentito il gangster minacciarla. Tuttavia,
Roman sostiene che Colorado non sia il responsabile e che
probabilmente siano stati i fratelli Drucker, dai quali Hank era
fuggito in precedenza. Il trauma e il mistero della morte di Yvonne
passano leggermente in secondo piano nel corso del film,
soprattutto quando altri personaggi vengono eliminati uno dopo
l’altro.
Tuttavia, uno dei grandi colpi di
scena finali di Caught Stealing arriva dopo che i fratelli Drucker
collaborano con Hank per uccidere Roman. Inizialmente, sembrano
tutti contenti di lasciarsi andare per la propria strada, i Drucker
addirittura progettano di dargli una parte dei soldi per i “servizi
resi”. Tuttavia, si scopre che hanno l’accendino distintivo di
Yvonne, a prova che l’hanno uccisa. Secondo Lipa e Schmully, hanno
ucciso Yvonne perché Hank era fuggito quando erano venuti a
cercarlo la prima volta. Proprio come aveva previsto Roman, i due
volevano mandare un messaggio a Hank su ciò che sarebbe potuto
accadere se li avesse traditi di nuovo, portando direttamente alla
brutale morte di Yvonne.
Come Una scomoda
circostanza –Caught Stealing prepara il
terreno per un sequel
Una scomoda circostanza
–Caught Stealing si conclude dunque con
una nota piuttosto conclusiva per Hank. Dopo aver eliminato
praticamente tutti quelli che lo volevano morto o che fungevano da
capro espiatorio per il caos, il film si conclude con Hank che si
adatta alla sua nuova situazione. Anche le scene post-credits di
Budd suggeriscono che Hank abbia più o meno trovato la pace. Se non
ci fosse un sequel, sarebbe comunque un finale abbastanza
soddisfacente. Tuttavia, ci sono in realtà due seguiti al libro da
cui è tratto il film, che potrebbero facilmente essere utilizzati
come base per dei sequel.
Charlie Huston (che
ha scritto sia i libri originali che la sceneggiatura del film)
crea persino una situazione che potrebbe portare alla prossima
storia nella nuova casa di Hank. Il sequel di Caught
Stealing è Six Bad Things, che segue gli
sforzi di Hank per rimanere sotto il radar in Sud America, solo per
scoprire che la mafia russa vuole indietro i suoi soldi (ed è
disposta a prendere di mira la sua famiglia per ottenerli). Lungo
la strada, Hank deve affrontare una nuova serie di pericolosi tipi
strani, il tutto mentre corre in California per proteggere sua
madre.
Matt Smith e Austin Butler in Una scomoda circostanza – Caught
Stealing
Il terzo capitolo della serie,
A Dangerous Man, costringe Hank a tenere d’occhio
Miguel Arenas, un promettente giocatore di baseball, come parte di
un accordo con i russi. Questo alla fine costringe Hank a tornare a
New York City, una città da cui è fuggito una volta e da cui
potrebbe non riuscire a scappare di nuovo. Questi libri preparano
il terreno affinché Una scomoda circostanza –Caught Stealing possa potenzialmente dare vita a
una nuova serie cinematografica per Austin Butler.
Il vero significato di Una
scomoda circostanza –Caught
Stealing
Una scomoda circostanza
–Caught Stealing è dunque incentrato su
una persona che ha trascorso la propria vita fuggendo dai propri
problemi. Quando Hank si è ferito al ginocchio e ha ucciso il suo
amico in un incidente stradale causato accidentalmente con la sua
auto da adolescente, è fuggito dall’altra parte del Paese. Con
l’aiuto della negazione e dell’alcol, Hank è riuscito a mettere da
parte il suo trauma per un po’.
Quando scoppia una nuova battaglia e
le sue azioni portano inavvertitamente alla morte dei suoi cari,
come Yvonne e Russ, Hank inizialmente cerca di fuggire di nuovo.
Tuttavia, Hank può essere libero (e salvare le altre persone nella
sua vita) solo quando reagisce. Il film equipara la decisione di
Hank di affrontare i suoi problemi con i vari criminali alla sua
lotta finale contro la dipendenza dall’alcol.
Yvonne lo spiega chiaramente a Hank
poco prima di morire, chiedendogli se è il tipo di persona di cui
lei può fidarsi, capace di mantenere la propria posizione e lottare
per ciò che è importante. Anche se è troppo tardi per salvarla,
Hank alla fine prende a cuore queste parole e diventa il tipo di
persona che non solo riesce a sopravvivere, ma anche a prosperare
nel mondo spietato di Una scomoda circostanza –Caught Stealing.
Bella Ramsey non le manda a dire a chi ha
criticato la serie The Last of Us. In una nuova
intervista, Ramsey suggerisce infatti ai critici di giocare al
videogioco invece di guardare la terza stagione della serie HBO.
“Non posso farci niente comunque. La serie è già uscita. Non
c’è nulla che possa essere cambiato o modificato. Quindi penso che
non abbia davvero senso leggere o guardare nulla“, ha detto
Bella Ramsey durante un’apparizione al podcast The Awardist.
”Le persone hanno ovviamente
diritto alle loro opinioni. Ma questo non influisce sulla serie,
non influisce in alcun modo su come la serie continua o altro. Per
me sono cose molto separate. Quindi no, semplicemente non mi
interessa“. Con l’avvicinarsi della terza stagione
dell’adattamento live-action del videogioco post-apocalittico della
Naughty Dog, Bella Ramsey ha quindi dato un suggerimento agli
haters: “Non siete obbligati a guardarlo. Se lo odiate così
tanto, c’è sempre il gioco. Potete semplicemente giocarci di
nuovo”, ha detto. “Se invece volete guardarlo, spero che
vi piaccia”.
Basato sul pluripremiato videogioco
di Naughty Dog, The Last of Us è ambientato 20
anni dopo la distruzione della civiltà moderna. Joel, interpretato
da Pedro Pascal, un sopravvissuto incallito,
viene assunto per far uscire clandestinamente Ellie (Bella
Ramsey), una ragazza di 14 anni, da una zona di
quarantena oppressiva. Quello che inizia come un piccolo lavoro si
trasforma presto in un viaggio brutale e straziante, poiché
entrambi devono attraversare gli Stati Uniti e dipendere l’uno
dall’altra per sopravvivere.
La seconda stagione riprende cinque
anni dopo gli eventi della prima stagione, Joel ed Ellie sono
coinvolti in un conflitto tra loro e in un mondo ancora più
pericoloso e imprevedibile di quello che si sono lasciati alle
spalle. A loro, come protagonista della serie si aggiunge la Abby
di Kaitlyn Dever, la quale ha un conto in sospeso
con Joel. Proprio quest’ultima è stata indicata come personaggio
principale della prossima stagione, sulla quale vige però ancora
molta segretezza.
L’ultima volta che abbiamo visto
Loki, interpretato da Tom Hiddleston, aveva preso posto su un trono
situato nella Cittadella alla Fine dei Tempi. Il Dio delle Storie
ora governa il Multiverso, anche se l’esistenza delle Incursioni
suggerisce che potrebbe trattarsi di una soluzione temporanea.
Loki, infatti, tornerà in Avengers:
Doomsday, e ora sono stati diffusi alcuni dettagli
spoiler sul che potrebbe avere nel film.
Oggi, il fotografo @UnBoxPHD è
infatti stato il primo a rivelare che “si vocifera che
Hiddleston abbia girato oggi per Avengers Doomsday”. Da
allora, Daniel Richtman è
intervenuto per spiegare che “Tom Hiddleston ha girato una
scena nella casa di Steve e Peggy in cui ha una [conversazione] con
loro”. Quindi, se ciò venisse confermato, Loki lascerà la
vecchia fortezza di Colui che rimane per condividere lo schermo con
Capitan America di Chris Evans e Peggy Carter di Hayley Atwell.
In precedenza era stato riferito che
si tratta del Capitan America della Terra-616, con questo film che
riprende la sua storia dopo che è tornato indietro nel tempo alla
fine di Avengers: Endgame per avere il suo lieto fine con
Peggy. Un tempo c’erano progetti per un film o una serie che
seguissero la missione di Steve Rogers di riportare le Gemme
dell’Infinito al loro giusto posto nel tempo. Ora sembra che
spetterà ad Avengers:
Doomsday colmare le lacune.
A 22 anni dall’uscita del classico
di fantascienza Terminator 3: Le macchine ribelli,
il leggendario regista Ridley Scott rivela ulteriori dettagli sul
motivo per cui si è rifiutato di dirigere il film. James Cameron, come noto, è l’ideatore della
saga di Terminator e ha diretto i primi due
capitoli, senza dubbio i due migliori film della serie e candidati
al titolo di migliori film d’azione di tutti i tempi.
Tuttavia, Cameron ha fatto un passo
indietro per il terzo capitolo, che è stato diretto da
Jonathan Mostow. Ma il lavoro era stato offerto
prima a Ridley Scott; ironicamente, Cameron ha diretto
il film Aliens – Scontro finale del 1986, più orientato
all’azione, sequel del capolavoro horror spaziale Alien di
Scott del 1979, quindi questa assunzione come regista sarebbe stata
un ribaltamento della situazione.
Durante una recente intervista con
The Guardian, Ridley Scott ha
dunque rivelato di aver rifiutato 20 milioni di dollari per
dirigere Terminator 3 perché semplicemente
“non è il suo genere”. “Ho rifiutato un compenso di 20
milioni di dollari. Vedi, non posso essere comprato, amico.
Qualcuno mi ha detto: “Chiedi quanto prende Arnold”. Ho pensato:
“Ci provo”. Ho detto: “Voglio quello che prende Arnold”. Quando
hanno detto di sì, ho pensato: “Ca**o”. Ma non potevo farlo. Non è
il mio genere”.
“È come fare un film di Bond.
– ha aggiunto Scott – L’essenza di un film di Bond è il
divertimento e l’eccentricità. Terminator è puro fumetto. Io avrei
cercato di renderlo reale. Ecco perché non mi hanno mai chiesto di
fare un film di Bond, perché avrei potuto rovinarlo”. Molti
probabilmente avrebbero voluto che Scott dirigesse
Terminator 3, considerato un po’ deludente, un
banale rifacimento delle trame passate, che ha iniziato a
infrangere le regole del franchise in modo frustrante. Ma anche
Scott non è infallibile come regista, avendo prodotto alcuni film
che non hanno avuto un grande successo.
I commenti di Ridley Scott rivelano
però una comprensione più profonda del franchise di Terminator,
sapendo che è tonalmente al di fuori della sua area di competenza
quando realizza così tanti film storici dettagliati. Tuttavia,
avrebbe potuto eccellere nella regia del primo
Terminator, che fa qualcosa di simile ad
Alien nel tradurre i classici tropi dell’horror in una
storia di fantascienza.
Nel bene e nel male, Scott è dunque
rimasto lontano dal franchise di Terminator, sperando che una
scelta migliore di lui potesse dirigere qualcosa di degno dei suoi
predecessori. Non è quello che è successo, ma qualunque cosa sia
ora il franchise di Terminator nel suo complesso,
i vari alti e bassi nella qualità fanno tutti parte
dell’esperienza.
La
competizione ufficiale della 82ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
accoglie oggi uno dei titoli più attesi: Eojjeol suga eopda (No Other Choice), il nuovo
film di Park
Chan-wook, regista sudcoreano che negli ultimi vent’anni
ha saputo imporsi come una delle voci più radicali e riconoscibili
del cinema internazionale, autore di cult come Oldboy, Lady Vendetta e Parasite.
La
storia ha come protagonista Man-su, specialista nella produzione di carta con 25
anni di esperienza, soddisfatto della propria vita familiare e
professionale. Tutto sembra perfetto, finché la sua azienda lo
licenzia con poche parole: “Non abbiamo altra scelta”. Da quel
momento, l’uomo si ritrova intrappolato in una spirale di
frustrazione e precarietà: un anno di colloqui andati a vuoto, un
lavoro mal pagato in un negozio al dettaglio, il rischio di perdere
la casa conquistata con sacrificio. Umiliato dal responsabile di
linea della Moon Paper, Man-su decide di forzare il destino: se non
c’è un posto per lui, sarà lui stesso a crearselo.
Nel suo commento, Park Chan-wook spiega di essersi ispirato al
romanzo The Ax di Donald
E. Westlake, da cui ha tratto una riflessione personale: “Anch’io,
come Man-su, credo che esista un certo modo di essere padre, marito
e uomo. Dopotutto, sono anch’io un uomo con una famiglia.”
No Other Choice arriva a
Venezia dopo una lunga gestazione – quasi vent’anni – e si presenta
come un dramma esistenziale e sociale, in equilibrio tra critica al
sistema e ritratto umano universale, arricchito dallo sguardo
rigoroso e visionario di Park Chan-wook.
La
storia ruota attorno a una professoressa universitaria che si
ritrova a un bivio personale e professionale quando una studentessa
modello muove un’accusa contro un collega. L’episodio rischia di
mettere a nudo un oscuro segreto del suo passato, portandola ad
affrontare verità sepolte e scelte difficili.
Prodotto da Imagine
Entertainment (Brian Grazer, Allan Mandelbaum, Jeb Brody),
il film ha una durata di 139 minuti ed è girato in lingua inglese.
Il cast è di altissimo livello: Julia Roberts,
alla sua prima collaborazione con Guadagnino, guida un gruppo di
interpreti che comprende Ayo Edebiri, Andrew
Garfield, Michael Stuhlbarg e Chloë Sevigny.
La sceneggiatura è firmata da Nora Garrett, la fotografia da Malik Hassan Sayeed, il montaggio
da Marco Costa,
la scenografia da Stefano
Baisi e i costumi da Giulia Piersanti. La colonna sonora è composta da
Trent Reznor e
Atticus Ross,
duo premiato con l’Oscar, mentre il suono è curato da
Yves-Marie
Omnes, Craig
Berkey e Davide
Favargiotti, con gli effetti visivi affidati a
Fabio
Cerrito.
Con After the Hunt, Luca
Guadagnino porta a Venezia un’opera che esplora temi di potere,
colpa e verità nascoste, confermando la sua capacità di fondere
cinema d’autore e tensione drammatica.
Il
concorso della 82ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha
vissuto uno dei suoi momenti più attesi con l’arrivo al Lido del
cast di Jay Kelly, il nuovo film di
Noah Baumbach.
Prima della proiezione ufficiale, il red carpet si è trasformato in
un evento spettacolare, illuminato dalla presenza di grandi star
hollywoodiane.
A
guidare la passerella c’erano George Clooney, accolto da applausi e
flash, e Adam Sandler,
protagonista al fianco dell’amico e regista. Accanto a loro
Laura Dern,
che ha portato sul tappeto rosso la sua eleganza naturale.
L’ensemble del cast comprendeva anche Riley Keough, Billy Crudup, Patrick Wilson, Greta Gerwig e Alba Rohrwacher, che hanno reso la
serata ancora più internazionale e glamour.
Il regista Noah Baumbach ha salutato il pubblico con entusiasmo,
accompagnato dai produttori David Heyman e Amy Pascal,
sottolineando l’importanza di presentare a Venezia un film che
esplora identità, scelte di vita e rapporti umani.
Le foto immortalano sorrisi, complicità e momenti di stile: Clooney
e Sandler hanno catalizzato l’attenzione con la loro presenza
carismatica, mentre le interpreti hanno incantato con abiti
raffinati che hanno dominato i social e i media internazionali.
Con Jay Kelly, Baumbach
porta a Venezia un’opera intima e universale, e il red carpet di
apertura del film ha confermato l’attesa che accompagna questo
titolo destinato a far discutere critica e pubblico.
Con Jay Kelly,
Noah Baumbachtorna in
concorso alla Mostra Internazionale del Cinema della Biennale
di Venezia con un’opera che sembra pensata per conquistare il
pubblico più vasto possibile, sacrificando parte della sua consueta
finezza autoriale. Il film, che vede George
Clooney nei panni di una star in crisi esistenziale,
si muove con disinvoltura tra i codici del dramma e quelli della
commedia, ma lo fa scegliendo scorciatoie narrative che ne limitano
la forza. L’impressione è quella di un racconto “ben
confezionato”, capace di intrattenere senza mai davvero
mettere in discussione lo spettatore.
Il tema centrale è quello
classico del successo pagato a caro prezzo: Jay Kelly, attore
adorato dalle masse, è costretto a confrontarsi con ciò che ha
sacrificato lungo il cammino, in particolare gli affetti familiari
e le relazioni autentiche. Se l’intento dichiarato di Baumbach era
quello di interrogarsi sull’identità e sul senso di una vita
vissuta “in scena”, il risultato appare in parte appiattito su
cliché già noti, dove l’uomo di successo paga l’inevitabile scotto
della solitudine.
Cliché e stereotipi
in viaggio per l’Europa
La cornice del viaggio
europeo dovrebbe offrire respiro al racconto, ma si trasforma in un
catalogo di stereotipi, sul clamore, la confusione, l’accoglienza e
i modi di fare goffi e riguardosi. Tutto ciò rafforza l’idea di un
film che cerca la “poesia” nelle scorciatoie, invece che scavare
davvero nella cultura o nelle contraddizioni dei luoghi
attraversati.
Baumbach sembra cadere
nella trappola di un certo immaginario hollywoodiano, dove l’Italia
in particolare diventa scenario pittoresco al servizio di una
parabola morale americana. Il viaggio del protagonista è ridotto a
specchio che riflette le nevrosi di Jay Kelly senza mai avere un
ruolo determinante.
Tra i momenti più
problematici del film c’è proprio l’incontro tra il divo e le
persone comuni, descritti come depositari di una purezza morale che
il protagonista avrebbe perduto. Baumbach insiste su questa
contrapposizione in modo fin troppo programmatico: il ricco che
scopre nella semplicità del povero una verità più autentica. Un
topos narrativo che, anziché offrire complessità, riduce i
personaggi secondari a funzioni esemplari, perdendo così in
credibilità.
Due star,
un’occasione mancata
La presenza di
George
Clooney nel ruolo principale è senza dubbio l’elemento
più attrattivo del film. L’attore mette al servizio della parte il
suo consueto carisma, reggendo da solo gran parte della scena. La
sua interpretazione ha l’eleganza che ci si aspetta, ma proprio
questa prevedibilità diventa un limite: Clooney è perfetto per
incarnare la star di successo tormentata, ma forse troppo perfetto
per sorprendere davvero.
Accanto a lui troviamo
Adam
Sandler, nei panni del manager Ron. Un personaggio
che, almeno sulla carta, poteva offrire un contrappunto
interessante: il punto di vista di chi vive la fama non da
protagonista ma da figura “satellite”, necessaria ma invisibile.
Purtroppo il film non gli concede abbastanza spazio: Sandler rimane
un comprimario abbozzato, un’ombra di ciò che avrebbe potuto
essere. Una scelta che priva Jay Kelly di
un’angolazione nuova, rinunciando a esplorare il lato più
ambivalente del rapporto tra star e entourage.
Tra cinema e vita: un
finale benevolo
Il finale del film
abbraccia una visione conciliatoria: in fondo, sembra dirci
Baumbach, sacrificare parte della vita privata in nome dell’arte e
della capacità di emozionare il pubblico è un prezzo che può valere
la pena pagare. È un messaggio che suona rassicurante e che, se da
un lato può toccare corde sincere, dall’altro rischia di suonare
autoassolutorio.
Più che un vero bilancio
amaro, Jay Kelly sceglie di chiudere con una nota di
benevolenza verso il protagonista e verso l’industria stessa. Un
atto di fede nel cinema, certo, ma che riduce la complessità del
discorso iniziale a una formula edificante. Il film sembra allora
rivolgersi a chi cerca conferme più che a chi desidera
interrogarsi.
Cortesia Netflix
Un passo indietro per
Baumbach
Jay Kelly appare
come un Baumbach più accomodante. Se opere precedenti come
Marriage Story riuscivano a scavare nelle
contraddizioni umane con lucidità e dolore, qui ci troviamo di
fronte a un prodotto levigato, pensato per piacere senza
urtare. Non a caso, l’opera richiama per atmosfere e
ambizioni la serie The Studio di Apple TV+,
con cui condivide l’idea del dietro le quinte del cinema senza però
la tendenza a graffiare davvero.
È un film che scorre
piacevolmente e che troverà certo il suo pubblico, ma che
difficilmente resterà tra le opere più memorabili del regista. Ben
confezionato, sì, ma anche troppo legato a formule già note,
Jay Kelly rischia di essere ricordato più
come un’occasione mancata che come un capitolo imprescindibile
della carriera di Baumbach.
Werner Herzog, il
venerato autore tedesco dietro “Fitzcarraldo”,
“Aguirre, furore di Dio”, “Nosferatu” e
“Grizzly Man” – tanto per citarne alcuni – ha dato alcuni
consigli molto pratici agli aspiranti registi giovedì durante una
masterclass alla Mostra del Cinema di Venezia. “Bisogna sapere
come falsificare un permesso di ripresa in un Paese con una
dittatura militare, come scassinare serrature”, ha detto.
“Per fare film bisogna essere dei criminali al limite della
legalità. Se non avete questa attitudine, non pensate nemmeno di
diventare registi”.
Altre perle di saggezza fornite
dall’82enne gigante del Nuovo Cinema Tedesco alla sala gremita di
giovani appassionati di cinema andavano dal “leggere molti
libri” – Herzog, a detta sua, guarda solo cinque o sei film
all’anno – al non fissarsi troppo su un progetto specifico.
“Naturalmente ci sono progetti che non sono riuscito a
realizzare”, ha detto, raccontando come negli anni ’90 lui e
Francis Ford Coppola volessero realizzare una
produzione sontuosa sulla conquista spagnola del Messico, vista e
narrata dal punto di vista degli Aztechi.
“Abbiamo passato molte notti
insonni a lavorarci, ma non si è mai concretizzato perché non è
stato possibile finanziarlo”. “L’industria funziona in un
modo specifico”, ha detto Herzog. “Ma invece di cercare di
ottenere finanziamenti senza successo per i prossimi vent’anni, ho
realizzato 28 film [da allora] e ho scritto sette libri in quel
periodo. Questo è quello che ho fatto. Quella sceneggiatura non
realizzata? Non ha importanza”, ha concluso.
Il prolifico regista ha anche
sottolineato che un anno due dei suoi film hanno compiuto l’impresa
unica di essere selezionati per il concorso di Venezia. Nel 2009
Herzog ha presentato in anteprima sia “My Son, My Son, What
Have Ye Done?” che “Bad Lieutenant: Port Of Call New
Orleans”. Herzog ha anche osservato che per lui “il cinema
indipendente non esiste. Si dipende dai sistemi di produzione, si
dipende dalla distribuzione. Si dipende dai permessi”, ha
detto.
“Ma esiste una cosa chiamata
autosufficienza”, ha continuato Herzog. “Guadagnate dei
soldi in qualche modo. Ma non rapinate una banca, perché è
controproducente. Di solito vi prendono”. A Venezia
quest’anno, Herzog ha ricevuto il Leone d’Oro alla Carriera e
presenta in anteprima il suo nuovo documentario “Ghost
Elephants” (qui
la nostra recensione direttamente dal Festival), sulla ricerca
di un branco di elefanti sfuggenti in una zona praticamente
disabitata degli altopiani dell’Angola, grande quanto
l’Inghilterra.
Nel frattempo è impegnato nelle
riprese del suo prossimo lungometraggio, “Bucking
Fastard”, in Irlanda, con le sorelle Kate e Rooney Mara. Herzog sta inoltre sviluppando un
film d’animazione basato sul suo romanzo “The Twilight
World” ed è stato scritturato
come doppiatore nel prossimo film d’animazione di Bong
Joon-ho sulle creature degli abissi marini. “Non
smetto mai di lavorare e ho sempre più di un progetto in
mente”, ha detto. “Ma se ce ne sono troppi, non riesco a
seguirli tutti. Quindi seguo quello che mi sembra più
urgente”.
No Way Up – Senza via di
uscita è un film horror-survival che vede i protagonisti
finire in fondo a un oceano infestato dagli squali (per altri film
sugli squali, leggi anche Paradise Beach – Dentro l’incubo: la storia vera
dietro il film e Lo squalo: la spiegazione del finale del film di
Steven Spielberg). Un aereo diretto a Cabo ospita una varietà
di passeggeri, tra cui Ava, i suoi amici e una
coppia di anziani nonni con la loro giovane nipotina,
Rosa. Tuttavia, l’emozionante viaggio prende
presto una brutta piega quando un incidente in volo fa precipitare
il velivolo direttamente nell’Oceano Pacifico.
Di conseguenza, Ava e i pochi
sopravvissuti che in qualche modo sono riusciti a resistere ai
danni dell’incidente si ritrovano in una lotta per la sopravvivenza
inimmaginabile. Il tutto mentre squali assassini iniziano a
circondare il loro aereo che sta affondando. L’interpretazione
unica del regista di Claudio Fäh di una
storia di squali traccia un percorso avvincente, inedito, mentre la
narrazione mette i personaggi in un angolo senza via d’uscita.
Tuttavia, Ava e i suoi compagni sopravvissuti si rifiutano di
arrendersi alla morte e lottano per raggiungere la superficie
dell’acqua fino all’ultimo respiro.
La trama di No Way Up –
Senza via di uscita
Ava e suo padre, il governatore
locale, hanno un debole per le misure di sicurezza eccessive. Per
lo stesso motivo, quando la studentessa universitaria si presenta
all’aeroporto per imbarcarsi in una divertente vacanza con il suo
ragazzo, Jed, e il suo amico,
Kyle, la sua ex guardia del corpo dei Navy SEAL,
Brandon, la accompagna. Tuttavia, anche Brandon si
rende conto dell’assurdità della situazione. Alla fine accetta,
quando capisce che Ava, che è sempre stata nervosa dopo la morte
prematura della madre, causata da un incidente che si sarebbe
potuto evitare, vuole davvero che lui sia lì.
Sophie McIntosh e Jeremias Amoore in No Way Up – Senza via di
uscita
Nel frattempo, una famiglia composta
da due nonni e dalla piccola Rosa, di 10 anni, si prepara per la
propria vacanza a Cabo. All’inizio, tutto procede senza intoppi
mentre l’aereo decolla. Tuttavia, Ava non riesce a non rimanere
nervosa, incapace di scrollarsi di dosso una brutta sensazione. Col
tempo, la sua premonizione si avvera quando un uccello vola
accidentalmente in uno dei motori dell’aereo. Inizialmente, il
personale di bordo cerca di placare le preoccupazioni dei
passeggeri, insistendo che tutto è sotto controllo. Tuttavia, le
cose prendono presto una piega drammatica.
Il motore prende fuoco, creando un
buco nella fiancata dell’aereo. Molti dei passeggeri che non
vengono risucchiati fuori da esso muoiono a causa delle schegge.
Altri annegano quando l’aereo precipita nell’Oceano Pacifico.
Tuttavia, Ava e i suoi amici, seduti nella parte posteriore
dell’aereo, sopravvivono all’incidente. Fortunatamente, anche
Brandon sopravvive e riesce a trascinare fuori alcuni altri
sopravvissuti: Rosa e sua nonna. Anche uno degli assistenti di
volo, Danilo, sopravvive allo schianto. Il gruppo
si stringe nella parte posteriore dell’aereo, dove si è formata una
sacca d’aria sufficiente a garantire un’ora o due di aria
respirabile.
In questo momento di grave crisi,
Brandon prende il comando e decide di aspettare i soccorsi.
Tuttavia, mentre cerca di procurarsi una bombola di ossigeno per
garantire che non finiscano l’aria, incontra il più grande ostacolo
alla loro sopravvivenza: gli squali. Di conseguenza, mentre Brandon
riesce a guadagnare un po’ di tempo per Ava e gli altri grazie alla
bombola di ossigeno, alla fine diventa cibo per i pesci. Nel
frattempo, una squadra di soccorso sorvola la zona con un
elicottero. Tuttavia, i sopravvissuti si trovano in una situazione
ancora più critica quando l’aereo scivola dalle rocce, affondando
sempre più nell’oceano.
Ava e gli altri capiscono quindi che
devono trovare rapidamente una soluzione proattiva. Per un attimo,
le loro speranze si accendono quando vedono i sommozzatori di
soccorso trovare il relitto. Tuttavia, il loro sollievo è di breve
durata, poiché gli squali divorano i sommozzatori. In seguito, Ava
e Jed tentano di ritirare le bombole di ossigeno dei sommozzatori
più vicini. Tuttavia, l’incontro di Jed con lo squalo gli provoca
una ferita quasi mortale che lo uccide poco dopo.
Grace Nettle e Sophie McIntosh in No Way Up – Senza via di
uscita
Cosa accade nel finale del
film
Nonostante la situazione impossibile
in cui si trovano Ava e gli altri sopravvissuti, poiché il loro
piano dipende da una roccia oceanica, rimane la speranza di
riuscire a fuggire. Grazie all’atteggiamento positivo di Brandon e
alla ricerca incessante dei pirati che il padre di Ava mette in
atto per trovarla, le possibilità che il gruppo resista abbastanza
a lungo da essere trovato rimangono alte. Tuttavia, un’altra
aggiunta alla loro situazione difficile, ovvero la presenza degli
squali, sembra segnare il loro destino. Mentre si trovano
sott’acqua, il gruppo deve trovare il modo di garantire che i
livelli di ossigeno durino abbastanza a lungo.
Tuttavia, questo significa che
devono uscire dalla loro sacca d’aria e dirigersi verso il foro
nell’aereo, dove il subacqueo ha trovato la morte. Ciò solleva il
problema degli squali che aspettano con il fiato sospeso per fare
di Ava e degli altri la loro preda. Fortunatamente, nella stiva
dell’aereo ci sono alcune attrezzature subacquee a cui Danilo può
accedere. Così, Ava, Kyle, Danilo e Rosa indossano le mute per
proteggersi dal freddo dell’oceano. Da parte sua, Nana rinuncia
all’attrezzatura per garantire la sicurezza della nipote. In
seguito, il gruppo si prepara a nuotare verso il foro sul lato
dell’aereo.
Hanno intenzione di prendere le
bombole di ossigeno dei subacquei e usarle mentre nuotano verso la
superficie. Quando il soffitto dell’aereo inizia a cedere alla
pressione dell’acqua dell’oceano e la loro precaria presa sulla
roccia scivola ulteriormente, diventa evidente che devono evacuare
immediatamente l’aereo. Nana, che ha sempre saputo che non sarebbe
riuscita a cavarsela senza attrezzatura nonostante le sue abilità
di nuotatrice, accetta il suo destino. Crede che uscire con il
gruppo li rallenterà solo perché cercheranno di dare la priorità
alla sua sicurezza. Tuttavia, alla donna importa solo della
sopravvivenza di sua nipote.
D’altra parte, Kyle rimane
mortalmente spaventato dal piano a causa di un traumatico incidente
infantile in cui è quasi annegato. Per lo stesso motivo, mentre Ava
e gli altri lasciano la sacca d’aria, Kyle finisce per tornare
indietro a causa della sua paura, il che alla fine lo rende un
facile bersaglio per gli squali. Alla fine, Danilo e Rosa riescono
a sopravvivere e a fuggire dall’aereo con la bombola da sub,
nuotando fino alla fonte. Tuttavia, uno squalo nuota vicino
all’apertura prima che Ava riesca a fuggire.
Phyllis Logan, Will Attenborough, Sophie McIntosh, Manuel Pacific,
Grace Nettle e Jeremias Amoore in No Way Up – Senza via di
uscita
Chi sopravvive alla fine del film?
Dopo la morte di Brandon, Ava
finisce per diventare la leader de facto del piccolo gruppo di
sopravvissuti. Anche se in passato è stata frenata dalla paura, è
in grado di pensare con lucidità e prendere decisioni
indipendentemente da quanto le cose possano sembrare impossibili.
Il suo ottimismo rimane la sua arma più potente. Tuttavia, alla
fine, finisce per affrontare il suo destino da sola. Mentre lo
squalo le impedisce di fuggire dallo scafo dell’aereo, Ava deve
mantenere la calma e il sangue freddo per assicurarsi che il
predatore non la noti.
In seguito, si rende conto che non
può fuggire dal lato della nave, poiché l’imbarcazione sta
scivolando sempre più sott’acqua. Di conseguenza, Ava non ha altra
scelta che nuotare fino alla parte anteriore dell’aereo e fuggire
da lì. Mentre l’aereo si ribalta dalla roccia e si tuffa in acqua,
deve nuotare contro la pressione crescente per evitare di
soccombere alla profondità dell’oceano. A differenza di Danilo e
Rosa, non ha nemmeno una bombola di ossigeno. Di conseguenza, anche
dopo essere fuggita dall’aereo, le sue possibilità di sopravvivenza
sembrano scarse.
Alla fine, la mancanza di ossigeno
ha la meglio sul suo corpo e lei è costretta ad arrendersi e
smettere di lottare per la vita. Questo aiuta il suo corpo a
galleggiare in superficie, grazie al giubbotto di salvataggio che
indossa. Così, il suo corpo galleggia fino alla superficie
dell’oceano, permettendo alla squadra di soccorso di individuarla e
tirarla fuori dall’acqua. Alla fine della storia, Ava, Danilo e
Rosa, gli unici sopravvissuti rimasti, vengono riportati in salvo
su un elicottero. Prima di essere salvata, Ava ha visto il peluche
di Rosa, Mr. Tibbs, nell’acqua e glielo ha riportato.
Prima di salire sull’aereo, Rosa
aveva perso il suo orsacchiotto, cosa che l’aveva fatta arrabbiare.
Mr. Tibbs è una fonte di conforto e sicurezza per la bambina, che
le permette di rimanere calma anche nelle situazioni più avverse.
All’aeroporto, Ava aveva trovato Mr. Tibbs per Rosa, conquistando
la fiducia della bambina. Tuttavia, quando Ava riporta Mr. Tibbs a
Rosa, la bambina decide di lasciarlo andare. Il signor Tibbs è
stato incredibilmente importante per la bambina, fungendo da sua
copertina di sicurezza.
Tuttavia, dopo essere sopravvissuta
a un’esperienza così traumatica, Rosa è cambiata profondamente. Per
lo stesso motivo, si rende conto che i suoi nonni, che hanno
trovato la morte nell’oceano, potrebbero aver bisogno della
protezione del signor Tibbs più di lei. Così, getta il peluche
nell’oceano, simboleggiando la crescita del suo carattere e la
conclusione della sua storia. Un finale “positivo”, ma che lascia
decisamente l’amaro per tutte quelle situazioni viste nel film e
che sono finite in tragedia.
Il
28 agosto la 82ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha
accolto il cast e la troupe di Bugonia, il nuovo film di
Yorgos Lanthimos,
tra i titoli più attesi del concorso. Prima della proiezione
ufficiale, il Lido si è acceso con un red carpet che ha visto
sfilare star internazionali e grande eleganza.
Al
centro dei riflettori Emma
Stone, musa del regista greco e già protagonista di
Povere Creature! e
Kinds of Kindness, che ha
illuminato il tappeto rosso con uno stile impeccabile, confermando
la sua intesa artistica con Lanthimos. Accanto a lei, Jesse Plemons,
Alicia
Silverstone, Aidan
Delbis e Stavros
Halkias, accolti dall’entusiasmo del pubblico e dei
fotografi. Presente naturalmente anche il regista, che ha salutato
i fan con la consueta ironia e compostezza.
Il red carpet ha offerto momenti di complicità tra gli interpreti e
i sorrisi condivisi con il pubblico, ma anche attimi di glamour
puro, grazie agli abiti scelti dai protagonisti, tra eleganza
classica e dettagli eccentrici che ben rispecchiano lo stile
visionario del film.
Le foto dal red carpet testimoniano l’entusiasmo per un titolo che
promette di diventare uno degli eventi cinematografici più discussi
della stagione.