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Bella Ramsey agli Hater di The Last of Us: “Se non vi piace la serie, giocate al videogioco”

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Bella Ramsey non le manda a dire a chi ha criticato la serie The Last of Us. In una nuova intervista, Ramsey suggerisce infatti ai critici di giocare al videogioco invece di guardare la terza stagione della serie HBO. “Non posso farci niente comunque. La serie è già uscita. Non c’è nulla che possa essere cambiato o modificato. Quindi penso che non abbia davvero senso leggere o guardare nulla“, ha detto Bella Ramsey durante un’apparizione al podcast The Awardist.

Le persone hanno ovviamente diritto alle loro opinioni. Ma questo non influisce sulla serie, non influisce in alcun modo su come la serie continua o altro. Per me sono cose molto separate. Quindi no, semplicemente non mi interessa“. Con l’avvicinarsi della terza stagione dell’adattamento live-action del videogioco post-apocalittico della Naughty Dog, Bella Ramsey ha quindi dato un suggerimento agli haters: “Non siete obbligati a guardarlo. Se lo odiate così tanto, c’è sempre il gioco. Potete semplicemente giocarci di nuovo”, ha detto. “Se invece volete guardarlo, spero che vi piaccia”.

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Di cosa parla The Last of Us 

Basato sul pluripremiato videogioco di Naughty Dog, The Last of Us è ambientato 20 anni dopo la distruzione della civiltà moderna. Joel, interpretato da Pedro Pascal, un sopravvissuto incallito, viene assunto per far uscire clandestinamente Ellie (Bella Ramsey), una ragazza di 14 anni, da una zona di quarantena oppressiva. Quello che inizia come un piccolo lavoro si trasforma presto in un viaggio brutale e straziante, poiché entrambi devono attraversare gli Stati Uniti e dipendere l’uno dall’altra per sopravvivere.

La seconda stagione riprende cinque anni dopo gli eventi della prima stagione, Joel ed Ellie sono coinvolti in un conflitto tra loro e in un mondo ancora più pericoloso e imprevedibile di quello che si sono lasciati alle spalle. A loro, come protagonista della serie si aggiunge la Abby di Kaitlyn Dever, la quale ha un conto in sospeso con Joel. Proprio quest’ultima è stata indicata come personaggio principale della prossima stagione, sulla quale vige però ancora molta segretezza.

Avengers: Doomsday, rivelati possibili dettagli sul ruolo di Loki

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L’ultima volta che abbiamo visto Loki, interpretato da Tom Hiddleston, aveva preso posto su un trono situato nella Cittadella alla Fine dei Tempi. Il Dio delle Storie ora governa il Multiverso, anche se l’esistenza delle Incursioni suggerisce che potrebbe trattarsi di una soluzione temporanea. Loki, infatti, tornerà in Avengers: Doomsday, e ora sono stati diffusi alcuni dettagli spoiler sul che potrebbe avere nel film.

Oggi, il fotografo @UnBoxPHD è infatti stato il primo a rivelare che “si vocifera che Hiddleston abbia girato oggi per Avengers Doomsday”. Da allora, Daniel Richtman è intervenuto per spiegare che “Tom Hiddleston ha girato una scena nella casa di Steve e Peggy in cui ha una [conversazione] con loro”. Quindi, se ciò venisse confermato, Loki lascerà la vecchia fortezza di Colui che rimane per condividere lo schermo con Capitan America di Chris Evans e Peggy Carter di Hayley Atwell.

In precedenza era stato riferito che si tratta del Capitan America della Terra-616, con questo film che riprende la sua storia dopo che è tornato indietro nel tempo alla fine di Avengers: Endgame per avere il suo lieto fine con Peggy. Un tempo c’erano progetti per un film o una serie che seguissero la missione di Steve Rogers di riportare le Gemme dell’Infinito al loro giusto posto nel tempo. Ora sembra che spetterà ad Avengers: Doomsday colmare le lacune.

Cosa sappiamo di Avengers: Doomsday

Avengers: Doomsday e Avengers: Secret Wars arriveranno in sala rispettivamente il 18 dicembre 2026, e il 17 dicembre 2027. Entrambi i film saranno diretti da Joe e Anthony Russo, che tornano anche nel MCU dopo aver diretto Captain America: The Winter Soldier, Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame.

Sono confermati nel cast del film (per ora): Paul Rudd (Ant-Man), Simu Liu (Shang-Chi), Tom Hiddleston (Loki), Lewis Pullman (Bob/Sentry), Florence Pugh (Yelena), Danny Ramirez (Falcon), Ian McKellen (Magneto), Sebastian Stan (Bucky), Winston Duke (M’Baku), Chris Hemsworth (Thor), Kelsey Grammer Bestia), James Marsden (Ciclope), Channing Tatum (Gambit), Wyatt Russell (U.S. Agent), Vanessa Kirby (Sue Storm), Rebecca Romijn (Mystica), Patrick Stewart (Professor X), Alan Cumming (Nightcrawler), Letitia Wright (Black Panther), Tenoch Huerta Mejia (Namor), Pedro Pascal (Reed Richards), Hannah John-Kamen (Ghost), Joseph Quinn (Johnny Storm), David Harbour (Red Guardian), Robert Downey Jr. (Dottor Destino), Ebon Moss-Bachrach (La Cosa), Anthony Mackie (Captain America).

Ridley Scott spiega perché ha detto no a Terminator 3

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Ridley Scott spiega perché ha detto no a Terminator 3

A 22 anni dall’uscita del classico di fantascienza Terminator 3: Le macchine ribelli, il leggendario regista Ridley Scott rivela ulteriori dettagli sul motivo per cui si è rifiutato di dirigere il film. James Cameron, come noto, è l’ideatore della saga di Terminator e ha diretto i primi due capitoli, senza dubbio i due migliori film della serie e candidati al titolo di migliori film d’azione di tutti i tempi.

Tuttavia, Cameron ha fatto un passo indietro per il terzo capitolo, che è stato diretto da Jonathan Mostow. Ma il lavoro era stato offerto prima a Ridley Scott; ironicamente, Cameron ha diretto il film Aliens – Scontro finale del 1986, più orientato all’azione, sequel del capolavoro horror spaziale Alien di Scott del 1979, quindi questa assunzione come regista sarebbe stata un ribaltamento della situazione.

Durante una recente intervista con The Guardian, Ridley Scott ha dunque rivelato di aver rifiutato 20 milioni di dollari per dirigere Terminator 3 perché semplicemente “non è il suo genere”. “Ho rifiutato un compenso di 20 milioni di dollari. Vedi, non posso essere comprato, amico. Qualcuno mi ha detto: “Chiedi quanto prende Arnold”. Ho pensato: “Ci provo”. Ho detto: “Voglio quello che prende Arnold”. Quando hanno detto di sì, ho pensato: “Ca**o”. Ma non potevo farlo. Non è il mio genere”.

“È come fare un film di Bond. – ha aggiunto Scott – L’essenza di un film di Bond è il divertimento e l’eccentricità. Terminator è puro fumetto. Io avrei cercato di renderlo reale. Ecco perché non mi hanno mai chiesto di fare un film di Bond, perché avrei potuto rovinarlo”. Molti probabilmente avrebbero voluto che Scott dirigesse Terminator 3, considerato un po’ deludente, un banale rifacimento delle trame passate, che ha iniziato a infrangere le regole del franchise in modo frustrante. Ma anche Scott non è infallibile come regista, avendo prodotto alcuni film che non hanno avuto un grande successo.

I commenti di Ridley Scott rivelano però una comprensione più profonda del franchise di Terminator, sapendo che è tonalmente al di fuori della sua area di competenza quando realizza così tanti film storici dettagliati. Tuttavia, avrebbe potuto eccellere nella regia del primo Terminator, che fa qualcosa di simile ad Alien nel tradurre i classici tropi dell’horror in una storia di fantascienza.

Nel bene e nel male, Scott è dunque rimasto lontano dal franchise di Terminator, sperando che una scelta migliore di lui potesse dirigere qualcosa di degno dei suoi predecessori. Non è quello che è successo, ma qualunque cosa sia ora il franchise di Terminator nel suo complesso, i vari alti e bassi nella qualità fanno tutti parte dell’esperienza.

Venezia 82: in concorso No Other Choice di Park Chan-wook

Venezia 82: in concorso No Other Choice di Park Chan-wook

La competizione ufficiale della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia accoglie oggi uno dei titoli più attesi: Eojjeol suga eopda (No Other Choice), il nuovo film di Park Chan-wook, regista sudcoreano che negli ultimi vent’anni ha saputo imporsi come una delle voci più radicali e riconoscibili del cinema internazionale, autore di cult come Oldboy, Lady Vendetta e Parasite.

La storia ha come protagonista Man-su, specialista nella produzione di carta con 25 anni di esperienza, soddisfatto della propria vita familiare e professionale. Tutto sembra perfetto, finché la sua azienda lo licenzia con poche parole: “Non abbiamo altra scelta”. Da quel momento, l’uomo si ritrova intrappolato in una spirale di frustrazione e precarietà: un anno di colloqui andati a vuoto, un lavoro mal pagato in un negozio al dettaglio, il rischio di perdere la casa conquistata con sacrificio. Umiliato dal responsabile di linea della Moon Paper, Man-su decide di forzare il destino: se non c’è un posto per lui, sarà lui stesso a crearselo.

Nel suo commento, Park Chan-wook spiega di essersi ispirato al romanzo The Ax di Donald E. Westlake, da cui ha tratto una riflessione personale: “Anch’io, come Man-su, credo che esista un certo modo di essere padre, marito e uomo. Dopotutto, sono anch’io un uomo con una famiglia.”

No Other Choice arriva a Venezia dopo una lunga gestazione – quasi vent’anni – e si presenta come un dramma esistenziale e sociale, in equilibrio tra critica al sistema e ritratto umano universale, arricchito dallo sguardo rigoroso e visionario di Park Chan-wook.

Venezia 82: oggi è il giorno di After the Hunt di Luca Guadagnino con Julia Roberts

Il 29 agosto alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia debutta After the Hunt, il nuovo film di Luca Guadagnino, regista di Chiamami col tuo nome e Bones and All. Si tratta di un thriller psicologico che promette di essere uno dei titoli più discussi del concorso.

La trama di After the Hunt

La storia ruota attorno a una professoressa universitaria che si ritrova a un bivio personale e professionale quando una studentessa modello muove un’accusa contro un collega. L’episodio rischia di mettere a nudo un oscuro segreto del suo passato, portandola ad affrontare verità sepolte e scelte difficili.

Prodotto da Imagine Entertainment (Brian Grazer, Allan Mandelbaum, Jeb Brody), il film ha una durata di 139 minuti ed è girato in lingua inglese. Il cast è di altissimo livello: Julia Roberts, alla sua prima collaborazione con Guadagnino, guida un gruppo di interpreti che comprende Ayo Edebiri, Andrew Garfield, Michael Stuhlbarg e Chloë Sevigny.

La sceneggiatura è firmata da Nora Garrett, la fotografia da Malik Hassan Sayeed, il montaggio da Marco Costa, la scenografia da Stefano Baisi e i costumi da Giulia Piersanti. La colonna sonora è composta da Trent Reznor e Atticus Ross, duo premiato con l’Oscar, mentre il suono è curato da Yves-Marie Omnes, Craig Berkey e Davide Favargiotti, con gli effetti visivi affidati a Fabio Cerrito.

Con After the Hunt, Luca Guadagnino porta a Venezia un’opera che esplora temi di potere, colpa e verità nascoste, confermando la sua capacità di fondere cinema d’autore e tensione drammatica.

Venezia 82: il red carpet di Jay Kelly con George Clooney, Adam Sandler e Laura Dern

Il concorso della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha vissuto uno dei suoi momenti più attesi con l’arrivo al Lido del cast di Jay Kelly, il nuovo film di Noah Baumbach. Prima della proiezione ufficiale, il red carpet si è trasformato in un evento spettacolare, illuminato dalla presenza di grandi star hollywoodiane.

A guidare la passerella c’erano George Clooney, accolto da applausi e flash, e Adam Sandler, protagonista al fianco dell’amico e regista. Accanto a loro Laura Dern, che ha portato sul tappeto rosso la sua eleganza naturale. L’ensemble del cast comprendeva anche Riley Keough, Billy Crudup, Patrick Wilson, Greta Gerwig e Alba Rohrwacher, che hanno reso la serata ancora più internazionale e glamour.

Il regista Noah Baumbach ha salutato il pubblico con entusiasmo, accompagnato dai produttori David Heyman e Amy Pascal, sottolineando l’importanza di presentare a Venezia un film che esplora identità, scelte di vita e rapporti umani.

Le foto immortalano sorrisi, complicità e momenti di stile: Clooney e Sandler hanno catalizzato l’attenzione con la loro presenza carismatica, mentre le interpreti hanno incantato con abiti raffinati che hanno dominato i social e i media internazionali.

Con Jay Kelly, Baumbach porta a Venezia un’opera intima e universale, e il red carpet di apertura del film ha confermato l’attesa che accompagna questo titolo destinato a far discutere critica e pubblico.

Jay Kelly: recensione del film di Noah Baumbach – Venezia 82

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Jay Kelly: recensione del film di Noah Baumbach – Venezia 82

Con Jay Kelly, Noah Baumbach torna in concorso alla Mostra Internazionale del Cinema della Biennale di Venezia con un’opera che sembra pensata per conquistare il pubblico più vasto possibile, sacrificando parte della sua consueta finezza autoriale. Il film, che vede George Clooney nei panni di una star in crisi esistenziale, si muove con disinvoltura tra i codici del dramma e quelli della commedia, ma lo fa scegliendo scorciatoie narrative che ne limitano la forza. L’impressione è quella di un racconto “ben confezionato”, capace di intrattenere senza mai davvero mettere in discussione lo spettatore.

Il tema centrale è quello classico del successo pagato a caro prezzo: Jay Kelly, attore adorato dalle masse, è costretto a confrontarsi con ciò che ha sacrificato lungo il cammino, in particolare gli affetti familiari e le relazioni autentiche. Se l’intento dichiarato di Baumbach era quello di interrogarsi sull’identità e sul senso di una vita vissuta “in scena”, il risultato appare in parte appiattito su cliché già noti, dove l’uomo di successo paga l’inevitabile scotto della solitudine.

Cliché e stereotipi in viaggio per l’Europa

La cornice del viaggio europeo dovrebbe offrire respiro al racconto, ma si trasforma in un catalogo di stereotipi, sul clamore, la confusione, l’accoglienza e i modi di fare goffi e riguardosi. Tutto ciò rafforza l’idea di un film che cerca la “poesia” nelle scorciatoie, invece che scavare davvero nella cultura o nelle contraddizioni dei luoghi attraversati.

Baumbach sembra cadere nella trappola di un certo immaginario hollywoodiano, dove l’Italia in particolare diventa scenario pittoresco al servizio di una parabola morale americana. Il viaggio del protagonista è ridotto a specchio che riflette le nevrosi di Jay Kelly senza mai avere un ruolo determinante.

Adam Sandler – Cortesia Netflix

Il ricco e la bontà del povero

Tra i momenti più problematici del film c’è proprio l’incontro tra il divo e le persone comuni, descritti come depositari di una purezza morale che il protagonista avrebbe perduto. Baumbach insiste su questa contrapposizione in modo fin troppo programmatico: il ricco che scopre nella semplicità del povero una verità più autentica. Un topos narrativo che, anziché offrire complessità, riduce i personaggi secondari a funzioni esemplari, perdendo così in credibilità.

Due star, un’occasione mancata

La presenza di George Clooney nel ruolo principale è senza dubbio l’elemento più attrattivo del film. L’attore mette al servizio della parte il suo consueto carisma, reggendo da solo gran parte della scena. La sua interpretazione ha l’eleganza che ci si aspetta, ma proprio questa prevedibilità diventa un limite: Clooney è perfetto per incarnare la star di successo tormentata, ma forse troppo perfetto per sorprendere davvero.

Accanto a lui troviamo Adam Sandler, nei panni del manager Ron. Un personaggio che, almeno sulla carta, poteva offrire un contrappunto interessante: il punto di vista di chi vive la fama non da protagonista ma da figura “satellite”, necessaria ma invisibile. Purtroppo il film non gli concede abbastanza spazio: Sandler rimane un comprimario abbozzato, un’ombra di ciò che avrebbe potuto essere. Una scelta che priva Jay Kelly di un’angolazione nuova, rinunciando a esplorare il lato più ambivalente del rapporto tra star e entourage.

Tra cinema e vita: un finale benevolo

Il finale del film abbraccia una visione conciliatoria: in fondo, sembra dirci Baumbach, sacrificare parte della vita privata in nome dell’arte e della capacità di emozionare il pubblico è un prezzo che può valere la pena pagare. È un messaggio che suona rassicurante e che, se da un lato può toccare corde sincere, dall’altro rischia di suonare autoassolutorio.

Più che un vero bilancio amaro, Jay Kelly sceglie di chiudere con una nota di benevolenza verso il protagonista e verso l’industria stessa. Un atto di fede nel cinema, certo, ma che riduce la complessità del discorso iniziale a una formula edificante. Il film sembra allora rivolgersi a chi cerca conferme più che a chi desidera interrogarsi.

Cortesia Netflix

Un passo indietro per Baumbach

Jay Kelly appare come un Baumbach più accomodante. Se opere precedenti come Marriage Story riuscivano a scavare nelle contraddizioni umane con lucidità e dolore, qui ci troviamo di fronte a un prodotto levigato, pensato per piacere senza urtare. Non a caso, l’opera richiama per atmosfere e ambizioni la serie The Studio di Apple TV+, con cui condivide l’idea del dietro le quinte del cinema senza però la tendenza a graffiare davvero.

È un film che scorre piacevolmente e che troverà certo il suo pubblico, ma che difficilmente resterà tra le opere più memorabili del regista. Ben confezionato, sì, ma anche troppo legato a formule già note, Jay Kelly rischia di essere ricordato più come un’occasione mancata che come un capitolo imprescindibile della carriera di Baumbach.

Werner Herzog agli aspiranti registi: “Per fare film bisogna essere dei criminali borderline”

Werner Herzog, il venerato autore tedesco dietro “Fitzcarraldo”, “Aguirre, furore di Dio”, “Nosferatu” e “Grizzly Man” – tanto per citarne alcuni – ha dato alcuni consigli molto pratici agli aspiranti registi giovedì durante una masterclass alla Mostra del Cinema di Venezia. “Bisogna sapere come falsificare un permesso di ripresa in un Paese con una dittatura militare, come scassinare serrature”, ha detto. “Per fare film bisogna essere dei criminali al limite della legalità. Se non avete questa attitudine, non pensate nemmeno di diventare registi”.

Altre perle di saggezza fornite dall’82enne gigante del Nuovo Cinema Tedesco alla sala gremita di giovani appassionati di cinema andavano dal “leggere molti libri” – Herzog, a detta sua, guarda solo cinque o sei film all’anno – al non fissarsi troppo su un progetto specifico. “Naturalmente ci sono progetti che non sono riuscito a realizzare”, ha detto, raccontando come negli anni ’90 lui e Francis Ford Coppola volessero realizzare una produzione sontuosa sulla conquista spagnola del Messico, vista e narrata dal punto di vista degli Aztechi.

Abbiamo passato molte notti insonni a lavorarci, ma non si è mai concretizzato perché non è stato possibile finanziarlo”. “L’industria funziona in un modo specifico”, ha detto Herzog. “Ma invece di cercare di ottenere finanziamenti senza successo per i prossimi vent’anni, ho realizzato 28 film [da allora] e ho scritto sette libri in quel periodo. Questo è quello che ho fatto. Quella sceneggiatura non realizzata? Non ha importanza”, ha concluso.

Il prolifico regista ha anche sottolineato che un anno due dei suoi film hanno compiuto l’impresa unica di essere selezionati per il concorso di Venezia. Nel 2009 Herzog ha presentato in anteprima sia “My Son, My Son, What Have Ye Done?” che “Bad Lieutenant: Port Of Call New Orleans”. Herzog ha anche osservato che per lui “il cinema indipendente non esiste. Si dipende dai sistemi di produzione, si dipende dalla distribuzione. Si dipende dai permessi”, ha detto.

Ma esiste una cosa chiamata autosufficienza”, ha continuato Herzog. “Guadagnate dei soldi in qualche modo. Ma non rapinate una banca, perché è controproducente. Di solito vi prendono”. A Venezia quest’anno, Herzog ha ricevuto il Leone d’Oro alla Carriera e presenta in anteprima il suo nuovo documentario “Ghost Elephants” (qui la nostra recensione direttamente dal Festival), sulla ricerca di un branco di elefanti sfuggenti in una zona praticamente disabitata degli altopiani dell’Angola, grande quanto l’Inghilterra.

Nel frattempo è impegnato nelle riprese del suo prossimo lungometraggio, “Bucking Fastard”, in Irlanda, con le sorelle Kate e Rooney Mara. Herzog sta inoltre sviluppando un film d’animazione basato sul suo romanzo “The Twilight World” ed è stato scritturato come doppiatore nel prossimo film d’animazione di Bong Joon-ho sulle creature degli abissi marini. “Non smetto mai di lavorare e ho sempre più di un progetto in mente”, ha detto. “Ma se ce ne sono troppi, non riesco a seguirli tutti. Quindi seguo quello che mi sembra più urgente”.

No way up – Senza via di uscita: la spiegazione del finale del film

No Way Up – Senza via di uscita è un film horror-survival che vede i protagonisti finire in fondo a un oceano infestato dagli squali (per altri film sugli squali, leggi anche Paradise Beach – Dentro l’incubo: la storia vera dietro il film e Lo squalo: la spiegazione del finale del film di Steven Spielberg). Un aereo diretto a Cabo ospita una varietà di passeggeri, tra cui Ava, i suoi amici e una coppia di anziani nonni con la loro giovane nipotina, Rosa. Tuttavia, l’emozionante viaggio prende presto una brutta piega quando un incidente in volo fa precipitare il velivolo direttamente nell’Oceano Pacifico.

Di conseguenza, Ava e i pochi sopravvissuti che in qualche modo sono riusciti a resistere ai danni dell’incidente si ritrovano in una lotta per la sopravvivenza inimmaginabile. Il tutto mentre squali assassini iniziano a circondare il loro aereo che sta affondando. L’interpretazione unica del regista di Claudio Fäh di una storia di squali traccia un percorso avvincente, inedito, mentre la narrazione mette i personaggi in un angolo senza via d’uscita. Tuttavia, Ava e i suoi compagni sopravvissuti si rifiutano di arrendersi alla morte e lottano per raggiungere la superficie dell’acqua fino all’ultimo respiro.

La trama di No Way Up – Senza via di uscita

Ava e suo padre, il governatore locale, hanno un debole per le misure di sicurezza eccessive. Per lo stesso motivo, quando la studentessa universitaria si presenta all’aeroporto per imbarcarsi in una divertente vacanza con il suo ragazzo, Jed, e il suo amico, Kyle, la sua ex guardia del corpo dei Navy SEAL, Brandon, la accompagna. Tuttavia, anche Brandon si rende conto dell’assurdità della situazione. Alla fine accetta, quando capisce che Ava, che è sempre stata nervosa dopo la morte prematura della madre, causata da un incidente che si sarebbe potuto evitare, vuole davvero che lui sia lì.

Sophie McIntosh e Jeremias Amoore in No Way Up - Senza via di uscita
Sophie McIntosh e Jeremias Amoore in No Way Up – Senza via di uscita

Nel frattempo, una famiglia composta da due nonni e dalla piccola Rosa, di 10 anni, si prepara per la propria vacanza a Cabo. All’inizio, tutto procede senza intoppi mentre l’aereo decolla. Tuttavia, Ava non riesce a non rimanere nervosa, incapace di scrollarsi di dosso una brutta sensazione. Col tempo, la sua premonizione si avvera quando un uccello vola accidentalmente in uno dei motori dell’aereo. Inizialmente, il personale di bordo cerca di placare le preoccupazioni dei passeggeri, insistendo che tutto è sotto controllo. Tuttavia, le cose prendono presto una piega drammatica.

Il motore prende fuoco, creando un buco nella fiancata dell’aereo. Molti dei passeggeri che non vengono risucchiati fuori da esso muoiono a causa delle schegge. Altri annegano quando l’aereo precipita nell’Oceano Pacifico. Tuttavia, Ava e i suoi amici, seduti nella parte posteriore dell’aereo, sopravvivono all’incidente. Fortunatamente, anche Brandon sopravvive e riesce a trascinare fuori alcuni altri sopravvissuti: Rosa e sua nonna. Anche uno degli assistenti di volo, Danilo, sopravvive allo schianto. Il gruppo si stringe nella parte posteriore dell’aereo, dove si è formata una sacca d’aria sufficiente a garantire un’ora o due di aria respirabile.

In questo momento di grave crisi, Brandon prende il comando e decide di aspettare i soccorsi. Tuttavia, mentre cerca di procurarsi una bombola di ossigeno per garantire che non finiscano l’aria, incontra il più grande ostacolo alla loro sopravvivenza: gli squali. Di conseguenza, mentre Brandon riesce a guadagnare un po’ di tempo per Ava e gli altri grazie alla bombola di ossigeno, alla fine diventa cibo per i pesci. Nel frattempo, una squadra di soccorso sorvola la zona con un elicottero. Tuttavia, i sopravvissuti si trovano in una situazione ancora più critica quando l’aereo scivola dalle rocce, affondando sempre più nell’oceano.

Ava e gli altri capiscono quindi che devono trovare rapidamente una soluzione proattiva. Per un attimo, le loro speranze si accendono quando vedono i sommozzatori di soccorso trovare il relitto. Tuttavia, il loro sollievo è di breve durata, poiché gli squali divorano i sommozzatori. In seguito, Ava e Jed tentano di ritirare le bombole di ossigeno dei sommozzatori più vicini. Tuttavia, l’incontro di Jed con lo squalo gli provoca una ferita quasi mortale che lo uccide poco dopo.

Grace Nettle e Sophie McIntosh in No Way Up - Senza via di uscita
Grace Nettle e Sophie McIntosh in No Way Up – Senza via di uscita

Cosa accade nel finale del film

Nonostante la situazione impossibile in cui si trovano Ava e gli altri sopravvissuti, poiché il loro piano dipende da una roccia oceanica, rimane la speranza di riuscire a fuggire. Grazie all’atteggiamento positivo di Brandon e alla ricerca incessante dei pirati che il padre di Ava mette in atto per trovarla, le possibilità che il gruppo resista abbastanza a lungo da essere trovato rimangono alte. Tuttavia, un’altra aggiunta alla loro situazione difficile, ovvero la presenza degli squali, sembra segnare il loro destino. Mentre si trovano sott’acqua, il gruppo deve trovare il modo di garantire che i livelli di ossigeno durino abbastanza a lungo.

Tuttavia, questo significa che devono uscire dalla loro sacca d’aria e dirigersi verso il foro nell’aereo, dove il subacqueo ha trovato la morte. Ciò solleva il problema degli squali che aspettano con il fiato sospeso per fare di Ava e degli altri la loro preda. Fortunatamente, nella stiva dell’aereo ci sono alcune attrezzature subacquee a cui Danilo può accedere. Così, Ava, Kyle, Danilo e Rosa indossano le mute per proteggersi dal freddo dell’oceano. Da parte sua, Nana rinuncia all’attrezzatura per garantire la sicurezza della nipote. In seguito, il gruppo si prepara a nuotare verso il foro sul lato dell’aereo.

Hanno intenzione di prendere le bombole di ossigeno dei subacquei e usarle mentre nuotano verso la superficie. Quando il soffitto dell’aereo inizia a cedere alla pressione dell’acqua dell’oceano e la loro precaria presa sulla roccia scivola ulteriormente, diventa evidente che devono evacuare immediatamente l’aereo. Nana, che ha sempre saputo che non sarebbe riuscita a cavarsela senza attrezzatura nonostante le sue abilità di nuotatrice, accetta il suo destino. Crede che uscire con il gruppo li rallenterà solo perché cercheranno di dare la priorità alla sua sicurezza. Tuttavia, alla donna importa solo della sopravvivenza di sua nipote.

D’altra parte, Kyle rimane mortalmente spaventato dal piano a causa di un traumatico incidente infantile in cui è quasi annegato. Per lo stesso motivo, mentre Ava e gli altri lasciano la sacca d’aria, Kyle finisce per tornare indietro a causa della sua paura, il che alla fine lo rende un facile bersaglio per gli squali. Alla fine, Danilo e Rosa riescono a sopravvivere e a fuggire dall’aereo con la bombola da sub, nuotando fino alla fonte. Tuttavia, uno squalo nuota vicino all’apertura prima che Ava riesca a fuggire.

Phyllis Logan, Will Attenborough, Sophie McIntosh, Manuel Pacific, Grace Nettle e Jeremias Amoore in No Way Up - Senza via di uscita
Phyllis Logan, Will Attenborough, Sophie McIntosh, Manuel Pacific, Grace Nettle e Jeremias Amoore in No Way Up – Senza via di uscita

Chi sopravvive alla fine del film?

Dopo la morte di Brandon, Ava finisce per diventare la leader de facto del piccolo gruppo di sopravvissuti. Anche se in passato è stata frenata dalla paura, è in grado di pensare con lucidità e prendere decisioni indipendentemente da quanto le cose possano sembrare impossibili. Il suo ottimismo rimane la sua arma più potente. Tuttavia, alla fine, finisce per affrontare il suo destino da sola. Mentre lo squalo le impedisce di fuggire dallo scafo dell’aereo, Ava deve mantenere la calma e il sangue freddo per assicurarsi che il predatore non la noti.

In seguito, si rende conto che non può fuggire dal lato della nave, poiché l’imbarcazione sta scivolando sempre più sott’acqua. Di conseguenza, Ava non ha altra scelta che nuotare fino alla parte anteriore dell’aereo e fuggire da lì. Mentre l’aereo si ribalta dalla roccia e si tuffa in acqua, deve nuotare contro la pressione crescente per evitare di soccombere alla profondità dell’oceano. A differenza di Danilo e Rosa, non ha nemmeno una bombola di ossigeno. Di conseguenza, anche dopo essere fuggita dall’aereo, le sue possibilità di sopravvivenza sembrano scarse.

Alla fine, la mancanza di ossigeno ha la meglio sul suo corpo e lei è costretta ad arrendersi e smettere di lottare per la vita. Questo aiuta il suo corpo a galleggiare in superficie, grazie al giubbotto di salvataggio che indossa. Così, il suo corpo galleggia fino alla superficie dell’oceano, permettendo alla squadra di soccorso di individuarla e tirarla fuori dall’acqua. Alla fine della storia, Ava, Danilo e Rosa, gli unici sopravvissuti rimasti, vengono riportati in salvo su un elicottero. Prima di essere salvata, Ava ha visto il peluche di Rosa, Mr. Tibbs, nell’acqua e glielo ha riportato.

Prima di salire sull’aereo, Rosa aveva perso il suo orsacchiotto, cosa che l’aveva fatta arrabbiare. Mr. Tibbs è una fonte di conforto e sicurezza per la bambina, che le permette di rimanere calma anche nelle situazioni più avverse. All’aeroporto, Ava aveva trovato Mr. Tibbs per Rosa, conquistando la fiducia della bambina. Tuttavia, quando Ava riporta Mr. Tibbs a Rosa, la bambina decide di lasciarlo andare. Il signor Tibbs è stato incredibilmente importante per la bambina, fungendo da sua copertina di sicurezza.

Tuttavia, dopo essere sopravvissuta a un’esperienza così traumatica, Rosa è cambiata profondamente. Per lo stesso motivo, si rende conto che i suoi nonni, che hanno trovato la morte nell’oceano, potrebbero aver bisogno della protezione del signor Tibbs più di lei. Così, getta il peluche nell’oceano, simboleggiando la crescita del suo carattere e la conclusione della sua storia. Un finale “positivo”, ma che lascia decisamente l’amaro per tutte quelle situazioni viste nel film e che sono finite in tragedia.

Venezia 82: il red carpet di Bugonia di Yorgos Lanthimos con Emma Stone

Il 28 agosto la 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha accolto il cast e la troupe di Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, tra i titoli più attesi del concorso. Prima della proiezione ufficiale, il Lido si è acceso con un red carpet che ha visto sfilare star internazionali e grande eleganza.

Al centro dei riflettori Emma Stone, musa del regista greco e già protagonista di Povere Creature! e Kinds of Kindness, che ha illuminato il tappeto rosso con uno stile impeccabile, confermando la sua intesa artistica con Lanthimos. Accanto a lei, Jesse Plemons, Alicia Silverstone, Aidan Delbis e Stavros Halkias, accolti dall’entusiasmo del pubblico e dei fotografi. Presente naturalmente anche il regista, che ha salutato i fan con la consueta ironia e compostezza.

Il red carpet ha offerto momenti di complicità tra gli interpreti e i sorrisi condivisi con il pubblico, ma anche attimi di glamour puro, grazie agli abiti scelti dai protagonisti, tra eleganza classica e dettagli eccentrici che ben rispecchiano lo stile visionario del film.

Le foto dal red carpet testimoniano l’entusiasmo per un titolo che promette di diventare uno degli eventi cinematografici più discussi della stagione.

Troy: la spiegazione del finale del film

Troy: la spiegazione del finale del film

Il film Troy (2004), diretto da Wolfgang Petersen, si ispira liberamente all’Iliade di Omero, epico poema che narra le vicende dell’ultimo anno della guerra di Troia. Pur prendendo spunto dai principali eventi dell’opera, il film apporta modifiche significative ai personaggi e alle tempistiche, concentrandosi soprattutto sulla figura di Achille (Brad Pitt) e sulla sua tragica tensione tra gloria e mortalità. La narrazione cinematografica semplifica e riordina la complessità del poema omerico, rendendo la storia accessibile a un pubblico moderno pur conservando i temi classici di onore, vendetta e destino.

Troy si inserisce nel filone del cinema epico hollywoodiano, caratterizzato da scenografie monumentali, battaglie spettacolari e un cast di star internazionali. Accanto a Pitt, troviamo Eric Bana nel ruolo di Ettore e Orlando Bloom come Paride, senza dimenticare Diane Kruger nei panni di Elena e Brian Cox come re Priamo. Il film unisce azione, dramma e romanticismo, richiamando l’epica di opere come Il Gladiatore o Le crociate di Ridley Scott, ma distinguendosi per la fusione tra mito greco e spettacolarità hollywoodiana contemporanea.

Tra i temi centrali emergono l’eroismo, la lealtà familiare e il conflitto tra desiderio personale e dovere morale. La vendetta, la passione amorosa e la gloria eterna scandiscono le vicende dei protagonisti, rendendo Troy un racconto di eroismo e tragedia umana. Le battaglie, le strategie militari e le tensioni tra fazioni si intrecciano con riflessioni sul destino e sulla mortalità. Nel prosieguo dell’articolo verrà proposta una spiegazione del finale del film, analizzando come le scelte dei personaggi e la tragedia personale di Achille e Paride influenzino l’esito della guerra di Troia.

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Troy cast attori
Eric Bana, Orlando Bloom e Diane Kruger in Troy. © 2004 Warner Bros. Ent. All Rights Reserved

La trama di Troy

La storia si svolge intorno al 1200 a.C., quando tutte le città-stato della Grecia sono sotto il controllo dell’avido re acheo Agamennone. Solo una di queste rifugge da lui, ed è la potente città di Troia. Conosciuta per le sue mura difensive, questa è da sempre rimasta inviolata. Desideroso di estendere il proprio dominio all’intero territorio, Agamennone sfrutta il tradimento subito da Menelao per dichiarare guerra alla città. Il fratello del re, infatti, è stato privato della bella moglie Elena, fuggita a Troia con il principe Paride. Per riparare a questo torto, un enorme flotta di achei intraprende la sua marcia verso la potente città nemica.

Forte dietro le sue mura, il re Priamo si dice tranquillo per l’imminente battaglia, potendo vantare dalla sua parte il potente figlio e soldato Ettore. Ciò che i troiani non sanno, però, è che in guerra con gli achei è partito anche il temibile Achille. Semidio in cerca di gloria eterna, questi è pressocché immortale, non fosse per un unico punto debole. Sarà lui l’arma segreta che i greci invieranno alla conquista di Troia. Nel corso della lunga guerra, entrambe le fazioni dovranno inevitabilmente fare i conti con le paure, le passioni e i desideri di ognuno di loro, elementi che rischieranno di compromettere in modo irreparabile le rispettive sorti.

La spiegazione del finale del film

Nel terzo atto di Troy, la tensione raggiunge il culmine con il duello tra Achille e Ettore fuori dalle mura della città. La battaglia è intensa e letale: Achille uccide Ettore e trascina il suo corpo sulla spiaggia di Troia, mostrando sia la sua forza sovrumana sia la crudeltà della guerra. Il re Priamo riesce però a introdursi nel campo greco e implora Achille di restituire il corpo del figlio per i riti funebri. Mosso dalla vergogna e dal rispetto, Achille acconsente, permette a Briseide di tornare a Troia con Priamo e concede una tregua di dodici giorni per celebrare i funerali.

Troy trama film
Il cavallo di Troia in Troy. © 2004 Warner Bros. Ent. All Rights Reserved

Nonostante il gesto di Achille, Agamennone insiste per conquistare Troia a qualsiasi costo. Odisseo elabora un piano ingegnoso: costruire il famoso cavallo di legno come presunto dono di pace, mentre le navi greche si nascondono in una baia vicina. I Troiani portano il cavallo dentro le mura, e di notte i soldati greci nascosti al suo interno aprono i cancelli alla loro armata, dando inizio al sacco della città. La popolazione troiana viene sterminata o ridotta in schiavitù, mentre Andromaca e Elena guidano alcuni superstiti verso la salvezza, e Paride consegna la Spada di Troia a Enea per proteggere i sopravvissuti.

La resistenza finale dei Troiani avviene nel palazzo, dove Glauco guida i soldati rimasti in una coraggiosa difesa. Nonostante i successi iniziali, i Troiani vengono però sopraffatti. Agamennone penetra nella sala del trono, uccide Priamo e cattura Briseide, che poi vendica la morte del re uccidendo Agamennone. Nel caos della battaglia, Paride trafigge invece Achille al tallone con una freccia e lo colpisce più volte, provocandone la morte. Achille, morente, si congeda quindi da Briseide e la osserva fuggire con Paride prima di spirare.

Il finale evidenzia la tragicità della guerra e il destino ineluttabile dei protagonisti. La morte di Achille rappresenta la caducità della gloria e della vita, mentre il sacco di Troia sottolinea la brutalità dei conflitti umani. Allo stesso tempo, il gesto di restituzione del corpo di Ettore e la protezione dei sopravvissuti dimostrano come il coraggio e l’onore possano convivere con la violenza, offrendo uno sguardo complesso sulle scelte morali in tempo di guerra.

Cosa ci lascia il film Troy

Troy è dunque di una riflessione sulla fragilità della civiltà di fronte alla guerra, sul sacrificio personale e sulla forza dei legami familiari. Il film unisce epica, emozione e spettacolarità cinematografica, trasformando il mito omerico in un racconto accessibile, capace di trasmettere temi universali come l’eroismo, la vendetta e la mortalità, lasciando agli spettatori la consapevolezza che anche nelle vittorie più grandi, il prezzo della guerra è sempre altissimo.

Elysium: la spiegazione del finale del film

Elysium: la spiegazione del finale del film

Con Elysium (qui la recensione), Neill Blomkamp prosegue il percorso iniziato con District 9, confermando il suo interesse per una fantascienza radicata nella realtà sociale e politica contemporanea. Se nel film d’esordio il regista sudafricano utilizzava l’alieno come metafora dell’apartheid, in Elysium mette al centro le diseguaglianze globali, estremizzandole in un futuro distopico in cui i ricchi vivono in una stazione spaziale lussuosa mentre i poveri sopravvivono su una Terra devastata. Blomkamp consolida così la sua fama di autore capace di coniugare spettacolo hollywoodiano e riflessione politica.

Il genere di fantascienza che Elysium esplora è dunque quello distopico e sociopolitico, dove la tecnologia diventa specchio delle contraddizioni del presente. L’esoscheletro indossato dal protagonista Max (Matt Damon) non è soltanto un mezzo per generare azione, ma anche simbolo della lotta disperata di un individuo contro un sistema che lo esclude. L’ambientazione cupa e realistica richiama un’estetica cyberpunk, dove l’avanzamento tecnologico non porta progresso equo, ma accentua la frattura tra privilegiati e oppressi.

Il film si inserisce così in una tradizione di opere che utilizzano la fantascienza come lente critica: dalle distopie sociali di Metropolis di Fritz Lang fino a film più recenti come Snowpiercer di Bong Joon-ho, che racconta un’umanità divisa rigidamente in classi. Come in questi esempi, Blomkamp sfrutta l’azione e l’immaginario futuristico per parlare di diseguaglianza, potere e resistenza. Nonostante alcune critiche Elysium resta quindi un’opera significativa nel panorama sci-fi contemporaneo. Nel prosieguo dell’articolo, approfondiremo il finale del film, cercando di comprenderne il significato e il messaggio politico che Blomkamp intende trasmettere.

Elysium cast

La trama di Elysium

La storia è ambientata nel  2154 in un mondo ormai sovrappopolato, dove l’umanità si è spaccata in due classi nettamente divise. Pochi eletti hanno infatti la possibilità di vivere all’interno di un’enorme stazione spaziale chiamata Elysium. Questa orbita attorno alla terra, e contiene tutti i lussi desiderabili. Al contrario, la parte povera della popolazione è costretta a vivere sul pianeta Terra, ormai luogo inquinato e destinato al degrado. Le città sono diventate veri e propri ammassi di gente, senza un preciso ordine a regolare la loro esistenza.

In questo contesto vive Max Da Costa, giovane operaio con un turbolento passato alle spalle. Max nutre un profondo fascino nei confronti della stazione spaziale e da sempre possiede il desiderio di potervisi recare un giorno, dando una svolta alla propria vita. Le cose per lui subiscono una piega inaspettata nel momento in cui, a causa di un incidente in fabbrica, viene sottoposto ad una dose di radiazioni gamma che gli conferiscono solo pochi giorni di vita. Per potersi salvare, Max avrà bisogno di recarsi su Elysium, dove si trovano le cure adatte a lui. Arrivare fin lassù, però, non sarà affatto facile.

La spiegazione del finale del film

Nel terzo atto di Elysium, Max scopre che i dati contenuti nel suo cervello non sono semplici informazioni, ma un programma capace di riavviare l’intero sistema della stazione orbitante. Deciso a usarlo come merce di scambio, si scontra con Kruger, che nel frattempo ha rapito Frey e sua figlia. Lo scontro culmina in un viaggio verso Elysium, segnato da esplosioni e tradimenti, fino allo schianto della navetta sulla stazione. Qui, le alleanze si spezzano e Delacourt viene eliminata da Kruger, che assume il controllo della situazione.

Elysium film

Il conflitto finale si svolge nel cuore di Elysium: Max affronta Kruger in un duello feroce, reso ancora più disperato dal peso delle sue condizioni fisiche. Con astuzia e sacrificio, riesce a disabilitare l’esoscheletro del nemico e a liberarsene definitivamente, gettandolo nel vuoto prima dell’esplosione di una granata. Con Spider al suo fianco, Max raggiunge il nucleo informatico della stazione e comprende la portata della sua scelta: avviare il reboot del sistema significherà la sua morte. Dopo un ultimo addio a Frey, decide di sacrificarsi, permettendo così di rendere tutti gli abitanti della Terra cittadini di Elysium e garantendo cure mediche a chiunque ne abbia bisogno.

Il finale di Elysium ha dunque un chiaro valore simbolico: la morte di Max non è solo la conclusione di un percorso personale, ma il gesto che spezza la logica di esclusione su cui si regge la stazione. L’eroe rinuncia alla sua sopravvivenza individuale per un bene collettivo, incarnando il modello del sacrificio redentore tipico della fantascienza distopica. La sua decisione restituisce dignità ai dimenticati della Terra, annullando i confini che separavano due mondi divisi da privilegi e ingiustizie.

Cosa ci lascia il finale di Elysium 

Per lo spettatore, la chiusura lascia un duplice messaggio: da un lato la speranza che la tecnologia possa essere usata come strumento di uguaglianza, dall’altro la consapevolezza che il cambiamento passa attraverso la responsabilità individuale. Blomkamp invita a riflettere sul presente, trasformando una vicenda futuristica in un monito sulle diseguaglianze reali che caratterizzano la nostra società. Elysium non è soltanto spettacolo, ma un racconto che ci ricorda quanto la giustizia e la solidarietà restino conquiste fragili e sempre da difendere.

Il diavolo veste Prada 2: Caitríona Balfe parla della sua assenza nel sequel

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Basato sul romanzo di Lauren Weisberger, il film Il diavolo veste Prada segue le vicende di un’ambiziosa giornalista, Andy Sachs (Anne Hathaway), che ottiene un posto in una rivista di moda e fatica a soddisfare le rigide richieste della sua potente redattrice, Miranda Priestly (Meryl Streep). Basato sul romanzo Revenge Wears Prada: The Devil Returns, il prossimo Il diavolo veste Prada 2 riporta sul grande schermo i membri del cast originale, che riprenderanno i ruoli interpretati nel primo film.

Anche la sceneggiatrice e il regista dell’originale, Aline Brosh McKenna e David Frankel, sono tornati ai rispettivi ruoli. Durante un’intervista con ScreenRant, dunque, anche a Caitríona Balfe è stato chiesto di un suo possibile ritorno in Il diavolo veste Prada 2. L’attrice, con tono ironico ha detto: “Perché non sono nel sequel?! Quella cosa dei tacchi alti in cui ero coinvolta. Ho lavorato, credo, due giorni su quel film. Mi ha aiutato a ottenere la tessera SAG, questo è certo”.

“Ma credo di essere rimasta seduta nella mia roulotte, o meglio in quella minuscola roulotte, uno dei due giorni, e poi il secondo giorno stavo camminando davanti all’edificio mentre Miranda entrava al lavoro. Quindi proprio davanti all’edificio. Ho visto Meryl Streep, il mio tacco è passato davanti alla telecamera e credo di essere stata ufficialmente inserita come clapper. Ma questo è tutto”, afferma l’attrice.

Perché Caitríona Balfe non è in Il diavolo veste Prada 2?

Caitríona Balfe ha iniziato la sua carriera come modella, lavorando con Chanel e Louis Vuitton prima di passare alla recitazione con apparizioni in Super 8 (2011), Now You See Me ed Escape Plan (entrambi del 2013), anche se è meglio conosciuta per il suo ruolo di Claire Fraser in Outlander. Tuttavia, un credito che manca dalla sua pagina IMDb è proprio quello per Il diavolo veste Prada. In precedenza, la Balfe aveva confermato di aver fatto una breve apparizione nel film. “Ho lavorato per due giorni da qui in giù”, dice indicando il suo addome.

Ero una clacker, ero ufficialmente una clacker, una delle ragazze che lavora a Vogue e indossa tacchi alti… Non credo che mi si veda, ma c’ero”, ammette. Considerando che aveva un ruolo così piccolo nell’originale, e basandosi sulla sua risposta, non sembra dunque che Caitríona Balfe tornerà in Il diavolo veste Prada 2. Il sequel è attualmente in fase di riprese e lei non è stata confermata come uno dei membri del cast che torneranno.

Cosa sappiamo su Il diavolo veste prada 2?

Il film originale del 2006, un cult classico per la sua satira tagliente sul mondo spietato della moda, si concludeva con Andy che lasciava Runway per un lavoro in un giornale di New York. Ora, i fan potranno finalmente vedere cosa stanno facendo Miranda e Andy in un panorama mediatico profondamente cambiato. Nel sequel, Miranda, interpretata dalla Streep, si ritrova coinvolta in una competizione ad alto rischio per ottenere importanti introiti pubblicitari, trovandosi sorprendentemente a dover affrontare la sua ex assistente dalla lingua tagliente Emily Charlton (Emily Blunt), che ora è una potente dirigente nel settore della moda.

David Frankel, che ha diretto il primo film, è tornato alla regia di Il diavolo veste Prada 2, lavorando su una sceneggiatura di Aline Brosh McKenna, che ha scritto anche l’originale. Le produttrici Wendy Finerman e Karen Rosenfelt sono a bordo, con la 20th Century Studios che ha in programma di distribuire il film il 1° maggio 2026. Oltre a Meryl Streep, Anne Hathaway e Emily Blunt, nel cast si ritrovano anche Stanley Tucci, che riprende il ruolo del sempre solidale Nigel Kipling, insieme a Simone Ashley, Pauline Chalamet e Helen J. Shen. Tracie Thoms e Tibor Feldman tornano sul set, mentre diversi volti nuovi si uniscono al cast, tra cui Kenneth Branagh, che interpreterà il marito di Miranda, insieme a Lucy Liu, Justin Theroux, B.J. Novak, Pauline Chalamet, Rachel Bloom e Patrick Brammall.

The Bride!, il film sarà vietato ai minori per “contenuti violenti, sanguinosi e sessuali”

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Oltre all’adattamento Netflix di Guillermo del Toro del classico di Mary Shelley, il prossimo anno arriverà una versione molto diversa de La moglie di Frankenstein. Il tanto atteso film di Maggie Gyllenhaal ha ora ricevuto la classificazione ufficiale R per “contenuti violenti/sanguinosi, contenuti sessuali/nudità e linguaggio scurrile”. Il primo trailer di The Bride!, con Jessie Buckley, Christian Bale e Jake Gyllenhaal, ha debuttato durante il CinemaCon all’inizio di quest’anno, ma non è ancora stato pubblicato online.

Gyllenhaal ha pubblicato su Instagram le prime immagini del film girato lo scorso anno, dandoci un assaggio di Bale nei panni del mostro di Frankenstein e Buckley in quelli della sposa del mostro incompreso. Abbiamo sentito parlare per la prima volta di questo progetto nel 2022, quando era in fase di sviluppo per Netflix, ma un rapporto successivo indicava che era stato accantonato poco dopo l’inizio degli scioperi di Hollywood e che era stato venduto altrove.

Più recentemente, abbiamo appreso che la Warner Bros. aveva acquisito The Bride!, che ora è previsto per l’uscita nelle sale il 6 marzo 2026. Gyllenhaal dirige dopo aver ottenuto il plauso della critica per il suo film d’esordio, The Lost Daughter. Stando a quanto riportato, il film sarà ambientato nella Chicago degli anni ’30, dove Frankenstein chiede al dottor Euphronius di aiutarlo a creare per lui una compagna. Danno così vita a una donna nota come la Sposa, scatenando romanticismo, interesse della polizia e cambiamento sociale radicale.

Descritto come un thriller-horror, The Bride! è dunque basato sul classico romanzo gotico di Mary Shelley Frankenstein or The Modern Prometheus. Oltre a Christian Bale nel ruolo di Frankenstein e Jessie Buckley in quelli della Sposa, il film sarà interpretato anche da Penelope Cruz nel ruolo di Myrna, Peter Sarsgaard nel ruolo di un detective. Di certo, il nuovo rating ricevuto dal film rende il progetto più interessante, lasciando pensare che potrebbe essere più orrorifico di quanto si pensava.

Bugonia: recensione del film di Yorgos Lanthimos – Venezia 82

Bugonia: recensione del film di Yorgos Lanthimos – Venezia 82

Cosa ci si può aspettare ancora da un sodalizio artistico che ci ha già regalato l’usurpatrice più infida della Gran Bretagna del XVIII secolo (La Favorita), un rigoglioso femminile alla scoperta del mondo (Povere Creature!), e un triplice studio di personalità enigmatiche che elargiscono o richiedono diversi gradi di crudele gentilezza (Kinds of Kindness)?

Se si risponde ai nomi di Yorgos Lanthimos ed Emma Stone, ebbene, è lecito aspettarsi ancora di più. Dopo la travolgente vittoria del Leone d’oro a Venezia 2023 con l’adattamento del romanzo di Alasdair Grey, il duo cinematografico più prolifico degli ultimi anni torna in concorso alla Mostra del Cinema con Bugonia, ennesimo – ma non meno interessante – esperimento tra il mitologico e il surreale firmato dal regista greco, mai stato così “contemporaneo”.

La cospirazione dell’ape regina

Il punto di partenza di Bugonia è una produzione sudcoreana del 2003 a cura di Joon-Hwan Jang, dal titolo Save the Green Planet! In questa commedia sci-fi alquanto bizzarra, un giovane uomo rapisce il presidente di una grossa azienda credendo che si tratti di un alieno sotto mentite spoglie, con in programma un’invasione del Pianeta Terra da parte della specie. Le premesse del film di Lanthimos rimangono circa le stesse: un isolato apicoltore di una cittadina statunitense non meglio identificata (Jesse Plemons), assieme all’aiuto del cugino con cui vive, decide di rapire la CEO di una multinazionale di successo, con la radicata convinzione che da lei non solo dipendano i mali di tutto il mondo ma anche la tragica distruzione della sua famiglia.

Le tinte da thriller cospirazionale, già parzialmente esplorate nel secondo segmento di Kinds of Kindness, diventano in Bugonia spunto di indagine emotiva: dietro a ogni complotto intravisto, a ogni manipolazione effettuata, si nasconde in realtà un’enorme sofferenza, almeno da parte di chi inizialmente avremmo solo disprezzato. Jesse Plemons, forte della Palma d’oro al miglior attore protagonista proprio con l’ultimo film di Lanthimos, si conferma un talento ancora forse troppo nascosto, che riesce a regalare complessità e sfumature a una figura che sembrava impossibile separare dal suo apparente status di villain.

Ari Aster e Yorgos Lanthimos: il binomio satirico-surreale

Di particolare rilevanza è il fatto che la sceneggiatura di Bugonia sia stata sviluppata da Ari Aster e Will Tracy. Effettivamente, è impossibile non leggere l’ultima fatica di Lanthimos in continuità con almeno qualche aspetto di Eddington e la satira cupa del regista di Hereditary nonchè, parallelamente, con il lavoro dello sceneggiatore di The Menu e sodale collaboratore di Mark Mylod (Succession).

Proprio dall’ossessione di Aster per il rapporto con i genitori nasce forse quella che è l’immagine più struggente di Bugonia, che ha per soggetto la figura materna e fa perno sull’idea del rimanere agganciati a chi ci ha partorito, all’origine. Lanthimos, che ha scandagliato le relazioni sociali in molteplici forme, si apre qui a un confronto serrato e quantomai “contenuto”, in cui si discute della fine del mondo tra le mura di una casa, perchè in fondo, non importa il dove ma il chi, quando si tratta di potere.

La danza della morte

Emma Stone è stata chiunque per Lanthimos, e non soprende dunque che sia arrivata ad incarnare l’ipotesi di una vita aliena, enigmatica possibilità di una fonte di controllo totalizzante. Se Bella Baxter doveva ancora scoprire tutto, Michelle potrebbe già sapere tutto. Non fatichiamo a crederci, perchè nelle mani del regista greco Stone diventa semplicemente eccezionale.

La bugonia è un episodio narrato nelle Georgiche di Virgilio, che riflette un’antica credenza diffusa fino al XVII secolo: quella della generazione spontanea della vita. In particolare, nel quarto libro del poema viene descritto come, dal corpo senza vita di un animale, possa originarsi uno sciame di api. Vita e morte, indagate nei modi più surreali e bizzarri possibili dal regista greco, in Bugonia ci vengono forse per la prima volta mostrate da uno sguardo ancora più ravvicinato al nostro. Non c’è nessuna sequenza di danze inquietanti a cui ci ha abituato Lanthimos, ma solo una cruda e spiazzante verità: probabilmente, stiamo già ballando da morti.

Star Wars: Starfighter, una prima foto con Ryan Gosling annuncia l’inizio delle riprese

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Molte nuove star si sono unite al cast di Star Wars: Starfighter mentre la produzione del film entra ufficialmente nel vivo. Il prossimo film è descritto come un capitolo autonomo dell’iconica saga fantascientifica che si svolgerà cinque anni dopo gli eventi di L’ascesa di Skywalker del 2019. Il film, che sarà il prossimo capitolo di Star Wars nelle sale dopo The Mandalorian & Grogu del 2026, avrà come protagonista Ryan Gosling. In precedenza era stato rivelato che Matt Smith e Mia Goth interpreteranno due antagonisti nel film.

Secondo il sito ufficiale di Star Wars, dunque, le riprese di Star Wars: Starfighter sono iniziate oggi nel Regno Unito. È stato ora rivelato anche il cast completo del film. La sei volte candidata all’Oscar Amy Adams si è unita al cast di Starfighter insieme ad Aaron Pierre, Flynn Gray, Simon Bird, Jamael Westman e Daniel Ings. A questo link, invece, si può vedere il post che annuncia l’inizio della produzione. L’immagine in bianco e nero presente nel post mostra Ryan Gosling e Flynn Gray seduti insieme su un Landspeeder.

Shawn Levy ha anche rilasciato una dichiarazione sulla produzione: “Provo un profondo senso di eccitazione e onore mentre iniziamo la produzione di Star Wars: Starfighter. Dal giorno in cui Kathy Kennedy mi ha chiamato, invitandomi a sviluppare un’avventura originale in questa incredibile galassia di Star Wars, questa esperienza è stata un sogno che si è avverato, sia dal punto di vista creativo che personale. Star Wars ha plasmato la mia idea di ciò che una storia può fare, di come i personaggi e i momenti cinematografici possano vivere con noi per sempre. Entrare a far parte di questa galassia di storie con collaboratori così brillanti, sia sullo schermo che fuori, è l’emozione di una vita”.

Finora, la trama del prossimo film di Star Wars è rimasta segreta. Tuttavia, l’immagine condivisa nel post dell’annuncio sembra suggerire che il personaggio di Ryan Gosling sarà in qualche modo una figura protettrice o mentore del personaggio interpretato da Flynn Gray. Questo evocherebbe una relazione adulto-bambino che è comune in tutta la saga di Star Wars ed è stata al centro di episodi come The Mandalorian, Obi-Wan Kenobi, Skeleton Crew e La minaccia fantasma. Il film è ora atteso al cinema 28 maggio 2027.

Ridley Scott aggiorna su Il gladiatore 3 e un nuovo prequel di Alien

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Ridley Scott torna a parla di Il Gladiatore 3 e di un terzo prequel di Alien, fornendo aggiornamenti promettenti. Per quanto riguarda il primo dei due franchise, il seguito del film epico del 2000, Il Gladiatore, ha narrato le vicende del figlio di Massimo, Lucio, che diventa un eroe del Colosseo. Il film non ha avuto un grande successo al botteghino, ma il regista aveva già espresso interesse per un sequel e aveva anticipato di aver già scritto qualcosa a riguardo.

Per quanto riguarda il franchise di Alien, Scott ricopre attualmente il ruolo di produttore esecutivo, dopo aver supervisionato Alien: Romulus (2024) e la nuova serie TV Alien: Pianeta Terra (attualmente in corso su Disney+). Scott non ha però più diretto film del franchise dai prequel Prometheus (2012) e Alien: Covenant (2017).

Durante una recente intervista con The Guardian, in cui rispondeva alle domande degli utenti su Internet, Ridley Scott ha chiarito che la sua avventura nel mondo di Il gladiatore e Alien potrebbe non essere ancora finita. Il regista ha infatti rivelato che sta attualmente continuando a lavorare a Il gladiatore 3 e che anche un altro prequel di Alien non è da escludere. “Il Gladiatore 3 è in fase di lavorazione in questo momento. Un altro prequel di Alien? Sì, se mi viene un’idea, sicuramente”, sono le parole esatte del regista.

Ridley Scott tornerà davvero sui franchise di Il Gladiatore e Alien?

Le stime sul budget di Il Gladiatore 2 variano, ma quelle più alte lo collocano intorno ai 240 milioni di dollari. Se fossero accurate, ciò renderebbe deludente l’incasso finale del film, pari a 462 milioni di dollari in tutto il mondo. È quindi curioso che Scott stia lavorando al terzo film della saga. Vale la pena notare, tuttavia, che Il Gladiatore 3 non è stato ufficialmente approvato dallo studio. Scott è probabilmente in fase di sviluppo della trama e della sceneggiatura, ma molti film non superano questa fase per un motivo o per l’altro.

Se un altro film dovesse però andare avanti, è probabile che sarà realizzato con un budget inferiore. Un altro prequel di Alien, invece, non sembra imminente, poiché sembra che Scott non abbia ancora trovato un’idea che valga la pena perseguire. L’accoglienza riservata a Prometheus e Alien: Covenant è stata piuttosto contrastante, e quest’ultimo è stato anche un insuccesso al botteghino rispetto ai precedenti capitoli. Il franchise di Alien sta però attualmente  vivendo una sorta di rinascita.

Alien: Romulus è stato un successo lo scorso anno e Alien: Pianeta Terra dello showrunner Noah Hawley ha ricevuto recensioni molto positive dopo la sua anteprima il 12 agosto. Con un sequel di Romulus che sembra sarà girato alla fine di quest’anno, chiaramente non mancherà materiale su Alien in futuro. La speranza, però, è che Ridley Scott trovi l’idea giusta per terminare quella che originariamente sembra dovesse essere un trilogia prequel che forniva indicazioni sulle origini degli elementi alla base della saga.

Stereo Girls: recensione del film di Caroline Deruas Peano – SIC – Venezia 82

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Presentato fuori concorso alla 40ª Settimana della Critica, nell’ambito della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Stereo Girls segna l’esordio alla regia di lungometraggio di Caroline Deruas Peano. Un debutto che, pur con alcune ingenuità, si distingue per sensibilità visiva e coerenza poetica, rafforzato da una fotografia che è già uno dei suoi marchi distintivi.

Il film, ambientato negli anni Novanta nel sud della Francia, segue la storia di due inseparabili amiche diciassettenni, legate da una passione viscerale per la musica e da un ardente desiderio di libertà. L’atmosfera che si respira è quella di un’epoca di transizione, segnata dall’energia del rock e dell’alternative, ma anche dal fascino di un immaginario ancora profondamente analogico: registratori, cassette, vinili e notti lunghe passate a sognare un futuro diverso. È in questo contesto che la regista costruisce un racconto di formazione sospeso tra nostalgia e urgenza, destinato a infrangersi bruscamente contro la tragedia che separerà le due ragazze, lasciandone una sola a portare avanti i sogni di entrambe.

Stereo Girls non punta sull’originalità ma sulla autenticità emotiva

La trama di Stereo Girls non punta a sorprendere per originalità, ma per autenticità emotiva. Deruas Peano sceglie una narrazione intima, quasi diaristica, che restituisce con delicatezza i turbamenti dell’adolescenza femminile. A rendere l’esperienza davvero memorabile è però il lavoro di Vincent Biron alla fotografia: la sua sensibilità visiva esalta l’aspetto “analogico” del film, immergendo lo spettatore in un universo fatto di toni caldi, luci soffuse e texture materiche. Ogni inquadratura sembra evocare la grana delle fotografie sviluppate in camera oscura, restituendo la sensazione di un tempo in cui le immagini non erano istantanee digitali, ma ricordi tangibili.

Questa estetica non è solo un vezzo stilistico, ma diventa parte integrante della narrazione: l’amicizia tra le due protagoniste si imprime nello sguardo dello spettatore proprio come una pellicola impressionata dalla luce, destinata a durare oltre la vita stessa. È qui che la scelta di Biron si rivela decisiva: la fotografia trasforma la storia in una sorta di reliquia visiva, dove il passato non è mai davvero perduto ma continua a risuonare, come un brano inciso su nastro.

Un cast intenso e naturale

Il cast contribuisce in modo sostanziale a dare credibilità al racconto. Emmanuelle Béart, icona del cinema francese, porta con sé un’aura di eleganza e malinconia che si innesta perfettamente nell’atmosfera crepuscolare del film. Accanto a lei, Lena Garrel – figlia della regista – offre un’interpretazione sorprendente per intensità e naturalezza, incarnando una giovinezza inquieta, piena di speranze ma anche di fragilità. L’alchimia tra le due giovani protagoniste regge gran parte della narrazione: la loro amicizia appare palpabile, fatta di piccoli gesti, di complicità silenziose e di improvvise esplosioni di vitalità.

Dal punto di vista della regia, Caroline Deruas Peano si dimostra capace di dare voce a un universo femminile spesso sottorappresentato sul grande schermo. Non c’è compiacimento nel raccontare l’adolescenza, ma un sincero desiderio di coglierne i chiaroscuri: la ribellione e la dolcezza, la spensieratezza e il dolore, la promessa di un futuro e la consapevolezza che ogni sogno comporta un rischio. La regista opta per un ritmo dilatato, fatto di pause e silenzi, che permette allo spettatore di entrare davvero nello spazio emotivo delle protagoniste.

Stereo Girls è un film che convince soprattutto per la sua capacità di evocare un’epoca e uno stato d’animo. Più che un racconto lineare, è un’esperienza sensoriale che si nutre di immagini e suoni, di luci e di ombre. La fotografia di Vincent Biron rimane impressa come la vera protagonista, capace di trasformare la memoria personale in memoria collettiva. Caroline Deruas Peano firma così un’opera prima delicata, che parla della fragilità e della forza dell’amicizia femminile, e che ci ricorda come anche il dolore della perdita possa contenere in sé una promessa di continuità: quella dei sogni che, una volta condivisi, non muoiono mai del tutto.

Un debutto promettente, che lascia intravedere una voce autoriale da seguire con attenzione.

Adam Sandler sul suo ruolo in Jay Kelly: “Non posso credere di aver ricevuto questo regalo”

Adam Sandler ha colto con entusiasmo l’opportunità di interpretare un ruolo diverso dal solito e di interpretare un ruolo drammatico nel film di Noah Baumbach Jay Kelly. Sandler interpreta un manager schietto e diretto per una star del cinema in ascesa, Jay Kelly (George Clooney).

“Essere in questo film e non solo cercare battute e momenti di divertimento, è questo che è fantastico”, ha dichiarato Sandler durante la conferenza stampa ufficiale di Jay Kelly alla Mostra del Cinema di Venezia. “Ho fatto due film con Noah e non potrei essere più orgoglioso di provare le emozioni che trasmette. Sa fare tutto, e poi trova anche i momenti in cui ridere. Tutti i nostri personaggi ti regalano un momento per ridere e provare dolore. Come attore, quando leggi una sceneggiatura come questa dici: ‘Caspita, non posso credere di ricevere questo regalo'”.

“Ho sempre apprezzato il mio manager, il mio agente, la mia responsabile stampa”, ha detto Sandler. “So quanto lavorano duramente e quanto sia difficile ascoltare i miei alti e bassi e sostenermi, anche quando a volte potrei alzare la voce. Ero entusiasta di interpretare un uomo devoto; ammiro tutti coloro che lo fanno.”

Nel film, scritto insieme da Baumbach e Emily Mortimer, George Clooney interpreta una star del cinema in crisi, Jay Kelly, che intraprende un viaggio vorticoso attraverso l’Europa con il suo devoto manager (Adam Sandler). Lungo il cammino, si confronteranno con le scelte fatte, i rapporti con i propri cari e l’eredità che lasceranno dietro di sé.

Alien: Pianeta Terra, lo showrunner spiega il legame di Wendy con gli Xenomorfi

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Il quarto episodio di Alien: Pianeta Terra (qui la recensione) di questa settimana ha approfondito il misterioso legame di Wendy (Sydney Chandler) con gli Xenomorfi, ponendo una domanda intrigante: è possibile controllare, o addirittura domare, questa specie extraterrestre notoriamente aggressiva? In “Observation”, Boy Kavalier incoraggia Wendy a vocalizzare gli strani suoni che sente nella sua testa da quando si è avvicinata agli alieni per la prima volta nell’episodio 2.

Lei lo fa e da quel momento lui convince la ragazza/ibrido a tentare di comunicare con la creatura che sta attualmente gestando all’interno del polmone rimosso chirurgicamente a suo fratello Joe. Alla fine dell’episodio, un piccolo xenomorfo che ne esce fuori e Wendy riesce a usare la sua nuova abilità per calmare la creatura e addirittura accarezzarla sulla testa. Gli alieni hanno in qualche modo “scelto” Wendy come loro portavoce, o la sua capacità di comunicare con le creature è semplicemente dovuta alla sua fisiologia ibrida umana/sintetica e alla sua programmazione?

Niente è casuale per un bambino, giusto? Sai, tutto sembra significativo”, dice lo showrunner Noah Hawley a Decider.com. “C’è un momento nel quarto episodio in cui lei dice: ‘Hanno scelto me’. Giusto? Il che non è vero. Giusto? Non l’hanno scelta. Lei riesce solo a sentirli a causa di un problema hardware o software che ha”. Che si tratti di una stranezza nella sua programmazione o meno, Wendy sembra certamente credere di avere una sorta di vocazione superiore, che potrebbe rivelarsi disastrosa per chi le sta intorno.

L’altra cosa con i bambini è che loro non danno davvero importanza… Voglio dire, per loro sono solo animali, capisci? Quindi lei guarda queste creature e prova empatia, proprio come mia figlia è diventata vegetariana quando aveva nove anni”, ha aggiunto Hawley.  “Beh, queste creature non hanno chiesto di venire qui, e forse sono spaventate. Sai, lei dice a suo fratello: ‘Questo, forse questo potrebbe essere buono’. E sembra… non so, ‘il tuo amico squalo’, ma si può capire il suo impulso a provarci”.

Dovremo aspettare e vedere come si svilupperà questa trama, ma l’animale domestico di Wendy è ben lungi dall’essere l’unico problema che attende i nostri protagonisti, con una Nibs sempre più instabile e potenzialmente pericolosa convinta di essere incinta, quell’inquietante alieno dagli occhi che aspetta il momento giusto per colpire e Piumino che sembra intenzionato a far diventare Joe a diventare un ospite del facehugger.

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Bugonia: il nuovo trailer del film di Yorgos Lanthimos con Emma Stone

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È online il nuovo trailer di Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos che arriverà nelle sale italiane il 23 ottobre 2025. Dopo il successo di Povere Creature! e Kinds of Kindness, il regista greco torna con una nuova storia visionaria che mescola satira, inquietudine e fantascienza.

Il film segue due giovani ossessionati dai complotti che rapiscono la potente amministratrice delegata di una grande azienda, convinti che sia un’aliena pronta a distruggere il pianeta Terra. Da questa premessa prende forma un racconto che alterna ironia, tensione e riflessioni sul potere, tipico dello stile surreale e provocatorio di Lanthimos.

Il cast riunisce ancora una volta Emma Stone, ormai musa del regista, affiancata da Jesse Plemons, Aidan Delbis, Stavros Halkias e Alicia Silverstone. La sceneggiatura è firmata da Will Tracy, mentre la fotografia è affidata a Robbie Ryan, collaboratore storico di Lanthimos.

Prodotto da Element Pictures, Fruit Tree, Square Peg e CJENM, Bugonia è stato presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, raccogliendo grande attenzione da parte della critica e del pubblico.

Il nuovo trailer mostra atmosfere disturbanti e paradossali, in perfetto equilibrio tra satira sociale e fantascienza distopica, confermando Bugonia come uno dei film più attesi della stagione autunnale.

L’appuntamento in sala è fissato al 23 ottobre 2025, data di uscita ufficiale nelle sale italiane.

Orphan: recensione del film di László Nemes – Venezia 82

Orphan: recensione del film di László Nemes – Venezia 82

Enfant prodige del cinema europeo e vincitore dell’Oscar al miglior film straniero con Il figlio di Saul, László Nemes approda in concorso a Venezia 82 con Orphan, ritratto di un giovane in fiamme nella Budapest del 1957, dopo la rivolta contro il regime comunista in Ungheria. Forte di una performance magnetica da parte del giovanissimo attore protagonista Bojtorján Barábas, la nuova pellicola del regista ungherese non punta a replicare l’impatto emotivo straziante della sua opera prima, ma prosegue il desiderio di Nemes di raccontare una sofferenza circoscritta che, nella sua intimità, rispecchi il trauma più grande di un determinato periodo storico.

Lo sguardo di Andor, tra infanzia e trauma

Come di consueto in Nemes, il filtro attraverso cui leggere il suo nuovo racconto è lo sguardo del protagonista, in questo caso un ragazzino di 12 anni di nome Andor che, in un breve flashback iniziale, vediamo ricongiungersi con la madre dopo essere stato accolto da un orfanotrofio durante gli anni dell’occupazione nazista. Il piccolo, nascosto in una sorta di “tana”, è restio nel tornare a casa con la donna, che non riconosce come la propria madre essendo stato abbandonato in tenera età. Già dal posizionamento di questo punto di vista, che cerca di nascondere, rintanarsi e resistere a ciò che gli altri gli dicono, cogliamo tutti i tratti della psicologia del giovane Andor. Una volta cresciuto, continuerà a interrogarsi sull’assenza della figura paterna e a vivere delle fantasie della madre, che gli racconta di un padre idealizzato. Andor rivendica con fierezza questo cognome e ha delle conversazioni immaginarie frequenti con il padre; tuttavia, la sua vita è destinata a cambiare per sempre quando fa capolino un misterioso e inquietante uomo soprannominato “Il Macellaio”, che ha nascosto la madre durante i rastrellamenti e che sostiene di essere suo padre.

Padri, madri e ferite della Storia

Girato in pellicola come Il figlio di Saul e Sunset, Orphan contribuisce a formalizzare e solidificare il cinema di Nemes come cinema di sguardo soprattutto storico, di un passato che ha in una certa misura conosciuto – questo terzo film, in particolare, si rifà alla storia del nonno – e che, purtroppo, continua a dialogare col presente di un mondo che ancora conosce troppe sofferenze. La materia trattata non è certamente leggera, ancor più perchè filtrata dalla rabbia di uno sguardo che non si spegne, che continua a scrutrare tramite i vetri, a confidarsi nei bassifondi e a portare avanti una propria personale rivolta.

Guidato da un cast di supporto di tutto rispetto – Andrea Waskovics, Grégory Gadebois, Elíz Szabó, Sándor Soma, Marcin Czarnik – Orphan è, come dicevamo, un film profondamente personale per Nemes, ispirato all’infanzia del padre nella Budapest degli anni Cinquanta. Con la sua co-sceneggiatrice Clara Royer, il regista ha preso spunto dalla memoria familiare per costruire un racconto universale sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, sull’accettazione dell’oscurità dentro di sé e sul peso che la Storia imprime ai destini individuali. Non si tratta quindi di una semplice cronaca di un’epoca, ma di una riflessione sul trauma generazionale che si trasmette di padre in figlio, di madre in figlio, e che ancora oggi segna la società europea.

Un cinema che interroga la memoria

Orphan è anche un racconto sulla trasmissione del trauma: le ferite del Novecento, dalla guerra all’Olocausto fino alla repressione politica, si insinuano nelle generazioni successive, segnando profondamente il destino dei bambini. Come ricorda Nemes, è un film che riflette su come il passato continui a perseguitarci, e su quanto sia necessario affrontare le ombre per non riprodurre gli stessi errori.

László Nemes prosegue un percorso autoriale coerente e coraggioso: raccontare l’indicibile attraverso sguardi marginali, dare voce ai fantasmi della Storia con un rigore estetico che può apparire austero, ma che trova nella sua radicalità il segno distintivo di uno dei cineasti europei più rilevanti della sua generazione.

Ghost Elephants: recensione del documentario di Werner Herzog – Venezia 82

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Ogni documentario di Werner Herzog è prima di tutto un viaggio dentro la sua voce. Quel timbro inconfondibile, basso e graffiato, con il suo accento tedesco mai stemperato, non è un semplice accompagnamento narrativo: è una lente che modella le immagini, una presenza che piega la realtà alla sua continua ricerca di meraviglia e spaesamento. In Ghost Elephants, presentato Fuori Concorso a Venezia 82, questa voce si posa su un’Africa al tempo stesso concreta e mitica, trasformando la spedizione di un naturalista sudafricano in un racconto sospeso tra scienza, leggenda e sogno. Herzog non si limita a mostrare: incanta, solleva dubbi, trasforma ogni dettaglio in un segno del destino.

Ghost Elephants: tra mito e scienza

Il cuore del film è l’ossessione del Dr. Steve Boyes, naturalista che da dieci anni insegue la possibilità dell’esistenza di un branco misterioso di “elefanti fantasma” sull’altopiano angolano di Bié, vasto quanto l’Inghilterra e quasi privo di insediamenti umani. Boyes vuole verificare se questi giganti, mai documentati ufficialmente, possano essere parenti del più grande elefante mai registrato, il celebre esemplare conservato allo Smithsonian di Washington, chiamato Henry. La sua è una missione che oscilla fra rigore scientifico e tensione visionaria, con tanto di campioni di DNA da raccogliere come in un romanzo d’avventura. Herzog, fedele al suo metodo, non giudica: osserva la passione e la trasfigura, facendo del desiderio stesso di cercare la traccia un tema narrativo centrale.

Una delle intuizioni più potenti del film è che la spedizione non inizia nel momento in cui i protagonisti mettono piede in Angola, ma molto prima. Herzog dedica ampio spazio alla fase preparatoria, trascorsa in Namibia accanto ai leggendari tracker San, capaci di leggere il terreno come un libro aperto e di imitare con il corpo gli animali che seguono. Qui il film si allontana dalla pura ricerca zoologica e diventa un ritratto dell’intelligenza ancestrale di uomini che incarnano la continuità con la natura. È in queste scene che la voce del regista raggiunge vertici di ironia e lirismo, quando ammette con disarmante sincerità: «So di non dover romanticizzare, ma un uomo circondato da polli… non può esserci nulla di meglio». È in questa tensione tra romanticismo e autocritica che emerge il vero Herzog.

Lo sguardo sull’ignoto

Nella seconda parte, quando la spedizione si addentra tra le nebbie dell’altopiano angolano, Ghost Elephants assume i toni di una favola realista. Herzog lascia che la lentezza, i momenti sospesi e persino le distrazioni — come l’arrivo di un ragno velenoso, subito trasfigurato dalla sua voce in presagio apocalittico — diventino parte del racconto. Ciò che interessa al regista non è solo la possibilità di filmare un animale leggendario, ma la potenza del desiderio che spinge a cercarlo, la dimensione interiore che il mito dell’elefante fantasma rivela in chi si mette sulle sue tracce.

Ad amplificare questa atmosfera sospesa contribuisce la colonna sonora firmata da Ernst Reijseger, che intreccia arrangiamenti di canti tradizionali sardi con le immagini africane. Un accostamento che potrebbe sembrare arbitrario, ma che nelle mani di Herzog diventa naturale: il dialogo fra due mondi distanti restituisce l’idea di una ricerca che non appartiene a un solo luogo, ma che parla dell’umanità intera. La musica agisce come eco del racconto, rinforzando la percezione che i “fantasmi” non siano solo elefanti invisibili, ma figure del nostro immaginario collettivo.

Un racconto puramente herzoghiano

Come in Grizzly Man o in Encounters at the End of the World, anche qui Herzog ci ricorda che i suoi documentari sono sempre “tanto su di lui quanto sull’oggetto filmato”. Ghost Elephants è un film sul senso stesso della ricerca, sul confine fra realtà e leggenda, sul bisogno umano di inseguire qualcosa che potrebbe non esistere. Il regista non si sofferma esplicitamente sulle ombre del colonialismo, sul ruolo dell’“esploratore bianco” o sul retaggio della caccia: lascia che queste domande restino in sospeso, dando al film una dimensione aperta e ambivalente.

Ghost Elephants è, in definitiva, un documentario che non offre un “colpo di scena” finale, ma che non ne ha bisogno. La sua forza sta nel modo in cui Herzog trasforma una spedizione scientifica in un viaggio esistenziale, in cui l’oggetto della ricerca conta meno del desiderio stesso di cercare. E soprattutto sta nella sua voce: quel tedesco gutturale, carico di ironia e malinconia, che ci fa credere che ogni dettaglio — un villaggio sperduto, un animale invisibile, un uomo che vive fra polli — contenga un frammento di meraviglia. È questa voce, più ancora delle immagini, a ricordarci che l’essenza del cinema herzoghiano non è catturare la realtà, ma renderla degna di essere sognata.

Priscilla, la storia vera: quanto è accurata e cosa cambia il film di Sofia Coppola

Cosa c’è di vero e cosa c’è di falso nel film Priscilla (qui la recensione) di Sofia Coppola? Il film, interpretato da Cailee Spaeny (Priscilla) e Jacob Elordi (Elvis Presley), è ispirato al libro del 1985 “Elvis and Me”, che al momento della sua uscita è diventato un bestseller del New York Times. Tutti conoscevano Elvis come leggenda, ma la sua ex moglie Priscilla voleva rivelare Elvis come uomo. Questo racconto avvincente, dal loro incontro nel 1959 fino alla sua improvvisa morte nel 1977, svela la realtà (spesso cruda) dell’essere sposata con il Re del Rock and Roll.

Tuttavia, anche nei ricordi più bui, Priscilla mantiene un profondo amore per il marito, eccezionalmente complicato e spesso selvaggiamente imprevedibile. “Quando ho letto la storia di Priscilla, sono rimasta molto colpita da quanto fosse insolito l’ambiente in cui viveva, ma lei affronta tutte le cose che tutte le ragazze affrontano crescendo e diventando donne”, ha detto Coppola al Festival del Cinema di Venezia. “Parla con dettagli e franchezza della sua esperienza, del suo primo bacio, del diventare madre, di tutti quei momenti della vita in cui mi riconosco e che ritengo universali”.

Ma in questo contesto molto insolito che siamo così curiosi di conoscere. Elvis e Priscilla erano una coppia leggendaria, ma non sappiamo molto di lei e del suo punto di vista“. Durante le riprese, Coppola ha rivelato di essere stata in contatto con la vera Priscilla, così come Spaeny, che ha lavorato con l’autrice per ricreare la sua vita nel modo più accurato possibile. ”Coppola ha fatto i compiti“, ha poi detto la donna, soddisfatta del risultato. Ma cosa ha preso direttamente dal libro la regista e cosa ha modificato per la sua sceneggiatura?

Jacob Elordi Elvis Presley Priscilla
Jacob Elordi e Cailee Spaeny in una scena di Priscilla

Le differenze tra il film Priscilla e la storia vera

Priscilla ha dormito per due giorni dopo che Elvis le ha dato un sonnifero.

Priscilla è realmente caduta in uno stato di incoscienza dopo che Elvis le ha dato due pillole da 500 mg di Placidyl durante una visita a Graceland. La cosa più spaventosa è che la giovane ha preso queste pillole proprio prima di fare il bagno, ma è riuscita ad arrivare in camera da letto prima che il farmaco facessero pienamente effetto. Come descritto nel film, Elvis aveva a disposizione una scorta costante di stimolanti e sedativi. Ben presto anche Priscilla avrebbe iniziato la sua personale cura a base di pillole. Dopo una lotta con i cuscini particolarmente violenta (che ha portato Priscilla a indossare una benda sull’occhio), ha smesso gradualmente di assumere tutte le pillole e alla fine ha smesso del tutto.

Nonostante la decisione di lei di abbandonare l’abitudine, Elvis aveva una “forte obiezione” a smettere. Spesso teneva un dizionario medico sul comodino per tenersi aggiornato sulle ultime innovazioni e sulle pillole approvate dalla FDA. “Si sarebbe detto che avesse una laurea in farmacologia”, ha scritto Priscilla. “Mi assicurava sempre che non aveva bisogno di pillole, che non avrebbe mai potuto diventarne dipendente. Questa divergenza di opinioni ha portato a molti scontri seri; ho sempre compromesso la mia integrità e ho finito per accettare il suo punto di vista”.

Elvis proibiva a Priscilla di indossare certi colori

Gli piacevo in rosso, blu, turchese, verde smeraldo e bianco e nero, gli stessi colori che indossava lui”, ha scritto Priscilla. Elvis aveva anche un’avversione per il marrone e il verde, perché gli ricordavano il periodo trascorso nell’esercito. Al Re lei piaceva anche con un trucco pesante sugli occhi e i capelli tinti di nero. Il suo stile non era l’unica cosa: Elvis era altrettanto “fanatico” riguardo alla postura. Priscilla doveva stare seduta con la schiena dritta o veniva corretta in tempo reale. Inoltre, ogni volta che alzava lo sguardo, lui le toccava la fronte e le lisciava le rughe, dicendole che doveva alzare lo sguardo con il collo per evitare le pieghe.

Elvis lanciò una sedia a Priscilla

Elvis aveva un carattere instabile. Il suo team e Priscilla erano spesso soggetti ai capricci della sua rabbia, anche quando chiedeva la loro opinione. Come nel film, Elvis una volta lanciò una sedia alla sua allora fidanzata dopo averle chiesto cosa ne pensasse di un disco. Nei suoi scritti, Priscilla lamentava che la loro relazione dipendeva dall’andamento della carriera di lui. Elvis spesso minacciava o pretendeva che Priscilla facesse le valigie e se ne andasse, arrivando persino a chiedere la separazione quando Priscilla era al terzo trimestre di gravidanza di Lisa Marie. “Quando era arrabbiato, era come il rombo di un tuono”, ha scritto Priscilla. “Nessuno poteva sfidare le sue parole taglienti; potevamo solo aspettare che la tempesta passasse”

Cailee Spaeny e Jacob Elordi in Priscilla

Priscilla ed Elvis fecero un trip con l’LSD insieme

Alla ricerca di uno “stato di coscienza superiore”, Elvis si rivolse all’LSD. A differenza di quanto mostrato nel film, però, i due fecero il loro primo (e ultimo) trip con tre amici in una sala conferenze a Graceland. Priscilla descrisse l’esperienza, alimentata dall’arcobaleno, come “straordinaria”, ma non la ripeté mai più perché era troppo pericolosa. Anche nel riportare questa breve parentesi, dunque, il film di Sofia Coppola si dimostra particolarmente attento a rispettare ciò che è accaduto tra Elvis e Priscilla.

Elvis bruciò tutti i suoi libri di “alta cultura”

Elvis lesse le opere di Kahlil Gibran, tra cui “Il profeta”, ‘Siddhartha’ di Hermann Hesse e “La vita impersonale” di Joseph Benner. Spesso distribuiva copie di questi libri (e molti altri) ad amici e colleghi sui set cinematografici. Con l’avanzare dell’età, lo studio della filosofia e il tentativo di decifrare il significato della vita iniziarono a occupare gran parte delle giornate della star. In realtà, per Elvis non era solo importante essere appassionato di questi studi, ma voleva che anche tutti quelli che lo circondavano leggessero queste opere, ma Priscilla non era molto entusiasta di questa sua passione.

Il cantante cercava poi spesso di creare momenti trascendentali nella vita reale. “Elvis and Me” racconta di quando Elvis vagò in un campo da golf di Bel Air, mentre gli irrigatori erano in funzione, alla ricerca di angeli, e di un’altra visita improvvisata all’obitorio locale dopo aver visto il film horror “Diabolique”. Alla fine, il manager di lunga data di Elvis, il colonnello Tom Parker, chiese di porre fine all’esplorazione delle “filosofie esoteriche”. Elvis e Priscilla raccolsero e bruciarono insieme la sua collezione di libri di filosofia nel cuore della notte, come segno di voler lasciarsi tutto alle spalle.

Il cane di Priscilla era un regalo di Elvis al suo arrivo a Graceland

Qui è invece dove il film presenta un elemento di originalità rispetto alla storia vera. Honey era un regalo di Elvis, è vero, ma tecnicamente questo regalo arrivò durante una visita natalizia, molto prima che lei ed Elvis avessero convinto i suoi genitori a lasciarla trasferire a Memphis. Come nel film, però, Priscilla fu accusata da un membro dell’entourage di Elvis di “mettersi in mostra” semplicemente perché stava giocando con Honey troppo vicino ai cancelli di Graceland.

Cailee Spaeny in Priscilla
Cailee Spaeny in Priscilla

Priscilla indossava ciglia finte durante il parto

Anche questo è un elemento tanto bizzarro quanto vero. Proprio come nel film di Coppola, Priscilla si truccò completamente prima di andare in ospedale per dare alla luce la loro figlia Lisa Marie. Nelle sue memorie, ammette di aver dovuto convincere i medici a lasciarle tenere le sue doppie ciglia finte (il suo look distintivo).

Elvis proibì a Priscilla di lavorare

In “Elvis and Me”, Priscilla racconta di aver trovato lavoro come modella in un salone locale, ma quando Elvis venne a sapere della sua decisione, le chiese di licenziarsi. Il suo compagno non era affatto entusiasta delle “ragazze in carriera”, come lui le definiva, e ribadì il suo ideale secondo cui il lavoro di Priscilla era quello di renderlo felice, anche quando lui non era presente. Dio non volesse che lui la chiamasse a caso una sera e lei non fosse in grado di rispondere immediatamente al telefono. Alla fine, Priscilla avrebbe aperto una boutique tutta sua a Beverly Hills chiamata Bis & Beau, anni dopo la loro separazione e la morte di lui. L’autrice avrebbe anche ottenuto diversi ingaggi come conduttrice televisiva.

La vita di Priscilla Presley dopo Elvis

Priscilla ed Elvis mantennero un forte legame anche molto tempo dopo la fine del loro matrimonio. Uno degli ex partner di Priscilla ricorda che Elvis la chiamava a tutte le ore del giorno e della notte. Dopo Elvis, Priscilla ebbe numerose relazioni sentimentali di alto profilo. Dopo la separazione da Mike Stone, Priscilla ebbe relazioni con Rob Kardashian, Julio Iglesias, il modello Michael Edwards e il produttore cinematografico Marco Garibaldi. La relazione di Priscilla con Garibaldi è durata dal 1984 al 2006 e ha dato alla luce un figlio, Navarone. Tragicamente, Lisa Marie Presley è morta all’inizio del 2023 e il nipote di Priscilla, Benjamin Keough, è morto nel 2020. Tuttavia, Priscilla ha ancora tre nipoti da Lisa Marie, tra cui l’attrice Riley Keough.

Negli anni ’80, ha iniziato a intraprendere la carriera di attrice. Dopo aver recitato in un film per la TV, Love is Forever, e in un episodio della serie TV The Fall Guy, ha ottenuto un grande successo con un ruolo importante nella soap opera Dallas, in cui ha interpretato Jenna Wade per sei anni e 143 episodi. La Presley ha continuato a recitare fino agli anni ’90, interpretando in particolare il ruolo della romantica Jane Spencer in tutti e tre i film della serie Una pallottola spuntata, prima di abbandonare la recitazione nel 1999. Tuttavia, recentemente ha co-creato la serie animata Netflix Agent Elvis, in cui doppia se stessa.

Priscilla Presley è poi rimasta coinvolta e in buoni rapporti con i recenti progetti di alto profilo che trattano della sua relazione con Elvis. Nel caso del film Elvis del 2022 con Austin Butler, Priscilla ha dato il suo benestare al film e ha persino sfilato sul tappeto rosso del Met Gala insieme al cast del film. È poi stata fortemente coinvolta nel film Priscilla, tratto appunto dal suo libro di memorie del 1985 Elvis and Me e che la vede come produttrice esecutiva. Il film ha però ricevuto critiche da parte dell’eredità di Elvis, con cui l’ex moglie di Presley è attualmente coinvolta in una battaglia legale sul testamento di Lisa Marie.

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Jude Law è Vladimir Putin nelle nuove foto di The Wizard of the Kremlin

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Nuove foto dal film The Wizard of the Kremlin rivelano la trasformazione di Jude Law nel presidente russo Vladimir Putin. Il film è il debutto in lingua inglese del regista francese Olivier Assayas e racconterà l’ascesa di Putin sulla scia della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Accanto a Law, il film vedrà la partecipazione di Paul Dano nel ruolo di Vadim Baranov, una versione romanzata di Vladislav Sourkov, soprannominato “l’uomo che ha creato Vladimir Putin”, oltre ad Alicia Vikander e Jeffrey Wright.

Oltre a un’intervista con Assayas, Variety ha rivelato una nuova immagine di The Wizard of the Kremlin che mostra Law quasi irriconoscibile nei panni di un Putin, con Baranov interpretato da Dano al suo fianco. Come si vede chiaramente nella foto, Jude Law sembra ha dato il massimo nella sua interpretazione di Vladimir Putin. Particolarmente degni di nota sono la postura rigida, il comportamento austero e la stempiatura che sono i tratti distintivi del leader russo. Anche se Dano interpreta un personaggio romanzato basato su Vladislav Sourkov, è a sua volta simile al suo modello reale.

Jude Law e Paul Dano in The Wizard of the Kremlin
Jude Law e Paul Dano in The Wizard of the Kremlin. Foto di Carole Bethuel

Sebbene la trasformazione non sia così drammatica come quella di Gary Oldman in Winston Churchill per L’ora più buia del 2017, l’interpretazione di Jude Law è un segno della dedizione di Assayas alla precisione. Il regista ha parlato più approfonditamente dell’argomento con Variety, spiegando: “Quando si lavora a un progetto come questo, bisogna fare il lavoro di un giornalista o di uno storico. Non siamo scesi a compromessi sulla veridicità e l’accuratezza perché il film è stato revisionato e convalidato da storici che conoscono molto meglio di me i dettagli di quel periodo”.

Ogni giorno, mentre scrivevamo e preparavamo il film, avevamo mille domande pratiche da porre loro. Uno degli aspetti molto positivi del girare il film in Lettonia è stato quello di poter accedere a conoscenze di prima mano sulla storia, sui personaggi e così via, quindi nulla è stato lasciato al caso“, ha spiegato il regista. “In Lettonia ci sono parecchi rifugiati russi, il che ci ha permesso di avere attori con accento russo e io ho potuto completare le mie ricerche, convalidare la ricostruzione storica, ecc. grazie ai resoconti di prima mano di giornalisti politici e russi emigrati”.

Anche i nostri produttori esecutivi locali in Lettonia avevano un talk show politico. Quindi hanno incontrato Boris Berezovsky e la maggior parte delle figure chiave della politica russa dell’epoca. Ogni volta che avevo una domanda, un dubbio o una richiesta, ovviamente chiamavo prima Giuliano per chiedergli di convalidare una particolare opzione. Perché, ancora una volta, questo è molto simile al modo in cui ho lavorato quando ho realizzato “Carlos”. Vale a dire, credo che quando si ha a che fare con la politica, e in particolare con la politica contemporanea, sia essenziale essere estremamente precisi sui fatti, anche se ci sono modi per raccontare una storia in modo più umano”, ha concluso il regista.

Spider-Man: Brand New Day, nuovi rumor sul ruolo di Punisher, sul numero dei cattivi e altro ancora

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Sebbene non sia stata diffusa nessuna altra foto dal set da quando la produzione si è trasferita a Londra, sembra che le riprese di Spider-Man: Brand New Day siano ufficialmente riprese nella capitale britannica. Secondo Daniel Richtman, Tom Holland ha preso una pausa dalle riprese mentre la sua controfigura gira una sequenza d’azione che vede l’Uomo Ragno affrontare “Scorpion e altri cattivi”.

Resta da vedere chi siano esattamente questi altri cattivi (si vocifera che personaggi come Tombstone e Tarantula facciano parte del montaggio iniziale), ma lo scooper ribadisce che il film vedrà la presenza di “più cattivi, in modo simile a No Way Home”. Per quanto riguarda The Punisher, Richtman ha sentito dire che, tra gli altri eroi coinvolti, Frank Castle interpretato da Jon Bernthal avrà il ruolo più importante nel film, dopo Spider-Man, ovviamente.

Apparirà anche Bruce Banner/Hulk interpretato da Mark Ruffalo, e – come già riportato – si vocifera anche della presenza di Yelena Belova interpretata da Florence Pugh. Per quanto riguarda il rapporto tra Spider-Man e Castle, sarà controverso, per non dire altro. Anche se si prevede che i due finiranno per allearsi a malincuore nel corso del film, è stato riportato che per la maggior parte della pellicola i due non si piaceranno affatto.

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Quello che sappiamo su Spider-Man: Brand New Day

Ad oggi, una sinossi generica di Spider-Man: Brand New Day è emersa all’inizio di quest’anno, anche se non è chiaro quanto sia accurata.

Dopo gli eventi di Doomsday, Peter Parker è determinato a condurre una vita normale e a concentrarsi sul college, allontanandosi dalle sue responsabilità di Spider-Man. Tuttavia, la pace è di breve durata quando emerge una nuova minaccia mortale, che mette in pericolo i suoi amici e costringe Peter a riconsiderare la sua promessa. Con la posta in gioco più alta che mai, Peter torna a malincuore alla sua identità di Spider-Man e si ritrova a dover collaborare con un improbabile alleato per proteggere coloro che ama.

L’improbabile alleato potrebbe dunque essere il The Punisher di Jon Bernthal recentemente annunciato come parte del film – in una situazione già vista in precedenti film Marvel dove gli eroi si vedono inizialmente come antagonisti l’uno dell’altro salvo poi allearsi contro la vera minaccia di turno.

Di certo c’è che il film condivide il titolo con un’epoca narrativa controversa, che ha visto la Marvel Comics dare all’arrampicamuri un nuovo inizio, ponendo però fine al suo matrimonio con Mary Jane Watson e rendendo di nuovo segreta la sua identità. In quel periodo ha dovuto affrontare molti nuovi sinistri nemici ed era circondato da un cast di supporto rinnovato, tra cui un resuscitato Harry Osborn.

Il film è stato recentemente posticipato di una settimana dal 24 luglio 2026 al 31 luglio 2026. Destin Daniel Cretton, regista di Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, dirigerà il film da una sceneggiatura di Chris McKenna ed Erik Sommers. Tom Holland guida un cast che include anche Zendaya, Mark Ruffalo, Sadie Sink e Liza Colón-Zayas e Jon Bernthal. Michael Mando è stato confermato mentre per ora è solo un rumors il coinvolgimento di Charlie Cox.

Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

Harry Potter: Matt Smith risponde alle voci sul suo casting come Voldemort

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La prossima serie TV di Harry Potter è attualmente in fase di riprese nel Regno Unito e la produzione dovrebbe continuare fino alla prossima primavera. Intanto, grazie a Wizarding World Direct, sembra ci siano alcuni nuovi dettagli su questa ultima versione dei romanzi best-seller di J.K. Rowling. Con maggior tempo a disposizione di un film di due ore, si dice che la prima stagione esplorerà anche l’origine della Pietra Filosofale e il motivo per cui è stata trasferita da Gringott a Hogwarts. Si prevede anche una maggiore attenzione alle creature e agli oggetti magici.

Le scene all’interno del Leaky Cauldron saranno girate il mese prossimo e, secondo quanto riferito, Dedalus Diggle apparirà lì per la sua unica scena in questa stagione. Lee Jordan, Dean Thomas e Oliver Wood sono inoltre stati scritturati e presto dovrebbero arrivare notizie su chi li interpreterà. Il mistero più grande, al momento, è chi interpreterà Lord Voldemort. In precedenza era stato riferito che HBO intende mantenere segreto il casting di Voldemort fino alla premiere della prima stagione di Harry Potter.

Matt Smith, protagonista di House of the Dragon e attualmente al cinema con Una scomoda circostanza, è il favorito dai fan per il ruolo, ma ha negato il suo coinvolgimento in una nuova intervista con TODAY. “Qualcuno potrà interpretarlo dopo Ralph [Fiennes]? È stato così bravo”, ha detto Smith. “Ipoteticamente, chi lo sa? Ma seguire le orme del grande Ralph Fiennes è un compito molto difficile per chiunque, quindi buona fortuna a chiunque sarà e di certo non sarò io“.

Nella prima stagione, probabilmente vedremo Voldemort in un flashback della notte in cui i genitori di Harry sono stati uccisi e come volto sul retro della testa del professor Raptor. Tuttavia, sarà solo nella quarta stagione, un adattamento de Il calice di fuoco, che entrerà pienamente in scena. Chi lo interpreterà nella prima stagione potrebbe non essere la stessa persona ad interpretarlo nella quarta, per cui il mistero intorno al ruolo potrebbe durare ancora a lungo.

Cosa sappiamo della serie HBO su Harry Potter

La prima stagione sarà tratta dal romanzo La pietra filosofale e abbiamo già visto alcuni altri momenti chiave del romanzo d’esordio di J.K. Rowling essere trasposti sullo schermo. La prima stagione di Harry Potter dovrebbe essere girata fino alla primavera del 2026, mentre la seconda stagione entrerà in produzione pochi mesi dopo. Ogni libro dovrebbe costituire una singola stagione, il che significa che avremo sette stagioni nell’arco di quasi un decennio.

HBO descrive la serie come un “adattamento fedele” della serie di libri della Rowling. “Esplorando ogni angolo del mondo magico, ogni stagione porterà ‘Harry Potter’ e le sue incredibili avventure a un pubblico nuovo ed esistente”, secondo la descrizione ufficiale. Le riprese dovrebbero avere inizio nel corso dell’estate 2025, per una messa in onda prevista per il 2026.

La serie è scritta e prodotta da Francesca Gardiner, che ricopre anche il ruolo di showrunner. Mark Mylod sarà il produttore esecutivo e dirigerà diversi episodi della serie per HBO in collaborazione con Brontë Film and TV e Warner Bros. Television. La serie è prodotta da Rowling, Neil Blair e Ruth Kenley-Letts di Brontë Film and TV, e David Heyman di Heyday Films.

Come già annunciato, Dominic McLaughlin interpreterà Harry, Arabella Stanton sarà Hermione e Alastair Stout sarà Ron. Il cast principale include John Lithgow nel ruolo di Albus Silente, Janet McTeer nel ruolo di Minerva McGranitt, Paapa Essiedu nel ruolo di Severus Piton, Nick Frost nel ruolo di Rubeus Hagrid, Katherine Parkinson nel ruolo di Molly Weasley, Lox Pratt nel ruolo di Draco Malfoy, Johnny Flynn nel ruolo di Lucius Malfoy, Leo Earley nel ruolo di Seamus Finnigan, Alessia Leoni nel ruolo di Parvati Patil, Sienna Moosah nel ruolo di Lavender Brown, Bertie Carvel nel ruolo di Cornelius Fudge, Bel Powley nel ruolo di Petunia Dursley e Daniel Rigby nel ruolo di Vernon Dursley.

Si avranno poi Rory Wilmot nel ruolo di Neville Paciock, Amos Kitson nel ruolo di Dudley Dursley, Louise Brealey nel ruolo di Madama Rolanda Hooch e Anton Lesser nel ruolo di Garrick Ollivander. Ci sono poi i fratelli di Ron: Tristan Harland interpreterà Fred Weasley, Gabriel Harland George Weasley, Ruari Spooner Percy Weasley e Gracie Cochrane Ginny Weasley.

La serie debutterà nel 2027 su HBO e HBO Max (ove disponibile) ed è guidata dalla showrunner e sceneggiatrice Francesca Gardiner (“Queste oscure materie”, “Killing Eve”) e dal regista Mark Mylod (“Succession”). Gardiner e Mylod sono produttori esecutivi insieme all’autrice della serie J.K. Rowling, Neil Blair e Ruth Kenley-Letts di Brontë Film and TV, e David Heyman di Heyday Films. La serie di “Harry Potter” è prodotta da HBO in collaborazione con Brontë Film and TV e Warner Bros. Television.

The Carpenter’s Son: il teaser trailer del nuovo film con Nicolas Cage

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Nicolas Cage torna al genere horror con il teaser trailer di The Carpenter’s Son, in uscita nell’autunno 2025. Cage ha recitato in innumerevoli film di vari generi, ma forse il più rilevante per questo prossimo progetto è Longlegs del 2024, dato che l’attore ha fatto scalpore lo scorso anno interpretando il killer in questo horror psicologico.

The Carpenter’s Son, diretto da Lofty Nathan, sarà un horror biblico che reinterpreta l’infanzia di Gesù, seguendo una famiglia nell’Egitto romano. Ispirato al Vangelo apocrifo dell’infanzia di Tommaso, il film descrive un figlio conosciuto come “Il Ragazzo” (Noah Jupe) che dubita del suo tutore, conosciuto come “Il Falegname” (Cage). Il Ragazzo ha un potere proprio e si ribella al Falegname, scatenando altri orrori.

Il film vede anche la partecipazione di FKA twigs nel ruolo di “Madre” e non ha ancora una data di uscita definitiva, ma Magnolia Pictures annuncia che arriverà nelle sale “nell’autunno del 2025 d.C.”. Il breve teaser, della durata di meno di 30 secondi, mostra Il Falegname che guarda il sole che sorge e sembra osservare Il Ragazzo da lontano, il tutto alternato ad immagini di donne in preda al dolore e altri elementi inquietanti.

 

Dopo Longlegs, sarà dunque emozionante vedere l’attore interpretare un altro ruolo horror, soprattutto uno apparentemente multidimensionale e misterioso come questo. Il marketing iniziale mantiene segreta la maggior parte della trama, rendendo la natura di tutti i personaggi della storia estremamente enigmatica.

Pur essendo inquietante e suscitando molte domande, il breve teaser dimostra chiaramente che il conflitto e il tema centrale di The Carpenter’s Son è quello tra le figure del padre e del figlio, poiché il personaggio di Cage sembra cercare di sorvegliare la famiglia, senza però comprendere il potere che attanaglia il Ragazzo.

The Brave and the Bold: James Gunn risponde alla possibilità di Chris Pratt come Batman

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James Gunn ha parlato della possibilità che Chris Pratt interpreti Batman in The Brave and The Bold come parte dell’universo DC. Dopo il debutto di Superman interpretato da David Corenswet nel 2025, altri eroi della Justice League stanno infatti per essere reinventati per la nuova serie di supereroi di Gunn, con diversi progetti in cantiere per il Capitolo 1: “Dei e Mostri”.

Uno degli eroi che verrà riproposto dalla DC Studios è dunque proprio Batman nel film The Brave and The Bold, uno dei progetti rivelati nel gennaio 2023. Con un ruolo importante come quello di Bruce Wayne in arrivo nell’universo condiviso di Gunn, molti si chiedono chi sarà il prossimo Cavaliere Oscuro sul grande schermo. Al momento non ci sono state novità riguardo al progetto, ma le varie ipotesi di casting continuano ad essere sulla bocca di tutti.

In una nuova intervista con PelucheEn ElEstuche, a Gunn è stato ora chiesto se la sua ex star di Guardiani della Galassia si sarebbe unita alla DCU nei panni di Batman . Secondo Gunn, Pratt, che interpreta Star-Lord nel Marvel Cinematic Universe, non sarà però scelto per interpretare il Cavaliere Oscuro, ma forse per un altro ruolo DC: “Come Batman? No. Come qualcos’altro? Sì“, sono le parole del regista.

Sebbene Pratt sia una delle star più importanti di Gunn dai tempi della trilogia di Guardiani della Galassia, non sorprende che non verrà preso in considerazione per interpretare Batman nella DCU. Finora non è chiaro se il ruolo dell’eroe di Gotham City sarà assegnato a una star di prima grandezza o se si cercherà qualcuno meno conosciuto. Tuttavia, non è invece una sorpresa che Gunn stia tenendo Pratt in considerazione per un personaggio diverso nella timeline DCU, data la loro lunga storia di collaborazione.

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Parlando l’anno scorso dei piani dei DC Studios per The Brave and the Bold, James Gunn ha detto: “Questa è l’introduzione del Batman del DCU. È la storia di Damian Wayne, il vero figlio di Batman, di cui non conoscevamo l’esistenza per i primi otto-dieci anni della sua vita. È stato cresciuto come un piccolo assassino e assassina. È un piccolo figlio di puttana. È il mio Robin preferito“. “È basato sulla run di Grant Morrison, che è una delle mie run preferite di Batman, e la stiamo mettendo insieme proprio in questi giorni“.

Il co-CEO dei DC Studios, Peter Safran, ha aggiunto: “Ovviamente si tratta di un lungometraggio che vedrà la presenza di altri membri della ‘Bat-famiglia’ allargata, proprio perché riteniamo che siano stati lasciati fuori dalle storie di Batman al cinema per troppo tempo“. Alla sceneggiatura, oltre a Muschietti, dovrebbe esserci anche Rodo Sayagues, noto per aver firmato le sceneggiature di La casa, Man in the DarkAlien: Romulus.

Eternals: Chloé Zhao ritiene le “risorse illimitate” della Marvel “piuttosto pericolose”

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La regista premio Oscar Chloé Zhao è tornata a riflettere sul lavoro svolto per Eternals della Marvel Studios e su come un budget elevato si sia rivelato alla fine “piuttosto pericoloso”. In una nuova intervista per promuovere Hamnet (di cui è da poco stato rilasciato un primo trailer), la regista ha spiegato come il film sui supereroi l’abbia preparata per il suo ultimo film. “Eternals mi ha preparata per Hamnet perché si tratta di world-building. Prima di allora, avevo realizzato solo film ambientati nel mondo reale”.

“Ho anche imparato cosa fare e cosa non fare, cosa è realistico e cosa non lo è”, ha detto Zhao in un’intervista a Vanity Fair. Ha continuato: “Eternals aveva a disposizione una quantità illimitata di denaro e risorse. Qui invece abbiamo solo un angolo di strada che possiamo permetterci, per [sostituire] Stratford… Eternals non aveva molte limitazioni, e questo in realtà è piuttosto pericoloso. Poiché in Hamnet abbiamo solo quell’angolo di strada, improvvisamente tutto ha un significato”.

Eternals, come noto, racconta di un gruppo di eroi immortali costretti a uscire dall’ombra per unirsi contro il più antico nemico dell’umanità, i Devianti. Sebbene non sia stato ben accolto dalla critica e dai fan della Marvel, il film è riuscito a incassare 402 milioni di dollari al botteghino mondiale nel 2021, vantando un cast corale che includeva Angelina Jolie, Salma Hayek, Gemma Chan, Richard Madden, Kumail Nanjiani, Brian Tyree Henry e Barry Keoghan, tra gli altri.

Chloé Zhao tornerà a dirigere Eternals 2?

Data la tiepida accoglienza ottenuta dal film, tuttavia, al momento non sembrano esserci piani per un sequel. Lo stesso Kevin Feige, durante un’intervista rilasciata nel luglio del 2024 aveva affermato: “Non ci sono piani immediati per Eternals 2“, prima di aggiungere. “Ci sono, e penso che abbiate visto forse in un trailer che abbiamo rilasciato di recente, un riconoscimento di alcuni di quegli eventi. Alcune cose giganti sono uscite dall’oceano“. Naturalmente, ciò a cui Feige allude è la presenza della Celeste Tiamut, che attualmente emerge dall’oceano nel MCU e che viene mostrato in Captain America: New World Order.