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Argentina 1985, recensione del film con Ricardo Darín

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Argentina 1985, recensione del film con Ricardo Darín

Diretto da Santiago Mitre e interpretato dal divo argentino Ricardo Darín, Argentina 1985 è un viaggio emozionante e divertentissimo in un periodo doloroso ma di grande riscatto nella storia del Paese dell’America del Sud. Il film è stato presentato nella sezione in Concorso della selezione ufficiale della 79° Mostra Internazionale di Venezia.

La storia di Argentina 1985

Il film è ispirato alla vera storia dei procuratori Julio Strassera e Luis Moreno Ocampo, che nel 1985 vennero incaricati di indagare e perseguire i responsabili della fase più sanguinosa della dittatura militare argentina. Senza lasciarsi intimidire dall’ancora notevole influenza che l’esercito aveva sulla loro fragile, nuova democrazia, Strassera e Moreno Ocampo formarono un giovane team legale di improbabili eroi per ingaggiare la loro battaglia di Davide contro Golia. Costantemente minacciati, insieme alle loro famiglie, lottarono contro il tempo per dare giustizia alle vittime della giunta militare.

L’ironia è la chiave del racconto

Santiago Mitre e Mariano Llinás firmano un copione brillante, che stempera tutti gli aspetti più spaventosi e minacciosi della storia vera legati a Strassera e alla sua squadra, pur restituendo una grande dignità ai testimoni e a coloro che hanno affrontato lo stress di testimoniare davanti agli imputati le terribili esperienze vissute nel periodo della dittatura. Il film che ne viene fuori è proprio così, commovente e brillante, in alcuni passaggi esilarante, una caccia alla giustizia in nome di una democrazia appena conquistata che ha fatto di Strassera e della sua squadra un gruppo di eroici combattenti sotto l’egida della fiducia nella legge.

Mitre si mette completamente al servizio della storia, dando costante ritmo alla narrazione della vicenda con grande spirito. Ricardo Darín è poi un mattatore di grande classe, il suo Julio Strassera è infaticabile, ligio, onesto e retto, ma è anche spiritoso, ironico, divertente, infaticabile e sempre pronto a mettersi in gioco, anche di fronte alle minacce rivolte alla sua famiglia, che nel film ha un ruolo di primo piano e che è interpretata da attori magnifici.

Una pagina di storia fondamentale per l’Argentina

L’ironia è per Mitre l’arma con cui rielaborare una pagina fondamentale nella storia del suo Paese: all’epoca dei fatti, Mitre era ancora un bambino ma senza dubbio il guardare a quel processo, a quello che ha significato, alle forze in gioco in quel momento attraverso una lente di parziale leggerezza gli ha permesso di raggiungere anche la giusta distanza emotiva, per regalare al pubblico un film avvincente ed emozionante, che arriverà su Amazon Prime Video.

Innocence: recensione del documentario di Guy Davidi

Innocence: recensione del documentario di Guy Davidi

Ci sono voluti più di 10 anni e il sostegno di una produzione danese per realizzare un film come Innocence. Guy Davidi, regista e sceneggiatore israeliano, ha messo in piedi un documentario critico e toccante. Innocence affronta un tema di punta per i giovani d’Israele: il servizio militare obbligatorio.

Presentato alla 79ª Mostra internazionale di Venezia nella sezione OrizzontiInnocence è prodotto da Danish Documentary Production, Medalia Productions, Making Movies  e Real Lava Sagafilms.

Di cosa parla Innocence

Innocence è un collage di testimonianze che parla di forze armate mettendo in primo piano i due suoi maggiori nemici: innocenzasensibilità. In Israele, fin da  bambini i cittadini imparano le gesta e l’importanza dell’esercito. Attraverso un’opera di storytelling che inizia all’asilo, gli israeliani vengono incoraggiati a prestare servizio militare. Così, non appena compiono 18 anni sono obbligati a unirsi all’esercito: i ragazzi per 36 mesi, le ragazze per 24.

Il regista del film Guy Davidi sceglie quindi di creare una narrazione opposta: invece di cantare le gesta dei soldati, racconta di coloro che, costretti al servizio militare, hanno perso la vita: c’è chi è rimasto ucciso e chi ha scelto il suicidio. Unendo video amatoriali, interviste ai parenti delle vittime, lettere d’addio, disegni e riprese sul campo, Innocence mostra la perdita d’innocenza a cui sono costretti i ragazzi d’Israele.

Dall’olocausto alla militarizzazione

InnocenceFino a che punto la narrazione dell’olocausto è storia e quando diventa invece uno strumento politico? Questa è la tagliente domanda che Davidi vuole porre al pubblico, in primo luogo ai suoi concittadini. Oggi l’Israele è abilissimo nella narrazione dell’utilità e dell’eroicità del proprio esercito. Facendo leva sui soprusi subiti dagli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, il governo sembra giustificare la necessità di avere delle forze armate potenti e pronte a difendere i cittadini.

Mostrare la realtà in modo critico

L’autore smonta completamente la legittimazione della violenza messa in piedi dal governo israeliano. Per riuscire nella sua operazione, il regista non fa altro che servirsi della realtà: prende i video amatoriali realizzati tra le mura domestiche, riprende i bambini che giocano vicino al confine militare, si reca nelle scuole dove le maestre spiegano ai bambini e ai ragazzi le gesta dell’esercito. Da tutto questo materiale vero, calato negli eventi e nella quotidianità, scaturisce in maniera naturale il documentario. Non serve aggiungere altro, la realtà si commenta da sola.

Il punto di vista dei deboli: i bambini

innocence guy davidiL’operazione del regista gira tutta attorno all’arte del raccontare: mostra il lato oscuro della politica di militarizzazione adottata dal suo Paese. In particolare, pone luce sulle storie non raccontare e sulle personalità non adatte alle armi. In una parola, i deboli. La debolezza però non viene condannata e neppure compatita. Davidi vuole far prendere coscienza dell’esistenza di essa, cosa che non avviene di frequente in Israele.

Chi sono, per eccellenza, i deboli, le creature da proteggere? I bambini. È l’autore stesso ad esprimere il suo interesse per i più piccoli. ”Non c’è niente che mi tocchi di più della sensibilità di un bambino quando scopre il mondo, e non c’è niente che mi ferisca di più che vederla annientata. Israele non è un luogo in cui si valorizza l’innocenza.”

Un percorso a tappe

Per arrivare al cuore dello spettatore, Davidi inizia il suo documentario mostrando i disegni dei bambini, opere per eccellenza sincere e innocenti, che però raffigurano i soldati. Da qui, step dopo step, segue la crescita di un cittadino: la fine delle scuole, l’inizio dell’addestramento, il giuramento, tutti i passaggi che, a poco a poco, tolgono innocenza ai giovani israeliani.

Ti mangio il cuore, recensione del film di Pippo Mezzapesa

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Ti mangio il cuore, recensione del film di Pippo Mezzapesa

Dopo l’introspettivo ed enigmatico Il bene mio, Pippo Mezzapesa scende sulla Terra, anzi agli inferi, tra i clan della mafia foggiana, raccontando con Ti mangio il cuore, la storia della prima pentita di questo misterioso e terribile (e ancora sconosciuto) spaccato di malavita del Sud Italia.

Ti mangio il cuore, la trama

Puglia. Arso dal sole e dall’odio, il promontorio del Gargano è conteso da criminali che sembrano venire da un tempo remoto governato dalla legge del più forte. Una terra arcaica da Far West, in cui il sangue si lava col sangue. A riaccendere un’antica faida tra due famiglie rivali è un amore proibito: quello tra Andrea, riluttante erede dei Malatesta, e Marilena, bellissima moglie del boss dei Camporeale. Una passione fatale che riporta i clan in guerra. Ma Marilena, esiliata dai Camporeale e prigioniera dei Malatesta, contesa e oltraggiata, si opporrà con forza di madre a un destino già scritto.

Sanguigno, verace, contrastato come la sua fotografia, Ti mangio il cuore vuole essere una tragedia greca in salsa mafiosa che ripropone degli schemi già visti e raccontati abbondantemente da cinema e televisione. E se da una parte la storia è universale e gli interpreti sono intriganti, la confezione finale si perde in formalismi poco ispirati.

ti mangio il cuore amantiL’esordio al cinema di Elodie

Si parla già tanto dell’esordio al cinema di Elodie, che interpreta la femme fatale Marilena e si intuisce presto che non è solo perché la cantante fa notizia come personaggio pubblico. La giovane si scopre dotata di un bel talento istintivo e naturale per il grande schermo, complici forse quei suoi lineamenti così intensi e quegli occhi grandi e affamati di storie. La sua Marilena è irresistibile, sia nella prima parte della storia, quando è l’altezzosa e fiera moglie del boss, sia nella seconda parte, quando è l’amante gravida di un principe mafioso in crisi esistenziale.

Accanto a lei c’è Francesco Patanè che avevamo ammirato ne Il Cattivo Poeta. Qui il giovane interprete genovese si cimenta non solo con un dialetto che non è suo, ma con un personaggio che affronta una vera e propria discesa nell’Ade, a toccare le corde più oscure della sua anima. Intorno a loro un cast di enorme talento (tra gli interpreti ci sono Lidia Vitale, Francesco Di Leva, Michele Placido e Tommaso Ragno) che impreziosisce una storia di grande ambizione ma di tiepida esecuzione.

Ti mangio il cuore si ammanta di grande passionalità e ferocia, vorrebbe essere un affresco crudo e spietato di una realtà ancora nascosta, ma non esprime con i fatti questa intenzione esplicata nel titolo e in definitiva la sua ambizione tragica non trova riscontro nell’esito.

La Sindacalista, recensione del film di Jean-Paul Salomé con Isabelle Huppert

Isabelle Huppert torna nei panni di una forzuta protagonista, tanto nella mente quanto nello spirito, con La Sindacalista, film presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 79, di Jean-Paul Salomè. Solo lo scorso anno, la Huppert aveva interpretato un personaggio similare nel film La promessa – Il prezzo del potere di Thomas Kruithof e presentato sempre nell’ambito di Orizzonti. Nel cast Grégory Gadebois, François-Xavier Demaison, Pierre Deladonchamps, Alexandra Maria Lara, Gilles Cohen, con la partecipazione di Marina Foïs e Yvan Atta.

Nonostante l’attrice francese si confermi un’interprete straordinaria, capace di trainare l’intera narrazione, La Sindacalista risulta un film fin troppo didascalico e senza un tono preciso, quando dovrebbe giocare attentamente con il concetto di dubbio e le differenti prospettive sorte attorno a una vicenda contorta e inspiegabile: l’attacco alla sindacalista Maureen Kearney.

La Sindacalista: Isabelle Huppert è Maureen Kearney

La Sindacalista è la storia vera di Maureen Kearney, la principale rappresentante sindacale di una multinazionale nucleare francese e che diventò un’informatrice segreta, denunciando accordi top-secret che sconvolsero il settore nucleare del Paese. Sola contro il mondo, ha combattuto con le unghie e con i denti contro i ministri del governo e i leader dell’industria per portare alla luce lo scandalo e difendere più di 50.000 posti di lavoro. La sua vita è stata sconvolta quando è stata violentemente aggredita nella sua stessa casa, aggressione a cui è seguita un’indagine discutibilissima, pur trattandosi di un caso davvero delicato. Improvvisamente, nuovi elementi arrivarono a creare dubbi ne perplessità nella mente degli investigatori: è così che, da vittima, Maureen diventa sospettata.

La storia di Kearney è, prima di tutto, la storia di un’eroina: Salomé vuole approcciarsi al tribolato racconto di una vicenda sconcertante in questo modo, rendendo Isabelle Huppert padrona dello schermo a tutti gli effetti. Anche nei frangenti meno coinvolgenti, riusciamo quanto meno a cogliere sul volto e tramite la fisicità dell’Huppert, la sofferenza di una donna che non può raccontare la sua verità.

Isabelle Huppert in La Sindacalista

Un film “televisivo” e senza un ritmo coerente

Maureen Kearney non è una “vittima” facile, ed è per questo che la polizia non tarderà a dubitare della sua dichiarazione: è scaltra, determinata e integerrima, ma nasconde una personalità molto più sfaccettata. Sono proprio le fragilità di Maureen a renderla un personaggio femminile interessante sullo schermo; Salomè riesce a rendere giustizia a una vittima reale e riesce sicuramente a creare un personaggio coerente sulla carta. Il difetto principale de La sindacalista sta però nella gestione del ritmo e del tempo del racconto: il dubbio si insinua nella sfera professionale e famigliare di Maureen, e il cambio di prospettive – vero fulcro drammatico del film – arriva soltanto quando l’attenzione dello spettatore è ormai già persa. Manca una giusta direzione degli attori, che non riescono a seguire Maureen nelle sue implausibili divagazioni, uno stato mentale concettualmente intricato, ma banalizzato in una visione complessiva da “racconto di cronaca” che forse sarebbe stato più agevole per il formato televisivo.

Maureen è sola contro uomini che fanno parte dell’élite, vengono dalla grande école, ma lei è semplicemente una sindacalista che appartiene al popolo e vuole viverci, per questo viene punita. Il confronto di genere viene messo in chiaro fin da subito da Salomè, in realtà non in maniera totalmente bilanciata, poiché intuiamo che la cinepresa è sempre a favore di Huppert, anche quando il suo personaggio inizia a nutrire dubbi rispetto alle confessioni precedentemente fatte. Un messaggio forte, convalidato da un’attrice pioniera di ruoli femminili vigorosi, non sempre positivi, ma che hanno segnato dei momenti importanti nella storia del cinema – pensiamo a La Pianista, di Michael Haneke (2001) ed Elle, di Paul Verhoeven (2016). Il confronto, in questo caso, non regge, benché Huppert rimanga Huppert e tenti di raccontare la verità del suo personaggio in ogni modo, ma non è seguita da una sceneggiatura che permette di farci conoscere la storia di Maureen Kearney nel modo in cui il film si proponeva.

Sempre con la volontà di farle interpretari personaggi ancorati alla realtà, Salomè si affida completamente all’interpretazione di Huppert per sostenere una storia che vorrebbe essere un thriller paranoico, ma finisce per limitare parecchio un film in cui la parola delle donne, il loro posto nelle sfere di potere e la loro insinuata natura manipolatrice, avrebbe potuto dare molto di più.

Doctor Strange 2: Xochitl Gomez ha ricevuto preziosi consigli da Patrick Stewart

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La star di Doctor Strange nel Multiverso della Follia, Xochitl Gomez, ha raccontato in una recente intervista della sua esperienza sul set del film Marvel, tra i più importanti nella definizione della Fase 4. Nella storia, l’attrice interpreta America Chavez, una ragazza dotata della capacità di saltare tra gli universi, un potere di cui la Scarlet Witch di Elizabeth Olsen vuole assolutamente impadronirsi. Per la Gomez si è trattato del primo ruolo importante della sua carriera, pur avendo recitato in alcuni episodi della serie Netflix Il Club delle Babysitters.

Durante l’intervista, l’attrice ha anche rivelato che il celebre attore Patrick Stewart, che nel film è tornato ad interpretare il personaggio di Charles Xavier degli X-Men, le ha dato diversi preziosi consigli. “Patrick Stewart mi ha dato ottimi consigli, che porterò sempre con me, essendo ancora alle prime armi. Erano consigli del tipo assicurati di rivolgerti con riguardo e sii sempre molto accogliente con le persone. Mi ha fatto riflettere su una questione molto importante, non puoi mai sapere chi hai di fronte, potrebbe essere una grande star ma tu non lo sai ancora. E ho imparato molto con questo suo insegnamento. Voglio essere anche io sempre disponibile”. 

Il ruolo della Gomez nel Marvel Cinematic Universe è presumibile che sia lungi dall’essere terminato e molto probabilmente la si vedrà ancora nel futuro della saga, specialmente considerato quanto utile possa rivelarsi il suo potere. L’esperienza positiva vissuta durante il set di Doctor Strange nel Multiverso della Follia come anche i consigli ricevuti le permetteranno certamente di affermarsi come una delle grandi star delle prossime fasi della Marvel. Ad oggi, però, non è noto quando il personaggio di America Chazev farà il suo ritorno sul grande schermo.

Fonte: Collider

Shang-Chi: Simu Liu ha sofferto di stress dopo essere diventato una celebrità

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A un anno dall’uscita in sala di Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, uno dei principali film della Fase 4 del Marvel Cinematic Universe, l’attore protagonista di questo, Simu Liu, ha deciso di condividere con i fan le sue riflessioni sulle implicazioni psicologiche che un ruolo di questo calibro comporta. Con un post sul proprio profilo Instagram, l’attore ha infatti non solo colto l’occasione per celebrare il primo anniversario del film, ma anche per raccontare ciò che è venuto dopo il successo di questo.

Esattamente un anno fa è uscito questo piccolo film che ha cambiato completamente la mia vita. Si è trattato di nient’altro che di un viaggio assolutamente incredibile… ma dopo aver avuto del tempo per rifletterci so che questa vita ha un credibile prezzo.” – ha scritto l’attore – “Mi sono ritrovato improvvisamente catapultato in un mondo che non mi apparteneva e non ero pronto a fare i conti con le ramificazioni mentali di una vita vissuta pubblicamente.”. 

L’attore ha poi continuato affermando che “oggi, nel giorno dell’anniversario dell’uscita di Shang-Chi, sono particolarmente emozionato perché ho iniziato un percorso di terapia e sto dando priorità alla mia salute. Sto guarendo e sono sulla strada per diventare qualcosa di più di un supereroe: un uomo bravo e rispettabile.”. Da quando il film Marvel è stato distribuito, Liu è diventato una celebrità a tutti gli effetti, venendo coinvolto in molteplici progetti che lo hanno portato ad avere una vita piuttosto frenetica. Come noto, Liu riprenderà poi il ruolo di Shang-Chi nell’annunciato sequel, attualmente in fase di sviluppo.

https://www.instagram.com/p/CiC0v6xPVir/

Fonte: CBR

The Whale: Dwayne Johnson elogia Brendan Fraser

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The Whale: Dwayne Johnson elogia Brendan Fraser

L’icona della WWE e star del cinema di successo Dwayne Johnson ha pubblicamente ringraziato su Twitter l’attore Brendan Fraser per averlo supportato nel suo ingresso nel secondo film del franchise di La Mummia: La Mummia – Il ritorno, un film che, in generale, ha permesso a Johnson di potersi attivamente dedicare ad una carriera nel mondo del cinema. Il suo elogio è ora arrivato in risposta ad un video divenuto virale dove si vede Fraser reagire con grande commozione alla standing ovation tributatagli al Festival di Venezia per il suo nuovo film da protagonista, The Whale.

Nel film diretto da Darren Aronofksy, Fraser interpreta Charlie, un uomo limitato dal suo sovrappeso che, sentendo avvicinarsi la morte, cerca di riallacciare i rapporti con la figlia prima che sia troppo tardi. Nel tweet, Johnson scrive: “Mi rende così felice vedere questa bellissima ovazione per Brendan. Lu mi ha aiutato a entrare nel suo franchise con La Mummia – Il ritorno, per quello che è stato il mio primo ruolo in assoluto, che ha dato il via alla mia carriera a Hollywood. Faccio il tifo per te e per il tuo successo fratello e congratulazioni anche al mio amico Darren Aronofsky.”

Johnson è solo l’ultimo di un lungo elenco di personalità del cinema che accolgono con grande entusiasmo il ritorno in auge di Fraser, un attore popolarissimo a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila ma caduto poi nel dimenticatoio. Ora, oltre ad aver recitato in The Whale, Fraser è atteso anche nel prossimo film di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, dove reciterà accanto a Leonardo DiCaprio e Robert De Niro.

https://twitter.com/TheRock/status/1566576268451008512?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1566576268451008512%7Ctwgr%5Ed22923bd760521f712f6f7c88c5555466b9253e5%7Ctwcon%5Es1_&ref_url=https%3A%2F%2Fwww.cbr.com%2Fdwayne-johnson-brendan-fraser-the-mummy-black-adam%2F

Fonte: CBR

James Bond: Jamie Campbell Bower vuole interpretare un villain nella saga

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Jamie Campbell Bower, che ha di recente interpretato il cattivo Vecna nella quarta stagione di Stranger Things, ha affermato che gli piacerebbe moltissimo interpetare un villain in uno dei prossimi film della saga di James Bond. Come noto, il primo ruolo cinematografico dell’attore britannico risale al 2007, per il film di Tim Burton Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street. Successivamente Bower ha ottenuto maggior popolarità grazie al ruolo del vampiro cattivo Caius nella The Twilight Saga e di Gellert Grindelwald in Harry Potter e i Doni della Morte: Parte 1 e Animali fantastici: I crimini di Grindlewald. Proprio grazie a Stranger Things, Bower sta oggi vivendo un nuovo periodo di grande popolarità.

La serie Netflix ha infatti confermato le sue grandi capacità nell’interpretare personaggi crudeli e spietati. Dotato di un volto angelico ingannevole, Bower è infatti in grado di dar vita a personaggi che si rivelano poi in tutta la loro malvagità. Nel corso dell’intervista rilasciata per il podcast Happy, Sad, Confused l’attore ha raccontato di quanto si presentò per il provino di Harry Potter, ma anche, appunto, di quanto adorerebbe poter prendere parte alla saga di James Bond in qualità di cattivo. Come noto, dopo No Time To Die non vi sono ancora piani ufficiali per un prossimo film su James Bond, se non che occorrerà trovare un nuovo protagonista dopo l’abbandono di Daniel Craig.

Con la popolarità ritrovata, Bower potrebbe dunque seriamente ambire ad ottenere il ruolo dei suoi sogni e in seguito a questa sua rivelazione sono in molti a ritenerlo perfetto per interpretare un nemico del celebre agente 007. Prima di quel momento, però, lo si potrà rivedere nel dramma sulla guerra civile Horizon, nei panni del patriarca Ed Becker nel dramma sull’esorcismo True Haunting, e, naturalmente, ancora una volta nei panni di Vecna, il quale andrà in cerca di vendetta nella stagione 5 di Stranger Things.

Fonte: ScreenRant

L’Immensità, recensione del film di Emanuele Crialese

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L’Immensità, recensione del film di Emanuele Crialese

In un momento storico in cui registi affermati sembrano rivolgersi a se stessi per trovare ispirazione di nuove storie, anche Emanuele Crialese sceglie di raccontarsi con L’Immensità, film biografico presentato in concorso a Venezia 79.

L’Immensità, la trama

Roma, anni 70: un mondo sospeso tra quartieri in costruzione e varietà ancora in bianco e nero, conquiste sociali e modelli di famiglia ormai superati. Clara e Felice si sono appena trasferiti in un nuovo appartamento. Il loro matrimonio è finito: non si amano più, ma non riescono a lasciarsi. A tenerli uniti, soltanto i figli su cui Clara riversa tutto il suo desiderio di libertà. Adriana, la più grande, ha appena compiuto 12 anni ed è la testimone attentissima degli stati d’animo di Clara e delle tensioni crescenti tra i genitori. Adriana rifiuta il suo nome, la sua identità, vuole convincere tutti di essere un maschio e questa sua ostinazione porta il già fragile equilibrio familiare ad un punto di rottura. Mentre i bambini aspettano un segno che li guidi, che sia una voce dall’alto o una canzone in tv, intorno e dentro di loro tutto cambia.

Impossibile scindere la storia dalla persona con L’Immensità, film per cui Crialese ha rilasciato molte dichiarazioni, tutte attentissime nella scelta delle parole e nell’equilibrio delle affermazioni. Perché se da una parte è legittimo raccontarsi nel profondo attraverso il cinema, è altrettanto legittimo scegliere fino a che punto esporsi. E così il regista sceglie di raccontare la sua adolescenza alla ricerca di un corpo che lo rappresentasse, ma non solo. 

Penelope Cruz diventa la madre di Crialese

L’Immensità è un racconto di famiglie, di tempi che non esistono più, di ispirazioni e di voglia di libertà, di autenticità e di onestà, come comunica la scena molto intensa di Penelope Cruz in chiave almodovariana, che interpreta la madre (di Crialese) e che chiede al padre la libertà di lasciarsi, l’onestà di accettare che quel matrimonio è finito.

Forse proprio per il grande coinvolgimento emotivo che c’è dentro a L’Immensità, sembra che il racconto di Crialese sia spesso fuori fuoco, disorientato da tanti spunti, alcuni onirici altri terribilmente realistici, con la ferma intenzione di raccontare tanto senza però poi riuscire ad approfondire nulla.

Il racconto di sé

Il risultato è un film che procede per episodi e impressioni, ambientato in una calda luce estiva, affogato in un’emozione fortissima che si avverte ma che non riesce a fluire dallo schermo alla sala e che lascia disorientati. Tra musical e racconto drammatico, autobiografia romanzata e storia di formazione e accettazione, L’Immensità è un film che si fa sommergere dall’incertezza e della reticenza, come quando ci si sente costretti a raccontare un segreto che non si è pronti a condividere.

Shazam! Fury of the Gods: il regista nega i rumor sulle riprese aggiuntive

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Molti fan della DC non vedono l’ora di vedere in sala Shazam! Fury of the Gods, soprattutto considerando che la data di uscita del tanto atteso sequel è stata posticipata più volte. Di recente, infatti, è stato annunciato che la sua distribuzione è stata spostata dal dicembre di quest’anno al 17 marzo del prossimo anno. Una decisione apparentemente presa per evitare la concorrenza con l’altro grande titolo di dicembre: Avatar: The Way of Water. A causa di questo ennesimo rinvio, i fan hanno iniziato a speculare sullo stato effettivo di Fury of the Gods.

In molti si sono infatti chiesti se questa data di uscita ritardata avrà o meno un impatto sul film stesso. Secondo il regista David F. Sandberg, già dietro la macchina da presa del primo Shazam!, non è questo il caso. Con il proprio account di Instagram egli ha infatti smentito i rumor su delle ipotetiche riprese aggiuntive, volte a migliorare alcuni aspetti poco convincenti. Stando a quanto dichiarato dal regista, il montaggio finale del film è pronto e si sta operando unicamente sugli effetti speciali, la color correction e altri elementi di post-produzione. Il regista afferma inoltre che lo studios è soddisfatto del risultato del film e che lo spostamento nella data di uscita è da motivarsi unicamente con strategie promozionali.

Shazam! Fury of the Gods arriverà nelle sale  il 17 marzo 2023, e vedrà il ritorno di  Zachary Levi nei panni dell’eroe del titolo. Nel cast è confermato anche il ritorno di Asher Angel, mentre i villain saranno interpretati dalle new entry Helen Mirren, Rachel Zegler e Lucy LiuMark Strong non tornerà nei panni del Dottor Sivana, mentre Djimon Hounsou sarà ancora una volta il Mago.

Fonte: ComicBook

Ben Stiller e Sean Penn sono stati permanentemente banditi dalla Russia

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Gli attori Ben Stiller e Sean Penn sono stati ufficialmente banditi dalla Russia dal ministero degli Esteri russo. Stiller, come noto, è il protagonista di popolari commedie come Zoolander e Ti presento i miei, nonché il regista di programmi come Escape at Dannemora e la serie Apple TV+ Severance. Penn, invece, è l’attore premio Oscar per Mystic River e Milk, nonché il regista di film come Into The Wild e Flag Day. I due avevano inoltre recitato insieme nel film I sogni segreti di Walter Mitty, da Stiller anche diretto.

I due attori sarebbero “colpevoli” di aver preso le parti dell’Ucraina, invasa dalla Russia nel febbraio di quest’anno. Entrambi hanno infatti visitato il paese e parlato del conflitto con il presidente ucraino Zelensky. Penn, inoltre, ha girato un documentario sul conflitto, implorando in seguito il coinvolgimento degli Stati Uniti in esso, affermando: “l’Ucraina è la punta della lancia per un democratico abbraccio dei sogni. Se la lasciamo combattere da sola, la nostra anima come America è perduta”. Stiller ha invece visitato i rifugiati ucraini in Polonia e a Kiev, in qualità di ambasciatore di buona volontà per l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Il ministero degli Esteri russo ha dunque bandito Stiller e Penn dal Paese, citando il “principio di reciprocità“. Come reso noto, i due fanno parte di un elenco di 25 “funzionari di alto rango, rappresentanti delle comunità economiche e di esperti, nonché figure culturali” che apparentemente hanno avuto un impatto negativo sulla reputazione della Russia secondo le linee guida del Paese stesso. Il bando, che sembra essere di natura permanente, ha nei mesi colpito anche altre personalità del cinema con il regista Rob Reiner e l’attore premio Oscar Morgan Freeman.

Fonte: ScreenRant

Bob Odenkirk presenta World Apart a Giornate degli Autori

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Bob Odenkirk presenta World Apart a Giornate degli Autori

Si intitola World Apart – Mondi Lontani il film diretto da Cecilia Miniucchi, presentato durante una delle tre Masterclass SIAE per le Giornate degli Autori, nell’ambito della 79a Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. In questa occasione, abbiamo incontrato Bob Odenkirk, trai protagonisti del film, che ci ha raccontato com’è stato lavorare a un progetto tanto particolare, in un momento in cui il mondo cambiava per sempre.

Ma come mai l’attore di Better Call Saul ha detto di sì a questo progetto?

“Ho accettato perché volevo essere spaventato – ha spiegato – Mi piace essere spaventato e mi piace correre rischi. Abbiamo cominciato a girare il film all’inizio del lockdown: la vita era molto spaventosa, i miei figli seguivano le lezioni universitarie nelle loro stanze e stavamo fingendo che tutto andasse bene, ma non avevamo idea della situazione. I giorni erano opprimenti e difficili, ma dal nulla mi è arrivata una chiamata da Cecilia, che mi ha chiesto se volevo fare un film girato con gli iPhone attraverso FaceTime. Mi ha detto che avrebbe scritto una sceneggiatura con 3 coppie chiuse nelle loro case e io ho detto sì.
Volevo di nuovo sapore nella mia vita, volevo recitare perché non ero sicuro che avremmo potuto farlo di nuovo. Non avevamo ancora girato la sesta stagione di Better Call Saul, non sapevamo come saremmo finiti e io volevo restare in contatto con la recitazione. Inoltre io sono un fan di Danny Huston, sono un suo fanboy. Quando ho saputo che Danny Huston avrebbe fatto del progetto ho accettato, perché volevo lavorare con lui.”

L’attore ha raggiunto la fama soprattutto per il ruolo di Saul Goodman nella serie Breaking Bad, e poi diventato protagonista di Better Call Saul, serie spin off di grande successo. Come avrebbe reagito il suo avvocato al lockdown?

“Sarebbe diventato matto! Sarebbe stato inferocito e frustrato, perché lui vive una vita di interazione sociale e non vuole stare da solo con i suoi pensieri. A questo proposito ero un po’ preoccupato per Worlds Apart, perché penso che la storia riguardi queste persone, la loro frustrazione e il fatto che stanno soffocando. Quando tutto questo passerà definitivamente, le persone si dimenticheranno di come ci si sentiva. Sono contento che Cecilia abbia messo in background i report di notizie sulla diffusione del coronavirus, perché i protagonisti sono davvero personaggi dentro una pentola a pressione.”

Una delle principali difficoltà del personaggio in World Apart è stata per Odenkirk, paradossalmente, l’estrema vicinanza tra la sua situazione di reclusione e quella del personaggio.

“Questi personaggi vivono il momento che vivevamo noi stessi mentre giravamo. Cercano di distrarsi, ma non possono fare altro se non aspettare e sperare che la cosa si risolva. In un modo strano, abbiamo usato i sentimenti che tutti stavamo provando in quel momento. Io ho guardato la TV per settimane, con i report di notizie che invadevano casa mia. Aspettavamo la parola vaccino o qualche altra buona notizia, e i personaggi del film fanno la stessa cosa. Poi hanno la loro vita personale, che è un disastro completo. Cecilia voleva scrivere una commedia romantica, ma c’era la pressione di una pandemia. Il nostro desiderio è quello di intrattenere, lei voleva che il tono fosse leggero e infatti il cuore di questa storia non è minaccioso.”

È giusto dimenticare il periodo del lockdown?

“Penso che dobbiamo farlo. È stato veramente difficile fare un film durante una pandemia e un lockdown. Cecilia su FaceTime controllava l’angolo di ripresa attraverso un computer che guardava un altro computer. Ha scritto una storia in poche settimane con tre personaggi che si preoccupano l’uno dell’altro e si desiderano a vicenda e ha dato a tutti una sorta di arco narrativo. Questo è stato davvero difficile, sono orgoglioso che lei sia riuscita a realizzare una storia in cui si riescono a sentire le pressioni di quei personaggi. Ma il pericolo, oltre alla sfida stessa, è che la gente non voglia più sentirne parlare. Le persone vogliono dimenticare.”

Pippo Mezzapesa: intervista al regista di Ti mangio il cuore

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Pippo Mezzapesa: intervista al regista di Ti mangio il cuore

Ecco la nostra intervista a Pippo Mezzapesa, regista di Ti mangio il cuore, presentato a Giornate degli Autori nell’ambito di Venezia 79.

Puglia. Arso dal sole e dall’odio, il promontorio del Gargano è conteso da criminali che sembrano venire da un tempo remoto governato dalla legge del più forte. Una terra arcaica da far west, in cui il sangue si lava col sangue. A riaccendere un’antica faida tra due famiglie rivali è un amore proibito: quello tra Andrea, riluttante erede dei Malatesta, e Marilena, bellissima moglie del boss dei Camporeale. Una passione fatale che riporta i clan in guerra. Ma Marilena, esiliata dai Camporeale e prigioniera dei Malatesta, contesa e oltraggiata, si opporrà con forza di madre a un destino già scritto.

Nel cast del film di Pippo Mezzapesa Francesco Patanè, Elodie, Lidia Vitale, Francesco Di Leva, Michele Placido e Tommaso Ragno.

Fantastici 4: il cast del film sarà svelato al D23 Expo?

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Fantastici 4: il cast del film sarà svelato al D23 Expo?

Il D23 Expo 2022, l’evento in cui la Disney è solita annunciare importanti novità relative ai suoi progetti imminenti e futuri, avrà inizio nei prossimi giorni ed è possibile che in quell’occsaione i Marvel Studios annuncino ufficialmente il regista e il cast del film Fantastici 4 della Fase 6 del MCU. Da quando la Disney ha riacquisito i diritti sulla celebre famiglia di supereroi, i fan aspettano con impazienza un nuovo film su di loro, dopo Fantastici Quattro (2005), Fantastici Quattro e Silver Surfer (2007) e il poco apprezzato Fantastic 4 (2015). Questi erano però tutti progetti slegati dal Marvel Cinematic Universe, cosa che il prossimo film non sarà.

Un primo assaggio del loro arrivo lo si è avuto con la presenza di Reed Richards, interpretato da John Krasinski, nel film Doctor Strange nel Multiverso della Follia. Ad oggi però ancora non è stato rivelato né chi dirigerà né che interpreterà i protagonisti della pellicola. L’imminente D23 Expo sembra ora l’evento ideale per annunciare tutto ciò, considerando che il film è attualmente atteso in sala per il novembre 2024. Per il fronte regia, il nome più quotato in queste ultime settimane è quello di Matt Shakman, già distintosi presso i Marvel Studios per aver diretto la miniserie WandaVision.

Per quanto riguarda il cast invece, per il ruolo di Reed Richards tra i fan sono ultimamente circolati i nomi di Penn Badgley e Jamie Dornan, oltre ovviamente a John Krasinski. Per la donna invisibile Sue Storm, invece, le candidate ideali sembrerebbero essere Lily James, Amanda Seyfried, Jodie Comer, Saoirse Ronan e Vanessa Kirby. Per i ruoli di La Cosa e la Torcia Umana, invece, i rumor vorrebbero in lizza attori come Jason Segel o Seth Rogen per il primo, e Dacre Montgomery o Zac Efron per il secondo. Si tratta ovviamente di sole teorie, che potrebbero trovare conferma o meno all’imminente D23 Expo.

Fonte: ScreenRant

Francesco Patanè, intervista al protagonista di Ti Mangio il Cuore

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Ecco la nostra intervista a Francesco Patané, protagonista maschile di Ti mangio il cuore, di Pippo Mezzapesa, presentato a Giornate degli Autori nell’ambito di Venezia 79.

Puglia. Arso dal sole e dall’odio, il promontorio del Gargano è conteso da criminali che sembrano venire da un tempo remoto governato dalla legge del più forte. Una terra arcaica da far west, in cui il sangue si lava col sangue. A riaccendere un’antica faida tra due famiglie rivali è un amore proibito: quello tra Andrea, riluttante erede dei Malatesta, e Marilena, bellissima moglie del boss dei Camporeale. Una passione fatale che riporta i clan in guerra. Ma Marilena, esiliata dai Camporeale e prigioniera dei Malatesta, contesa e oltraggiata, si opporrà con forza di madre a un destino già scritto.

Nel cast del film di Pippo Mezzapesa anche Elodie, Lidia Vitale, Francesco Di Leva, Michele Placido e Tommaso Ragno.

Margini gratis al cinema a Roma e Milano con Cinefilos.it, scopri come!

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Cinefilos.it offre la possibilità di vedere al cinema, gratis, Margini, un film di Niccolò Falsetti con Francesco Turbanti, Emanuele Linfatti e Matteo Creatini presentato in concorso alla 37° Settimana della Critica in occasione di Venezia 79. Ecco le date in cui sarà possibile partecipare alle proiezioni presso i cinema di Roma e Milano:

  • GIULIO CESARE ROMA
Giovedì 8 settembre – 10 inviti
Venerdì 9 settembre – 10 inviti
Sabato 10 settembre – 10 inviti
  • MIGNON ROMA 
Giovedì 8 settembre – 10 inviti
Venerdì 9 settembre – 10 inviti
Sabato 10 settembre – 20 inviti
  • ANTEO PALAZZO DEL CINEMA MILANO 
Giovedì 8 settembre – 5 inviti
Venerdì 9 settembre – 5 inviti
Sabato 10 settembre – 5 inviti
I biglietti saranno validi per qualsiasi spettacolo indicato e potranno essere richiesti, fino ad esaurimento, inviando una email a [email protected] in cui andranno specificati il giorno in cui si intende utilizzare i biglietti e un secondo giorno alternativo nel caso per il giorno prescelto non ci sia più disponibilità di posto.
Gli orari delle proiezioni andranno consultati direttamente sui siti dei cinema. È di fondamentale importanza che nell’email venga evidenziato che si sta chiedendo l’invito via CINEFILOS.
I biglietti potranno essere ritirati direttamente alla cassa dei cinema presentando la email di conferma ricevuta unitamente ad un documento di identità

Giulia Amati: intervista alla regista di Kristos, l’ultimo bambino

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Giulia Amati è la regista di Kristos, l’ultimo bambino, documentario selezionato in Notti Veneziane a Venezia 79.

Dei trenta abitanti di Arki, un’isola del Dodecanneso battuta dal vento, Kristos è l’ultimo bambino rimasto. Ha dieci anni ed è l’unico alunno della maestra Maria che gli si dedica con devozione.  Presto Kristos inizierà il suo ultimo anno di scuola elementare. Per terminare la scuola dell’obbligo dovrebbe lasciare Arki e trasferirsi in un’isola più grande. La sua famiglia però non ha i mezzi per permetterselo e suo padre vuole che diventi un pastore, un mestiere che la famiglia si tramanda da generazioni. Maria non riesce ad accettare questa situazione ed è determinata a trovare una soluzione per farlo continuare a studiare. Kristos rimarrà sull’isola per diventare un pastore come i suoi fratelli maggiori oppure lascerà Arki per continuare gli studi lontano, dall’altra parte del mare?

Don’t Worry Darling, recensione del film di Olivia Wilde

Don’t Worry Darling, recensione del film di Olivia Wilde

Olivia Wilde torna dietro la macchina da presa per la seconda volta con uno dei film attesi dai più giovani della Mostra del Cinema di Venezia 2022: Don’t Worry Darling. La scelta dei due protagonisti per questa prima incursione della Wilde nel thriller psicologico è ciò che ha attirato attenzione mediatica nei confronti del progetto: Harry Styles e Florence Pugh sono gli interpreti principali di un film che rappresenta un grande passo indietro rispetto all’esordio registico della Wilde, Booksmart – La rivincita delle sfigate, in cui emergeva chiaramente tutta la sua creatività. Contenuta da un budget sostanzioso, che punta tutto sul casting e sulla spettacolarizzazione di due delle icone giovani più amate del momento, Don’t Worry Darling è un film dimenticabile e fuori tempo massimo, con qualche intuizione interessante ma che si perde nello stesso meccanismo gestionale che attanaglia i suoi protagonisti.

Benvenuti al progetto Victory

Don’t Worry Darling segue le vicende Alice (Florence Pugh) e Jack (Styles) una giovane e appartentemente felicissima coppia che vive nella comunità idealizzata di Victory, una città aziendale sperimentale che ospita gli uomini che lavorano per il progetto top-secret chiamato appunto Victory e le loro famiglie. L’ottimismo della società degli anni Cinquanta, propugnato dall’amministratore delegato Frank (Pine) – in egual misura visionario dell’azienda e life coach motivazionale – sostiene ogni aspetto della vita quotidiana nell’affiatata utopia del deserto.

Mentre i mariti trascorrono ogni giorno all’interno del quartier generale del Victory Project, lavorando allo “sviluppo di materiali avanzati”, le loro mogli – tra cui l’elegante compagna di FrankShelley (Chan) – passano il tempo a godersi la bellezza, il lusso e la dissolutezza della loro comunità. La vita è perfetta, con tutti i bisogni dei residenti soddisfatti dall’azienda. Tutto ciò che chiedono in cambio è discrezione e impegno indiscusso per la causa di Victory.

Laddove una Florence Pugh – che ormai ha consolidato la propria figura di giovane promessa del cinema – riesce a prendere le redini del film e a offrire quanto meno una performance in linea con le precedenti, Harry Styles sembra non riuscire ad afferrare completamente la psicologia della sua dolce metà, inserendosi in maniera ottimale nel contesto patinato e anni ‘50 del film, concorde con il carisma che ha sempre esibito nelle performance canore, ma senza quella consapevolezza e raffinatezza che lo avevo innalzato in Dunkirk di Christopher Nolan. Un ruolo in cui serviva espressività più che parole, e con cui si è iniziato a parlare di una sua possibile carriera anche nell’ambito della recitazione.

Don’t Worry Darling, un passo falso per Olivia Wilde

Don’t Worry Darling  è un film derivativo e questa è forse la delusione più grande se pensiamo che a dirigerlo è stata la stessa Olivia Wilde che, con arguzia e una regia frizzante, si era imposta nella scenda indipendente con il primo film Book Smart – La rivincita delle sfigate. La forte componente femminile, tanto sulla scena quanto da un punto di vista ideologico, viene completamente meno in una sceneggiatura che richiama tantissimo Black Mirror, non in termini di lungimiranza narrativa, anzi, quanto più nella spettacolarizzazione del pericolo e delle insidie che si nascondono all’interno di cornici tecnologiche apparentemente perfette.

Non stiamo parlando di un’aggiunta significativa al fuori concorso di Venezia 2022, ma Don’t Worry Darling  ha una nota di merito importante: sarà un film che richiamerà l’attenzione e la presenza del pubblico nelle sale, e che potrà comunque soddisfare il palato degli appassionati di thriller grotteschi senza troppe pretese. Tantissimi i riferimenti iconografici, tra Shutter Island e The Truman Show, passando per Sucker Punch e Stepford Wives, che racchiudono Don’t Worry Darling in una morsa di citazionismo e dinamiche interne ai personaggi che non conoscono suspense o un crescendo tensivo che ne legittimi un comparto visivo così prorompente.

Se Don’t Worry Darling  si consacrerà come un passo falso nella carriera di Florence Pugh, questo non ci è dato dirlo, ma l’auspicio è che Olivia Wilde faccia presto ritorno alla scena indipendente, presentandoci personaggi che possano davvero lasciare il segno e non vivere nell’ombra dell’icona che li interpreta. Le donne di Victory si coalizzano contro un sistema che le rende impotenti, le ha sottratte dalle responsabilità che volevano avere, contrapponendole a uomini di tutto punto, che nascondono più di un segreto. La verità è che due semplici ragazze di 17 anni, Amy e Molly, avevano raccontato molto più della solidarietà femminile in Booksmart, celebrandola in tutte le sue sfaccettature. Le donne di Don’t Worry Darling, invece, dovrebbero preoccuparsi eccome non solo del progetto Victory, ma anche della sceneggiatura in cui sono state inserite.

Amanda: recensione del film con Benedetta Porcaroli e Michele Bravi

Carolina Cavalli esordisce alla regia con Amanda. Il film, presentato nella sezione Orizzonti Extra della 79ª Mostra internazionale di Venezia, abbraccia e racconta le stranezze della gioventù attraverso una serie di personaggi eccentrici e disturbati. Accanto  a Benedetta Porcaroli (Baby, La scuola cattolica, L’ombra del giorno), che veste i panni della protagonista, nel cast di Amanda troviamo Michele Bravi, Galatea Bellugi, Monica NappoMargherita Maccapani Misson e Giovanna Mezzogiorno. Il film uscirà nelle sale il 13 ottobre 2022.

La trama di AmandaBenedetta Porcaroli Amanda recensione film

Amanda (Benedetta Porcaroli) ha ventiquattro anni ed è un’irrequieta perdigiorno. È da sempre accompagnata da un senso di malessere: sogna di avere un’amica e non ne ha mai posseduta una. I vari traslochi e l’anaffettività dei membri della sua famiglia – ricca e glaciale – non hanno di sicuro aiutato.

Amanda soffre di una forte solitudine. Tuttavia, non appena scopre che da piccolissima passava molto tempo con Rebecca (Galatea Bellugi), figlia di un’amica della madre, si pone un unico scopo: convincere Rebecca a diventare la sua migliore amica. La missione non è semplice, dato che Rebecca passa le sue giornate chiusa nella sua camera da letto…

Amanda è un elogio della stranezza

La regista e sceneggiatrice di Amanda sceglie di fare un film che ruota tutto attorno alle stranezze. Dalle due bambine iniziali che si comportano come adulte snob a bordo piscina, fino ai costumi e alle ambientazioni, tutto appare variopinto e fuori dall’ordinario. Amanda Benedetta PorcaroliPer prima cosa, sono i personaggi ad essere eccentrici. La protagonista è un soggetto stravagante: si comporta come una ragazzina capricciosa e viziata, fa ciò che vuole ma allo stesso tempo rifiuta e critica la famiglia borghese che la sostiene.

Personaggi insoliti

Non sono meno strani di Amanda i suoi famigliari, dal padre fantasma e praticamente afono alla nipote di sette anni che dichiara di amare ”Dio come persona”. E la potenziale amica Rebecca non può che essere una ragazza che soffre di agorafobia. In tutto il film non c’è un personaggio banale o ordinario.

Guardando Amanda, sembra di entrare nella casa di cura de La pazza gioia (Paolo Virzì): nel film c’è così tanta follia da gestire che, per praticità, viene normalizzata. Per questo motivo, il lungometraggio risulta drammatico e divertente allo stesso tempo: le battute arrivano caotiche e inattese, la azioni della protagonista e dei suoi aiutanti sono imprevedibili. Il nonsense domina ogni aspetto del film ma, invece di sminuire la storia, diventa sostanza stessa delle immagini.

Un mondo a colori, ma desaturato

Le tinte di Amanda sono allo stesso tempo variopinte e desaturate: la villa in cui vive la protagonista, come anche quella di Rebecca, i sobborghi, gli abiti dei personaggi, tutto è ricco di sfumature. Da un lato, guardando il lungometraggio sembra di essere dentro uno spot pubblicitario di Gucci, dall’altro c’è una velatura grigia che ricorda le atmosfere di Dogtooth (Yorgos Lanthimos). L’estetica del film rispecchia in tutto e per tutto l’interiorità della protagonista e dei personaggi principali. In Amanda infatti, si parla di anime colorite e esuberanti, ma velate di tristezza e, in ogni caso, outsider.

L’esordio di Michele Bravi come attore

Amanda Michele Bravi

Amanda, nei suoi pellegrinaggi notturni tra cantieri occupati e feste abusive, conosce un ragazzo solitario tanto quanto lei. L’attore che si nasconde dietro alla figura affascinante e gotica è Michele Bravi, giovane cantante italiano che esordisce come attore proprio con questo film. La performance di Bravi è stata messa molto in evidenza nella promozione di Amanda. Forse però, più che a livello di interpretazione, l’interiorità del cantante è in linea con la storia del film. Michele Bravi è un musicista che, nelle sue canzoni e nei suoi spettacoli, parla di dolore, psicoterapia e rinascita per celebrare la diversità e l’accettazione di sé.

Sempre a livello attoriale, Benedetta Porcaroli, l’interprete della protagonista, è abile nei panni della ragazza folle e infantile. La mimica, i movimenti del corpo e il tono delle battute sono realistici e coinvolgenti. Grazie alla sua performance, Porcaroli sa esprimere il senso totale del film e personifica molto bene l’oscillazione di stati d’animo che Carolina Cavalli vuole raccontare.

Venezia 79, le foto dal red carpet: Harry Styles, Florence Pugh, Olivia Wilde, Chris Pine e Gemma Chan

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Fuori concorso è stato presentato stasera Don’t worry darling, con protagonisti Florence Pugh, Olivia Wilde, Chris PineGemma Chan, Nick Kroll, Harry Styles. Ecco tutte le foto dei protagonisti sul red della 79esima Mostra D’Arte Cinematografica di Venezia. 

Il commento di Olivia Wilde

Questo film è la mia lettera d’amore a quel cinema che supera i confini della nostra immaginazione. È ambizioso, ma penso che abbiamo realizzato qualcosa di molto speciale. Immaginate una vita in cui avete tutto quello che desiderate. Non soltanto le cose materiali o tangibili come una bella casa, auto meravigliose, cibo delizioso e feste a non finire, ma anche le cose veramente importanti: l’amore vero con il partner perfetto, gli amici migliori e una vita con uno scopo significativo. Che cosa vi farebbe rinunciare a tutto questo? Cosa sacrifichereste per fare la cosa giusta? Sareste disposti a smantellare il sistema che è stato progettato al vostro servizio? Questo è il mondo, e la domanda, di Don’t worry darling.

La trama di Don’t worry darling

Alice e Jack vivono nella comunità idealizzata di Victory, la città aziendale sperimentale che ospita gli uomini che lavorano al progetto top-secret Victory e le loro famiglie. L’ottimismo della società degli anni Cinquanta, propugnato dall’amministratore delegato Frank – in egual misura visionario aziendale e life coach motivazionale – caratterizza ogni aspetto della vita quotidiana nell’affiatata utopia del deserto. Mentre i mariti trascorrono ogni giorno all’interno del quartier generale del Victory Project, lavorando allo “sviluppo di materiali avanzati”, le loro mogli – tra cui l’elegante compagna di Frank, Shelley – possono trascorrere il loro tempo godendosi la bellezza, il lusso e la dissolutezza della loro comunità. La vita è perfetta, con tutti i bisogni dei residenti soddisfatti dall’azienda. Tutto ciò che chiedono in cambio è discrezione e impegno indiscusso per la causa di Victory. Ma quando iniziano ad apparire delle crepe nella loro vita idilliaca, mostrando sprazzi di qualcosa di molto più sinistro che si nasconde sotto la facciata attraente, Alice non può fare a meno di chiedersi esattamente cosa stiano facendo a Victory, e perché. Quanto è disposta a perdere Alice per svelare ciò che sta realmente accadendo in questo paradiso?

Carnage: trama, cast e curiosità sul film di Roman Polanski

Carnage: trama, cast e curiosità sul film di Roman Polanski

Autore negli ultimi anni di sofisticati thriller il cui obiettivo primario è quello di esplorare l’animo umano, il premio Oscar Roman Polanski ha nel 2011 firmato la regia di Carnage (qui la recensione), ancora oggi considerato uno dei migliori film ambientati interamente in un unico ambiente. Impostato come una commedia nera, quest’opera assume sempre più connotati inaspettati portando ben presto gli spettatori a trovarsi di fronte a qualcosa di umanamente spaventoso, dove tutti gli istinti primordiali e gli aspetti taciuti vengono infine svelati, tra contraddizioni, ipocrisie, manie e una lunga altra serie di vizi che caratterizzano l’essere umano.

Scritto dallo stesso Polanski insieme a Yasmina Reza, il film è basato sull’opera teatrale scritta proprio da quest’ultima, intitolata Il dio del massacro (in originale Le Dieu du Carnage). Acclamata, premiata e messa in scena in più Paesi, questa ha infine attirato l’attenzione di Polanski, il quale vi ha ritrovato temi affini a quelli da lui trattati nel suo cinema più recente. Presentato poi in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il film Carnage ha poi ottenuto a sua volta ampi consensi, merito in particolare di dialoghi taglienti, un quartetto di grandissimi attori e una regia che porta lo spettatore ad essere sempre vigile su quanto accade.

I film le cui storie si svolgono in un unico ambiente sono infatti particolarmente delicati, un elemento fuori posto può far perdere l’equilibrio che regge il tutto, ma Carnage riesce egregiamente in questo compito. Prima di intraprendere una visione del film, però, sarà certamente utile approfondire alcune delle principali curiosità relative a questo. Proseguendo qui nella lettura sarà infatti possibile ritrovare ulteriori dettagli relativi alla trama e al cast di attori. Infine, si elencheranno anche le principali piattaforme streaming contenenti il film nel proprio catalogo.

Carnage: la trama del film

La vicenda ha inizio in un parco di Brooklyn, dove due bambini litigano violentemente e uno dei due ferisce l’altro al volto, colpendolo con un bastone. È a quel punto che entrano in gioco le famiglie dei due, che decidono di incontrarsi per discutere dell’accaduto. I coniugi Alan e Nancy Cowan vengono così ospitati nell’appartamento di Penelope e Michael Longstreet, genitori del bambino vittima dell’aggressione. Le coppie si presentano da subito diametralmente opposte e non è semplice intavolare una discussione proficua. Ben presto, la contesa si sposterà dalle accuse reciproche sull’educazione dei figli a questioni personali. Complice l’alcol, i quattro si troveranno ad affrontare i più disparati argomenti in un febbricitante e caotico carosello che li metterà tutti contro tutti.

Carnage: il cast del film

Come anticipato, uno degli elementi di maggior forza del film è il suo cast di attori, i quali sono grossomodo solo quattro per tutto il film. Ad interpretare i coniugi Alan e Nancy Cowan vi sono gli attori premio Oscar Christopher Waltz e Kate Winslet. Waltz, in particolare, ha per questo ruolo lavorato molto sul suo accento, cercando di risultare un credibile americano. Penelope e Michael Longstreet sono invece interpretati dalla premio Oscar Jodie Foster e dal candidato all’Oscar John C. Reilly. Sono poi brevemente presenti anche i figli delle due coppie, con Elvis Polanski nel ruolo di Zachary Cowan e Eliot Berger in quello di Ethan Longstreet. Fa un cameo anche lo stesso Polanski, il quale compare come vicino dei casa dei Longstreet.

Carnage spiegazione

Carnage: il significato del film

All’interno del film si scontrano dunque due coppie di adulti borghesi, ognuno con una propria carriera professionale tale da conferirgli un certo grado di autorità. Eppure, come anticipato, più il racconto viene portato avanti e più emergono una serie di contraddizioni e vizi apparentemente innate nell’animo umano. Polanski nel corso del film concede allo spettatore numerosi segnali delle derive che si manifesteranno ben presto, inquadrando i suoi personaggi in modo stretto, claustrofobico, abbandonando dunque una dimensione teatrale che sarebbe potuta essere fin troppo ovvia. Ciò che è importante è infatti qui mostrare come la facciata di perbenismo dei personaggi venga progressivamete abbandonata.

In loro il regista fa confluire tutte le caratteristiche delle società per bene e civili, le quali nascondono i propri difetti senza però mai risolverli davvero. I quattro personaggi si svelano dunque come personalità consumate da quel Dio del Massacro che dà il titolo all’opera teatrale. Un Dio malvagio che si manifesta nell’egoismo, nell’individualismo e nel desiderio di supremazia nei confronti degli altri. Si tratta dunque di una deriva umana a cui tutti, in modo più o meno evidente, sembrano destinati, svelando dunque un punto di vista particolarmente cinico del regista. Unico elemento di speranza sono proprio i bambini, con i due figli delle due coppie capaci infine di riappacificarsi come i loro genitori non sono riusciti a fare.

Carnage: il trailer e dove vedere il film in streaming e in TV

È possibile fruire di Carnage grazie alla sua presenza su alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi di Chili Cinema, Infinity, Now e Amazon Prime Video. Per vederlo, una volta scelta la piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il singolo film o sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così modo di guardarlo in totale comodità e al meglio della qualità video. Il film è inoltre presente nel palinsesto televisivo di lunedì 5 settembre alle ore 00:50 sul canale Rete 4.

Fonte: IMDb

Passione ribelle: trama, cast e curiosità sul film con Matt Damon

Ci sono scrittori di narrativa che hanno conosciuto ulteriore popolarità grazie al cinema e tra questi vi è indubbiamente Cormac McCarthy. Film come Non è un paese per vecchi e The Road, entrambi tratti da suoi acclamati romanzi, si sono infatti affermati come titoli di particolare rilievo, in special modo per la qualità del racconto offerto. Ancor prima di questi, però, ad arrivare sul grande schermo nel 2000 è stato Passione ribelle, tratto dal suo libro Cavalli selvaggi. A dirigere il film vi è il premio Oscar Billy Bob Thornton, qui alla sua seconda regia dopo Lama tagliente, grazie a cui aveva vinto la prestigiosa statuetta.

Il libro a cui il film si ispira è stato pubblicato nel 1992 e rappresenta il primo capitolo della cosiddetta Trilogia della frontiera, composta anche da Oltre il confine e Città della pianura. Questi tre volumi si incentrano sulle vicende formative di due giovani cowboy lungo il confine tra Texas e Messico. I due successivi romanzi non sono però mai stati adattati per il grande schermo, principalmente a causa dello scarso entusiasmo verso Passione ribelle. Il film, che aveva originariamente una durata di circa tre ore, è stato pesantemente fatto modificare dal produttore Harvey Weinstein, finendo con lo snaturarne il racconto.

La versione originale esiste ancora, ma per problemi di diritto d’autore non è mai stata rilasciata. Ai fan del western, dunque, non rimane che riscoprire questo film anche nei suoi difetti, potendovi ritrovare però anche diversi elementi di fascino. Prima di intraprendere una visione del film, però, sarà certamente utile approfondire alcune delle principali curiosità relative a questo. Proseguendo qui nella lettura sarà infatti possibile ritrovare ulteriori dettagli relativi alla trama e al cast di attori. Infine, si elencheranno anche le principali piattaforme streaming contenenti il film nel proprio catalogo.

Passione ribelle: la trama del film

La vicenda si svolge nel 1949, un periodo in cui il mito del selvaggio west è ormai al tramonto. Protagonista del film è John Grady Cole, un giovane cowboy del Texas che parte all’avventura verso il Messico assieme all’amico Lacey Rawlins. I due percorrono il confine che divide lo Stato americano dal Messico, incontrando lungo il tragitto numerosi personaggi bizzarri, caratteristici dei luoghi visitati. Il loro vagabondare li porta infine presso il ranch dell’aristocratico Don Hector de la Rocha y Villarreal. L’uomo acconsente ad assumere i due, che iniziano così a lavorare per lui. A cambiare ogni cosa, in particolare per John, vi è però l’incontro con la bella Alejandra.

Questa è la figlia di Don Hector, a cui l’uomo è particolarmente legato e che tenta di proteggere da ogni fattore esterno. Più i due giovani si conoscono, più la passione l’uno per l’altro si fa forte. La zia di lei tenterà di metterla in guardia, ma nulla potrà fermare il loro amore. Quando questo verrà scoperto, Don Hector non esiterà ad eliminare il problema facendo arrestare John e Lacey con l’accusa di omicidio. I due giovani cowboy si trovano così costretti a dover sopravvivere in quell’ambiente a loro estraneo e particolarmente difficile. Il desiderio di rivedere Alejandra, però, sarà più forte di ogni cosa e John non avrà pace finché non l’avrà soddisfatto.

Passione ribelle cast

Passione ribelle: il cast del film

Il ruolo del protagonista John Grady Cole è interpretato dall’attore Matt Damon, anche se originariamente prima di lui il ruolo era stato offerto a Leonardo DiCaprio e Brad Pitt. Damon, dichiaratosi particolarmente affascinato dal racconto, dall’ambientazione e dai sentimenti presenti, partecipò con grande entusiasmo al film. In seguito ai pesanti tagli imposti, egli criticò apertamente le scelte dei produttori, affermando di non riconoscere più il film per cui aveva nutrito tanta passione. Accanto a lui, nel ruolo dell’amico Lacey Rawlins, vi è invece l’attore Henry Thomas, conosciuto per essere stato Elliott in E.T. – L’extraterrestre.

Lucas Black, invece, compare nei panni di Jimmy Blevins, un ragazzo incontrato dai due cowboy e che si rivelerà decisivo nel loro percorso. Ad ottenere il ruolo della bella Alejandra, protagonista femminile del film, è stata la premio Oscar Penelope Cruz, all’epoca già particolarmente popolare. Per il ruolo era però stata considerata anche Natalie Portman, che rifiutò, e Jordana Brewster, che non ottenne però la parte. L’attore e musicista Ruben Blades interpreta invece il padre di lei, Don Hector, mentre Miriam Colon è la zia Doña Alfonsa. Nel film si ritrova anche il noto Sam Shepard nel ruolo di J. C. Franklin e Robert Patrick in quelli di Cole, il padre di John Grady.

Passione ribelle: il trailer e dove vedere il film in streaming e in TV

È possibile vedere o rivedere il film grazie alla sua presenza su alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in rete. Passione ribelle è infatti disponibile nel catalogo di Rakuten TV, Chili, Google Play e Apple iTunes. Per vederlo, in base alla piattaforma scelta, basterà iscriversi o noleggiare il singolo film. Si avrà così modo di poter fruire di questo per una comoda visione casalinga. È bene notare che in caso di solo noleggio, il titolo sarà a disposizione per un determinato limite temporale, entro cui bisognerà effettuare la visione. Il film sarà inoltre trasmesso in televisione il giorno lunedì 5 settembre alle ore 21:10 sul canale Rai Movie.

Fonte: IMDb

Kill Bill vol 1 e vol 2 (dittico), i film cult di Quentin Tarantino

Kill Bill – volume I e II sono i film cult del 2003 e 2004 di Quentin Tarantinon con Uma Thurman, David Carradine, Daryl Hannah, Michael Madsen, Vivica A. Fox, Lucy Liu e Samuel L. Jackson.

 

Il film si apre con la seguente didascalia: “La vendetta è un piatto che va servito freddo”. Una sposa gravida (Uma Thurman) è distesa a terra gravemente ferita in una Chiesa il giorno del suo matrimonio. Prima di essere sparata alla testa dice al suo aguzzino, un certo Bill (David Carradine), che quello che porta in grembo è il suo bambino. Così lui la risparmia.

Qualche tempo dopo, la donna trova una certa Vernita Green (Vivica A. Fox) nella sua abitazione e comincia un sanguinoso combattimento tra le due, che viene sospeso quando la figlia di quest’ultima torna da scuola. Emergerà dal loro dialogo che entrambe le donne sono ex membri della Deadly Viper Assassination Squad, squadra di assassini d’elite sotto la guida di Bill. Fu proprio questa squadra, dietro comando di Bill ad attaccarla durante il suo matrimonio.

La donna riesce ad uccidere Vernita, depennandola da una lista. Un gesto che fa il paio con la didascalia iniziale, che ci fanno capire che la donna vuole uccidere tutta la banda.

Da qui inizia una lunga serie di feroci e coinvolgenti combattimenti, intervallati da lunghi flashback che fanno sempre più chiarezza sulla storia. Una storia molto lunga, tanto da essere divisa in due parti da 110 minuti ciascuna, uscite al cinema nel 2003 e nel 2004. Non solo, per il 2014 è prevista anche una terza parte, con la sposa pronta di nuovo a dare battaglia a dieci anni dalla morte di Bill.

Kill Bill vol 1 e vol 2

Questa volta Quentin Tarantino l’ha fatta proprio grossa. Certo, nella sua carriera ci ha regalato film complessi, violenti all’ennesima potenza, deliranti, avvincenti, rimpinzati di citazioni cinematografiche dall’alto del suo amore, tra gli altri, per il cinema di Sergio Leone. Nella sua carriera, Tarantino ha sfiorato spesso il capolavoro, raggiungendolo forse con l’ultimo suo lungometraggio: Bastardi senza gloria, rivisitazione geniale sulla fine del Nazismo.

Kill Bill pure rischia di essere annoverato tra i capolavori sfiorati di Quentin, forse per l’eccessiva lunghezza della storia, non essendo sufficiente lo spezzettamento del film in due parti. La prima parte infatti da sola non è autosufficiente, portando lo spettatore a dover per forza di cose seguire anche la seconda parte. Quest’ultima pecca di sequenze dilatate, eccessive focalizzazioni. Il ritmo generale del film in questa seconda parte è molto più lento della prima. Ed ecco dunque che, se quest’ultima può essere considerata un capolavoro, la seconda tende a sfiatarsi, facendo perdere al film “una stella” nelle valutazioni.

Kill Bill vol 1E’ giusto però dire quali sono gli elementi che rendono Kill Bill un potenziale capolavoro. Tarantino dirige un cast di prim’ordine, dando a tutti i personaggi un giusto spazio nella storia. Nel cast figurano, oltre a Uma Thurman, anche David Carradine, Daryl Hannah, il fido Michael Madsen, Vivica A. Fox, Lucy Liu e Samuel L. Jackson.

Perfetta anche la parte tecnica della regia. Non un’inquadratura fuori posto, non un movimento di camera infelice. Kill Bill formalmente si avvicina alla perfezione. Gli anni hanno permesso di affinare una già ottima tecnica.

La brillantezza di Tarantino è palesemente dimostrata anche dall’attenzione che il regista-spettatore mostra verso le tendenze cinematografiche che hanno dimostrato maggiore dinamismo negli ultimi anni, in primis l’animazione. Vero e proprio film nel film, i venti minuti firmati I.G. Production, che raccontano la tragica infanzia di una delle future vittime della bionda protagonista, nella fattispecie la strabica Lucy Liu, killer della Yakuza, rappresentano una rara gemma di intensità emotiva e spessore drammaturgico. Le sequenze animate della casa nipponica, oltre ad essere un felicissimo esempio di contaminazione meta-cinematografica, dimostrano inequivocabilmente la maturità raggiunta da un mezzo espressivo, troppo spesso bistrattato dal cinema “tradizionale”.

Superlativa anche a colonna sonora, che spazia da brani dance anni ‘70 a motivi tradizionali giapponesi, per finire in morbide ballate blues. Il giro del mondo in una ventina di pezzi che vanno a comporre un quadro fecondo come quello che accompagnò Pulp Fiction dieci anni fa.

Insomma, dopo i precedenti Four Rooms e Jackie Brown, che hanno fatto temere ai più un adagiamento e appagamento creativo di Tarantino sui successi dei primi due film (Le Iene e Pulp Fiction), con Kill Bill Tarantino sfoggia tutta la propria creatività e il proprio estro in cabina di regia superando anche sé stesso.

I figli degli altri, recensione del film di Rebecca Zlotowski

I figli degli altri, recensione del film di Rebecca Zlotowski

Lei non ha figli, lui ha una bambina. E si innamoreranno: il nuovo film della regista francese Rebecca Zlotowski si intitola I Figli degli altri e si propone di indagare il ruolo della donna/madre da una prospettiva inedita: quella dei legami con figli che non sono nostri e le conseguenze della gestione di un rapporto del genere qualora dovesse essere reciso. Presentato in concorso a Venezia 79, il quinto film di Zlotowski vede gli attori Virginie Efira e Roschdy Zem interpretare la coppia protagonista e Callie Ferreira-Gonçalves nei panni della piccola Leila.

I Figli degli altri: la matrigna non è più cattiva

Rachel è una donna di quarant’anni, senza figli. Ama la sua vita: gli studenti del liceo in cui insegna, gli amici, il suo ex, le lezioni di chitarra. Quando si innamora di Ali, stringe un legame profondo anche con Leila, la figlia di quattro anni dell’uomo. Le rimbocca le coperte prima di dormire, se ne prende cura, le vuole bene come se fosse sua. Ma amare i figli degli altri è un grosso rischio.

Questa nuova esplorazione della figura femminile a cui si dedica Zlotowski nasce da una profonda esperienza personale e dal desiderio di regalare su schermo una narrazione protagonista a un personaggio da secoli rimasto al margine: la matrigna. Non sono pochi gli inciampi in corso d’opera, il pathos e la faciloneria arrivano spesso a compensare la pregnanza di un racconto per altri versi credibile e, in un certo senso, apripista.

Ciò che rimane e che va al di là di ogni limite tecnico che il film, purtroppo, dimostra, è che Rebecca Zlotowski ha voluto realizzare un film su una generazione di donne – anche per quelle che verranno – per cui la maternità è stata a lungo un’ingiunzione. Non ci sono verità assolute in questo film, ma emerge una forte ideologia, il desiderio di gridare che l’essere donna può comprendere la maternità, ma che l’esperienza di questa può essere fatta anche tramite la cura e l’ascolto che offriamo a chi ci sta intorno, che diventa famiglia senza nessuna forzatura di sorta. La sceneggiatura cerca di unire elementi della quotidianità – nostra e dei protagonisti – ad emozioni che potremmo provare, ed è nell’identificarsi come un totale “what if” che I Figli degli altri trova un’interezza narrativa, che potrebbe toccare l’emotività di molti spettatori.

I Figli degli altri film 2022
Photo © Julian Torres

Un film imperfetto, ma dal cuore percepibile

La storia d’amore ne I Figli degli altri non è solo una: è l’unione di due relazioni intrecciate a cementare il film più emotivo ed espressivo di Zlotowski. Se l’amore tra Rachel e Ali è nato da un’ardente passione, quello tra Rachel e Leila sedimenta nella tenerezza più pura: le due si avvicinano e si distaccano, ma la necessità fisica tende a riavvicinarle mentre navigano in una relazione priva dei solidi punti di riferimento della genitorialità tradizionale. Leila interroga ripetutamente il padre sulla presenza costante di Rachel, e la manciata di parole pronunciate dolcemente dalla bambina feriscono l’insegnante come se fossero schiaffi. Anche Rachel fa domande. Senza risposta, rimangono nell’aria tra i due coniugi, trasformandosi gradualmente in un ostacolo sempre più grande che fa crollare ciò che un tempo sembrava così solido.

Efira offre un’interpretazione al contempo tenue ma potente, che oscilla tra il dolore trattenuto e l’affetto più gentile. Nei panni di Rachel, i suoi occhi seguono Leila nelle stanze in cui non è invitata, con sguardi sottili che traducono l’enorme sentimento che anima questa forma contorta di solitudine. La maternità, un desiderio che non può soddisfare, si realizza attraverso l’istintiva attenzione verso gli altri, che si tratti di uno studente o della sorella minore, piccoli atti di cura che si trovano in una carezza sulla spalla o nello stringersi le mani. Anche in mezzo a un dolore impensabile, Rachel è ritratta da Efira come assolutamente empatica – caratteristica che in alcuni tratti diventa forse stucchevole – ma riesce a trasmettere la maturità emotiva che deriva dal prendere atto che alcune domande sono destinate a rimanere senza risposta.

Le ottime interpretazione de I Figli degli altri sono sfortunatamente accompagnate un tono troppo flessibile, che segue sì la prospettiva di Rachel, nostra luminare in toto, protagonista, narratrice onnisciente e donna, ma che si perde tra la comicità più sfrenata quando non sarebbe richiesta e il doloroso racconto di verità nascoste, drammatizzato fin troppo nella proposta di plurime storyline, tra cui quella della madre biologica di Leila. Tante esperienze di vita estremamente interessanti, ma forse troppe da approfondire per un solo film. L’indugiare nel passato non fa troppo bene a relazioni che devono vivere nel presente narrativo, quello delle scelte, dell’accettazione e, soprattutto, dell’educazione amichevole. Se l’anno scorso in concorso a Venezia abbiamo sperimentato l’idea brutale di maternità che Olivia Coleman aveva in The Lost Daughter di Maggie Gyllenhall, Rebecca Zlotowski si concentra sulla parte più romantica – ma non per forza meno dolorosa – di una maternità nuova, accogliente nelle sue mille sfaccettature. Un racconto non perfetto, ma di cui si apprezza sicuramente il cuore.

Monica, recensione del film di Andrea Pallaoro

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Monica, recensione del film di Andrea Pallaoro

Dopo il 2017, Andrea Pallaoro torna in Concorso a Venezia 79 con Monica, un racconto molto intimo di una donna trans che fa i conti con la sua vita passata.

La protagonista torna a casa per la prima volta dopo una lunga assenza. Ritrovando sua madre e il resto della sua famiglia, da cui si era allontanata da adolescente, intraprende un percorso nel suo dolore e nelle sue paure, nei suoi bisogni e nei suoi desideri fino a scoprire dentro di sé la forza per guarire le ferite del proprio passato. Il ritratto intimo di una donna che esplora i temi universali dell’abbandono e dell’accettazione, del riscatto e del perdono.

Già con Hannah, Andrea Pallaoro aveva raccontato la storia di una donna che provava a scendere a patti con una nuova realtà, in questa nuova intima storia, il regista segue la protagonista, interpretata da una splendida Trace Lysette, mentre cerca di riconnettersi con quello che è stata in una vita precedente. Letteralmente. Dopo tanti anni lontana da casa, la donna torna indietro per assistere la madre malata e qui si scontra con ciò che era, una creatura a disagio nel suo corpo. 

Monica, la riappropriazione del passato

Il racconto della transessualità in Monica è originale e delicato, preso da un punto di vista insolito. Al regista non interessa tanto il processo di transizione del corpo della protagonista, quanto la trasformazione della percezione di sé nello specchio degli altri, e non altri qualsiasi, ma la sua famiglia dei sangue: suo fratello e sua madre.

Il percorso di Monica è doloroso, è sofferto, ma è anche molto consapevole. Forte della sua identità conquistata con fatica, la donna si espone al giudizio e al rifiuto, trovando dall’altra parte invece curiosità e, dopo, accoglienza. 

Pallaoro accompagna questo processo con discrezione, osservando da vicinissimo la sua protagonista, senza invaderne mai gli spazi ma rimanendole sempre accanto, come un amico o un confidente, qualcuno che è dalla sua parte, sempre. L’occhio della macchina da presa vuole bene a Monica e la accarezza e la incoraggia ogni volta che può.

Misurata e naturale l’interpretazione di Lysette, che ha incantato il Lido e che, al momento, sembra la favorita per la Coppa Volpi, premio che, nel caso, sarebbe epocale nella storia della Mostra. Che dopotutto quest’anno è più Queer che mai, con le sue storie e i suoi film. Ed era anche ora.

Al di là di questo aspetto preciso, però, Monica è anche una storia di ritorno e di accoglienza, di identità rispetto a ciò che gli altri vedono e sentono rispetto al nostro io. Un viaggio nella percezione di sé attraverso gli occhi di chi dovrebbe amarci incondizionatamente. 

Un Couple, recensione del film di Frederick Wiseman

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Un Couple, recensione del film di Frederick Wiseman

Sembra strano immaginare che, dopo 60 anni, Frederick Wiseman sia tornato a fare un film di fiction, lui che con il suo sguardo sul mondo, lo ha raccontato per molti aspetti meglio di tutti, attraverso i suoi documentari-fiume, eppure, Un Couple, in Concorso a Venezia 79 si annuncia proprio come il grande ritorno del regista a una storia di finzione.

Non è esatto, però, dal momento che il film è in definitiva un soliloquio di Sofia Tolstoj che legge le sue lettere e i suoi diari scritti al marito, nel corso di un matrimonio turbolento, d’uranio 36 anni, con 13 figli di cui solo 9 sopravvissuti, e numerosi litigi e riconciliazioni. Immersa nel giardino La Boulaye, sull’isola di Belle Île, la donna legge/recita le parole che i due si scrivevano pur stando nella stessa casa. Un dialogo continuo, il resoconto di una storia passionale che spesso portava i coniugi allo scontro ma che altrettanto spesso li vedeva riconciliarsi e continuare quel cammino condiviso.

Un Couple, il racconto di una storia d’amore turbolenta

Il lavoro di Wiseman in Un Couple è certosino e monumentale. Lo spirito è sempre quello documentaristico e, quasi, naturalistico, data l’importanza che la natura e la sua vitalità occupa negli appena 64 minuti di film, ma è il lavoro sul testo che lascia sorpresi. L’incredibile mole della corrispondenza domestica dei coniugi Tolstoj è stata ridotta a un monologo coeso e narrativo, che sviluppa una storia d’amore con un inizio e una fine e una serie di montagne russe nel mezzo. Tutto semplicemente attraverso il racconto e la riduzione dei testi di partenza.

Questa formula offre un risultato abbastanza monotono, eppure interessante, soprattutto se mostrato nell’ambito di una Mostra del Cinema, che, mai come quest’anno, sembra giocare sul sicuro con tutta la selezione e che con questo film, invece torna a essere esposizione di linguaggi differenti e non sempre omologati con ciò a cui è abituato lo spettatore medio. 

Anche di fronte alla piatta frontali del quadro, Frederick Wiseman si mostra in tutto il suo genio, mettendo in luce il suo talento di narratore al di fuori degli schemi classici del linguaggio del cinema narrativo.

Martin McDonagh su Gli Spiriti dell’Isola: “Volevo lavorare di nuovo con Brendan Gleeson e Colin Farrell”

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Trai film più attesi del Concorso di Venezia 79 c’è sicuramente The Banshees of Inisherin, che uscirà in Italia con il titolo: Gli Spiriti dell’Isola. Scritto e diretto da Martin McDonagh, che torna al Lido dopo cinque anni, il film vede il regista e sceneggiatore lavorare di nuovo con Brendan Gleeson e Colin Farrell, che aveva già diretto nel 2008 in In Bruges – La coscienza dell’assassino.

E McDonagh non ci gira molto intorno, dichiarando che il principale motivo che lo ha spinto a fare questo film è stato che “volevo di nuovo questi due ragazzi insieme, visto quanto ci eravamo divertiti in In Bruges. Da sempre volevamo fare di nuovo qualcosa insieme. Colin e Brendan sono stati il seme dell’idea.” E sulla location, invece, l’isola di Inisherin, McDonagh ha detto: “Lavorare in quel posto è stato maestoso, da bimbo ci andavo sempre, è il posto dove è cresciuto mio padre.”

Sembra davvero che il sentimento sia condiviso, dal momento che sia Gleeson che Farrell hanno espresso parole di stima e affetto reciproci. “Ho sempre sperato di lavorare di nuovo con loro. Con quel film abbiamo avuto un periodo così felice che speravamo di rifarlo insieme.” ha detto Gleeson. Mentre Farrell, che ha collaborato con McDonagh più spesso, ha dichiarato: “Non riesco a immaginare di riuscire a essere capace di trasmettere qualcosa che scrive Martin perché è uno scrittore così straordinario e sono sempre così profondamente commosso emotivamente e psicologicamente dai mondi che crea e dai personaggi che disegna”, e ha poi aggiunto sulla sua co-star: “Mi mancava Brendan, erano 14 anni che non ci lavoravo e tornare a viverlo sul set è stato bello, come se non ci fossimo mai lasciati.”

Il film si distingue, oltre che per l’ottimo script, da sempre garanzia di Martin McDonagh, anche per una grande sinergia trai due attori protagonisti, che mettono in scena un’amicizia maschile davvero insolita. Gleeson, in particolare, commenta: “Sono felice di vedere l’amicizia maschile come qualcosa di prezioso nel momento in cui il riadattamento delle relazioni di tutti con tutti è in fase di riconsiderazione. Il valore dell’amicizia maschile rispetto a un bromance per me è molto profondo e pertinente in questo momento.”

Ma anche la conversazione e la comunicazione tra le persone è un punto cardine della storia di Gli Spiriti dell’Isola, tanto che Colin Farrell spiega: “Conversazione, condivisione di pensieri e sentimenti reciproci. È un mondo così veloce che è facile affrettare i giudizi sull’altro, siamo così veloci ora a giudicare che è facilissimo cancellare le relazioni, anche con la cancel culture e tutte queste cose. Ma riuscire a parlare davvero, conversare e scambiare idee in un modo che sia tanto aperto al cambiamento della tua opinione quanto all’essere condiviso è una cosa meravigliosa. Non credo che è un modo di fare che morirà mai anche se è stato un po’ soppiantato dalla tecnologia.”

Gli Spiriti dell’Isola sarà distribuito da Disney nelle nostre sale a partire dal 2 febbraio 2023.

Venezia 79, foto dal red carpet: Colin Farrell, Brendan Gleeson, Phoebe Waller-Bridge e…

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Ecco tutte le foto del primo red carpet di oggi per l’atteso nuovo film Martin McDonagh,  Gli Spiriti dell’Isola(The Banshees of Inisherin).  Sul tappeto rosso della 79esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Brendan Gleeson, Colin Farrell, Kerry Condon, e a sorpresa Phoebe Waller-Bridge. Di seguito tutti gli scatti: 

In  Gli Spiriti dell’Isola(The Banshees of Inisherin) Ambientato su una remota isola al largo della costa occidentale dell’Irlanda, The Banshees of Inisherin segue le vicende di due amici di vecchia data, Padraic e Colm, che si ritrovano in un’impasse quando Colm decide bruscamente di porre fine alla loro amicizia. Padraic, sbalordito, non accetta questo rifiuto e tenta di ricucire la relazione, aiutato dalla sorella Siobhan e da Dominic, un giovane isolano tormentato. I ripetuti sforzi di Padraic, tuttavia, non fanno che rafforzare la determinazione dell’ex amico e, quando Colm lancia un disperato ultimatum, gli eventi precipitano rapidamente, con conseguenze scioccanti.

 

Olivia Wilde ed Harry Styles presentano Don’t Worry Darling, fuori concorso a Venezia ’79

La regista Olivia Wilde ha presentato assieme al cast composto da Harry Styles, Florence Pugh (assente dalla conferenza stampa), Gemma Chan e Chris Pine Don’t Worry Darling, sua seconda incursione dietro la macchina da presa dopo Booksmart – la rivincita delle sfigate e presentato fuori concorso a Venezia 79. Per la prima volta dopo le numerose controversie sorte online e circondanti la produzione del film, il team di Don’t Worry Darling ha affrontato la stampa mondiale che, imperterrita, ha continuato a porre domande sul ritiro di Shia LaBeouf dal progetto e sull’assenza di Florence Pugh dalla conferenza stampa di oggi.

Wilde ha parlato di Florence Pugh e della sua assenza dalla conferenza stampa di Don’t Worry Darling senza aggiungere niente di nuovo rispetto a quanto dichiarato nei giorni scorsi: “Florence è una forza; siamo così grati che riuscirà a venire stasera [alla prima] nonostante stia attualmente girando Dune”. L’attrice e regista si è poi rifiutata di rispondere a chi suggeriva ci fossero ragioni più profonde che potessero giustificare questa assenza. “Per quanto riguarda tutti gli infiniti pettegolezzi e rumori dei tabloid, internet si alimenta da solo. Non sento di dovervi contribuire. È sufficientemente ben nutrito“.

Styles ha riconosciuto a sua volte le forze oscure dei social media. “Ci sono molti lati negativi”, ha detto, “sono piuttosto evidenti per chiunque. Ma è sempre importante ricordare che ci sono anche cose positive che accadono nel mondo grazie ad essi“.

Oltre a spendere parole preziose per i suoi fan, che lo hanno sempre sostenuto negli ormai 10 anni di carriera, Harry Styles ha dovuto rispondere a numerose domande su questa sua propensione alla recitazione: “La musica e la recitazione sono opposte per molti aspetti. Fare musica è una cosa molto personale e ci sono aspetti della recitazione in cui si attinge dall’esperienza, ma per la maggior parte si fa finta di interpretare qualcun altro. È questo che trovo più divertente. Quello che mi piace della recitazione è che mi sembra di non avere idea di quello che sto facendo“.

Il cast ha elogiato soprattutto il lavoro degli scenografi, come ha osservato Harry Styles: “Siamo stati fortunati ad avere quel mondo costruito così bene intorno a noi, in modo da poter giocare e divertirci in questa realtà, non c’era troppa recitazione“.

Chris Pine ha concordato: “La cosa sorprendente è che quel mondo non è poi così diverso da quella che era la realtà qualche decennio fa; per quanto riguarda Harry, non ha dovuto sforzarsi per recitare. Le persone che stavamo interpretando erano persone reali in un mondo che è molto simile al nostro”, ma con uno stile esasperato che “mostra tutte le cose belle che compongono il nostro mondo” e che hanno anche un lato oscuro.

Chris Pine ha poi speso qualche parola in più sul suo personaggio in Don’t Worry Darling, Frank, il “dittatore sexy messianico” di Instagram. “È come se fosse il mio profilo Instagram”, ha risposto. “Tutti i leader usano l’immagine come arma. Non ho basato Frank su nessuno, è essenzialmente un ologramma di sensualità intessuto di un parole bellissime ma subdole“.

Secondo Olivia Wilde Don’t Worry Darling è “purtroppo molto attuale ma è anche un film senza tempo. Non credo che ci sarà mai un momento in cui l’idea di controllare il corpo di qualcuno non sia qualcosa di rilevante contro cui lottare“.

Ha aggiunto: “Eravamo davvero interessati alla natura problematica della nostalgia stessa. Abbiamo iniziato il film nell’era delo slogan “Make America Great Again”, mettendo in discussione il suo significato… Spero che provochi conversazioni e faccia riflettere le persone, mettendo in discussione i differenti sistemi a cui devono sottostare. Voglio che sia divertente e intenzionalmente provocatorio“.

Don’t Worry Darling segue Alice (Pugh) e Jack (Styles) una giovane e appartentemente felicissima coppia che vive nella comunità idealizzata di Victory, una città aziendale sperimentale che ospita gli uomini che lavorano per il progetto top-secret chiamato appunto Victory e le loro famiglie. L’ottimismo della società degli anni Cinquanta, propugnato dall’amministratore delegato Frank (Pine) – in egual misura visionario dell’azienda e life coach motivazionale – sostiene ogni aspetto della vita quotidiana nell’affiatata utopia del deserto.

Mentre i mariti trascorrono ogni giorno all’interno del quartier generale del Victory Project, lavorando allo “sviluppo di materiali avanzati”, le loro mogli – tra cui l’elegante compagna di Frank, Shelley (Chan) – passano il tempo a godersi la bellezza, il lusso e la dissolutezza della loro comunità. La vita è perfetta, con tutti i bisogni dei residenti soddisfatti dall’azienda. Tutto ciò che chiedono in cambio è discrezione e impegno indiscusso per la causa di Victory. La prima del film sarà questa sera, 5 settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia 2022.

Jamie Campbell Bower: “avrei dovuto interpretare Harry Potter ed Edward di Twilight”

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Recentemente tornato alla ribalta per aver interpretato Henry Creel/Uno/Vecna nella quarta stagione di Stranger Things, l’attore Jamie Campbell Bower ha inizialmente ottenuto popolarità interpretando Gellert Grindelwald in Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 1 e Parte 2, e poi dando vita al vampiro Caius nei film New Moon, Breaking Dawn – Parte 1 e Parte 2, facenti parte della saga di Twilight. Bower ha però di recente rivelato che proprio in queste due saghe avrebbe dovuto avere dei ruoli molto diversi da quelli poi effettivamente interpretati.

Intervistato durante il podcast Happy, Sad, Confused, l’attore ha raccontato dell’audizione sostenuta per il ruolo principale della saga cinematografica basata sulle opere di JK Rowling, ovvero quello di Harry Potter stesso. “Incontrai Chris Columbus a Londra per il primo Potter e mi chiese di preparare una battuta. Avevo appena sentito questa barzelletta sul motivo per cui la fata si siede in cima all’albero di Natale. È una battuta davvero sporca, perché parla di un albero di Natale che sta nel sedere di qualcuno. Feci l’errore di raccontare la barzelletta durante l’audizione. Rimasero tutti zitti e io pensai: ‘Beh, questa ce la siamo giocata.”

Diversamente andò invece per Twilight, dove lo si voleva inizialmente per la parte di Edward, poi andata a Robert Pattinson. Quelli di Twilight invece erano molto interessati a farmi leggere per la parte di Edward. – ha raccontato l’attore – All’epoca non riuscii a farlo perché le riprese ebbero luogo più o meno nello stesso periodo in cui stavo facendo Sweeny Todd. Penso che la vita fosse così folle e frenetica che era solo una di quelle cose che non si sono mai realizzate. Poi è arrivato il momento di fare il sequel e mi hanno chiamato dicendomi: ‘Ehi, vuoi venire a interpretare un cattivo?'”. Interpretando Caius, Bower ha da quel momento potuto costruirsi una carriera come un convincente attore di villain.

Fonte: CinemaBlend

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