Con Thor: Love and Thunder in
arrivo su Disney+ l’8 settembre,
una nuova scena eliminata è stata rivelata e protagonisti di questa
sono Thor (Chris
Hemsworth), Jane (Natalie
Portman) e, in modo ancor più decisivo, Zeus (Russel Crowe).
Questa scena presenta una versione alternativa di un momento molto
toccante tra Thor e Jane in ospedale. I due, tuttavia, vengono
interrotti quando si rendono conto che Zeus stesso è in piedi
dietro di loro a mangiare un gelato. In contrasto con lo Zeus che i
fan hanno visto nel montaggio definitivo del film, qui il
personaggio sembra essere commosso dalla vicenda tra Jane e Thor e
si offre di aiutare il Dio del tuo, dicendogli che ha qualcosa di
speciale per lui.
Dal momento che non è stato fornito
alcun contesto aggiuntivo sulla scena eliminata, rimane in dubbio
cosa avesse in serbo esattamente Zeus per Thor. Alcuni hanno
ipotizzato che il dio greco intendesse dare a Thor il suo
leggendario Fulmine, piuttosto che farselo rubare come avviene nel
film. La scena eliminata offre però anche un lato più umano e
comprensivo di Zeus, che nel film appare invece come arrogante e
amareggiato nei confronti degli altri protagonisti. Il dio greco
interpretato da Crowe si è affermato come uno dei personaggi più
apprezzati del film e le rivelazioni offerte da questa scena
tagliata portano a chiedersi se non ci sia altro di lui rimasto
fuori dal film.
Oltre a questa versione alternativa
del personaggio di Zeus, sappiamo però dell’esistenza di materiale
tagliato realitivo dio greco Dioniso interpretato da
Russell Beale, come anche di altri personaggi
significativi quali The Grandmaster di Jeff Goldblum e
l’introduzione di Lena Headey
(Il Trono di
Spade) in un ruolo non specificato. Tuttavia, ad oggi non
è noto se in futuro verranno rilasciate anche altre scene eliminate
da Thor: Love and Thunder.
L’ultimo film ad ora uscito della
saga di James
Bond, No Time To
Die ha concluso l’avventura di Daniel Craig
nei panni dell’amato agente 007. Mentre si cerca di scoprire chi
raccoglierà questa pesante eredità, assumendo i panni del
personaggio ideato dallo scrittore Ian Fleming,
una nota attrice dell’ultimo film ha lasciato aperta la porta ad un
suo possibile ritorno anche nei prossimi lungometraggi della saga.
Si tratta della francese Lea Seydoux, che ha
recitato nei panni di Madeleine Swann nei film
Spectre e, appunto,
No Time To Die. Le dichiarazioni che seguono, rilasciate
dall’attrice, contengono uno spoiler
particolarmente importante sul finale dell’ultimo film. Se non si è
ancora visto questo, è bene evitare di continuare la lettura.
Nel corso di un’intervista con
Deadline, la Seydoux ha fatto notare come il finale di No Time
to Die lasci la porta aperta affinché possa riprendere il suo
personaggio nonostante il suo James Bond si sia ritirato dal
franchise. “Dopotutto, non sono morta”, ha spiegato
l’attrice. “E’ morto James, non Madeleine. Quindi, chissà?
Forse tornerò. È come una fake news, giusto? Ma se siamo seri per
un momento, Madeleine se ne va con sua figlia proprio alla fine
perché James li ha salvati. Ci sarà un nuovo Bond perché quello di
Daniel è morto, ma chi può dire che Madeleine non
tornerà?”.
Ad oggi non ci sono notizie di alcun
genere sul prossimo film della saga, se non ché, come affermato
dalla produttrice Barbara Broccoli, sarà una
completa reinvenzione del personaggio di Bond. Potrebbero dunque volerci anni
prima che qualcosa a riguardo venga confermato, a partire dal nuovo
interprete che assumerà i panni del personaggio. Ciò che sappiamo,
però, è che nel futuro della saga potrebbe ancora esserci posto per
Madeleine, un personaggio molto amato dai fan.
Quando si pensa ai compositori di
colonne sonore per il cinema, il primo nome che viene in mente è
senza ombra di dubbio quello di John Williams.
Autore delle musiche di film del calibro di Lo squalo, E.T. –
L’extraterrestre, Guerre Stellari, Indiana Jones,
Schindler’s List e innumerevoli altri, Williams è anche una
delle personalità più premiate di sempre, basti pensare ai suoi 5
Oscar su 52 candidature. Ancora oggi egli continua ad impreziosire
numerosi lungometraggi con le sue meravigliose musiche e il
prossimo film in cui si potranno ascoltare le sue nuove
composizioni è l’atteso Indiana Jones
5.
Ancora senza un titolo ufficiale, il
film sarà il quinto capitolo nella serie di Indiana Jones.
Harrison Ford
riprenderà nuovamente il ruolo dell’iconico avventuriero, mentre
accanto a lui ci saranno Mads Mikkelsen e
Phobe
Waller-Bridge, con dei ruoli ancora non rivelati.
Anche se atteso in sala per il 2023, il film inizia piano piano a
svelare sempre qualcosa di più su sé stesso. Un nuovo dettaglio a
riguardo l’ha rivelato proprio Williams, il quale nel corso di un
suo concerto al Hollywood Bowl ha eseguito il brano
Helena’s Theme, relativo dunque al
personaggio interpretato dalla Waller-Bridge.
“Stavo chiacchierando con il
nostro meraviglioso regista James Mangold. –
ha annunciato Williams nel corso del concerto – Mentre
registravamo la musica, Jim ha detto: ‘Perché non la suoni al Bowl
la prossima settimana?’ Ho detto: ‘Beh, Jim, il film non uscirà
prima del prossimo anno.’ “Non importa! Suonala al Bowl!” Quindi,
ecco a voi il tema di Phoebe”. Il video dell’esecuzione poi
diffuso online ha permesso anche a chi non era presente di poter
ascoltare il brano, il quale descrive in musica il personaggio di
Helena. Questo è stato anticipato come “un’avventuriera” e
“una femme fatale”, e Williams ha aggiunto che il suo tema
include “musica lirica come per una vecchia star del cinema, a
cui assomiglia”.
C’è grande attesa per il film
Halloween Ends, il capitolo conclusivo
della nuova trilogia dedicata al celebre assassino Michael Myers.
Dopo Halloween e Halloween Kills, questo
terzo film è ora atteso in sala il 20 ottobre. Nel
preparare i fan a tale lungometraggio horror, il regista
David Gordon Green ha svelato i tre film a cui si
è maggiormente ispirato per concludere questa sua trilogia. Come
noto, questa ha totalmente ignorato i precedenti sequel e remake
per dar vita invece a dei sequel diretti del primo
Halloween, diretto nel 1978 da John
Carpenter.
Riprendendo la trama 40 anni dopo,
si ritrova dunque Laurie Strode (interpretata come sempre da
Jamie Lee
Curtis) chiamata a confrontarsi nuovamente con il suo
acerrimo nemico, con in più l’obiettivo di proteggere sua figlia
Karen e la nipote Allyson. Per il gran finale, Green ha ora
dichiarato di essersi ispirato a due horror e, inaspettatamente, ad
una commedia per famiglie. I film in questione sono
Christine – La macchinainfernale, l’horror del 1983 diretto da
Carpenter e basato sull’omonimo romanzo di Stephen
King, Butcher, Baker, Nightmare Maker, lo
slasher del 1981 di William Asher e la commedia
del 1980 MyBodyguard,
di Tony Bill.
L’essenza della storia di
quest’ultimo riguarda lo scoprire la propria forza interiore e
imparare a resistere ai propri antagonisti. Non bisogna dunque
aspettarsi che Halloween Ends acquisisca toni comici, ma è
più probabile che il regista abbia preso spunto a livello tematico,
in particolare per quanto riguarda My Bodyguard, per
mostrarci una Laurie Strode che trova la forza e il modo di opporsi
al suo rivale di lunga data, magari tirando fuori aspetti di sé
ancora inesplorati. Per scoprire in che modo la storia si
concluderà, non resta dunque che attendere il 20 ottobre, magari
recuperando prima di quel momento i tre film citati dal
regista.
Atteso in sala per il 3
novembre 2023, il del Marvel Cinematic UniverseBladeha
finalmente una data precisa di inizio e fine riprese. Queste si
svolgeranno infatti dal 5 ottobre fino al
28 gennaio 2023. Tra le location ad ora annunciate
vi sono Atlanta, New Orleans, Cleveland, e il Marocco. Come noto,
il film introdurrà nel MCU il personaggio del vampiro
Blade,
che sarà interpretato dal due volte premio Oscar Mahershala Ali.
Si tratta di uno dei progetti più attesi della Fase 5, sia per
il suo tono tendente all’horror sia per i notevoli cambiamenti
narrativi che il progetto potrebbe apportare all’interno universo
cinematografico della Marvel.
Diretto da Bassam
Tariq, del film si sa ancora molto poco se non che
esplorerà la natura del personaggio, un vampiro in grado di
camminare alla luce del sole che usa i suoi poteri per dare la
caccia ai suoi simili malvagi. Il personaggio era già stato
raccontato al cinema con i film Blade, Blade II e Blade: Trinity, dove ad
interpretare il personaggio vi era l’attore Wesley Snipes.
La scelta di Ali per assumere ora tale ruolo sembra aver messo d’accordo
tutti, con l’attore indicato perfettamente idoneo sia a livello
estetico che di carisma.
Il Blade di
Ali, come noto, ha già avuto un suo piccolo ingresso nell’MCU. Sua è infatti la voce che si
può ascoltare nella scena post titoli di coda del film Eternals, quella in cui
compare anche l’attore Kit Harington e
la celebre Lama d’Ebano, che a sua volta sembra comparirà in
Blade.
Con il periodo di riprese annunciato, è solo questione di tempo
prima che inizio ad arrivare ulteriori notizie sul film, sia per
quanto riguarda il cast sia per quanto riguarda il look del
protagonista e dell’opera in sé.
Tra i film del Marvel Cinematic Universe
più attesi dai fan vi è Deadpool3, terzo capitolo della serie di film
dedicati al celebre mutante brillantemente interpretato da Ryan Reynolds.
Attualmente in fase di sviluppo, il film non ha però una data di
uscita certa e ancora non ha trovato un suo posto né nella Fase 5 né nella
Fase 6. Poco dunque si sa del film, a parte il
fatto che riunirà Ryan Reynolds con il regista Shawn
Levy e i loro frequenti collaboratori Rhett
Reese e Paul Wernick, il duo di
sceneggiatori che attualmente sta lavorando alla riscrittura della
sceneggiatura. Quando si tratta del ritorno di personaggi,
tutto è invece ancora aperto, incluso il potenziale ritorno della
Vanessa di Morena
Baccarin.
Il personaggio, che nei primi tre
film aveva il ruolo di compagna del mercenario Deadpool, è stato
tragicamente fatto morire nel secondo film. Ciò sembrava precludere
ogni possibilità di rivedere Vanessa anche nel terzo capitolo, ma
le cose potrebbero non andare esattamente così per lei.
Intervistata a riguardo la Baccarin ha inizialmente affermato che
“non ne ho idea. Stanno scrivendo la sceneggiatura proprio ora
e di solito sono l’ultima a scoprire qualcosa”. Nel corso
dell’intervista, però, l’attrice ha aggiunto che grazie ai viaggi
nel tempo visti in Deadpool 2 un ritorno
in scena di Vanessa non è da escludere.
“Quando abbiamo girato il
secondo film, sarei dovuta rimanere morta, ma poihanno
effettivamente cambiato alcune cose per includere questo elemento
del viaggio temporale, e penso sia stato il segno che i fan
vogliono rivedere Vanessa. Che accada o meno, però, non dipende da
me”. Sappiamo bene quanto Deadpool sia profondamente
innamorato di Vanessa, quindi non è da escludere che anche nel
terzo film egli tenterà di rivederla. Per poterne avere certezza,
però, bisognerà attendere ulteriori notizie relative a
Deadpool3 e al suo cast.
Ecco tutte le foto dell’ultimo red
carpet della giornata,
The Whale, l’atteso nuovo film di Darren
Aronofsky che vede protagonisti con
Brendan Fraser,
Sadie Sink, Ty Simpkins, Hong Chau, Samantha.
Un solitario
insegnante inglese affetto da una grave forma di obesità cerca di
riallacciare i rapporti con la figlia adolescente, con la quale ha
perso i contatti, per un’ultima possibilità di redenzione.
Il commenti del regista
Il cinema può metterci in contatto
con gli altri, indipendentemente da quanto possano apparirci
diversi in superficie. Le persone che lottano con l’obesità sono
spesso giudicate, respinte ed etichettate. Quando otto anni fa ho
visto lo spettacolo di Sam Hunter, mi sono meravigliato della
profondità dei suoi personaggi, soprattutto di Charlie, e mi è
venuta l’ispirazione di usare il grande schermo per mettere il
pubblico nei panni di Charlie, per immergermi nei suoi pensieri
più profondi, nei suoi rimpianti e nelle sue speranze. Ma dove
avrei trovato il mio Charlie? Avevo bisogno di un grande talento
che potesse risplendere attraverso il trucco, un attore con un
cuore immenso e un’anima pura. Non appena incontrai Brendan, capii
immediatamente che avevo trovato il mio protagonista. In lui vi è
qualcosa di ineffabile che dà vita al personaggio e ci trasporta –
mente e cuore – in ciò che avrebbe potuto essere
inconoscibile.
La trama di Gli
Spiriti dell’Isola(The Banshees of
Inisherin)
Ambientato su una remota isola al
largo della costa occidentale dell’Irlanda, The Banshees of
Inisherin segue le vicende di due amici di vecchia data, Padraic e
Colm, che si ritrovano in un’impasse quando Colm decide bruscamente
di porre fine alla loro amicizia. Padraic, sbalordito, non accetta
questo rifiuto e tenta di ricucire la relazione, aiutato dalla
sorella Siobhan e da Dominic, un giovane isolano tormentato. I
ripetuti sforzi di Padraic, tuttavia, non fanno che rafforzare la
determinazione dell’ex amico e, quando Colm lancia un disperato
ultimatum, gli eventi precipitano rapidamente, con conseguenze
scioccanti.
La trama di Don’t worry
darling
Alice e Jack vivono nella comunità
idealizzata di Victory, la città aziendale sperimentale che ospita
gli uomini che lavorano al progetto top-secret Victory e le loro
famiglie. L’ottimismo della società degli anni Cinquanta,
propugnato dall’amministratore delegato Frank – in egual misura
visionario aziendale e life coach motivazionale – caratterizza ogni
aspetto della vita quotidiana nell’affiatata utopia del deserto.
Mentre i mariti trascorrono ogni giorno all’interno del quartier
generale del Victory Project, lavorando allo “sviluppo di materiali
avanzati”, le loro mogli – tra cui l’elegante compagna di Frank,
Shelley – possono trascorrere il loro tempo godendosi la bellezza,
il lusso e la dissolutezza della loro comunità. La vita è
perfetta, con tutti i bisogni dei residenti soddisfatti
dall’azienda. Tutto ciò che chiedono in cambio è discrezione e
impegno indiscusso per la causa di Victory. Ma quando iniziano ad
apparire delle crepe nella loro vita idilliaca, mostrando sprazzi
di qualcosa di molto più sinistro che si nasconde sotto la
facciata attraente, Alice non può fare a meno di chiedersi
esattamente cosa stiano facendo a Victory, e perché. Quanto è
disposta a perdere Alice per svelare ciò che sta realmente
accadendo in questo paradiso?
Il commento di Olivia Wilde
Questo film è la mia lettera d’amore a quel
cinema che supera i confini della nostra immaginazione. È
ambizioso, ma penso che abbiamo realizzato qualcosa di molto
speciale. Immaginate una vita in cui avete tutto quello che
desiderate. Non soltanto le cose materiali o tangibili come una
bella casa, auto meravigliose, cibo delizioso e feste a non finire,
ma anche le cose veramente importanti: l’amore vero con il partner
perfetto, gli amici migliori e una vita con uno scopo
significativo. Che cosa vi farebbe rinunciare a tutto questo? Cosa
sacrifichereste per fare la cosa giusta? Sareste disposti a
smantellare il sistema che è stato progettato al vostro servizio?
Questo è il mondo, e la domanda, di Don’t Worry
Darling.
E’ stato presentato in concorso a
79. Mostra Internazionale d’Arte
CinematograficadiVenezia,
L’immensità,
il nuovo film del regista Emanuele Crialese che
sarà accompagnato con la sua protagonista, la bellissima
Penelope Cruz. Il film, prodotto da Wildside (Mario
Gianani, Lorenzo Gangarossa), Chapter 2 (Dimitri Rassam), Warner
Bros. Entertainment Italia, Pathé, (Ardavan Safaee), France 3
Cinema, vede nel cast anche Luana Giuliani, Vincenzo Amato,
Patrizio Francioni, Maria Chiara Goretti.
Roma, anni Settanta: un mondo
sospeso tra quartieri in costruzione e varietà televisivi ancora
in bianco e nero, conquiste sociali e modelli di famiglia ormai
superati. Clara e Felice si sono appena trasferiti in un nuovo
appartamento. Il loro matrimonio è finito: non si amano più, ma non
riescono a lasciarsi. A tenerli uniti, soltanto i figli, su cui
Clara riversa tutto il proprio desiderio di libertà. Adriana, la
più grande, ha appena compiuto dodici anni ed è la testimone
attentissima degli stati d’animo di Clara e delle tensioni
crescenti tra i genitori. La ragazza rifiuta il suo nome, la sua
identità, vuole convincere tutti di essere un maschio e questa
ostinazione porta il già fragile equilibrio familiare a un punto
di rottura. Mentre i bambini aspettano un segno che li guidi, che
sia una voce dall’alto o una canzone in tv, intorno e dentro di
loro tutto cambia.
Il commento del regista
L’Immensità è il film che inseguo
da sempre: è sempre stato ‘il mio prossimo film’, ma ogni volta
lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai
abbastanza pronto, maturo, sicuro. È un film sulla memoria che
aveva bisogno di una distanza maggiore, di una consapevolezza
diversa. Come tutti i miei lavori, in fondo è prima di tutto un
film sulla famiglia: sull’innocenza dei figli, e sulla loro
relazione con una madre che poteva prendere vita solo
nell’incontro, artistico e umano, con Penélope Cruz, con la sua
sensibilità e la sua straordinaria capacità di interazione con
tre giovanissimi non attori che non avevano mai recitato prima.
Luana, Patrizio e Maria Chiara sono rimasti bambini sempre, e come
tali sempre intensamente e immensamente veri.
Presentato a
Orizzonti Extra nell’ambito di Venezia 79, Valeria is getting
married racconta la storia di una ragazza che accetta un
matrimonio combinato pur di avere una vita migliore, ma quando si
allontanerà da casa e comincerà a lavorare e a esse indipendente,
capirà che forse il matrimonio non è l’unica strada per una donna.
Abbiamo incontrato Michal Vinik, regista, che ci
ha parlato della la genesi del film e di quello che aveva
intenzione di raccontare.
Chi è
Valeria?“Una giovane donna ucraina che cerca per sé
una vita migliore. Vede la sorella cercare di far Leo stesso e
cerca di fare lo stesso”.
Da dove è venuta l’ispirazione per la storia?“Ho camminato a lungo con il personaggio di Cristina, la
sorella, ma poi sono incappata in questo fenomeno dei matrimoni
combinati, e mi sono interessata principalmente alle figure
maschili, agli uomini. Ho letto diverse chat di queste persone, ho
anche partecipato a diverse chat di uomini con i quali per me è
stato difficile connettermi. Credo siano persone che non trovano il
loro posto nel mondo e cercano di ottenere ciò che possono. A volte
pensano che prendere una moglie da un altro paese non sia una
cattiva idea. Così la storia ha preso forma.”
Il film si pone
in maniera molto equilibrata rispetto ai fatti che mostra, non
prende le parti di nessuno, giusto?“Ho cercato di non
giudicare nessuno, io scrivo e dirigo. Ho cercato di trovare un
equilibrio, perché nessuno pensa a se stesso come al cattivo della
storia. Per esempio, prendi le persone che mangiano carne, si
vedono come persone buone, ma se chiedi a un maiale magari la
risposta è diversa! Ho cercato di difenderli e mi sono sentita
anche colpevole in merito. Ma volevo dire qualcosa sulle relazione
tra uomo e donna in un mondo governato da uomini”.
Valeria is
getting married si avvale di una grande ricchezza linguistica, come
ha gestito questo aspetto?“Non dirigerò mai più un
film in una lingua che non capisco e parlo fluentemente. È stato
molto complicato per me, c’è l’ucraino, il russo, l’inglese e
l’ebraico. Sono stata molto aiutata dagli attori e dal personale
sul set. Alla fine ci siamo divertiti, perché l’inglese è
universale mentre l’ebraico è la nostra lingua madre, mentre russo
e ucraino sono la lingua delle nostre attrici. E credo che il
risultato sia stato molto autentico.”
Che tipo di
società è quella che si affida ai matrimoni combinati?“I matrimoni combinati si verificano intorno a noi,
continuamente. In tutto il mondo, non è una pratica che non è
illegale. Queste persone si incontrano in rete, su Skype magari,
poi magari il matrimonio fallisce nel 90 % dei casi. Ma non è una
pratica illegale, nessuno viene rapito!”
Nel film c’è un
riferimento ad Anna Karenina, come mai proprio quel
romanzo?“Abbiamo cercato di farlo apparire come un
vecchio film russo, abbiamo usato delle vecchie lenti per le
riprese e tutti i riferimenti culturali dei personaggi sono
riferiti alla cultura russa e ucraina. Tutte le foto nella casa del
film appartengono all’attrice, quando viveva in Ucraina.”
Prima che Dorothy
la percorresse nel 1939, una giovane del Kansas si è lasciata
catturare dalla luminescenza della strada di mattoni gialli di
Oz, e vi ha consegnato tutta la sua anima.
Ti West e Mia Goth hanno presentato fuori concorso a
Venezia 79Pearl, prequel di X – A Sexy Horror Story uscito nelle sale
italiane a marzo, e incentrato sulla figura della temibilissima
villain del film, che vi immergerà in uno spettacolo di technicolor
e disillusioni taglienti come un’accetta.
Come si diventa una villain terrificante?
Ambientato nel 1918, all’epoca
della pandemia di influenza spagnola e della Prima Guerra Mondiale,
il film esplora le origini di Pearl, il
personaggio malvagio di X. Sentendosi intrappolata nell’isolata
fattoria di famiglia, Pearl ha il compito di
occuparsi del padre malato e in coma, mentre è sottoposta al duro
controllo della crudele madre. La giovane sogna di poter prendere
parte alla vita glamour che ha visto rappresentata nei film di
Hollywood, ma le sue ambizioni e le dure repressioni imposte dalla
madre la renderanno tutt’altro che una candida perla.
La sceneggiatura di
Pearl è stata scritta a due mani da Ti
West e Mia Goth e, al di là del fulcro tematico che
sapevamo già essere la backstory della villain di X, capiamo immediatamente che questo film è
costruito su Mia Goth. Solo un’attrice così accattivante e
al contempo capace di scatenare una furia omicida a cui non possono
essere imposti freni sarebbe stata in grado di dare vita a un
personaggio vittima di un contesto sociale e famigliare ostile,
dalla psicologia completamente deviata, ma profondamente
divertente.
Pearl: la prima vera donna di Ti West
Pearl è il film
più femminile, camp e divertente di Ti West. Il
personaggio di Mia Goth potrebbe benissimo abitare
l’House of The Devil che il regista ha
accuratamente dipinto nel film del 2009, ma potrebbe stupirci anche
in uno spettacolo di cabaret e farci morire dalle risate. Non solo:
nella sua totale artificiosità, Pearl riesce a
trovare un appiglio con il presente, dando vita a uno dei pochi –
se non nulli – horror pandemici che hanno trovato distribuzione in
Italia e attingendo al contesto bellico solo per ciò che è
funzionale al racconto della backstory di una villain. Quello che
Pearl diventerà in X è il risultato di un’educazione rigidissima
ma, soprattutto, dell’isolamento imposto tanto da chi le sta
accanto e teme per lei quanto dalla costrizione di comportarsi come
“angelo del focolare” mentre gli uomini sono andati in guerra e vi
è un’epidemia terribile in corso.
Il personaggio di
Pearl terrorizzerà in X ma, paradossalmente, in questo prequel è
l’unica a non avere mai paura. Pearl guarda al
futuro con speranza, vuole partire per l’Europa, che le regalerà
cultura e spettacolo, lasciarsi alle spalle un’ambientazione
paesana che non offre futuro a chi manifesta curiosità e talento.
Solo rifugiandosi al cinematografo o nella vastità della campagna,
Pearl può librarsi in altissimo, dove rifulge
quella stella a cui ha affidato il sogno di “diventare la più
grande star del mondo”, per poter fuggire molto, molto lontano.
La regia di Ti
West segue i pensieri forsennati di
Pearl, che ne dettano differenti approcci alla
fisicità: passiamo da sequenze oniriche a soluzioni di montaggio
agilissime, ci perdiamo tra la vivacità di colori che segna la
visione del mondo di Pearl e la rigidità di una
responsabilità ingombrante che vieta di sognare. L’integerrima
madre tedesca di Pearl indossa abiti vittoriani, è
legata a un’idea di Europa completamente opposta a quella della
figlia, su cui riversa ogni frustrazione di un equilibrio
famigliare che si è ormai rotto da tempo e il modo in cui viene
“raccontata” la vita in casa è totalmente contrapposto alle
soluzioni visive ideate per esplorare la mente di
Pearl.
X – A Sexy Horror Story porterà una giovane
stella nascente del cinema porno alla vecchia casa di
Pearl. Pearl guarderà
Maxime con avidità, cercando di succhiarle via
tutto il talento che lei aveva ed è andato sprecato. Sembra
impossibile che la coloratissima Pearl possa
tramutarsi in una presenza spettrale in X – A Sexy Horror Story e l’averne già la
consapevolezza rende il viaggio di Pearl ancora
più mesto. Ma non temete: se la Pearl di
X vi spaventa, potete sempre tornare indietro e
guardare il mondo con gli occhi della Pearl
giovane, una piccola Dorothy a cui sono state
sottratte le scarpette rosse.
Ecco tutte le foto dal red carpet
del film italiano Ti mangio il cuore, presentato
alla 79esima
edizione della Mostra
d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti.
Oltre al regista presenti gli interpreti Francesco Patanè,
Francesco Di Leva, Lidia Vitale, Brenno Placido, Tommaso Ragno,
Michele Placido.
Puglia. Arso dal sole e dall’odio,
il promontorio del Gargano è conteso da criminali che sembrano
venire da un tempo remoto governato dalla legge del più forte. Una
terra arcaica da Far West, in cui il sangue si lava col sangue. A
riaccendere un’antica faida tra due famiglie rivali è un amore
proibito: quello tra Andrea, riluttante erede dei Malatesta, e
Marilena, bellissima moglie del boss dei Camporeale. Una passione
fatale che riporta i clan in guerra. Ma Marilena, esiliata dai
Camporeale e prigioniera dei Malatesta, contesa e oltraggiata, si
opporrà con forza di madre a un destino già scritto.
Il commenti del regista
È tutta racchiusa nel titolo del
film la doppia anima di questa storia, fatta di spietatezza e
passione. Da un lato una società arcaica e feroce, dominata dalla
violenza di leggi primitive che regolano antiche faide mafiose mai
davvero estinte, dall’altro la forza dell’amore che sconvolge e
sovverte, una scintilla che fa divampare una nuova guerra ma anche
il desiderio di una vita diversa. Quella di Ti mangio il cuore è
una storia archetipica che parla di amore, vendetta e morte, ma
anche di una terra di prepotente bellezza, il Gargano, straziata e
insanguinata da una mafia poco conosciuta e spietata. Un mondo in
cui la spirale della violenza sembra travolgere tutto e distruggere
anche l’amore, ma non Marilena, che non ha paura di vivere le
proprie passioni, i propri desideri e non intende piegarsi a un
destino già scritto. Perché un destino diverso è possibile.
Ecco la nostra intervista a
Niccolò Falsetti, Francesco
Turbanti e Zerocalcare, rispettivamente
regista/sceneggiatore, attore/sceneggiatore e special thanks di
Margini, l’unico film italiano selezionato nel
Concorso della 37° Settimana della Critica a Venezia 79.
Elodie, la
cantante al suo debutto al cinema come attrice incanta il red
carpet di Venezia
79. L’artista ha accompagnato il cast del film del quale è
protagonista: Ti
mangio il cuore. Il film scritto e diretto da
Pippo Mezzapesa vede protagonisti al fianco della
cantante Francesco Patanè, Francesco Di Leva, Lidia Vitale,
Brenno Placido, Tommaso Ragno,
Michele Placido.
Puglia. Arso dal sole e dall’odio,
il promontorio del Gargano è conteso da criminali che sembrano
venire da un tempo remoto governato dalla legge del più forte. Una
terra arcaica da Far West, in cui il sangue si lava col sangue. A
riaccendere un’antica faida tra due famiglie rivali è un amore
proibito: quello tra Andrea, riluttante erede dei Malatesta, e
Marilena, bellissima moglie del boss dei Camporeale. Una passione
fatale che riporta i clan in guerra. Ma Marilena, esiliata dai
Camporeale e prigioniera dei Malatesta, contesa e oltraggiata, si
opporrà con forza di madre a un destino già scritto.
Emanuele Linfatti e
Matteo Creatini, protagonisti di Margini, raccontano com’è stato lavorare
all’unico film italiano nella selezione ufficiale della 37°
Settimana della Critica a Venezia 79.
Presentato nel Concorso di Venezia
79, L’immensità è il nuovo film di
Emanuele Crialese, con protagonista
Penelope Cruz, e oggi protagonista al
Lido. L’immensità, spiega Crialese, “è
una storia che mi riguarda molto da vicino, è la mia storia in
chiave poetica, sarebbe riduttivo definirlo il mio ‘coming out’, il
pubblico penserebbe ad un film sulla transizione ma non è affatto
così”.
Il film, che arriverà in sala il 15
settembre, è ambientato in una Roma “metafisica” degli anni ’70, e
racconta la storia di una famiglia in cui la madre, infelice,
cresce tre figli, la maggiore delle quali rifiuta il suo nome e la
sua identità sensuale. In merito alla classificazione di genere,
Crialese dice: “I tempi sono cambiati, ai giovani di oggi le
classificazioni di genere non interessano più, in questo sono
maestri, portatori di una nuova sensibilità, maschio, femmina, sono
quel che sono, prima di tutto esseri umani”.
Il regista, che nel film non
racconta solo se stesso ma anche la sua famiglia e sua madre, dice:
“Sono figlio del mio tempo, ma i tempi oggi sono cambiati. Le
famiglie vanno sostenute quando ci sono da fare certi percorsi, mia
madre era da sola, non sapeva dove sbattere la testa. Ho cambiato
la ‘a’ con la ‘e’ e ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo, ma
io sono uomo e no, donna e no e voglio rimanere così e spero di non
minacciare nessuno per questo”.
Siamo di fronte al film più
personale nella carriera del regista: “L’Immensità –
spiega infatti Emanuele Crialese – è il film
che inseguo da sempre: è sempre stato ‘il mio prossimo film’, ma
ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi
sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro. È un film sulla
memoria che aveva bisogno di una distanza maggiore, di una
consapevolezza diversa. Come tutti i miei lavori, in fondo è prima
di tutto un film sulla famiglia: sull’innocenza dei figli, e sulla
loro relazione con una madre che poteva prendere vita solo
nell’incontro, artistico e umano, con Penelope Cruz, con la sua
sensibilità e la sua straordinaria capacità di interazione con tre
giovanissimi non attori che non avevano mai recitato prima. Luana,
Patrizio e Maria Chiara sono rimasti bambini sempre, e come tali
sempre intensamente e immensamente veri”.
“I temi che mi appassionano sono sempre quelli: la donna, i
bambini, la migrazione, la transizione.
Poi invento storie per raccontare quelle situazioni. Ho dovuto
aspettare, per acquisire consapevolezza di me, del mio percorso,
del linguaggio cinematografico. Le cose bisogna raccontarle quando
si sa parlare, si è capace di esprimersi. Questa storia
per me ha rappresentato una rinascita”.
Era uno dei momenti più
attesi di Venezia 79, l’esordio di Elodie al
cinema con Ti Mangio il Cuore, di Pippo
Mezzapesa, nella selezione di Giornate degli
Autori. La cantante dà corpo e voce alla prima pentita
della mafia foggiana, un personaggio, quello di Marilena, di cui ha
detto di essere orgogliosa.
C’è il rischio
che l’attenzione sul suo esordio al cinema possa togliere luce e
spazio al film?
“Da tempo avevo
pensato che sarebbe stato bello fare un’esperienza da attrice
– risponde Elodie – ma attendevo la magia, una storia che
mi colpisse e che mi desse la possibilità di fare qualcosa di
diverso da quello che faccio quando canto.” E così è nata la
volontà di interpretare Marilena. “La sceneggiatura mi ha
mostrato un personaggio bello e autentico, molto sfaccettato.
Marilena è una donna vera, e ho pensato che fosse pretenzioso da
parte mia voler interpretarla ma era anche molto interessante. Ho
accettato di parlare con lei, anche perché mi consentiva di andare
molto più in profondità rispetto al solito, dal momento che faccio
musica di intrattenimento, principalmente. Lidia Vitale mi ha
aiutata tanto sul set e non era scontato che un’attrice tanto
navigata potesse avere la voglia di starmi accanto e di
aiutarmi.”
Di Marilena, personaggio
ispirato alla prima collaboratrice di giustizia appartenente alla
mafia foggiana, Elodie ha detto: “Sarei
orgogliosa di ciò che ha fatto una donna del genere, lei che ha
scelto la vita per il bene dei suoi figli, ha deciso di non stare a
certi schemi, di uscire da un loop. Sarei orgogliosa.”
E rispetto al lavoro di
attrice che ha inaugurato proprio con questo film, la popstar
italiana ha detto: “Con questo lavoro, ho scoperto delle cose
di me, anche grazie agli altri, ai miei colleghi e alle
collaborazioni. Lavorare insieme ti permette di scoprirti, mi sono
trovata più volte in difficoltà e ho trovato persone che mi hanno
sostenuta intorno a me. Mi piacerebbe replicare l’esperienza, ma
sempre scegliendo con attenzione i progetti e starci dentro,
immergermi. Potrebbe diventare un ottimo modo di lavorare su me
stessa e fare terapia.”
Darren Aronofsky,
Brendan Fraser e
Sadie Sink hanno presentato in anteprima a
Venezia 79 il nuovo film del regista, The Whale. Visibilmente emozionati per il
ritorno del regista al Festival dopo Madre! (2017), il cast ha raccontato il loro
lunghissimo viaggio – durato quasi 10 anni – per produrre il
film.
Aronofsky ha
raccontato come si è approcciato per la prima volta al testo
teatrale di The Whale. “Ho letto il copione e lo
volevo fare subito. Negli ultimi anni abbiamo perso così tanto e il
cinema è soprattutto una questione di possibilità: questo è un
grandissimo momento per me. Mi ricordo benissimo che lessi una
recensione dello spettacolo teatrale sul New York Times, sono
andato a vederlo subito, mi sono commosso. Ho voluto poi mettermi
in contatto con l’autore Samuel D. Hunter e abbiamo discusso
le possibilità di adattare questo film su schermo. Tutti i
personaggi sono così ricchi e umani, era un bellissimo copione per
poter lasciare fluire la mia immaginazione“.
Il movimento nello spazio gioca un
ruolo fondamentale in The Whale: la storia si svolge all’interno di
un’ambientazione claustrofobica, che tiene quasi come prigioniero
questo uomo gigante. Cosa ha spinto Aronofsky ad
interessarsi a un dramma molto più emotivo e contenuto rispetto al
suo stile? “Ho iniziato con 20mila dollari per fare il primo
film, quelli che sembrano limiti in realtà stimolano soltanto di
più quello che fai. Ero interessato non solo all’ambientazione in
uno spazio chiuso ma anche a un uomo che non poteva muoversi
facilmente. Impari sempre di più da questi personaggi, pian piano
metti insieme i pezzi, è una sceneggiatura che ti accende il
cervello, sapevo che questo copione avrebbe interessato il
pubblico“.
“La mobilità fisica di
Charlie è limitata al suo spazio vitale, che è
sostanzialmente il divano. La sua storia è raccontata a porte
chiuse, ma c’è una luce nell’oscurità. Lui manifesta il suo trauma
tramite il fisico. Ho dovuto imparare a muovermi in modo nuovo,
sentivo le vertigini alla fine di ogni giorno di prova, questo mi
ha fatto apprezzare ancora di più il mio corpo. Devi essere una
persona molto forte mentalmente per poter abitare un corpo come
questo“, ha aggiunto Fraser. “Penso che Charlie sia il
personaggio più eroico che io abbia mai interpretato. Questo è il
suo viaggio. Tra tutti gli eroi che ho interpretato, lui è
L’EROE“.
Uno dei temi fondamentali di
The Whale è il potere salvifico della letteratura,
come ha spiegato l’autore del testo teatrale Samuel D.
Hunter: Charlie cerca la verità in questa storia, ci sono delle
verità brutali del suo passato che non può affrontare, ma deve
farlo per salvare le persone vicino a lui. Volevo scrivere la
storia di un insegnante di inglese che deve riconnettersi con la
figlia e lo vuole fare anche tramite la letteratura”. “C’è
tanto di me in questa sceneggiatura. Ho avuto un problema col cibo,
ero un ragazzo gay in una scuola cattolica, volevo passare questa
mia storia a qualcuno che ne avrebbe capito il senso di speranza e
la fede nelle persone perchè è ciò che mi ha salvato“.
Per quanto riguarda il processo di
casting per The Whale, Aronofsky
ha raccontato che gli ci sono voluti quasi 10 anni per trovare
l’interprete perfetto per Charlie. “Ho
considerato ogni singola star sulla faccia della terra, ma nessuna
mi ha convinto veramente. Poi ho trovato il trailer di un film
brasiliano low budget in cui c’era Brendan. E ho capito tutto. Ci
siamo incontrati ed è andato tutto benissimo. Sadie, invece, è la
mia nuova giovane attrice preferita, ho avuto i brividi dal primo
momento in cui si sono incontrati questi due e hanno letto il
copione“.
“Le persone non sono in grado
di non preoccuparsi per gli altri. Questa è la prospettiva di vita
di Charlie e credo che sia il miglior messaggio da lasciare al
mondo in questo momento. Stiamo tutti andando verso la disillusione
ma non dobbiamo farlo, dobbiamo prenderci cura l’uno
dell’altro“, questo il messaggio finale che, secondo
Darren Aronofsky, The Whale
dovrebbe trasmettere.
La regista Rebecca
Zlotowski porta in concorso a
Venezia 79I figli degli altri, film
basato su un’esperienza autobiografica e che mira a raccontare il
tema della maternità da una prospettiva differente.
La trama de I figli degli
altri ruota attorno a Rachel è una donna
di quarant’anni, senza figli. Ama la sua vita: gli studenti del
liceo in cui insegna, gli amici, il suo ex, le lezioni di chitarra.
Quando si innamora di Ali, stringe un legame profondo anche con
Leila, la figlia di quattro anni dell’uomo. Le rimbocca le coperte
prima di dormire, se ne prende cura, le vuole bene come se fosse
sua. Ma amare i figli degli altri è un grosso rischio.
Proprio partendo dal nucleo della
sceneggiatura, la regista ha parlato del suo approccio a una storia
tanto personale ma che riflette preoccupazioni e sentimenti
universali. “Quando si parla di maternità, spesso si creano due
fazioni: c’è chi ha fatto questa esperienza e dice che non si può
vivere senza. Ma io volevo trasmettere il messaggio che puoi
comunque voler sempre dire qualcosa come donna, puoi tracciare il
tuo cammino anche senza avere figli. Ho cercato di trovare un
equilibrio in termini di storytelling tra le diverse ideologie, che
oggigiorno sono anche politiche. Il mio film ha comunque
un’ideologia, e sta nel fatto che una donna può esistere anche
senza dei figli, c’è una presa di posizione rispetto al fatto che
una donna può realizzarsi anche senza figli. La scrittura è sempre
un lavoro che cerca di mescolare elementi della quotidianità ed
emozioni che potremmo provare: io ho voluto raccontare come sarebbe
potuta essere la mia vita, se non fossi stata una
regista“.
Abbiamo poi potuto sentire il parere
degli attori protagonisti su una questione tanto dedicata,
confrontando il punto di vista femminile a quello maschile. La
protagonista Virginie Efira ha dichiarato:
“Quando ho letto la sceneggiatura di Rebecca ho colto
immediatamente la descrizione che voleva fare del momento di una
vita della donna che non ho mai visto rappresentato al cinema e che
corrisponde a una riflessione che ho fatto a livello personale.
Stiamo parlando di qualcosa che appartiene a tutte le donne, fa
parte di una sorte di desideri da parte di una donna che spesso si
scontrano con l’impotenza e che si può anche esprimere senza avere
figli, ma tramite un personaggio che è matrigna della figlia di un
compagno. Ci sono tante domande nella sceneggiatura e non abbiamo
bisogno di risposte: a me bastava riconoscermi in quelle
domande“.
Ha poi proseguito Roschdy
Zem: “Voglio condividere con voi l’emozione di
sentirmi privilegiato di portare sullo schermo una storia così
tipica del 21esimo secolo. Il fatto che una regista abbia avuto
l’idea di questo progetto apre la porta a una nuova era della
tradizione cinematografica. Ci sono una serie di soggetti e
tematiche nuove nel cinema, mai state affrontate prima d’ora nel
linguaggio cinematografico. Per me il futuro del cinema è
femminile: o sarà donna o non sarà“.
Un aspetto interessante de I
figli degli altri è l’indagine interiore anche di
Leila, la bambina cui la nostra protagonista
stringe un legame inedito. “É sicuramente difficile riuscire a
tracciare un ritratto dei bambini nella loro ambivalenza
all’interno di una storia. Da un lato sono una benedizione,
dall’altro possono anche essere un peso nella vita, anche se sono
degli esseri nei confronti dei quali noi proviamo un bene immenso.
Alla base del fare un figlio c’è questo conflitto e io volevo
mostrarlo. Può anche accadere che non piacciano i figli del
compagno che ci scegliamo. Nel cinema siamo cresciuti vedendo
rapporti idilliaci tra famiglie e figli. All’inizio del film io ho
semplicemente tratteggiato l’innamoramento, volevo più che altro
dare una caratterizzazione ai singoli personaggi, non soffermarmi
sulla storia d’amore. Virginie è un’insegnante, ha un rapporto
molto intimo con la figura infantile. Alla base, è una storia
semplice ma arriviamo a coglierne tutte le sfumature“.
Nel film, incontriamo anche il
regista FrederickWiseman in un
cameo inedito e Rebecca Zlotowski ha parlato del
rapporto che si è instaurato nel corso degli anni tra i due:
“Ci siamo incontrati su un ascensore a Venezia, io ero giudice
di Orizzonti. Io avevo scarpe brillantinate, lui giganti e
sportive. ‘Scarpe da regista’, mi dice lui, ‘Scarpe da regista’,
ribatto io riferendomi alle mie. Ci siamo poi incontrati più volte,
lui vive a Parigi. Mi è venuto in mente che lui ama recitare ed è
una persona scherzosa, con un grande senso dell’umorismo. Gli è
piaciuto moltissimo fare questo cameo assolutamente comico. Prima
di fare la regista, sono stata insegnante di cinema, in particolare
di documentari e mi piace pensare che questa figura possa essere
definita come un ricercatore nel museo dell’uomo, mi piaceva l’idea
che Wiseman rispecchiasse questo interpretando un
ginecologo“.
Rebecca Zlotowski
ha poi concluso con una riflessione molto profonda sul ruolo delle
donne nella società odierna. “La posizione delle donne è
cambiata lentamente ma negli ultimi sessant’anni abbiamo visto che
ha assunto anche un importantissimo ruolo sociale, oltre che
privato. Riusciamo a definirci in modo differente rispetto al ruolo
materno che ci è stato tradizionalmente assegnato. Sicuramente, è
ancora fin troppo diffusa l’idea dell’orologio biologico che
scadrà, ma dobbiamo chiederci come vogliamo definirci rispetto alla
vita che vogliamo fare. É il momento in cui dobbiamo dire che
possiamo non volere figli, che l’aborto deve essere un diritto,
anche se c’è tanto dolore in tutto ciò. Forse mi sento legittimata
a dire questo perchè sono una donna francese e abbiamo solidi
diritti. Ma voglio fare sentire la mia voce, questo film è una vera
e propria lettera d’amore per tutte le persone che erano come me
qualche anno fa“.
Presentato fuori concorso a
Venezia 79, Il maestro
giardiniere (Master Gardener) è il terzo e
probabilmente ultimo capitolo di quella che potremmo definire una
trilogia sulla dicotomia tra punizione e redenzione di Paul
Schrader, iniziata con First Reformed e proseguita con il più recente
The Card Counter. In particolare,
Master Gardener si pone come riflessione ultima
dell’autore sul potere redentivo dell’amore contro l’oscurità
annichilente. Un nuovo esercizio di quel cinema trascendentale di
cui Schrader si è confermato pioniere e concetto
sviluppato nella sua famosa tesi di dottorato, “The
Transcendental Style in Film“.
I fiori di un giardino psicologico
Master
Gardenerracconta la storia
di Narvel Roth, il meticoloso orticoltore
di GracewoodGardens.
Si dedica tanto alla cura dei giardini di questa bellissima e
storica tenuta, quanto all’assecondare la sua datrice di lavora, la
ricca signora Norma Haverhill. Quando la
signora Haverhill gli chiede di assumere come nuova apprendista la
sua bisnipote Maya, ribelle e problematica,
il caos si insinua con prorompenza nella spartana esistenza di
Narvel. Nel cast, Joel
Edgerton (Narvel Roth),Sigourney
Weaver(Mrs.
Haverhill), Quintessa
Swindell (Maya), Eduardo
Losan (Xavier).
Con Master
Gardener siamo di fronte a un corpus filmico che non
funziona sulla base della prosecuzione di una storia, ma attraverso
la ripetizione e la declinazione differente di archetipi narrativi
e filmici già ben consolidati da Schrader. Una
messa in scena ordinata e austera, personaggi che scovano la loro
tridimensionalità attraverso un cammino sofferto che passa per il
potere della catarsi cinematografica e del minimalismo tecnico.
Master Gardener: l’ultimo saluto di Schrader
Laddove First Reformed e The Card Counter univano viaggi personali a
temi scottanti – la crisi climatica nel primo caso, le ferite
inflitte alla psiche yankee dalla lotta amorale contro il
terrorismo globale – in Il maestro giardiniere
(Master Gardener) questa cornice contemporanea non
scompare, ma si fluidifica nello spettro visibilissimo della storia
di un uomo profondamente tormentato dal passato.
Il razzismo radicato nella società
america e l’esistenza di una parte dell’America che, dimenticata
dal sistema, cerca rifugio nell’estremismo sono tematiche
funzionali al delinearsi di un arco caratteriale estremamente
controverso, che deve ricalcare le tracce del passato violento
aggrappandosi a un’esistenza spartana, in cui la cura dell’Altro e
l’insegnamento sono parte fondamentale di un cammino che conduce al
messaggio forse più romantico che Schrader abbia
mai posto su schermo.
È l’onnipresente voce fuori campo
del protagonista a condurci poeticamente dentro di sè,
raccontandoci come la resilienza fondante la vegetazione debba
farci contemplare anche sulla nostra esistenza e, soprattutto,
sopravvivenza. La storia di Narvel esiste
nei confini della soggettività del suo personaggio ma si apre
quanto mai alla speranza tramite l’incontro di psicologie inedite
in Schrader, che si sofferma in maniera arguta su
due diverse declinazioni del femminile, rappresentate da una rosa
matura (Sigourney Weaver) e da un bocciolo di cui
è necessario prendersi cura, nonostante le resistenze iniziali
(Quintessa Swindell). Attraverso il
ricongiungimento con la fisicità delle cose, la terra, la
manualità, si curano non solo giardini ma anche anime. E proprio
l’anima di Schrader sembra cavalcare con
grandissimo affetto una sorta di seconda giovinezza, incapsulata
dalla luminosità di
Maya (Swindell).
Con First Reformed ci siamo chiesti se Dio, in
ultima istanza, ci perdonerà; con The Card Counter siamo a passati
a una riflessione ancora più intimista, se siamo in grado di
perdonare noi stessi. In Il maestro giardiniere
(Master Gardener), la risposta a queste domande trova
soluzione nei legami e nella speranza più pura. “Non avrei mai
voluto andarmene senza fare un film che dicesse al mondo ti voglio
bene“, ha dichiarato Scharader. Nel silenzio
contemplativo con cui Narvel si dedica alla
scrittura privata, ci apriamo alla condivisione del saluto di un
immenso Maestro, che consegna a una nuova generazione di attori le
chiavi per aprire i giardini della sua eredità.
Amazon ha
annunciato che
Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere ha
conquistato più di 25 milioni di spettatori nel mondo nel suo primo
giorno, battendo tutti i record precedenti e divenendo il più
grande debutto nella storia di Prime Video. La serie è stata lanciata in
esclusiva su Prime
Video in oltre 240 Paesi e territori in tutto il
mondo.
Jennifer Salke,
head of Amazon Studios, ha dichiarato: “È in qualche modo
appropriato che le storie di Tolkien – tra le più popolari di tutti
i tempi e che molti considerano la vera origine del genere fantasy
– ci abbiano condotto sino a questo momento d’orgoglio. Sono molto
grata al Tolkien Estate – e ai nostri showrunner J.D. Payne e
Patrick McKay, al produttore esecutivo Lindsey Weber, al cast e
alla crew – per il loro instancabile impegno collettivo e la
loro sconfinata energia creativa. E sono le decine di milioni di
fan che hanno visto la serie – chiaramente appassionati quanto noi
della Terra di Mezzo – la reale misura del nostro successo”.
Gli episodi de Il Signore degli
Anelli: Gli Anelli del Potere saranno disponibili ogni
settimana sino al finale di stagione del 14 ottobre su Prime
Video.
La serie tv Il Signore degli
Anelli: Gli Anelli del Potere
Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere di
Prime
Video porterà per la prima volta sugli schermi le
eroiche leggende della mitica Seconda Era della storia della Terra
di Mezzo. Questo dramma epico si svolge migliaia di anni prima
degli eventi narrati in Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli di
J.R.R. Tolkien, e porterà gli spettatori in un’era lontana in cui
furono forgiati grandi poteri, regni ascesero alla gloria e caddero
in rovina, improbabili eroi furono messi alla prova, la speranza
appesa al più esile dei fili, e uno dei più grandi cattivi usciti
dalla penna di Tolkien minacciò di far sprofondare tutto il mondo
nell’oscurità. Partendo da un momento di relativa pace, la serie
segue un gruppo di personaggi, alcuni già noti, altri nuovi, mentre
si apprestano a fronteggiare il temuto ritorno del male nella Terra
di Mezzo. Dalle più oscure profondità delle Montagne Nebbiose, alle
maestose foreste della capitale elfica di Lindon, all’isola
mozzafiato del regno di Númenor, fino ai luoghi più estremi sulla
mappa, questi regni e personaggi costruiranno un’eredità che
sopravvivrà ben oltre il loro tempo.
La serie è guidata dagli showrunner
ed executive producer J.D. Payne e Patrick McKay. A loro si
uniscono gli executive producer Lindsey Weber, Callum Greene, J.A.
Bayona, Belén Atienza, Justin Doble, Jason Cahill, Gennifer
Hutchison, Bruce Richmond e Sharon Tal Yguado, e i produttori Ron
Ames e Christopher Newman. Wayne Che Yip è co-executive producer e
regista con J.A. Bayona e Charlotte Brändström.
Opera letteraria di fama mondiale premiata con l’International
Fantasy Award e il Prometheus Hall of Fame Award, nel 1999 Il Signore
degli Anelli è stato eletto dai clienti Amazon come il libro
preferito del millennio e nel 2003 come il romanzo più amato di
tutti i tempi nel Regno Unito nello show di BBC The Big Read. I
libri de Il Signore degli Anelli sono stati tradotti in oltre 38
lingue e hanno venduto più di 150 milioni di copie.
Oggi è il grande giorno di un altro
regista italiano, al lido arriva in concorso alla
79. Mostra Internazionale d’Arte
CinematograficadiVenezia,
L’immensità,
il nuovo film del regista Emanuele Crialese che
sarà accompagnato con la sua protagonista, la bellissima
Penelope Cruz. Il film, prodotto da Wildside (Mario
Gianani, Lorenzo Gangarossa), Chapter 2 (Dimitri Rassam), Warner
Bros. Entertainment Italia, Pathé, (Ardavan Safaee), France 3
Cinema, vede nel cast anche Luana Giuliani, Vincenzo Amato,
Patrizio Francioni, Maria Chiara Goretti.
La trama del film L’Immensità
Roma, anni Settanta: un mondo
sospeso tra quartieri in costruzione e varietà televisivi ancora
in bianco e nero, conquiste sociali e modelli di famiglia ormai
superati. Clara e Felice si sono appena trasferiti in un nuovo
appartamento. Il loro matrimonio è finito: non si amano più, ma non
riescono a lasciarsi. A tenerli uniti, soltanto i figli, su cui
Clara riversa tutto il proprio desiderio di libertà. Adriana, la
più grande, ha appena compiuto dodici anni ed è la testimone
attentissima degli stati d’animo di Clara e delle tensioni
crescenti tra i genitori. La ragazza rifiuta il suo nome, la sua
identità, vuole convincere tutti di essere un maschio e questa
ostinazione porta il già fragile equilibrio familiare a un punto
di rottura. Mentre i bambini aspettano un segno che li guidi, che
sia una voce dall’alto o una canzone in tv, intorno e dentro di
loro tutto cambia.
Il commento del regista
L’Immensità è il film che inseguo
da sempre: è sempre stato ‘il mio prossimo film’, ma ogni volta
lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai
abbastanza pronto, maturo, sicuro. È un film sulla memoria che
aveva bisogno di una distanza maggiore, di una consapevolezza
diversa. Come tutti i miei lavori, in fondo è prima di tutto un
film sulla famiglia: sull’innocenza dei figli, e sulla loro
relazione con una madre che poteva prendere vita solo
nell’incontro, artistico e umano, con Penélope Cruz, con la sua
sensibilità e la sua straordinaria capacità di interazione con
tre giovanissimi non attori che non avevano mai recitato prima.
Luana, Patrizio e Maria Chiara sono rimasti bambini sempre, e come
tali sempre intensamente e immensamente veri.
Paul Schrader e
Joel Edgerton hanno presentato quest’oggi in anteprima
fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2022 Master
Gardener, “ultimo capitolo” della trilogia di film del
regista, composta da First Reformed e The
Card Counter.
È proprio con il chiaro
parallelismao tra Master Gardener e i precedenti
lavori di Schrader che Joel
Edgerton ha introdotto il suo personaggio, dichiarando di
percepirlo come un continuum dei protagonisti di First Reformed e The Card Counter: “Li unisce la stessa
energia. Sono sicuramente stato ispirato dai suoi precedenti due
film nella costruzione del mio personaggio. E’ stato un percorso
totalmente diverso da ciò a cui sono abituato, ma mi sono voluto
mettere nelle mani di Paul per poter esplorare me stesso da un
punto di vista mentale più che fisico“.
L’attore ha anche raccontato come
pensa si sia evoluta la riflessione sulla religione elaborata da
Schrader nei tre film: “Master
Gardener è un film che si basa meno sul concetto di
religione e più su quello di etica: cosa la nostra memoria
incapsula del passato e come ci rapportiamo a ciò che siamo stati.
Quando si stringe un legame importante con un’altra persona – in
questo caso una donna – si deve essere capaci di poter rivelare
ogni parte di se. Dobbiamo sempre fare i conti con una parte del
nostro passato, non possiamo lasciarci tutto alle spalle“.
Paul Schrader, che
ha ricevuto quest’oggi 3 settembre 2022 il Leone d’Oro alla carriera, ha ricordato con
emozione il momento in cui ha capito che avrebbe voluto dedicare la
sua vita al cinema: “Devo tutto a Pickpocket
(1959) di Robert Bresson: la mattina del marzo
1979 in cui lo vidi mi ha cambiato la vita. Non avevo interesse nel
diventare un regista, ero un teologo ritirato, che si era lasciato
alle spalle la chiesa. Dopo cinque minuti di visione, ho però
realizzato così tante cose. Ho realizzato che si può raccontare
tutto al cinema, anche i fatti più triviali. E’ lo stile che li
unifica“.
Schrader ha deciso
di rendere il personaggio di Edgerton un giardiniere, un uomo con un
passato pesante alle spalle, perché riteneva che la professione
fosse una “ricca metafora del bene e del male. “Da un lato, un
suprematista bianco può dire: ‘Noi siamo i giardinieri, togliamo le
erbacce’. Dall’altro lato, un umanista può ribattere: ‘Siamo
giardinieri, noi piantiamo i semi e lasciamo germogliare le cose’.
Entrambi gli esempi si servono della metafora del giardinaggio: una
in senso positivo, l’altra in senso negativo”.
“Non avrei mai voluto
concludere la mia carriera senza un film con cui dire ‘ti voglio
bene’. Questa è una storia particolare, che farà probabilmente
inc****re una porzione di afroamericani, che non accettano il
ritratto di dinamiche del genere neanche del mondo dell’analogia e
dell’immaginazione. Questo film è tutto un grandissimo “e se”. I
personaggi non fanno per forza scelte plausibili. Un padre e una
figlia si ritrovano, ma vanno anche a letto insieme. Il
protagonista è conteso tra due idee di femminile completamente
diverse tra di loro. Il corpo di Joel mi è servito
come metafora in questo film. Siamo così abituati a vedere così
utilizzato come metafora il corpo femminile, ma preferisce il corpo
maschile. Joel ha il fisico da uomo degli anni‘80“.
Master
Gardener racconta la storia di Narvel
Roth, il meticoloso orticoltore di
GracewoodGardens. Si dedica
tanto alla cura dei giardini di questa bellissima e storica tenuta,
quanto all’assecondare la sua datrice di lavora, la ricca signora
Norma Haverhill. Quando la signora Haverhill gli
chiede di assumere come nuova apprendista la sua bisnipote
Maya, ribelle e problematica, il caos si insinua
con prorompenza nella spartana esistenza di Narvel. Nel cast,
Joel Edgerton (Narvel Roth),
Sigourney Weaver (Mrs.
Haverhill), Quintessa Swindell
(Maya), Eduardo Losan
(Xavier).
Si è tenuta questa sera l’anteprima
fuori concorso a Venezia
79 di Master Gardener, il nuovo film di Paul
Schrader. Al grande regista newyorkese è stato attribuito
a Paul Schrader, regista (Il collezionista di
carte, First Reformed, Il bacio della
pantera, American Gigolo) e sceneggiatore
(Toro scatenato, Taxi
Driver, Complesso di
colpa, Yakuza) statunitense,
il Leone d’Oro alla
carriera della 79.
Mostra Internazionale d’Arte
CinematograficadiVenezia.
La decisione è stata presa dal Cda
della Biennale di Venezia, che ha fatto
propria la proposta del Direttore della Mostra Alberto
Barbera. Paul Schrader sul red carpet è stato accompagnato
dai suoi protagonisti, Joel
Edgerton eSigourney
Weaver. Di seguito tutte le foto:
Sin dal loro esordio, avvenuto nel
1984 con Blood Simple, i fratelli Joel ed
Ethan Coen si sono affermati con una serie di
opere cinematografiche che coniugano genere e autorialità,
presentando spesso e volentieri situazioni e personaggi grotteschi,
a cui ogni etichetta o possibile definizione sembra stare stretta.
Dopo aver realizzato negli anni Novanta celebri titoli come
Barton Fink, Fargo e Il grande Lebowski,
sono entrati nel nuovo millennio con Fratello, dove
sei?, dove come al solito si mescolano elementi
diversi, dalla commedia al drammatico, dall’avventura all’epica.
Uscito in sala nel 2000, è ancora oggi uno dei loro film più
amati.
L’idea per Fratello, dove
sei? era tra le mani dei Coen già verso la metà degli anni
Novanta. Entrambi sapevano di voler realizzare una satira moderna
liberamente basata sul poema omerico l’Odissea, pur non
avendolo mai letto. I due registi si ispirarono infatti solo agli
eventi divenuti più noti attraverso la cultura popolare per dar
vita ad un racconto satirico nei confronti della politica e delle
campagne elettorali negli Stati Uniti. Lo stesso titolo del film è
un riferimento alla pellicola del 1941 I dimenticati, in
cui un regista aspira a girare un film intitolato Fratello,
dove sei? in cui dar vita ad un commento storico sulla
condizione moderna dell’essere umano.
Il film venne inizialmente
considerato un’opera minore dei Coen, ma negli anni ha poi
acquistato il valore che gli spetta, forte anche di diversi
riconoscimenti tra cui una nomination agli Oscar come miglior
sceneggiatura non originale. Per gli appassionati dei Coen, è un
film imprescindibile. Prima di intraprendere una visione del film,
però, sarà certamente utile approfondire alcune delle principali
curiosità relative a questo. Proseguendo qui nella lettura sarà
infatti possibile ritrovare ulteriori dettagli relativi alla
trama, al cast di attori e alla
colonna sonora. Infine, si elencheranno anche le
principali piattaforme streaming contenenti il
film nel proprio catalogo.
Fratello, dove sei?: la trama del film
La storia si svolge nel Mississippi
all’inizio degli anni Trenta, nel pieno della Grande depressione.
Ulysses Everett McGill, Delmar
O’Donnell e Pete Hogwallop sono tre
galeotti riusciti miracolosamente ad evadere dai lavori forzati.
Sotto la guida di Ulyssess, l’unico dei tre con un po’ di buon
senso e capacità oratorie, i fuggiaschi si mettono alla ricerca del
tesoro da un milione di dollari nascosto prima di essere arrestati.
Tale somma è stata sepolta nei pressi di un fiume dove ora sta per
essere costruita una diga e ciò spinge i tre ex galeotti a doversi
sbrigare per arrivare lì prima che il denaro sia irrecuperabile. Da
quel momento, prima di arrivare a ciò che cercano, i tre vivranno
una sequenza di imprevedibili incontri e rocambolesce avventure,
fino a trovare molto più di quel che cercavano.
Fratello, dove sei?: il cast del film
Per il ruolo di Ulysses Everett i
due registi avevano da subito pensato all’attore George Clooney,
con il quale desideravano lavorare da tempo. Lo stesso Clooney non
vedeva l’ora di recitare in un loro film, accettando la parte senza
neanche voler prima leggere la sceneggiatura. L’attore decise poi
di far leggere quessta ad un suo zio del Kentucky, sperando di
comprendere meglio il personaggio attraverso la lettura di un uomo
di campagna. Poiché lo zio è un devoto Battista, egli omise tutte
le parolacce. Arrivato sul set, Clooney si trovò così a scoprire un
lato inaspettato del personaggio. Egli si esercitò poi anche nel
canto per settimane, ma alla fine si decise di farlo doppiare per
le scene dove il suo personaggio canta.
Nel ruolo del lestofante Pete
Hogwallop vi è invece l’attore John Turturro,
qui al suo quarto film insieme ai Coen dopo Crocevia della
morte, Barton Fink e Il grande Lebowski. Tim
Blake Nelson, da qui in poi divenuto anch’egli un attore
ricorrente nel cinema dei Coen, era il vicino di casa di Joel e
quando ricevette la sceneggiatura pensò che il regista volesse solo
qualche parare. Ritrovatosi invece ad interpretare il ruolo di
Delmar O’Donnell, egli praticò un accento del sud recandovisi in
vacanza e parlando con gente del posto. Nel film compaiono poi
anche John Goodman
nel ruolo di Daniel Teague, ladro con un occhio solo, e
Holly Hunter nei panni di Penny Wharvey-McGill,
moglie di Ulysses.
Fratello, dove sei?: la colonna sonora del film
La colonna sonora del film è
diventata negli anni estremamente popolare, superando persino il
successo del film. All’inizio del 2001, questa aveva venduto cinque
milioni di copie, ha generato un film documentario, tre album
successivi (“O Sister” e “O Sister 2“), due
tournée e ha vinto i Country Music Awards per Album of the Year e
Singolo dell’anno (per “Man of Constant Sorrow“). Ha anche
vinto cinque Grammy, tra cui Album of the Year, e ha raggiunto il
primo posto nelle classifiche degli album di Billboard la settimana
del 15 marzo 2002, 63 settimane dopo la sua uscita e oltre un anno
dopo l’uscita del film.
Questa è composta da brani
tradizionali statunitensi, ma include anche musica folk, religiosa
e gospel. Tutte le canzoni scelte, infatti, riflettono gli stili
musicali più popolari dell’epoca in cui è ambientato il film.
All’interno di questo, inoltre, i protagonisti formano un fittizio
gruppo musicale chiamato Soggy Bottom Boys. Le canzoni da loro
eseguite sono però cantate in playback dagli attori, tranne per il
caso di In the Jailhouse Now, che venne realmente eseguita
da Tim Blake Nelson con la sua voce. Oltre a questi titoli, nella
colonna sonora del film si ritrovano anche popolari brani come
You Are My Sunshine, Down the River to Pray e Keep On
the Sunny Side.
Fratello, dove sei?: il
trailer e dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile fruire del film grazie
alla sua presenza su alcune delle più popolari piattaforme
streaming presenti oggi in rete. Fratello, dove
sei? è infatti disponibile nei cataloghi di
Rakuten TV, Google Play, Apple iTunes e Netflix. Per vederlo, una volta scelta la
piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il singolo film o
sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così modo di
guardarlo in totale comodità e al meglio della qualità video. È
bene notare che in caso di noleggio si avrà soltanto un dato limite
temporale entro cui guardare il titolo. Il film è inoltre presente
nel palinsesto televisivo di sabato 3settembre alle ore 21:10 sul
canale TwentySeven.
Nel concorso di
Venezia 79 fa capolino Athena, senza grandi
cori di star, un film Netflix del francese Romain Gavras,
firmato alla sceneggiatura anche da Ladj Ly di
Les Miserables, che nella maniera più
inaspettata rielabora la tragedia greca, contaminandola con il
cinema politico e un respiro epico.
Athena, la trama
Difficile dire chi sia il
protagonista della storia, anche perché la stessa ci viene svelata
pian piano, mentre le immagini si susseguono e la meraviglia si
srotola sotto gli occhi dello spettatore. Ci troviamo nel bel mezzo
di uno scontro tra rivoltosi e polizia, il casus belli, lo si
rivela più avanti, è l’omicidio di un ragazzino di 13 anni da parte
di alcuni agenti. La rivolta è guidata da Karim, fratello della
vittima, ma non è il solo invischiato personalmente nella vicenda.
Abdel e Moktar, altri fratelli più grandi, si posizionano in zone
opposte dello spettro della vicenda, in cui il primo, poliziotto,
cerca di arginare i danni e tutelare i deboli, e il secondo tenta
invece di salvaguardare il suo traffico di stupefacenti che conduce
in accordo con degli agenti corrotti. Le tre linee di pensiero, i
tre sentieri, la vendetta, la giustizia e l’opportunismo, si
troveranno a incrociarsi per le strade del quartiere che dà il
titolo al film: Athena. Il riferimento è alla
città? Alla dea? Forse solo un lontano eco di una tragedia
attesa.
Lo scontro fratricida e la tragedia
greca
Romain
Gavras usa il piano sequenza con grande precisione e
destrezza per raccontare il qui e ora della vicenda:
l’immediatezza, la velocità, il rapido precipitare degli eventi.
L’impressione di assistere ad un happening, che diventa
carica da stadio, e si trasforma in assedio medievale, con una
solennità e un tono deflagrante e coinvolgente. È forte l’apporto
di Ly e l’eco di Les
Miserables, ma il film assume una sua indipendenza e
un aspetto di novità nel momento in cui fa della tragedia greca il
suo riferimento più forte.
Per quanto le persone
possano fare scelte di vita radicalmente diverse tra loro, il
legame di sangue le riconduce a una inevitabile resa dei conti, un
confronto che non può che essere tragico, dentro al contesto
violento e dannato in cui è calato. Così le sorti dei tre fratelli,
uniti e divisi dalla morte del più piccolo di loro, diventano un
dramma umano inestricabile e irresistibile, proprio grazie
all’occhio di Gavras che non si stacca mai dai protagonisti.
Trasfigurazione dell’odio
La forma di Athena è tanto splendida quanto duro e
difficile è il suo contenuto. Il film non vuole essere però un inno
alla violenza e all’odio che racconta, piuttosto lo trasfigura
dandogli eticità con i sontuosi movimenti della camera e la colonna
sonora poderosa e invadente.
La visione del film, che
arriverà su Netflix, meriterebbe uno schermo grande, buio intorno e
grande attenzione, ma è la sorte di sempre più prodotti che,
sebbene vengano realizzati proprio grazie al contributo delle
piattaforme, rischiano di essere goduti a metà perché non usufruiti
nel loro luogo di appartenenza: la sala.
Quando sei giovane e
pieno di energia, voglia di fare e di vivere, ma sei a “due ore da
tutto” e vivi ai margini, l’unica strada possibile
per la sopravvivenza è l’ingegno, e così Niccolò
Falsetti trova la sua strada verso l’opera prima,
selezionata alla
37° Settimana della Critica nell’ambito di Venezia
79.
Margini, la
storia
Si intitola proprio
Margini il film che Falsetti ha diretto e scritto
insieme a Francesco Turbanti e Tommaso
Renzoni e che racconta la storia di tre amici malati di
punk: Edoardo, Iacopo e Michele. Stanchi di esibirsi solo alle
feste dell’Unità e alle sagre, hanno la possibilità di organizzare
proprio a Grosseto, un “posto di mezzo”, un vero e proprio concerto
punk, con una band famosa, i Defense, per i quali
apriranno proprio loro tre. Scontrandosi con ogni tipo di ostacolo
e con tutte le difficoltà possibili, i tre amici scopriranno i
limiti della loro amicizia e di ciò che è possibile raggiungere
quando i sogni sono più forti delle avversità.
Con un tono genuino da
commedia e un’energia contagiosa, Falsetti mette in scena
un’avventura scapestrata, piena di imprevisti, emozioni e
inconvenienti. Non si può non voler bene a questi tre ragazzi
scapestrati, che mettono in secondo piano qualsiasi cosa, anche
affetti e famiglia, pur di perseguire il loro obbiettivo. Si
scontrano contro la burocrazia, la pubblica amministrazione, la
mancanza di immaginazione, la poca ispirazione, il gretto realismo
e l’ostilità verso il nuovo, ma affrontano tutto con grande fatica
ed energia, proprio perché mossi da una voglia di rivalsa che alla
fine li lascerà ammaccati eppure con ancora l’energia di cantare e
di sognare.
Il punk e l’amicizia “a due ore da
tutto”
Francesco
Turbanti (lo stesso del team di sceneggiatori),
Emanuele Linfatti e Matteo
Creatini sono i protagonisti, che riescono da subito a
suscitare simpatia, sia per la loro genuinità nell’interpretazione,
sia perché la scrittura è limpida e informale, diretta e
realistica.
In questo affresco così
vivace spiccano due figure femminili di grande spessore:
Valentina Carnelutti, che interpreta la madre di
Edoardo e Silvia D’Amico che è invece la compagna
di Michele. Nella loro profonda diversità, di età e condizione, le
due donne rappresentano sono delle colonne solide che sostengono i
protagonisti, con una grazia e una pazienza che risultano, anche in
questo caso, estremamente realistiche, anche quando vengono meno o
quando rimangono ferme e granitiche al loro fianco.
Ambientato in un passato
recente, il 2008, che sembra riportarci indietro di molto più
tempo, Margini racconta il sogno, l’amicizia, il
punk come stile di vita, la voglia di costruire anche dove la terra
non con sente di gettare fondamenta. Racconta ragazzi fuori di
testa, con un cuore grande e idee un po’ folli, per i quali non si
può fare a meno di fare il tifo.
Abel Ferrara ha
presentato in anteprima il suo nuovo film Padre
Pio alle Giornate degli Autori della
Mostra del Cinema di Venezia 2022. In conferenza
stampa, ci ha raccontato cosa lo ha portato a voler riprendere
nuovamente in mano la storia del personaggio, già affrontata nel
documentario del 2016 Searching For Padre Pio, e a
scegliere Shia LaBeouf come protagonista.
Cosa affascina così tanto
Abel Ferrara di Padre Pio?
“Perché l’ho conosciuto la prima volta come un Santo e quindi
mi è venuto spontaneo chiedermi, cosa rende una persona un santo.
Io stavo lavorando a Napoli, e a Napoli è: o Marandona o Padre Pio.
Quindi, mi sono chiesto chi fosse Padre Pio e quello che ho capito
è che è prima di tutto una persona di compassione e servizio. Un
uomo che non si è mai mosso dalla Puglia, che ha vissuto come in
una gabbia, indossando abiti da monaco pesanti con temperature
altissime e che si impegnava tutto il giorno ad ascoltare le
confessioni degli altri: mio figlio è malato, i pomodori non
crescono, ho fame. E lui trovava una soluzione a tutto. Questo l’ha
reso universale senza mai muoversi nel mondo.”
“É arrivato in Puglia senza
possedere niente, su un asino. Ha costruito un ospitale da 35.000
euro in un posto in cui non c’era neanche l’acqua. Qualcosa di
estremamente potente in un posto in cui non c’era nulla. Ha
realizzato quello che voleva realizzare”. Come Pasolini, era anche
un grande scrittore. Scriveva come Baudlaire. Ci ha aperto il suo
cuore con la scrittura. Il film è basato quasi interamente sui suoi
scritti. E su un evento che si, é misconosciuto, ma è successo
c***o. Perché un film su di lui? Per questo. Le sue sono parole
estremamente evocative. Non ci siamo inventati nulla, è tutto vero
quello che trovate nel film“.
La domanda sulla tanto chiacchierata
conversione di Shia LaBeouf è sorta spontanea: questa svolta
personale ha coinciso con la produzione di
Ferrara? “La sua conversione è qualcosa
avvenuto prima di quando ci siamo conosciuti, qualcosa che faceva
già parte in quel momento di una situazione di crisi che stava
vivendo, come le stigmate e il massacro, che sono due eventi che
accadono in contemporaneo. Prima non ci conoscevamo proprio, ci
siamo trovati su zoom e questo è un miracolo in sé”.
Uno dei punti di forza di
Padre Pio è sicuramente la colonna sonora:
Abel Ferrara ha parlato approfonditamente del suo
rapporto con il compositore Joe Delia, che va
avanti da tantissimi anni: “Come negli altri film con lui
l’obiettivo principale era quello di realizzare qualcosa che
potesse essere musicalmente tradizionale, come Nino Rota Morricone
Cage, ma volevamo anche ottenere qualcosa di diverso e organico.”
“Negli ultimi film avevamo 3 musicisti. Hanno realizzato le musiche
ancora prima della sala montaggio, poi ci sono stati altri due
pezzi importanti: il canto dei monaci, pezzi che hanno 500 anni.
Shia l’ha imparato, gli altri monaci sono tutti monaci veri. Questi
tre musicisti hanno preso i testi dei monaci e li hanno
esplorati“.
La trama di Padre
Pio di Abel Ferrara è ambientata durante
la fine della Prima Guerra Mondiale, quando i giovani soldati
italiani tornano a San Giovanni Rotondo, una terra povera,
violenta, sulla quale la chiesa e i ricchi proprietari terrieri
esercitaano un dominio incontrastato. Le famiglie sono disperate,
gli uomini, seppur vittoriosi, appaiono distrutti.
Sul red carpet della
79a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di
Venezia arriva il regista italiano Andrea
Pallaoro per presentare in concorso Monica,
il suo nuovo film. Insieme al regista sul tappeto rosso hanno
sfilato anche gli interpreti Trace Lysette, Patricia
Clarkson, Joshua Close.
Il film racconta di Monica torna a
casa per la prima volta dopo una lunga assenza. Ritrovando sua
madre e il resto della sua famiglia, da cui si era allontanata da
adolescente, intraprende un percorso nel suo dolore e nelle sue
paure, nei suoi bisogni e nei suoi desideri fino a scoprire dentro
di sé la forza per guarire le ferite del proprio passato. Il
ritratto intimo di una donna che esplora i temi universali
dell’abbandono e dell’accettazione, del riscatto e del perdono.
Dopo l’incursione
naturalistica di The Revenant – Redivivo, Alejandro G.
Inarritu, il regista che ha partecipato alla conquista
messicana di Hollywood, presenta a Venezia 79 Bardo – La
cronaca falsa di alcune verità, un
film confessione, un racconto di se stesso, un punto su quello
che probabilmente è la sua vita, personale e creativa, alla vigilia
dei 60 anni.
Bardo – La cronaca falsa di alcune
verità, la storia di Silverio
La storia ruota intorno a
Silverio, un giornalista messicano che ha lasciato il suo Paese per
vivere negli Stati Uniti. Mentre si appresta a ricevere un
prestigioso riconoscimento per il suo lavoro, l’uomo si trova a
mettere in discussione se stesso, le sue scelte, la sua vita, lo
sradicamento a cui ha costretto famiglia e figli, ma anche la
politica del suo Messico, un luogo tanto amato solo quando lo si
guarda da lontano, dal punto di vista di un “emigrato di lusso”,
nell’agio della propria vita borghese negli Stati Uniti.
Un resoconto alla vigilia del 60
anni
Inarritu confeziona un film onirico, un
flusso di coscienza che ricorda per la sua struttura così ondivaga
l’8 1/2 di
Fellini (suo nume tutelare), ma che è anche diverso da
qualsiasi cosa sia mai stata fatta. Materico anche nella
rappresentazione del sogno, il regista premio Oscar dà corpo
e sostanza alle rievocazioni storiche, ai pensieri più astratti,
agli incubi e alle paure, ma anche ai suoi traumi personali che
diventano i traumi di Silverio stesso. Nomade nella sua stessa
coscienza, il protagonista non sembra trovare pace alcuna se non
nella resa alla vita, con un sorriso amaro ma anche compiaciuto
verso chi lo ha amato in vita.
Il Bardo
è una parola buddista che indica un luogo che corrisponde al Limbo
cattolico, un lungo senza speranza dunque, dove i sogni nascono e
muoiono e in cui evidentemente il regista si sente impantanato.
Seppure non in forma letterale, il film è una autobiografia
immaginaria, una “auto-fiction” nelle parole del regista stesso,
che torna a ragionare sull’ego e sullo slancio creativo, come
accadeva in
Birdman, ma che questa volta si arricchisce di un
senso di appartenenza alla terra e al Paese che fino a questo
momento non era mai trapelato dalle sue opere, nemmeno dalle prime
elogiate prove di regia come Amores Perros.
Inarritu torna fisicamente in Messico, ma lo fa anche con la mente
e con il cuore, confezionando un film denso, lungo, che non poteva
lasciare nulla sul pavimento del montaggio perché ogni evoluzione
compone il ritratto di sé che lui voleva esporre al
pubblico.
Cinema vigoroso e
immaginifico
Da un punto di vista
stilistico, Bardo è un esempio di cinema vigoroso,
pieno di idee visive, un cinema che, seppure ha beneficiato della
produzione di Netflix, si sente costretto nei bordi di uno schermo
piccolo, perché ogni immagine è perfetta e gloriosa, e agogna la
sala, la grandezza, l’esposizione e forse anche la messa in
discussione, proprio come fa l’ego di Inarritu spogliandosi di se
stesso eppure rivendicando con la bellezza delle immagini la sua
gloria.
Daniel Giménez
Cacho è lo splendido protagonista di Bardo. Non a caso vagamente somigliante al
regista, l’attore mette in scena un personaggio vittima degli
eventi, testimone delle sue fortune e delle sue disavventure,
sempre in balia del giudizio altrui eppure perso in se stesso,
nell’inseguimento di una fama che si rivela effimera e che lo
distrae da quella famiglia che lo circonda con affetto e il giusto
grado di sfida. Un’interpretazione magistrale che regala una vera
anima a tutte le immagini vivide e maestose che confezione il
regista.
Bardo è una pagina di diario, un bilancio, una
confessione, forse il film più complesso e personale di
Alejandro G. Inarritu, un racconto che merita
attenzione, pazienza e uno schermo più grande possibile.