Prodotto da Rai
Cinema, con Indiana Production e distribuito da 01
Distribution, Comedians,
il nuovo film di Gabriele Salvatores arriva in sala dal 10
giugno in 250 copie. Una scelta coraggiosa, visto il periodo
difficile per le sale, dovuto all’emergenza Covid, e
l’approssimarsi dell’estate, ma di cui il regista si dice convinto,
e spiega: “Per me è importante uscire con questo film
adesso. […] A me la carriera è andata bene e ogni tanto
nella vita bisogna restituire qualcosa. Questa è la mia maniera di
dire che il cinema va avanti: le sale sono aperte, torniamo al
cinema”. Si dice anche convinto che “le sale non chiuderanno
mai. Non sono uno stupido ottimista. Non chiuderanno perche sono
quel luogo dove si può decidere di passare due ore senza essere per
forza interattivi, se non con la mente e le emozioni,
abbandonandosi a un viaggio di due ore pensato da un’altro. […]
In una sala si sospende la realtà per un attimo, mentre a casa
tua, per quanto possa essere bello il film che stai vedendo, la
realtà è sempre presente”.
Il progetto arriva da
lontano, da una pièce teatrale del 1985, tratta da un testo di
Trevor Griffiths, messa in scena dallo stesso Salvatores e
diventata poi un film da lui diretto, Kamikazen – Ultima
notte a Milano. Molta è la curiosità intorno a questa
rilettura dopo ventun anni, che ha dato vita a
Comedians. Così ne parla il regista, sottolineando le
differenze tra i due progetti:“Kamikazen è
veramente un’altra cosa. Non c’è la scuola, non c’è il maestro, non
c’è l’esaminatore, tant’è vero che nel film non c’è neanche scritto
che sia ispirato o in realzione al testo di Griffiths. […]
Lì abbiamo indagato le vite private dei singoli personaggi.
[…] L’umanità delle case di ringhiera di Milano”. “Quando
avevamo messo in scena il testo di Griffiths nell’85 eravamo
giovani affamati di successo e desiderosi di farci vedere. Quindi
lo avevamo usato come contenitore per riempirlo di gag e di
improvvisazioni. Rileggendolo ventun anni dopo, ho scoperto quello
che i Pink Floyd chiamerebbero il “dark side of the moon” di questo
testo, cioè la parte più riflessiva e malinconica. Questa è una
piccola umanità che deve giorno per giorno fare i conti con la
vita. Sognano una visibilità che è molto difficile da avere. Il
testo si è rivelato, rileggendolo, molto più attuale di quello che
pensavo”. “Ci sono temi che non avevo intravisto nella prima
lettura. Per esempio, il rapporto tra padre e figlio che c’è tra i
personaggi interpretati da Balasso e
Pranno è interessante, è un padre che non glie le
fa passare e un figlio che lo contesta. […] C’è voglia di
apparire, di successo, di non essere perso in umanità di
“raindogs” [cani randagi ndr.] ma essere qualcuno su un
palco con una luce. Questo è molto attuale. Non è necessario che
tutti stiano sul palco con la luce addosso. Ognuno può fare bene il
proprio lavoro anche senza farsi vedere per forza”.
E trattando della
dicotomia tra bravura e successo, tema affrontato nel film,
parla della sua esperienza personale: “Il vero problema è il
successo […] A questo io ho risposto cercando di fare ogni
volta qualcosa che non sapevo fare, cioè cambiando genere, tipo di
film, sia per imparare qualcosa, ma soprattutto per non
considerarmi in nessun modo arrivato. Quando sei convinto di saper
fare molto bene una cosa sei vicino alla fine, secondo me. Credo
che soprattutto per un artista ci voglia l’ansia, la paura di non
saperlo fare. La voglia di provare delle cose nuove per rimanere
vivo”.
Il regista spiega
poi come ha lavorato al film, facendo precedere le riprese
da prove, proprio come si fa in teatro: “Ho usato un metodo che
aveva usato anche Clint Eastwood […] in
Million Dollar Baby e Gran
Torino. Ha preso gli attori e il direttore della
fotografia, ha provato prima il film […]. Quindi, quando è
andato a girare, ci ha messo cinque settimane. Noi ce ne abbiamo
messe quattro. Ma abbiamo fatto due settimane di prove prima. Così,
quando arrivi sul set sai già dove mettere la macchina […],
gli attori sanno dove spostarsi. […] Con due macchine da
presa mi sono inserito tra di loro, semplicemente a stargli vicino,
a farli vedere. Il grosso vantaggio rispetto al teatro è proprio
poter vedere delle cose piccolissime” . Esperienza che il
regista dice di voler ripetere in futuro, aggiungendo: “E’ un
vizio degli attori italiani, che passano da un film all’altro
velocissimamente e quindi non hanno mai il tempo di provare. Invece
durante le prove […] nascono tantissime idee e
rapporti”.
A questo proposito, così
alcuni membri del cast raccontano l’esperienza sul
set.
Il giovane Giulio
Pranno, già protagonista di Tutto il mio follle
amore, che qui iterpreta Zappa, il personaggio inquieto,
dice: “Ho costruito il personaggio andando sul set giorno dopo
giorno e lavorando con gli altri. Questo è stato un lavoro di
gruppo. Con Gabriele è il secondo film che facciamo insieme. Mi sa
dirigere e sono stato molto tranquillo su questo set. Mi sono molto
fidato del lavoro. […] Ho fatto anche un corso di clownerie
per prepararmi al ruolo”. E aggiunge di essere un amante del
“black humour”.
Ale e Franz
interpretano i fratelli Filippo e Leo Marri, Ale racconta
così i loro personaggi: “Siamo il prototipo del fallimento: un
fallimento personale, umano. E siamo sulla soglia di un nuovo
fallimento, all’inizio […] messo nella giusta direzione da
Barni, ma appena arriva Celli, dentro di noi si crea questo grosso
dubbio, soprattutto in me. Quindi andiamo nella direzione più
facile, perché il pubblico vuol ridere, andiamo sulla risata
facile, quella immediata. […] Lui [Leo, interpretato da
Franz ndr.] se ne risente, va per la sua strada e si crea una
crepa tra di noi che manda tutto a ramengo.” Mentre
Franz ricorda: “Abbiamo iniziato davvero con
Balasso come insegnante in un laboratorio. […]
È stato davvero per noi un sogno lavorare con Gabriele, un
percorso artistico che ha trovato il suo compimento”.
Natalino Balasso,
che interpreta Eddie Barni, l’insegnante buono, descrive così il
maestro: “Barni dice quello che penso io e Griffiths l’aveva già
scritto nel ’78 […] La prima cosa che insegno loro è
[…]: quando si
entra in campo con le battute, con la comicità, capire perchè si è
lì. Sembra una cosa ovvia, semplice, ma non è così. Credo che il
novanta per cento della comicità non lo abbia capito. Anche per
questo il film è importante”, e aggiunge: “Il mio
personaggio dice delle cose che condivido a pieno”. Interrogato
su cosa lo diverta, Balasso afferma: “Non ho una comicità
preferita. Rido di molte cose, a volte anche di una comicità molto
banale. Il comico che mi fa più ridere in assoluto è mio zio. Però
è una cosa legata anche alle fasi della vita. Credo che da giovani
si rida di certe cose, poi col passar degli anni, anche di
altre”.
Christian De Sica,
qui nei panni del talent scout prammatico, descrive l’esperienza
con Salvatores: “Non avevo mai avuto la fortuna di
lavorare con Salvatores, ma ci conosciamo da tanti anni e ora con
questo film siamo diventati anche amici. Serviva un attore
nazional-popolare, guitto, uno che fa i cinepanettoni, e coi
produttori si sono detti: chi prendiamo? Io ho accettato e lui ha
scoperto uno straordinario attore drammatico”, dice tra il
serio e il faceto. Poi prosegue: “Ho lavorato con tanti
registi […] ma il clima in quei giorni a Trieste è stato
meraviglioso. […] Lui è come un papà o una mamma. C’era una
tale gentilezza e leggerezza. Veramente un attore si sente
tranquillo nelle sue mani. […] È un film di una grande
classe e questo dimostra anche il coraggio che
Salvatores ancora ha. Si mette alla prova con un
film artisticamente così severo e lo fa uscire il 10 giugno dopo il
covid. È un passo importante anche per il cinema, per gli
esercenti, per il pubblico”. Mentre sul suo personaggio così
argomenta: “Questo personaggio secondo me non dice poi tante
stronzate, dice la verità: io non cerco dei filosofi, non siate
profondi, io sto cercando dei comici, se volete avere successo.
Nella vita l’ho seguita questa strada e non è che mi sia andata
male”. A chi gli domanda cosa lo faccia ridere, l’attore
risponde guardando ai classici: “Mi fanno ridere ancora oggi
moltissimo Totò e Alberto
Sordi. Credo siano i più grandi comici che abbiamo avuto
nel mondo”.
Su come sia cambiata
la comicità negli anni, Salvatores risponde invece così, e non
rinuncia a una critica alla classe politica: “Si è
sdoganato completamente, negli anni ’80 e ’90, il politicamente
scorretto. Il che per certe cose è un bene, ma per certe altre
siamo andati un po’ oltre. Adesso, se dici una cosa gentile, ti
dicono che sei un buonista. Bisogna essere cattivi, un po’ haters,
un po’ protagonisti, non essere d’accordo. E anche usare la
comicità come
fanno alcuni dei nostri politici per essere amici, simpatici e non
invece padri. Abbiamo tanto bisogno di padri secondo me, in questo
momento. Di padri come Natalino e De Sica. Puoi non essere
d’accordo con il personaggio di Christian, ma almento prende
una posizione. […] Ci vuole qualcuno che si prenda la
responsabilità. Mi piacerebbe tanto che la nostra classe politica
fosse un po’ più così”.
Da qui un dibattito sugli
eccessi del politicamente scorretto e del suo contrario, che
a sua volta, se estremizzato, può diventare pericolso quanto e più
dello stereotipo. Il regista argomenta così: “Il politicamente
corretto, sopratutto se usato in una certa maniera, è rischioso.
Guardate per esempio quello che sta succedendo con MeToo. Una
istanza giusta, un motivo giusto che sta diventando certe volte
anche ridicolo. Sento delle cose che arrivano dall’America che
veramente sono impressionanti. Il politicamente corretto nel cinema
porta al fatto di premiare per forza un film che ha degli attori
neri. Ora c’è l’obbligo di rappresentare nel film varie cose. In
Malcom e Mary il regista bianco è stato criticato perchè mette in
scena un regista nero, appropriandosi di una cultura che non è la
sua. Secondo me è pazzia. È una questione di equilibrio. Bisogna
stare attenti da entrambe le parti. È una domanda molto importante
ed io non ho la risposta precisa. Mi barcameno”.
Franz sul tema e
sull’esistenza di limiti da non oltrepassare in campo comico,
commenta: “Il limite è legato alla sensibilità di ciascuno.
Noi [ come duo comico con Ale ndr.] ci siamo posti un limite
dall’inizio, che combacia con la nostra sensibilità. Non scherziamo
sulle malattie. C’è poi una barriera tra lo scherzare tra amici e
il mettere in scena qualcosa. Nel momento in cui sali su un palco,
hai una responsabilità molto maggiore”.
Interviene anche
Balasso: “E’ un problema anche culturale. C’è sempre meno
gente che capisce l’ironia. L’ironia va anche capita, ci vuole
anche un’intelligenza, bisogna metterla in campo”. Comedians
di Gabriele Salvatores è in sala dal giugno in 250 copie.

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