Prime Video ha annunciato oggi che la serie di
successo globale Citadel
(leggi
la recensione) sarà rinnovata per una seconda
stagione, con Joe Russo alla regia di tutti gli
episodi e l’executive producer David Weil nuovamente nel ruolo di
showrunner. Lo spy thriller – interpretato da Richard Madden e
Priyanka Chopra Jonas, e con Lesley Manville e Stanley Tucci –
continua a godere di uno straordinario successo in tutti i Paesi
del mondo, tra cui l’India, l’Italia, il Brasile, il Sudafrica, il
Regno Unito e gli Stati Uniti. È la seconda nuova serie originale
più vista di Prime Video al di fuori degli Stati Uniti, e la quarta
più vista in tutto il mondo. Tutti gli episodi della prima stagione
di Citadelsaranno disponibili per gli spettatori di Prime
Video da venerdì 26 maggio.
Con tutti gli episodi della prima
stagione di Citadel
disponibili per il binge watching, il primo episodio sarà reso
disponibile anche per coloro che non dispongono di un abbonamento
Prime. Al di fuori degli Stati Uniti, il primo episodio di
Citadel
sarà disponibile senza abbonamento Prime su Prime Video in oltre
240 Paesi e territori nel mondo da venerdì 26 maggio a domenica 28
maggio.
“Citadel è un fenomeno
veramente globale”, ha detto Jennifer Salke, head of Amazon e MGM
Studios. “Il nostro obiettivo è sempre stato quello di creare un
nuovo franchise basato su un’idea originale che avrebbe fatto
crescere il pubblico internazionale di Prime Video. Questo show ha
attirato su Prime Video un numero enorme di nuovi spettatori da
molte parti del mondo. L’enorme pubblico globale di questo debutto
è una testimonianza della straordinaria visione di Joe e Anthony
Russo, dell’incredibile talento di Richard Madden, Priyanka Chopra
Jonas, Lesley Manville e Stanley Tucci, e del lavoro instancabile
dei team creativi, del cast e della troupe. Alla luce dello
straordinario numero di clienti che hanno apprezzato questo show,
non solo siamo entusiasti di rendere disponibile il primo episodio
di Citadel a livello globale senza abbonamento, ma siamo
inoltre felici di confermare che la serie tornerà per una seconda
stagione.”
“AGBO è entusiasta di entrare in
questa prossima fase dello spyverse con Jen, Vernon e l’intero team
di Amazon”, hanno detto i produttori esecutivi Anthony e Joe Russo.
“L’innovativo storytelling di Citadel ha aperto la strada
ad un’incredibile collaborazione mondiale con menti creative
davanti e dietro la macchina da presa.”
Molto atteso dal pubblico
francese, che non vedeva
Juliette Binoche e Benoît Magimel insieme dai tempi di
I figli del secolo (quando iniziò la loro
relazione, conclusasi nel 2003), rischia una ingiusta sordina quel
La passion de Dodin Bouffant che segna un altro dei
grandi ritorni di questo Festival
di Cannes 2023. A distanza di più di cinque anni
dall’ultimo Éternité e oltre dieci dal precedente
Norwegian Wood, infatti, è un piacere registrare
la presenza del Trần Anh Hùng
di Il profumo della papaya verde, vincitore del
Leone d’oro 1995 con Cyclo. Per altro in un
film nel quale la cucina è sovrana, più della coppia di
protagonisti.
In
cucina con Juliette e Benoît
Francia, 1885, il famoso
gastronomo Dodin Bouffant passa le sue giornate cucinando,
studiando menu e condividendo la sua passione con una ristretta
cerchia di amici, i pochi in grado di capirlo ed apprezzare la sua
arte fino in fondo. Ad aiutarlo, da venti anni, la bravissima
Eugénie, cuoca in grado di trasformare in perfette preparazioni le
creazioni del suo genio e vera anima della casa, della quale tiene
in ordine l’orto e gestisce la cucina. Un ruolo fondamentale, che
la donna assolve con passione e che la rende indispensabile al
buongustaio, con il quale rapporto professionale e personale si
sono andati mescolando, negli anni, fino a far nascere un
sentimento dalla reciproca ammirazione. Tuttavia, Eugénie non è
sicura se legarsi a Dodin, che in un momento particolare della loro
vita si dimostra pronto a mettersi al suo servizio e cucinare per
lei.
The
Pot au Feu, un bollito d’altri tempi
Sono pochi i film che
iniziano con il primo piano di un sedano rapa, ma forse
l’originalità di questo gradito ritorno del regista della Trilogia
Vietnamita sta tutta in questo incipit. Nel quale colpisce subito
lo stile della ex pasticcera di Chocolat qui in versione contadina,
elegantissima con il suo cappello di paglia portato sulle ventitrè.
Una grazia che la sua Eugénie mette in tutto quello che fa, anche
mentre danza tra pentole e fuochi nell’esercizio delle sue
funzioni, come vediamo nella lunghissima scena – quasi mezz’ora –
che introduce la storia e il suo rapporto con il personaggio creato
dallo scrittore svizzero Marcel Rouff nel romanzo
del 1920 “La vie et la Passion de Dodin-Bouffant, Gourmet (The
Passionate Epicure)” e ispirato alla figura del francese
Jean Anthelme Brillat-Savarin.
Una eleganza affettata,
forse, ma certo coerente con il contesto in cui ci si muove (non
solo per la scelta di un castello dell’Anjou come location
principale) e nel quale vivono tutti i protagonisti, molto lontani
da noi e dal nostro quotidiano proprio per questa loro appartenenza
a una sorta di casta di gourmet che a un film in costume ambientato
alla fine del XIX secolo. Difficile partecipare emotivamente alla
storia, d’altronde, concentrata in gran parte sulle splendide e
affascinanti preparazioni culinarie che vediamo riprese con
attenzione, ritmo e gusto dei dettagli. Forse anche troppo, visto
che in alcuni casi la verosimiglianza cede il passo al piacere per
la composizione artistica con delle nature morte piuttosto
ingiustificate (di lattughe risparmiate o carni alla mercé di
insetti e intemperie) sullo sfondo dell’azione che vediamo
svolgersi.
Ricette e immagini da stella Michelin
Ma sono dettagli,
appunto, e secondari. Ché arricchiscono le tante sequenze nelle
quali il movimento sovrasta il dialogo, e piatti, ricette, tempi di
cottura, impiattamenti e i meravigliosi colori di questi veri e
propri affreschi culinari (realizzati grazie anche alla consulenza
dello chef Pierre Gagnaire, 14 stelle Michelin)
almeno fino a quando non interviene un nuovo elemento a modificare
il rapporto tra i due cuochi e la direzione del film. Che
dall’amore per il cibo – assolutamente mai abbandonato, anche
perché strumentale a questo secondo livello – passa a rappresentare
il particolarissimo sentimento che lega Dodin ed Eugénie. A quanto
pare sono due le passioni del cosiddetto “Napoleone della
gastronomia“, che il regista aspettava di raccontare almeno dal
2017.
Un tempo molto ampio che
in qualche modo corrisponde alla ‘cottura a fuoco lento’ dello
spettatore, avvolto dai colori caldi della fotografia di
Jonathan Ricquebourg, interrotti solo
dall’alternanza di buio e luce didascalicamente utilizzata a
rappresentare gli stati d’animo del padrone di casa. Il
Pot-au-feu stesso (dal titolo
internazionale del film), d’altronde, è un bollito contadino tipico
del nord della Francia nel quale manzo e verdure vengono cotti a
bassa temperatura per ore, emblematico del valore che il regista da
alla memoria, le radici e le stagioni, della vita prima di tutto.
Temi toccanti, importanti, che fanno solo da corollario a un lungo
carnevale ‘for foodies’ e alla digressione drammatica più che
romantica, che poco spazio lascia anche a una ironia che solo si
intuisce in alcune battute della donna. Una figura troppo
subordinata, se osservata con una sensibilità più moderna e
rispettosa di spazi e diritti, e che non sembra riuscire ad rendere
l’importanza datale in origine in questa celebrazione del mangiare
e del vivere bene.
Il
secondo spin-off di WandaVision dopo Agatha: Coven of Chaos. Questa serie avrebbe
seguito le imprese di Visione, la riproduzione fisica priva di
emozioni del personaggio di Paul Bettany del MCU. Una serie a
fumetti Marvel degli anni ’80 ha lo stesso titolo dello show, ma i
suoi eventi sono stati ampiamente coperti in “WandaVision”; si
ritiene che la serie seguirà invece il nuovo Visione mentre tenta
di recuperare i suoi ricordi.
Jac
Schaefer, creatore e sceneggiatore capo di WandaVision e Agatha, è
a capo anche di questa serie e Paul Bettany tornerà nel ruolo. La trama non è
chiara ma se c’è qualcosa che può far risorgere Wanda Maximoff da
sotto le macerie della Wundagore Mountain, è il ritorno di Visione.
Inoltre, la serie di fumetti Vision Quest faceva parte del titolo
West Coast Avengers, quindi gli eventi di Avengers: La dinastia Kang e Avengers: Secret Wars potrebbero essere presi
in considerazione, a seconda della rapidità con cui lo show entrerà
in produzione.
Ieri sera è stato il giorno di
Nanni Moretti, secondo italiano in concorso dopo
Bellocchio, al Festival
di Cannes 2023, con Il
Sol dell’Avvenire. Con lui, sul tappeto rosso della
croisette, il suo cast, che si è lasciato andare in una danza che
replica non solo una bellissima scena del film, ma un ballo
divenuto iconico grazie a Franco Battiato, sulle
note di Voglio vederti danzare.
Sul tappeto rosso c’erano:
Nanni Moretti,
Margherita Buy, Barbora Bobulova, Valentina
Romani, Blu Yoshimi, Elena Lietti.
Nel 1989, la Disney regala a tutto
il mondo una storia intramontabile: La Sirenetta. Da allora, intere generazioni di
bambine, ma anche di bambini, hanno sognato di poterlo essere.
Cosa? Una sirena, ovviamente. Eppure la magia, ad un certo punto,
ha dovuto retrocedere per dare il passo alla realtà, in cui queste
affascinanti creature marine non esistono. O forse
sì. Netflix
porta in catalogo MerPeople, nuova
docu-serie che racconta una storia affascinante, nella quale magia
e realtà si mescolano, incanalandosi in alcune figure dalla grande
fascinazione e appeal: le sirene
professioniste.
I quattro episodi, incentrati
ognuno su un aspetto di questo business, sono diretti da
Chyntia Wade, la quale attraverso questo racconto
getta una luce su un mondo sfaccettato, strabiliante e faticoso.
Fatto di persone che sacrificano tutta la loro vita per poter
svolgere questo lavoro, e che ci credono talmente tanto da andare
contro qualsiasi cosa, anche la famiglia.
MerPeople arriva in piattaforma proprio
al momento giusto, considerata l’uscita del nuovo remake in live
action Disney: La Sirenetta, appunto.
MerPeople, la trama
Il documentario ruota attorno a
cinque principali storie: Eric Ducharme, ragazzo
omosessuale e con la sindrome di Tourette, fondatore dell’azienda
Mertailor, lavoratrice di code da sirena personalizzate; Morgana
Alba, fondatrice del Circus Siren Pod, Sparkles, artista che cerca
di seguire la strada della sirena professionista, affrontando
ostacoli, delusioni e sconfitte; Ché Monique, fondatrice di The
Society of Fat Mermaids; Blixunami, una persona non binaria che
sfoggia tutta la sua vena artistica nelle performance, nel trucco e
nella sua coda coloratissima. Ognuno di loro racconta la propria
storia, le difficoltà affrontate una volta intrapresa la
professione, analizzando il background che li ha spinti, poi, ad
essere sirene. A lavorare in un mondo in cui appartengono, mentre
il contorno non li accetta.
Nuotare, nuotare, nuotare!
Fra le tante proposte Netflix fin’ora disponibili,
MerPeople è di sicuro una di quelle più
interessanti, insieme alla docuserie Volo MH370, seppur abbiano tagli e toni diversi. La
scelta di far conoscere questa industria – da
circa 500mila dollari – in continua espansione non
può che considerarsi furba proprio per la sua tematica attrattiva,
ma anche – quasi – promozionale per il settore di cui si parla.
Perché per quanto siano tante le persone che (negli Stati Uniti)
siano spinte dal desiderio di essere una sirena a tutti gli
effetti, la verità è che questo mondo non è ancora conosciuto a
molti e, come sottolineano alcune intervistate, offre poco lavoro.
Quel poco per, forse, riuscire a pagare le bollette. Ma a volte
neanche quello.
L’universo delle sirene
professioniste è comunque molto vasto, e Chyntia Wade lo sciorina
da diverse prospettive: gli artisti, i fondatori di club
professionali e i fabbricanti delle bellissime code con cui i
performer nuotano in diverse acque: piscine, vasche e addirittura
l’oceano. Ognuno di loro regala un punto di vista diverso, nel
quale si ritrovano le difficoltà affrontate durante il percorso, i
background familiari complessi, ma anche i pensieri comuni, fra
questi l’amore verso le sirene e verso un’arte – definita tale da
molti – riuscita a scaldare il cuore di tanti bambini, perché
capace di non interrompere la magia sprigionata dal mito,
continuando a far sognare a occhi aperti.
Essere sirene è difficile, ma non
impossibile
Essere guardati con pregiudizio e
non andare oltre l’apparenza è però uno dei problemi che il mondo
delle sirene professioniste deve subire, poiché visto – ma solo da
alcuni – con distacco e scetticismo. Ma come dimostrano alcuni
artisti, fra questi la sirena Sparkles che
ha una storia in primo piano all’interno di
MerPeople, è un lavoro che richiede anni
di preparazione per le immersioni subacquee. Si va incontro a tutto
una volta intrapresa la “carriera”: infezioni, PH delle piscine
sbagliati che provocano danni agli occhi, minuti in apnea,
esibizioni difficili, ipotermia. Lo ribadisce anche Morgana Alba,
fondatrice del Circus Siren Pod (sirene professioniste d’élite):
le performance sott’acqua a volte sono persino
pericolose. Ogni artista deve affrontare un ostacolo nel
momento in cui non è più in superficie, nel suo habitat naturale, e
spesso si ritrova a dover nuotare con altre specie marine, squali
compresi.
Ma per restituire al pubblico la
giusta emozione, travolgendolo nell’atmosfera suggestiva e nella
mitologia delle creature che rappresentano, i
professionisti devono far sembrare tutto reale, anche nei
movimenti che devono essere sinuosi e mai forzati. Mantenendo poi
un’espressione distesa e carismatica, nonostante magari l’acqua sia
fredda. Essere sirene richiede concentrazione, connessione con il
proprio corpo e con lo spettatore, sfide con se stessi. Ma, come
dimostra il fondatore di Mertailor, una delle aziende più grosse di
produzione di code, Eric Ducharme, diventa anche dimensione
salvifica, luogo di pace, estensione del proprio io, e terapia – o
medicina – delle malattie. Come la sua, la sindrome di Tourette,
che lo stesso Ducharme è riuscito a gestire solo stando a contatto
con l’acqua e facendo quello che amava più di ogni altra cosa: la
sirena.
L’intento di Chyntia Wade,
percepitosi in tutto il prodotto, è dunque quello di far
vivere fra le quattro pareti dell’inquadratura una magia
immortale, sospinta da sempre dalla bellezza che questa
mitologia, antichissima, sprigiona. E portare all’attenzione una
comunità in cui molte persone si ritrovano, sentendosi nel posto
giusto, a fare la cosa giusta, con i colleghi che arrivano a
considerare famiglia. Seppur alcune storie di
MerPeople, rispetto ad altre, scorrano
troppo veloci e alcune si frammentino un po’ troppo spesso
riducendo la fluidità della narrazione, il risultato risulta
comunque discreto e convince. A essere altalenante è invece il
montaggio, definito nelle scene sott’acqua, e disorientante invece
nel passaggio da una storia all’altra a causa delle brusche
interruzioni. A trapelare però, più che l’intreccio e la messa in
scena a volte poco curata, è la sua anima pura, con la conferma che
spesso sono le professioni apparentemente inutili, ad essere le più
significative nell’impatto che hanno sia su se stessi, che
sull’altro. Basta guardare oltre, in profondità.
Se una scena dell’ode a Hollywood di
Tarantino, ambientata nel 1969, cattura la pura gioia di andare al
cinema, è proprio il momento in cui Sharon Tate di
Robbie entra in un cinema per guardarsi sullo schermo, e Robbie
viene vista mentre guarda con gioia le scene del vero in cui recita
Tate in uno dei suoi (purtroppo) pochi film. Oltre a catturare
l’essenza dolce e innocente della versione di Tarantino di Tate, la
scena offre al regista la possibilità di indulgere in uno dei suoi
feticci cinematografici preferiti, mentre i piedi nudi notevolmente
sporchi di
Margot Robbie vengono visti appoggiati
allo schienale di una poltroncina del cinema, mentre lei sorride
guardando il film.
Il feticismo cinematografico dei
piedi di Tarantino ovviamente è saltato fuori molte volte prima di
C’era una volta a Hollywood, ma la scena con
Margot Robbie in sala sembrava dare un elemento
ulteriore aggiungendo lo sporco. In una nuova intervista con
Vogue, Robbie ha parlato del suo
contributo al catalogo delle famose inquadrature di piedi di
Tarantino, e ha spiegato come mai i suoi piedi erano nudi e non
lavati.
“Il mio personaggio entra in un
cinema per vedere se stessa sul grande schermo e si toglie gli
stivali, alza i piedi e si sistema per guardare il film. Ma i miei
piedi erano sporchi perché stavo camminando scalza sul set. Sono
rimasti sporchi nel film perché Quentin ha detto: “No. Non
pulirli”. Un assistente del set è corso per pulirmeli e lui ha
detto: “No, è vero, tienilo”.”
La storia
di C’era
una volta a Hollywood si svolge a Los Angeles nel
1969, al culmine di quella che viene chiamata “hippy” Hollywood. I
due protagonisti sono Rick Dalton (Leonardo
DiCaprio), ex star di una serie televisiva western, e
lo stunt di lunga data Cliff Booth (Brad
Pitt). Entrambi stanno lottando per farcela in una
Hollywood che non riconoscono più. Ma Rick ha un vicino di casa
molto famoso… Sharon Tate (Margot
Robbie).
Nel cast del
film Leonardo
DiCaprio, Brad
Pitt e Margot
Robbie al fianco di Damian Lewis, Dakota
Fanning, Nicholas Hammond, Emile Hirsch, Clifton Collins
Jr., Keith Jefferson, Timothy Olyphant, Tim Roth, Kurt
Russell e Michael Madsen. Rumer Willis, Dreama
Walker, Costa Ronin, Margaret Qualley, Madisen
Beaty e Victoria Pedretti. Il film segnerà anche l’ultima
apparizione cinematografica di Luke
Perry, morto lo scorso 4 marzo.
“Ho lavorato alla sceneggiatura
per cinque anni, e vissuto nella contea di Los Angeles per gran
parte della mia vita, anche nel 1969, e all’epoca avevo sette
anni“, ha dichiarato Quentin
Tarantino. “Sono davvero felice di poter
raccontare la storia di una città e di una Hollywood che non
esistono più, e non potrei essere più entusiasta dei miei due
attori protagonisti.“
Nonostante Il
sol dell’avvenire sia nelle sale italiane da
settimane, è arrivato oggi il suo grande giorno al Festival
di Cannes 76, dove Nanni Moretti ha
presentato in Concorso il suo ultimo film, apprezzatissimo in
casa.
In Italia si conosce molto bene
l’approccio ironico di Moretti alla vita e al mondo del cinema che
popola da anni, e nemmeno alla stampa estera è sfuggita la scena
del film, visibile già nel trailer, in cui il suo alter ego del
film si confronta con dei responsabili di Netflix, in una conversazione folle su sceneggiature
e tempi di coinvolgimento dello spettatore nella storia.
In occasione della conferenza
stampa si Il
sol dell’avvenire, Nanni Moretti ha
spiegato che in quell’occasione non si stava limitando a
punzecchiare specificatamente Netflix, ma stava puntando il dito
contro tutti gli streamer e contro la loro invasione del cinema.
“C’è questo fenomeno che mi crea dispiacere: un certo numero di
registi e sceneggiatori si limitano a lasciare il posto alle
piattaforme, si inchinano alle piattaforme”, ha detto Moretti.
“Per quanto mi riguarda, penso che dovremmo continuare a
sentirci coinvolti emotivamente, psicologicamente ed economicamente
vis a vis con il cinema”, ha proseguito il regista.
“Quando ho un film che mi viene
in mente; non penso al tredicenne in Pennsylvania che guarda il suo
telefono mentre prende la metropolitana”, ha detto Moretti
riguardo al suo pubblico previsto. “Quando penso di fare un
film, lo faccio per le sale cinematografiche dove gli spettatori
vengono a vedere immagini più grandi e continuo a scrivere
sceneggiature e fare film pensando alle sale
cinematografiche”.
Moretti ha affermato di aver
originariamente concepito una parte della sceneggiatura diversi
anni fa, incentrandola sempre sui moti ungheresi del 1956. “Non
siamo riusciti a scrivere la sceneggiatura, quindi ho rinunciato a
quell’idea”, ha detto. Tuttavia, quando è tornato in contatto
con lo sceneggiatore, ha cercato di esplorare la vita e tutte le
nevrosi di quel regista che invece stava girando un film sulle
vicende del ’56.
Protagonisti Nanni Moretti,
Margherita
Buy,
Silvio Orlando, Mathieu Amalric, Barbora Bobulova.
Tra i temi del film ci sono il cinema, il circo, gli anni
’50.
La casa di Carl
Fredricksen, brontolone protagonista di Up
della Pixar, è stata ricreata con oltre 68.000
mattoncini LEGO prima di prendere il volo con dei palloncini. Up è
uscito nel 2009, e racconta la storia di Carl
Fredricksen, un uomo di 78 anni che usa i palloncini per
far volare la sua casa fuori città con lo scopo di raggiungere le
Cascate Paradiso, senza accorgersi che insieme alla sua casetta
colorata, porta via anche Russell, un piccolo Esploratore della
Natura Selvaggia. Il film è stato co-diretto da Pete
Docter e Bob Peterson ed è stato un
successo di critica e pubblico, guadagnando oltre 735 milioni di
dollari in tutto il mondo e classificandosi come uno dei film Pixar
più amati.
Mentre la Disney celebra 100 anni di meraviglie, il canale
ufficiale della Casa di Topolino ha pubblicato un nuovo episodio di
Making Wonder su Youtube in cui si mostra la ricostruzione della
casa di Carl con l’incredibile cifra di 68.753 mattoncini
LEGO. Non solo, una volta ricostruita, la casa è stata
fatta anche volare con un numero spropositato di palloncini!
La Pixar è nota per i personaggi
iconici che attraversano i suoi numerosi film d’animazione
acclamati dalla critica. Che si tratti di Woody di Toy
Story, WALL-E o Mike e Sully di
Monsters and Co, lo studio di animazione ha
lasciato un segno indelebile nelle generazioni. E
Up ha continuato la tendenza, regalandoci
personaggi memorabili come Carl, Russell e Dug.
La storia del film di Barbie
è basata su un libro di successo, rivela Greta
Gerwig. Il tanto atteso film è stato scritto da
Noah Baumbach insieme a Gerwig che ha anche
diretto, reduce dai suoi successi dietro alla macchina da presa:
Lady Bird e Piccole Donne,
entrambi arrivati all’attenzione degli Oscar. A parte la Barbie di
Margot Robbie e il Ken di
Ryan Gosling che lasciano Barbieland alla ricerca
della vera felicità nel mondo reale, non si sa molto altro sulla
storia del
film.
Parlando con Vogue, Greta
Gerwig ha rivelato un dettaglio significativo
sulla storia del film di Barbie. Il film è in
parte basato sul libro best seller Reviving Ophelia, che
Gerwig ha letto quando era bambina. La sceneggiatrice-regista
afferma che il libro di saggistica del 1994, che esamina il brusco
cambiamento che si verifica nelle ragazze quando passano
all’adolescenza e soccombono alle pressioni della società, ha
parzialmente ispirato l’arco narrativo del film.
Sembra che quindi il passaggio al
mondo reale della Barbie protagonista del
film sia in qualche modo una metafora dell’ingresso
nell’adolescenza, nella maturità sessuale, in un mondo nuovo che
contestualizza e destruttura la considerazione di sé nel mondo. Il
film assume dunque una luce metaforica, che già aveva, ma indirizza
meglio il faro su quello che sarà il vero centro narrativo della
storia.
Oltre a Margot Robbie e
Ryan Gosling nei panni
di Barbie e Ken ci saranno infatti anche America Ferrera, Kate McKinnon,Michael Cera, Ariana Greenblatt, Issa Rae, Rhea Perlman e
Will
Ferrell. Fanno poi parte del cast del film anche
Ana Cruz Kayne, Emma Mackey, Hari Nef, Alexandra
Shipp, Kingsley Ben-Adi, Simu Liu, Ncuti Gatwa, Scott Evans, Jamie
Demetriou, Connor Swindells, Sharon Rooney, Nicola Coughlan, Ritu
Arya e il premio Oscar Helen Mirren.
Il film, diretto da Greta Gerwig e da lei scritto insieme a
Noah Baumbach arriverà in sala dal 21
luglio.
Dopo i risultati deludenti di
Black
Adam e Shazam! La Furia
degli Dei, Warner Bros. punta tantissimo su
The
Flash, che dovrebbe segnare il definitivo punto
di svolta per il franchise DC Comics al cinema, stando almeno a
quello che ha dichiarato James
Gunn.
Oltre a sfruttare l’approvazione di
personaggi come Tom
Cruise, Stephen King e persino il capo dei DC Studios
James Gunn (che insiste nel dire che questo
The
Flash è il suo film preferito del 2023), è stata presa
la decisione di presentare in anteprima un montaggio incompiuto del
film da oltre 220 milioni di dollari durante il CinemaCon di
aprile. Gli spoiler hanno subito iniziato a trovare la loro strada
online, mentre le proiezioni per i fan si stanno svolgendo a poco
meno di un mese prima dell’uscita del film nelle sale.
In un’intervista con Esquire Middle
Earth, il regista Andy Muschietti ha
lanciato una vera bomba confermando che
Nicolas Cage farò un’apparizione cameo nel film
nei panni di Superman. “Nic è stato
assolutamente meraviglioso”, dice il regista al sito.
“Anche se il ruolo era un cameo, si è tuffato in esso… Ho
sognato per tutta la vita di lavorare con lui. Spero di poter
lavorare di nuovo con lui presto”. “È un grande fan di Superman. Un
fanatico dei fumetti”, ha aggiunto Muschetti.
Nicolas Cage era originariamente stato scelto per
interpretare l’Uomo d’Acciaio nello sfortunato
Superman Lives di Tim Burton, 25 anni
fa. Il progetto è andato in pezzi per una serie di
motivi, anche se le foto di una prova costume di Nicolas Cage in completo di tuta blu e
mantello rosso circolano ancora in rete.
In merito a come sarà effettivamente
questo cameo, pare che il personaggio verrà mostrato mentre
combatte contro il famigerato ragno gigante che una volta era uno
dei cattivi principali del film.
The Flash: la trama e il
cast del film
In The
Flashi mondi si incontreranno quando Barry
userà i suoi superpoteri per viaggiare indietro nel tempo e
cambiare gli eventi del passato. Ma quando il tentativo di salvare
la sua famiglia altera inavvertitamente il futuro, Barry rimane
intrappolato in una realtà in cui il generale Zod è tornato,
minacciando distruzione, e senza alcun Supereroe a cui rivolgersi.
L’unica speranza per Barry è riuscire a far uscire dalla pensione
un Batman decisamente diverso per salvare un kryptoniano
imprigionato…. malgrado non sia più colui che sta cercando. In
definitiva, per salvare il mondo in cui si trova e tornare al
futuro che conosce, l’unica speranza per Barry è ‘correre per la
sua vita’. Ma questo estremo sacrificio sarà sufficiente per
resettare l’universo?
Fanno parte del cast di The
Flash l’attore Ezra Miller nei panni
del protagonista, riprendendo dunque il ruolo di Barry Allen da
JusticeLeague, ma anche l’astro nascente
Sasha Calle nel ruolo
di Supergirl,
Michael Shannon (“Bullet Train”, “Batman v Superman: Dawn of
Justice”), in quelli del Generale Zod, Ron
Livingston (“Loudermilk”, “L’evocazione – The
Conjuring”), Maribel Verdú (“Elite”, “Y
tu mamá también – Anche tua madre”), Kiersey
Clemons (“Zack Snyder’s Justice League”, “Sweetheart”),
Antje Traue (“King of Ravens”, “L’uomo
d’acciaio”) e Michael Keaton (“Spider-Man: Homecoming”,
“Batman”), che torna nel costume di Batman dopo oltre 30
anni.
Una clip tratta da uno spot
televisivo internazionale di Spider-Man:
Accross the Spider-verse, sembra rivelare al pubblico,
prima dell’uscita del film, il tanto discusso cameo live-action che
vedremo in questa seconda avventura cinematografica di
Miles Morales.
I fan avevano sperato in Tom Holland, invece si tratta semplicemente
della Signora Chen, un personaggio secondario di
Venom.
In quello che sembra essere un filmato riciclato da Venom: La Furia di
Carnage, la proprietaria del negozio si trova
brevemente faccia a faccia con La Macchia, anche se chiaramente non è
impressionata dal supercriminale che salta tra le realtà
(immaginiamo perché sia avvezza a questo tipo di situazioni, data
la sua amicizia con Eddie Brock). A QUESTO LINK POTETE VEDERE LA CLIP.
Miles Morales torna nel nuovo
capitolo della saga Spider-Verse, vincitrice di un premio Oscar®,
Spider-Man: Across the Spider-Verse. Dopo essersi riunito con Gwen
Stacy, l’amichevole Spider-Man di quartiere di Brooklyn viene
catapultato nel Multiverso, dove incontra una squadra di
“Spider-Eroi” incaricata di proteggerne l’esistenza. Ma quando gli
eroi si scontrano su come affrontare una nuova minaccia, Miles si
ritrova contro gli altri “Ragni” e dovrà ridefinire cosa significa
essere un eroe per poter salvare le persone che ama di più.
Sony Pictures Animation ha
ingaggiato Joaquim Dos
Santos(Voltron: Legendary Defender, La leggenda
di Korra), il candidato all’Oscar Kemp
Powers(Soul) e Justin
K. Thompson(Piovono polpette) per
dirigere il film, utilizzando una sceneggiatura scritta
da Phil Lord e Chris
Miller (che tornano anche come produttori insieme a
Amy Pascal, Avi Arad e Christina Steinberg) in collaborazione
con David Callaham(Shang-Chi
e La Leggenda dei Dieci Anelli, Wonder Woman
1984).
Non è stato ancora confermato, ma
sia Shameik Moore che la candidata
all’Oscar Hailee
Steinfeld dovrebbe tornare a doppiare
rispettivamente Miles Morales e Gwen Stacy. Nel sequel dovrebbero
ritornare anche gran parte degli attori che hanno prestato le loro
voci nel primo film, tra cui Jake
Johnson, Brian Tyree Henry, Lily Tomlin, Luna Lauren Velez,
Zoë Kravitz, John Mulaney,
Oscar Isaac e Kimiko Glenn. La
voce del villain sarà, in originale, doppiata da Jason
Schwartzman.
Stefan Kapicic
(Colosso) ha confermato che le riprese di Deadpool 3 sono
cominciate, e anche se il protagonista Ryan Reynolds
(Wade Wilson) o dal regista Shawn Levy non hanno
ancora confermato quello che ha dichiarato l’attore, Hugh Jackman è apparso su Instagram mostrando
un look molto familiare: l’attore australiano ha sfoggiato la sua
tipica barba da Wolverine, indicandoci che anche per lui è
imminente il momento di tornare sul set e far rivivere, è il caso
di dirlo, il suo Logan.
Hugh Jackman non menziona il trequel
dell’MCU nel suo post, ma nelle ultime
settimane si era fatto crescere la barba per poi rasarsi “le
costolette di montone di Logan” (anche se non sono così definite
come lo erano nel primi film degli X-Men) in preparazione delle
riprese londinesi.
Deadpool 3: quello che sappiamo sul film
Sebbene i dettagli ufficiali della
storia di Deadpool 3 non
siano infatti ancora stati rivelati, si presume che la trama
riguarderà il Multiverso. Il modo più semplice per i
Marvel
Studios di unire la serie di film di Deadpool
– l’unica parte del franchise degli X-Men sopravvissuta
all’acquisizione della Fox da parte della Disney – è stabilire che
i film di Reynolds si siano svolti in un universo diverso. Ciò
preserva i film degli X-Men della Fox nel loro universo,
consentendo al contempo a Deadpool e Wolverine di tornare e
potenzialmente viaggiare nell’universo principale dell’MCU.
In attesa di ulteriori conferme,
sappiamo che Shawn Levy dirigerà Deadpool 3, mentre
Rhett Reese e Paul Wernick, che
hanno già firmato i primi due film sul Mercenario Chiacchierone,
scriveranno la sceneggiatura basandosi sui fumetti creati da
Rob Liefeld, confermandosi nella squadra creativa
del progetto, dopo che per un breve periodo erano stati sostituiti
da Lizzie Molyneux-Loeglin e Wendy
Molyneux. Il presidente dei Marvel Studios,
Kevin Feige, aveva precedentemente
assicurato ai fan che rimarrà un film con rating R, proprio come i
primi due film, il che lo renderebbe il primo film dello studio con
tale classificazione matura. Deadpool 3 uscirà il
8 novembre 2024.
Il film, oltre a presentare
naturalmente Ryan Reynolds
di nuovo nei panni di Deadpool, vanterà anche il tanto atteso
team-up tra l’irriverente protagonista e Wolverine, con Hugh Jackman che uscirà dal suo pensionamento
da supereroe per riprendere il suo ruolo iconico degli X-Men. Anche Emma Corrin e
Matthew Macfadyen si sono uniti al cast in ruoli ancora
non del tutto resi noti, anche se la Corrin dovrebbe interpretare
uno dei villain del film. La pellicola sarà il primo film della
serie di film di Deadpool ad essere distribuito dopo l’acquisizione
da parte della Disney della 20th Century Fox.
La scorsa settimana, alcune foto
rubate dal set di Captain America: New World Order dei Marvel Studios sembravano rivelare
che Sam Wilson (Anthony Mackie), alla sua prima
“uscita pubblica” nei panni della Sentinella della Libertà, si
sarebbe dovuto scontrare con il gruppo malvagio noto come Serpent
Society.
La superstar della WWE Seth Rollins
è stata avvistata accanto a una
donna misteriosa (che si ritiene fosse Diamondback in base al suo
abbigliamento), e ora sembra che l’identità misteriosa dell’attrice
sia stata rivelata. Secondo Murphy’s Multiverse,
Rosa Salazar (Alita: Battle Angel) apparirà nel
film nei panni di Diamondback.
Serpent Society è un gruppo di
supercriminali composto da persone con poteri “a tema” di rettili e
hanno tutti nomi di serpenti come Cobra, Anaconda, oppure
Diamondback. QUI le foto dal
set.
Julius Onah dirige Captain America: New World Order, su una
sceneggiatura di Malcolm Spellman e Dalan Musson. Il cast
comprenderà
Anthony Mackie nei panni di Sam Wilson/Captain
America, Danny Ramirez nei panni di Joaquín
Torres/Falcon, Tim Blake Nelson nei panni di
Samuel Sterns/Leader, Carl Lumbly nei panni di
Isaiah Bradley e Shira Haas nei panni di Ruth
Bat-Seraph/Sabra. L’uscita al cinema è prevista per il 3
maggio 2024.
Arriva da Deadline la conferma che la due
volte candidata ai Primetime Emmy Rhea Seehorn è
entrata a far parte del cast di Bad
Boys 4. Adil El Arbi e
Bilall Fallah tornano alla regia da
una sceneggiatura di Chris Bremner, con il
cast del terzo capitolo, Bad
Boys for Life, che torna a bordo: prima di tutto
Will Smith e Martin Lawrence e poi anche Paola
Núnez, Vanessa Hudgens e Alexander
Ludwig. Eric Dane potrebbe interpretare il villain del
nuovo film.
Jerry Bruckheimer, Will
Smith e Doug Belgrad sono tornati alla
produzione; con Martin Lawrence, James Lassiter, Chad Oman,
Mike Stenson, Barry Waldman e Jon Mone
che si occuperanno della produzione esecutiva.
Seehorn ha recitato in 61 episodi di
Better Call Saul nei panni dell’avvocato Kim
Wexler e della fidanzata di Jimmy McGill/Saul Goodman, un ruolo che
l’anno scorso ha ottenuto una nomination ai Primetime Emmy come
attrice non protagonista. Ha anche ricevuto una nomination ai
Primetime Emmy nel 2022 come miglior attrice in una commedia o
serie drammatica di breve durata per Cooper’s Bar.
Altri crediti televisivi includono Whitney e
Veep e il film Linoleum con Jim
Gaffigan.
Da oggi, solo al cinema, arriva
Renfield,
il nuovo film con
Nicolas Cage, nei panni di Dracula, e
Nicholas Hoult, in quelli del suo servo fidato, in cui
si immagina un’altra storia per il personaggio del titolo, nato
dalla penna di Bram Stoker.
Il male non sarebbe eterno senza un
piccolo aiuto. In questa mostruosa avventura moderna del fedele
servitore di Dracula, il candidato all’Emmy Nicholas Hoult (Mad
Max: Fury Road, la saga di X-Men) interpreta Renfield, il
tormentato aiutante del boss più narcisista della storia, Dracula
(il premio Oscar® Nicolas Cage). Renfield è costretto a procurare
le vittime del suo padrone ed a eseguire ogni suo ordine, per
quanto spregevole. Ma ora, dopo secoli di servitù, Renfield è
pronto a scoprire se c’è una vita al di fuori dell’ombra del
Principe delle Tenebre. Se solo riuscisse a capire come porre fine
alla sua codipendenza.
Renfield è diretto dal vincitore
dell’Emmy Chris McKay (La guerra di domani, LEGO Batman – Il film)
da una sceneggiatura di Ryan Ridley (la serie di Ghosted, la serie
di Rick & Morty), basata su un’idea originale di Robert
Kirkman, creatore di The Walking Dead e di Invincible.
Il film è interpretato dalla
vincitrice del Golden Globe Awkwafina (The Farewell – Una bugia
buona, Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli), dalla vincitrice
dell’Emmy e candidata al premio Oscar® Shohreh Aghdashloo (Casa
Saddam, La Casa di Sabbia e Nebbia), Ben Schwartz (Sonic, The
Afterparty) e Adrian Martinez (I sogni segreti di Walter Mitty,
Focus – Niente è come sembra).
Renfield è una produzione
Skybound/Giant Wildcat, prodotto da Chris McKay, Samantha Nisenboim
(co-produttrice, La guerra di domani), Bryan Furst (Daybreakers –
L’ultimo vampiro), Sean Furst (Daybreakers – L’ultimo vampiro)
Robert Kirkman e David Alpert (The Walking Dead). Il produttore
esecutivo è Todd Lewis (manager dell’unità di produzione, Jason
Bourne).
Dopo aver presentato in concorso al
Festival di Cannes 2021 Parigi, tutto in
una notte, Catherine Corsini torna in
competizione alla Croisette con Le Retour (2023),
un viaggio emotivo nel passato e nella ricerca di identità di due
ragazze, Jessica e Farah che,
assieme alla madre Khédidja, fanno ritorno in
Corsica quindici anni dopo aver lasciato il loro paese natale. Il
film si addentra nella complessità di questa esperienza di
trasferimento, rivelando segreti familiari e tensioni sociali tra
mondi diversi, compreso il razzismo con cui si troveranno a fare i
conti.
La trama: ritorno in Corsica
Nella trama del film di Corsini in
concorso a
Cannes 76, Khédidja, tata di professione, è
stata invitata in Corsica da una famiglia benestante per occuparsi
dei loro figli piccoli in vacanza. Le sue due figlie la raggiungono
per l’estate: sono Jessica (Suzy
Bemba), 18 anni, studiosa e distante, e
Farah (Esther Gohourou), 15 anni,
che si sente poco apprezzata e vive nel caos. Il viaggio è
movimentato: le ragazze sono nate in Corsica, ma non hanno alcun
ricordo del luogo, a parte la consapevolezza che il padre è morto
lì. Khédidja nasconde informazioni sul loro passato, cosa che
Jessica e Farah non sopportano.
Nonostante ciò, almeno inizialmente,
tutto sembra rispettare i requisiti del meraviglioso viaggio estivo
per le sorelle che, tra giornate passate in spiaggia e nella
piscina a casa dei proprietari, non si sono mai sentite così
libere. Farah, un vero e proprio peperino, riesce
a mettersi nei guai con un gruppetto di ragazzi bianchi “boss”
della spiaggia, mentre Jessica inizia a provare sentimenti inediti
per Gaia (Lomane de Dietrich), la
figlia coetanea dei suoi datori di lavoro, un’adolescente
ribelle.
Dell’ultimo film della
Corsini se ne è parlato già prima della sua
presentazione al Festival e non per le migliori ragioni: sono state
avanzate denunce per le cattive condizioni di lavoro sul set, a cui
si è aggiunto il ritiro dell’investimento statale da parte del
Centre national du cinéma et de l’image animée perché la
casa di produzione ha dimenticato di dichiarare una scena di sesso
tra minori. All’indomani della prima sulla Croisette, la
Corsini ha poi spiegato che nel realizzare questo
film, la cui storia ha un legame particolare con il proprio passato
familiare, forse l’orgoglio le ha giocato un brutto scherzo ed è
stata troppo “pretenziosa”, pensando di potersi sostituire alla
figura di un coordinatore dell’intimità sul set di Le
Retour.
Formarsi nella terra del
passato
Corsini usa il
pretesto del ritorno di una madre e le due figlie al paese natale
per instaurare un dialogo col pubblico su come le differenze di
classe e di etnia determinino il destino di una famiglia e pone
l’attenzione sulla necessità di riconciliarsi con il presente per
proiettarsi in un futuro migliore. Si immerge nelle vite di questi
giovani e nelle loro ricerche in tempi di crisi, esplorando come
queste circostanze possano sia distruggere che dare vita alla loro
creatività. La narrazione offre uno sguardo autentico e onesto
sulla vita degli adolescenti in tempi di cambiamento e di scoperta,
avvalendosi di un realismo documentaristico notevole.
Le idee visive non mancano a
Catherine Corsini, che sa bene come entrare nella
testa di due adolescenti, tuttavia, la maggior parte delle
situazioni conflittuali in cui si trovano le due ragazze, quelle
che effettivamente contraddistinguono i racconti di formazione e su
cui sarebbe stato ottimo investire narrativamente, sono concentrate
più che altro nella seconda parte della storia e rischiano di
perdere credibilità. Un ammasso di problematiche, atti di
ribellione che cercano di arrivare a un climax non fanno che
lasciare lo spettatore ancora più confuso sulle vere intenzioni
della Corsini. Probabilmente, Le Retour funziona
più come opera personale, un racconto che la regista francese ha
imbastito per riconciliarsi con le sue origini e una terra con cui
ha sempre avuto un rapporto turbolento per sua stessa ammissione.
Come storia di formazione, coming of age che dovrebbe sfruttare la
presenza di queste ragazze in una terra a loro fondamentalmente
estranea ma che è parte integrante delle loro radici, risulta
incompleta.
Le vite di Luca (Riccardo
Maria Manera) e Giulia (Jenny
De Nucci) erano destinate a incrociarsi.
Massimo Cappelli dirige Prima di andare
via, questo dramma adolescenziale che ricorda Colpa
delle stelle o Io prima di te per l’importanza dei temi
trattati. I due giovani protagonisti sembrano legati da un destino
inesorabile: un tumore inoperabile che ha devastato le loro vite a
soli vent’anni. Ci sono diversi modi per reagire al dolore e
all’interno del film la vivacità e la positività di
Giulia trova l’abbraccio del tenebroso
Luca, che inaspettatamente si ritrova a dover
cambiare prospettiva.
Ad aiutarli, Samuel (interpretato da
Emanuele Turetta) il goffo e strampalato
coinquilino di Luca con cui condivide la sua vita da studente fuori
sede. Entrambi i ragazzi fanno di tutto per arrivare a fine mese:
Luca si arrangia con le consegne a domicilio e
proprio durante una di queste consegne rivede la sua ex fidanzata
storica, Sofia. Di ritorno alla pizzeria,
sovrappensiero il ragazzo ha un’incidente e viene portato in
ospedale. Così ha inizio Prima di andare via, il
nuovo film Prime Video originale italiano con Jenny De Nucci e Riccardo Maria Manera che
sarà disponibile in piattaforma dal 26 maggio.
Prima di andare via, la trama
L’incidente di Luca
darà il via a una serie di eventi che riassunti in un’ora e mezza
di film sembrano trattati in maniera quasi
precipitosa. Al ragazzo viene diagnosticato un
tumore inoperabile e fuori dall’ospedale conosce
Giulia, anche lei con la stessa diagnosi. Il
personaggio interpretato da Jenny De Nucci cerca di conferire positività e
allegria, la vediamo mentre durante il gruppo di ascolto cerca di
far imparare agli altri un balletto su TikTok ma nasconde comunque
delle paure. Luca è un ragazzo che la vita, un po’, la subisce. Ha
un migliore amico da tenere sotto controllo, un esame difficile da
superare e un’ex ragazza che gioca con lui come il gatto col topo.
Quando scopre di avere il tumore e conosce Giulia la sua vita
cambia prospettiva.
Tutti i problemi che nei primi
minuti sembrano insormontabili come l’affitto, gli esami
universitari e l’ex ragazza sono diventano minuscoli in confronto a
quello che gli sta capitando. Nel film questa spensieratezza che
emana Giulia arriva dritta allo spettatore che
anche se per poco smette di pensare per un attimo al dolore dietro
la malattia e alla retorica della lotta contro un male incurabile.
Luca e Giulia sono due ragazzi, due adulti che si
stanno conoscendo. Hanno degli appuntamenti fuori
dall’ordinario, e lì dove Luca vuole solo bere una birra
cercando goffamente di sorprenderla, lei invece organizza cene a
lume di candela super romantiche.
Un palloncino
Il racconto di Prima di
andare via corre spedito verso la fine e nasconde una
verità dolceamara. Si scopre presto che in realtà la diagnosi di
Luca deriva da un errore medico: sono state
scambiate le cartelle con un omonimo. Questo Luca non lo sa, è un
segreto che solo Samuel e lo spettatore conoscono.
Il coinquilino ha preferito tenere per sé questa notizia “l’ho
fatto per te”, gli dirà, perché vede nell’amico un modo diverso di
affrontare la vita. Solo quando la situazione di
Giuliacambia e peggiora, i due
conosceranno la verità. Così da complici, amici, confidenti Giulia
e Luca diventano praticamente estranei. Luca cambia casa dopo aver
litigato con Samuel e torna alla sua vita che,
senza Giulia, perde vitalità. Il film rincorre sé stesso perché
dopo poco il personaggio di Jenny De Nucci muore e senza di lei il film
cambia tono.
Solo durante il funerale ci rendiamo
conto dell’eredità lasciata da Giulia alle persone
a lei più care. In particolare, ai membri del gruppo di ascolto che
ha stimolato a reagire alla malattia piuttosto che subirla. Loro la
omaggiano sulle note di Amore disperato con la
coreografia che la ragazza stava preparando. Un simbolo del film è
il palloncino che vola attraverso l’opera di
Bansky e assume un significato di liberazione per
Giulia. Luca ricorderà per sempre il palloncino e alla fine del
film, dopo il funerale, quando ne vede uno volare ha consapevolezza
del fatto che la presenza di Giulia vivrà per
sempre nei suoi ricordi.
Tra gli eventi più affascinanti da
vedere al cinema vi è senza ombra di dubbio l’Apocalisse. I film
dedicati a tale catastrofe hanno sempre catturato l’attenzione del
pubblico, a cui viene data l’occasione di vedere qualcosa a cui si
spera di non dover mai essere diretti testimoni nella realtà. La
fantascienza apocalittica è dunque un sottogenere particolarmente
ricco, comprendente titoli come Meteor, 2012, The Day After Tomorrow e
Segnali dal futuro. Un
altro titolo particolarmente celebre e apprezzato dai fan del
genere è Deep Impact, diretto nel 1998
dalla regista Mimi Leder, già autrice di The Peacemaker e
The Code.
Originariamente il film doveva
essere diretto dal premio Oscar Steven Spielberg, ma i suoi impegni
con il film Amistad gli hanno impedito di ricoprire tale
ruolo, limitandosi dunque ad essere produttore di Deep
Impact. Nello stesso anno di uscita di questo film è poi stato
realizzato anche un altro titolo pressocché identico nelle premesse
narattive, ovvero Armageddon – Giudizio finale. Pur se
quest’ultimo ottenne incassi maggiori, fu però Deep Impact
ad ottenere il favore della critica, la quale lo indica come un
film meno sensazionalistico e come il più scientificamente accurato
tra i due.
Deep Impact rimane dunque
un film ideale per ogni amante di questo genere di racconti, che
offrono tensione, emozioni e grande intrattenimento, merito tanto
degli effetti speciali quanto delle interpretazioni dei
protagonisti. Prima di intraprendere una visione del film, però,
sarà certamente utile approfondire alcune delle principali
curiosità relative a questo. Proseguendo qui nella lettura sarà
infatti possibile ritrovare ulteriori dettagli relativi alla
trama e al cast di attori.
Infine, si elencheranno anche le principali piattaforme
streaming contenenti il film nel proprio catalogo.
Deep Impact: la trama del film
Tutto ha inizio quando Leo
Beiderman, un adolescente che ama l’astronomia, scopre uno
corpo celeste mentre sta guardando il cielo col telescopio. Quando
il ragazzino avvisa il suo insegnante, l’uomo decide di informare
immediatamente l’astronomo Marcus Wolf, che
capisce si tratti di una cometa in rotta di collisione con la
Terra. Mentre corre per avvisare le autorità, tuttavia, muore in un
tragico incidente d’auto, senza riuscire a informare nessuno,
lasciando di fatto cadere nell’oblio la scoperta. Dopo un anno, il
mondo viene infine a sapere che una cometa si sta dirigendo verso
la Terra e che lo schianto provocherà terribili conseguenze per gli
esseri umani.
Da subito le massime istituzioni del
globo si mobilitano per cercare di distruggere l’asteroide ed
evitare la distruzione del pianeta terra. Si progetta dunque di
costruire un vettore in grado di atterrare sulla cometa, facendola
poi esplodere. Nel frattempo, il presidente degli Stati Uniti
Tom Beck annuncia la costruzione di bunker
sotterranei, che possono ospitare però solo un milione di persone.
Diretti verso di esso ci sono il giovane Leo e la sua famiglia, ma
anche la giornalista Jenny Lerner. Mentre
l’impatto è sempre più prossimo, i destini di tutti si
incroceranno, in quelle che potrebbero essere le ultime ore
dell’umanità.
Deep Impact: il cast del
film
Ad interpretare il giovane Leo, uno
dei protagonisti del film, vi è l’attore Elijah Wood,
qui in uno dei suoi ruoli di maggior rilievo prima di consacrarsi
con la trilogia di Il Signore degli Anelli. L’attrice
Téa Leoni, nota
anche per Jurassic Park III e la serie Madam
Secretary, interpreta invece la giornalista Jenny Lerner,
impegnata a gestire il rapporto con i genitori Robin e Jason,
interpretati da Vanessa
Redgrave e Maximillian Schell. Altro
grande protagonista del film è il premio Oscar
RobertDuvall, qui nel ruolo del
capitano Spurgeon Tanner, un astronauta veterano incaricato di
pilotare il vettore incaricato di distruggere l’asteroide.
Morgan Freeman
è invece il presidente degli Stati Uniti Tom Beck. Per interpretare
il personaggio, l’attore chiese di poter sfoggiare un orecchino. La
regista fu però contraria alla cosa, ma permise invece di far
intravedere uno dei tatuaggi che l’attore ha sul braccio. Un
dettaglio che, a sua detta, gli conferisce un aspetto da uomo
qualunque. Sono poi presenti anche gli attori James
Cromwell nei panni del Segretario del Tesoro Alan
Rittenhouse, Jon Favreau in
quelli del dottor Gus Partenza e Ron Eldard in
quelli di Oren Monash, comandante del vettore.
Deep Impact: il trailer e
dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile fruire di
Deep Impact grazie alla sua presenza su
alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in
rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi di Rakuten
TV, Chili Cinema, Google Play, Apple iTunes e Amazon Prime Video. Per vederlo, una
volta scelta la piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il
singolo film o sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così
modo di guardarlo in totale comodità e al meglio della qualità
video. Il film è inoltre presente nel palinsesto televisivo di
mercoledì 24 maggio alle ore
21:00 sul canale Iris.
Acclamato come uno dei migliori film
del 2016, Il diritto di contare (qui la recensione) è diretto da
Theodore Melfi e racconta la storia della
scienziata afroamericana che collaborò con la NASA per la missione
Apollo 11, sfidando il razzismo e il sessismo dell’epoca. Il titolo
originale della pellicola è Hidden Figures, che
identifica proprio le figure rimaste sullo sfondo di questa e delle
altre donne coinvolte nelle operazioni della celebre agenzia
governativa. La storia qui raccontata trae ispirazione dal romanzo
omonimo di Margot Lee Shetterly, pubblicato nel
2016 dopo lunghe e ampie ricerche.
La scrittrice ha infatti iniziato a
lavorare al libro, appartenente al genere della saggistica, nel
2010. All’interno di questo si concentra in prevalenza sulla
biografia di tre tra le donne che più di altre si distinsero
all’interno della NASA. Per il suo importante contributo, il testo
diventa da subito un best seller, i cui diritti vengono subito
acquistati dalla Fox. In breve, la sua trasposizione
cinematografica viene ad essere realizzata, raccontando così la
vita di queste tre donne, impegnate a bilanciare la loro carriera
con la vita famigliare.
Uscito poi in sala, il film si è
rivelato uno dei maggiori successi cinematografici dell’anno. A
fronte di un budget di soli 25 milioni di dollari, Il
diritto di contare è arrivato ad incassarne globalmente
oltre 236. Anche i giudizi della critica sono stati particolarmente
entusiasmanti, con lodi particolari per le interpreti principali.
Presentatosi infine da protagonista ai premi Oscar, il film
conquistò ben tre nomination, rispettivamente come miglior film,
miglior attrice non protagonista e migliore sceneggiatura non
originale. Vinse invece il prestigioso Screen Actors Guild Award
come miglior cast.
La trama di Il diritto
di contare
La vicenda si svolge negli Stati
Uniti del 1961, in pieno periodo di lotte contro la segregazione
razziale. In tale contesto si svolge la vita della matematica
afroamericana Katherine Johnson. Insieme alle
colleghe Dorothy Vaughan e Mary
Jackson, anch’esse afroamericane, lavora come addetta
calcolatrice per la NASA. L’agenzia governativa è in piena
attività, poiché i recenti successi dei satelliti russi hanno reso
necessarie nuove conquiste spaziali da parte degli Stati Uniti.
Trasferita nella Space Task Group per via delle sue capacità in
ambito matematico, la Johnson si ritrova così impegnata a seguire
la squadra capitanata da Al Harrison, il cui
obiettivo è lanciare una capsula pilotata da uno degli astronauti
della base.
La donna svolge il nuovo lavoro al
meglio delle sue possibilità, ma si ritrova ad essere frenata dalla
mancanza di comunicazione con i nuovi colleghi. Questi, infatti, la
trattano con marcata sufficienza, essendo lei la prima donna di
colore a lavorare nel gruppo. Come lei, anche le due colleghe
dimostrano sempre più fatica nello svolgere il loro lavoro in un
contesto tanto chiuso e poco incline alla parità tra bianchi e
neri. Ma le tre donne sono dotate di una tenacia sorprendente e
faranno affidamento sulla consapevolezza di essere dotate di
capacità che gli altri non hanno. È così che si riveleranno
decisive ognuna nel loro settore, permettendo di ottenere risultati
altrimenti irraggiungibili.
Il cast del film
Ad impreziosire il cast vi sono
alcuni tra gli attori più popolari dell’attuale panorama
statunitense, tra cui diversi premi Oscar. Innanzitutto, a dare
volto al personaggio di Katherine Johnson vi è l’attrice
Taraji P. Henson, divenuta celebre grazie al film
Il curioso caso di Benjamin Button. Per approcciarsi al
ruolo, questa richiese di poter incontrare la vera Johnson, che
aveva all’epoca delle riprese ben 98 anni. Nonostante l’età,
l’attrice rimase impressionata dalla sua lucidità, e si fece
raccontare quanti più dettagli possibili per poter essere fedele
nella sua interpretazione. In seguito, la Johnson lodò la
performance dell’attrice, apprezzando il modo in cui l’aveva
ritratta.
A ricoprire il ruolo di Dorothy
Vaughan è invece Octavia
Spencer, divenuta celebre in seguito alla vittoria
dell’Oscar come attrice non protagonista per il film The
Help nel 2012. Anche la Spencer condusse diverse ricerche
sulla vera donna da lei interpretata, al fine di potersi calare al
meglio nei suoi panni. L’interpretazione, particolarmente
apprezzata, le valse una nomination all’Oscar, sempre come attrice
non protagonista. Infine, Mary Jackson ha qui il volto della
cantante e attrice Janelle Monae, che era presente
quell’anno anche in un altro dei film candidati al premio:
Moonlight.
Nel film si ritrova poi la presenza
del premio Oscar Kevin
Costner, il quale interpreta il personaggio di Al
Harrison. Questi è il capo della squadra dove inizia a lavorare la
Johnson, e sarà il primo a guardare con sospetto la donna. Jim
Parsons interpreta invece l’ingegnere capo Paul
Stafford. Anche lui membro della squadra, sarà tra tutti quello a
voler intrattenere meno rapporti possibili con la Johnson.
L’attrice Kirsten
Dunst dà invece vita a Vivian Mitchell, supervisore
della Johnson e della Vaughan, con la quale avrà accesi scontri.
Infine, il premio Oscar Mahershala
Ali è Jim Johnson. Questi è un ufficiale della Guardia
Nazionale, il quale intraprenderà una relazione con Katherine,
fonte di sostegno per entrambi.
Il libro e la storia vera dietro
Il diritto di contare
Come precedentemente riportato, nel
suo saggio l’autrice Shetterly ricostruisce la vita delle tre donne
all’interno della NASA basandosi su fonti e testimonianze
attendibili. La sua è una versione dunque quanto più possibile
fedele di quello che fu il loro lavoro e il rapporto con i
colleghi. Naturalmente, seppur in buona fede, per la trasposizione
cinematografica si resero necessarie una serie di modifiche volte a
dar al racconto una struttura più cinematografica, con una maggior
drammatizzazione di certi aspetti ed eventi. Innanzitutto, il film
si concentra sull’anno 1961, mentre come era facilmente
immaginabile la vera storia delle tre donne copre un arco temporale
molto più ampio.
Una particolare estremizzazione che
il film mette in atto è però proprio quella relativa alla
segregazione. La vera matematica Johnson affermò in diverse
interviste di non aver mai vissuto particolari eventi di razzismo o
sessismo all’interno degli uffici della NASA. Per quanto fosse
consapevole di essere guardata e trattata in modo diverso dagli
altri colleghi, ciò non era evidente tanto quanto mostrato nel
film. Secondo lei, infatti, ognuno era concentrato sul proprio
lavoro e sulle ricerche, ed era raro che vi fosse tempo per
evidenti episodi di razzismo. Nella realtà, inoltre, la Johnson non
si trovò promossa singolarmente nella Space Task Group. Lei
lavorava infatti nella Flight Research Division, e venne trasferita
insieme ai colleghi nella nuova divisione al momento della fondazione di questa, nel 1958.
In ultimo, molti dei personaggi del
film non sono realmente esistiti, come Vivian Mitchell, Paul
Stafford e Al Harrison. La loro presenza, probabilmente solo
vagamente ispirata a figure realmente esistite, è servita agli
sceneggiatori per accentuare gli scontri tra le donne e gli altri
membri della NASA. In generale, la gran parte degli eventi narrati
nel film seguono la vera storia delle tre donne e delle loro
ricerche, modificando solo alcuni aspetti delle loro vicende. Se
molti chiusero un occhio circa tali rimaneggiamenti, non mancarono
comunque alcune critiche a riguardo, che accusavano di aver voluto
eccessivamente caricare di drammaticità una storia che non lo
meritava.
Il trailer del film e dove vederlo
in streaming e in TV
Per gli appassionati del film, o per
chi desidera vederlo per la prima volta, sarà possibile fruirne
grazie alla sua presenza nel catalogo di alcune delle principali
piattaforme streaming oggi disponibili. Il diritto di
contare è infatti presente su Rakuten TV,
Google Play, Apple
TV+, Amazon Prime Video e Disney+. In base alla
piattaforma scelta, sarà possibile noleggiare il singolo film o
sottoscrivere un abbonamento generale al catalogo. In questo modo
sarà poi possibile fruire del titolo in tutta comodità e al meglio
della qualità video. Il film verrà inoltre trasmesso in televisione
mercoledì 24 maggio alle
ore 21:30 sul canale Rai
1.
Finalmente una serie comica capace
di allietare, far sorridere delle piccole disavventure che ognuno
di noi affronta nella propria quotidianità. I creatori Nick
Stoller e Francesca Delbanco hanno saputo
carpire il cuore di ciò che significa essere persone comuni e lo
hanno inserito in situazioni e personaggi che, esaltando la loro
assoluta normalità, si fanno paladini spiritosi delle frustrazioni
dell’uomo e donna contemporanei.
La storia su cui si dipana
Platonic non potrebbe essere più
semplice: un tempo migliori amici, Sylvia (Rose Byrne) e Will (Seth Rogen)
decidono di incontrarsi anni dopo una lite che li ha tenuti lontani
l’una dall’altro. E in questo modo scoprono quanto sono in realtà
cambiati dai tempi del college e delle scorribande goliardiche di
cui erano protagonisti: lei è una madre di famiglia che ha
rinunciato alla carriera avvocatizia per accudire i tre figli,
mentre lui ha appena divorziato e gestisce un bar nella paura
costante di crescere.
Saper raccontare i problemi della vita quotidiana
Platonic propone una gamma
ampia ed esaustiva di quelli che sono i problemi della vita
quotidiana, e lo fa con un’ironia tanto precisa quanto ficcante.
Fin dall’episodio pilota – che scriviamolo subito, non è neppure
lontanamente il migliore di quelli proposti dalla stagione –
entriamo dentro l’universo di due personaggi che potrebbero essere
tranquillamente i nostri vicini di casa, tanto amabili quanto
lontani anni luce da alcun tipo di “caratterizzazione” volta a
renderli drammaticamente interessanti. Perché allora
Platonic funziona così bene? Perché sa esattamente cosa
vuole raccontare e come farlo nella maniera giusta: la verità e
l’attenzione al lato assurdo delle situazioni in cui ognuno di noi
potrebbe trovarsi in un giorno qualunque sono sviluppate con
perizia, puntata dopo puntata, immergendo lo spettatore dentro un
mondo tanto comprensibile quanto realmente divertente.
Platonic e il valore dei suoi interpreti
E qui il merito principale della
riuscita dello show deve essere attribuito ai due attori
principali, in particolar modo alla Byrne. Se infatti
Seth
Rogen dimostra di essere maturato come attore
continuando esplicitamente a interpretare il “tipo fisso” che
propina al pubblico ormai da decenni – dimostrandolo anche nel
recente The Fabelmans di
Steven
Spielberg – Rose Byrne conferma
definitivamente, se ce fosse stato ancora il bisogno, di essere
un’attrice in grado di saper indossare la leggerezza delle proprie
figure femminili con una precisione emotiva ammirevole.
La sua Sylvia diventa in questo modo
una figura a tutto tondo, intendendo con questo amabile non
soltanto per i suoi numerosi pregi ma anche, anzi forse
soprattutto, per i piccoli difetti, le dolci e umanissime
scorciatoie che prende come donna che deve fare i conti con le
proprie piccole insoddisfazioni, tenendole a bada per il bene
comune. La sua capacità di essere vera eppure sempre divertente,
guizzante, in qualche caso ruvida al limite dell’isteria, ha ormai
raggiunto un livello di competenza attoriale che a nostro avviso
poche colleghe posseggono oggi quando si tratta di commedia. È
senza dubbio lei il valore aggiunto di uno show comunque molto
efficace nel suo studio di caratteri e situazioni.
Se volete trascorrere una mezz’ora
insieme a personaggi con cui potete specchiarvi, alle prese con
problemi che potrebbero senza dubbio appartenervi, Platonic merita
di essere abbracciata e coccolata. Per la sua semplicità, per la
sua volontà di stuzzicare e magari anche far riflettere sui
percorsi inaspettati, sui piccoli scarti di rotta che in fin dei
conti possono decidere la vita di una persona almeno quanto le
grandi decisioni. Si ride, si partecipa con affetto alle
vicissitudini di questi due anti-eroi nel senso più profondo del
termine. Non c’è proprio nulla di eroico in Sylvia e Will. E
proprio per questo possiamo davvero rivederci in loro…
Per qualcuno il suo
ultimo The French Dispatch è stato il film più
emozionante del Festival di Cannes del 2021, e il
più deludente, e a distanza di due anni il nuovo film di
Wes Anderson sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda. Di
nuovo sulla Croisette per Asteroid City, di nuovo in
concorso per la Palma d’Oro con un affresco dei suoi, costruito su
diversi livelli e sceneggiato insieme a Roman
Coppola, ma soprattutto nel quale – con Jason
Schwartzman e
Scarlett Johansson (la cui “breve nudità” ha causato
problemi con la censura) – appaiono in ruoli diversissimi tra loro
Tom Hanks,
Jeffrey Wright,
Tilda Swinton,
Bryan Cranston,
Adrien Brody,
Margot Robbie e
Steve Carell.
Benvenuti ad Asteroid City
Nulla è reale ad
Asteroid City, come vediamo sin dalla prima scena,
nella quale un autore (Edward
Norton) sta scrivendo la storia di una occasionale e
variegata comunità, raccolta nel deserto del SouthWest statunitense
– forse tra Arizona e Nevada – per il raduno di “giovani astronomi
e cadetti spaziali” che riunisce studenti dotati e i loro genitori
in una località caratterizzata dalla caduta di un piccolo meteorite
ormai circa 3.000 anni prima.
L’ambientazione e –
soprattutto – gli eventi eccezionali che vi si svolgono e che
vediamo mentre vengono letteralmente messi in scena sono quelli
della fantascienza di una volta, ma le relazioni che si
stabiliscono tra gli 87 abitanti e i suddetti visitatori sono
quanto di più umano ci sia. E di coerente con i precedenti del
regista, tra militari pomposi, scienziati alienati, attori famosi e
meno famosi, cantanti country e famiglie disfunzionali di ogni
tipo.
Wes Anderson sci-fi
contro l’Intelligenza Artificiale
Non è detto che
Wes Anderson apprezzerebbe di veder definito il
suo film“delizioso”, come in molti hanno fatto. Soprattutto dopo
tanti precedenti nei quali però il gusto estetico e il talento
decorativo del regista texano erano sicuramente più funzionali alla
storia narrata. Che qui, al contrario, e come nel precedente
The French Dispatch, sembra più
finalizzata a permettergli di sfogare il suo estro e regalare al
suo pubblico più appassionato quei ‘dettagli’ che tanto ce lo hanno
fatto amare.
Nei tableaux che compone
ognuno può trovare quel che vuole, da Billy Wilder
a Steven Spielberg, dalle tragedie
esistenziali e familiari di frontiera ai B-movie di fantascienza
anni 50, con i quali il film ha in
comune un narratore (Bryan
Cranston) da dramma radiofonico. Tra set televisivo e
teatro, dal bianco e nero alla solita palette di colori caldi e
pastello, il fine settimana intorno al cratere nel deserto si
sviluppa gradualmente, come gli intrecci tra i suoi
protagonisti.
Su tutti il vedovo
fotografo di guerra Augie Steenbeck (Jason
Schwartzman), diviso tra figli, suocero (Tom
Hanks) e la star Midge Campbell (Scarlett
Johansson), fotografata in bagno in pose che vanno
dalle Pin Up dell’epoca al Marat di Jacques-Louis
David. Grandi nomi, che difficilmente potranno ambire a
una nomination agli Oscar per la mancanza della possibilità di
offrire una vera interpretazione, a differenza di quanto accaduto
in passato per le candidature raccolte dai suoi film – non a caso
per animazione, colonna sonora e sceneggiatura – o i premi andati
ai costumi, la scenografia e il trucco ottenuti di Grand Budapest Hotel nel 2012.
Nella vita, “non
puoi sapere cosa succederà”
Ma non importa. Come dice
Bryan Cranston è come nella vita, “non puoi sapere
cosa succederà, quanto durerà o chi incontrerai, devi solo andare
avanti”. E, incurante di renderla comprensibile,
Wes continua a raccontare la storia che ha dovuto
girare approfittando persino della pandemia e della vera quarantena
che stavamo vivendo nel mondo reale, prima che in quello
rappresentato sullo schermo. Nel quale tutto viene sublimato, non è
una novità, ma dove le cose spesso assumono contorni e significati
diversi, o addirittura mai sottesi al significante.
Ma non importa nemmeno
questo, dove sia il confine – o dove lo si superi – tra la
creazione originale dell’artista o quella rielaborata dallo
spettatore. Tanto più in una pièce così strutturata, che cambia
continuamente di piano – dalla Asteroid City
rappresentata al backstage dove i suoi interpreti tornano attori
(che interpretano attori) – in un gioco di scatole cinesi. In
ciascuna delle quali c’è un pezzetto del cuore del regista, una sua
paura, un trauma irrisolto, o trasformato in topos.
Meno slegato e
inutilmente denso dell’ultimo, con qualche – apprezzatissimo –
inserto animato, ovviamente nella stop motion più artigianale
possibile, qui l’unità di luogo aiuta sicuramente a non perdersi
tra tante divagazioni e intermezzi. Forse non del tutto
giustificate o necessarie, per una volta. Una volta di più,
purtroppo, ché l’analisi del mondo del teatro e della televisione,
dopo quello del giornalismo di The French Dispatch, offre sì uno
smascheramento della realtà, ma fa sentire la mancanza di storie
tanto articolate quanto riuscite, nelle quali l’accumulo di
situazioni, battute, fotografie, personaggi, rendesse la sensazione
di un
film e non di una striscia domenicale.
Valerio Mastandrea e Alessandro
Borghi - Crediti: Musacchio, Pasqualini, Fucilla/Musa
Dal 18 al 22 maggio, al
Lingotto Fiere di Torino, tanti sono stati gli
ospiti che hanno attraversato lo specchio al Salone
Internazionale del Libro 2023. Fra questi, Valerio Mastandrea e Alessandro
Borghi, che nella Sala Azzurra al Padiglione 3,
moderati da Francesca Serafini, hanno incontrato
il pubblico per parlare di Claudio Caligari, in un
bell’omaggio al maestro e al modo di fare cinema.
Per l’occasione i due attori hanno ripercorso alcune tappe salienti
della loro carriera, regalando aneddoti e momenti toccanti. Del
regista, scomparso per una malattia nel 2015,
Valerio Mastandrea ricorda subito L’odore
della notte del 1998, film facente parte di una
trilogia apertasi con Amore tossico e conclusasi con
Non essere cattivo, ultimo lavoro di Caligari
prima di morire.
Il primo a prendere la parola, con
la sua ironia, è proprio Mastandrea che in L’odore
della notte interpreta Remo, il protagonista: “Io
ho fatto Remo solo alla fine”, inizia, “ero stato chiamato
per interpretare uno dei compagni del protagonista, tutt’altro
personaggio, e ho conosciuto Claudio in quella occasione. Non lo
avevo mai visto per intero, quindi quando l’ho incontrato pensavo
fosse uno di Ostia e invece mi sono ritrovato davanti un uomo di
Arona. E ho detto: Oh cavolo! Era la seconda volta che mi capitava
perché avevo visto un altro film, Un’altra vita, di un altro grande
maestro, Carlo Mazzacurati, ambientato in una Roma che soltanto un
romano poteva conoscere, e quando scoprii che era di Padova mi
prese un colpo.“
“Eppure in queste occasioni
capii una cosa importante: come il cinema poteva essere
strumento per conoscere le cose, raccontarle anche
non essendoci natodentro.”,
prosegue l’attore, “Questo
è un grande insegnamento: bisogna immergersi tanto prima di poter
raccontare qualsiasi cosa. Tornando al film di Caligari, a venti
giorni dalle riprese venni richiamato ed esaminato, e alla fine lui
mi voleva chiedere se volevo fare Remo, il protagonista. Ci volevo
pensare perché la proposta mi aveva emozionato. Alla fine ho
accettato e da lì in poi con Claudio è nato un sodalizio così, come
nascono le amicizie tra coetanei, che non sai quando ti sei
conosciuto, perché ti sembra che nella tua vita avete sempre
camminato insieme. E secondo me quelli sono gli amici con cui
riesci a camminare nel presente.”
Claudio Caligari, il suo cinema con
Alessandro Borghi e Luca Marinelli
Mastandrea, che con Claudio
Caligari ha instaurato un rapporto di amicizia, è stato
poi produttore della sua ultima opera, Non essere cattivo, diventato un cult.
Proprio come ricorda Serafini, Caligari apprezzava molto Alessandro Borghi e Luca Marinelli, che nel film interpretano
rispettivamente Vittorio e Cesare. Ed è proprio il
primo a ricordare commosso il suo maestro, che come conferma lo
stesso Borghi è stato fra quelli che più gli hanno insegnato la
materia cinematografica. “Io sono stato molto travolto
dall’aver conosciuto Claudio Caligari. Mi ha dato tanti
insegnamenti senza rendersene neanche conto, e questa è una cosa
molto bella. Era sempre uno scambio continuo di qualcosa
che aveva a che fare con il racconto, con la grande
passione di raccontare una storia.”
“La prima cosa che ho imparato
era la necessità di raccontare delle storie, a prescindere da
tutto, al di fuori della dinamica del commercio, dei soldi, del tax
credit. Io ho fatto dieci anni di televisione brutta e non mi
rendeva felice. Facevo delle cose che quando le riguardavo mi
vergognavo e non mi facevano stare bene. Poi ad un certo punto sono
arrivati prima Stefano Sollima che mi ha fatto fare Suburra e
subito dopo il film di Claudio Caligari, Non essere cattivo, una
svolta. Ogni volta che ho un nuovo progetto, penso sempre a quello
che mi ha insegnato, e lo applico. Io ho un prima e un dopo
Claudio”, come “esiste un prima e un dopo Cristo”,
gli fa eco il collega accanto.
Mastandrea ricorda anche le parole
di Fabrizio Gifuni ai David di Donatello 2023, in memoria di
Caligari e del suo saper “stare dentro le storie”:
“Per lui doveva essere tutto credibile. Doveva filtrarlo prima
lui, verificarne la credibilità.” Subito dopo, per rafforzare
le parole del collega Borghi, è stato mostrato un video-saluto di
Luca Marinelli, il quale ha omaggiato il regista con un aneddoto
divertente ma profondo: “Un giorno, in una scena di Non essere
cattivo, andai da Claudio preso da un dubbio sull’atteggiamento del
mio personaggio (Cesare ndr). Arrivai da lui spiegandogli
le sensazioni che secondo me il personaggio sentiva e tutti i
ragionamenti che faceva nei confronti della madre. Ad un certo
punto lo guardo, lui mi guarda e mi dice: se Cesare ragionasse così
sarebbe un idiota.”
“All’inizio pensavo si riferisse
proprio a me, ma poi lui mi disse che non dovevo mai giudicare il
personaggio che stavo interpretando, perché lui è un pianeta che fa
parte di un sistema e sicuramente vuole entrare in comunicazione
con un altro pianeta in orbita (che sono gli altri personaggi,
in questo caso la madre di Cesare ndr). Questo mi aiutò molto e
fu una grande lezione di cinema, molto diretta. E poi, se Valerio
Mastandrea, Alessandro Borghi e io siamo diventati una grande
famiglia è proprio grazie a Claudio.”
Inevitabile, verso la fine, il
pensiero a Le otto montagne, film di Felix Van Groeningen e
Charlotte Vandermeersch, che ai David di Donatello 2023 si è
portato a casa quattro premi, fra cui quello a Miglior film, oltre
a vincere l’anno prima il Premio della giuria al Festival di
Cannes. In realtà, Le otto montagne è debitore a
Non essere cattivo di Caligari per il rapporto
d’amicizia che si è creato fra i due protagonisti. “Ho
ragionato molto su questa cosa mentre stavamo facendo il film
(Le otto montagne ndr).”, ha detto Borghi, “Lì (in Non
essere cattivo ndr), Luca ed io ci siamo uniti, siamo
diventati fratelli, e la cosa è rimasta immutata nel tempo. Però
poi è successa una cosa molto bella: su quelle montagne è come se
avessimo riscoperto la nostra capacità di essere amici. Fino a che
punto riuscivamo ad esserlo stando da soli a fare una pausa pranzo
in mezzo a un prato. Abbiamo messo a disposizione dei personaggi la
nostra amicizia e sarebbe stato stupido non farlo. Abbiamo parlato
molto del fatto che Pietro e Bruno sono come noi, lontani, se si
considera che io vivo a Roma e lui a Berlino e che, come me e Luca,
si vedono una volta l’anno e che hanno, sempre come noi, due
visioni completamente diverse della vita.”
“Queste differenze enormi ci
hanno uniti, e io non riuscirei ad immaginare più la mia vita senza
Luca, professionalmente e umanamente. L’altro giorno ho fatto
incorniciare una foto emblematica, io, Luca Marinelli e Valerio
Mastandrea seduti su un divano a Los Angeles, per promuovere Non
essere cattivo di Claudio Caligari, e quando la guardo è
incredibile come lì ci siano tre universi diversi, e come questi
tre universi riescano ad essere uno soltanto, più
grande, quando sono insieme. Ed è la bellezza dell’unione di questo
lavoro ma anche dell’amicizia nella sua essenza. Di essere liberi
di parlarsi apertamente e dirsi quando le cose vanno bene o male e
nell’applicazione del lavoro, prendere tutti quegli elementi e
poterli mischiare e mixare, per metterli a disposizione di un’altra
storia, è un grande regalo.”
Con una sferzata di comicità
inquietante, interrogandosi sui ruoli e gli spazi che occupiamo
nella vita, arriva in concorso al Festival
di Cannes 2023May December, il nuovo
film di Todd Haynes (Io non sono
qui, Carol), con protagoniste Natalie Portman, Julianne Moore e la star di Riverdale Charles Melton. Nel film, vent’anni dopo che
la loro famigerata storia d’amore sui giornali scandalistici aveva
attanagliato la nazione, la coppia con una grande differenza d’età
formata da Joe e Gracie (Melton
e Moore) inizia a vacillare quando un’attrice,
Elizabeth (Portman),
trascorre un periodo a casa loro per prepararsi al suo prossimo
film, in cui interpreterà proprio Gracie.
May December: amore suburbano
In May December,
Julianne Moore si riunisce con
Haynes per interpretare Gracie
Atherton-Yoo, un’ex insegnante svampita che è diventata
famosa nel 1992 quando ha lasciato l’ex marito per uno dei suoi
studenti tredicenni. Ora siamo nel 2015, la situazione si è in
qualche modo normalizzata, e Gracie e
Joe stanno insieme da abbastanza tempo che i loro
figli più piccoli stanno per diplomarsi. Nella villa in riva al
mare di Savannah, che Gracie e Joe hanno pagato con le loro
apparizioni nel reality show “Inside Edition“, arrivano
ancora occasionalmente pacchi pieni di escrementi, ma queste
consegne – “regali” di estranei casuali che non riescono a digerire
la storia d’amore della coppia – sono diventate meno comuni ora che
la loro storia d’amore scandalosa si è stabilizzata nella realtà
suburbana. O almeno così sembra.
Ma il passato non è ancora pronto a
mollare la presa su questi folli ragazzi e Gracie
non ha il buon senso di tenerlo a distanza di sicurezza. Nonostante
il suo scetticismo nei confronti delle celebrità, Gracie decide di
stendere il tappeto di benvenuto all’attrice televisiva
Elizabeth Berry, interpretata da Natalie Portman. Elizabeth ha la stessa età di
Gracie quando ha fatto sesso con Joe per la prima volta nel retro
di un negozio di animali – un ricordo che è diventato di dominio
pubblico – ed è destinata a interpretarla in un prossimo film
indipendente sullo scandalo.
Percezioni doppie e distorte
In May December, lo
studio dei doppi significa mettere letteralmente in scena un film
nel film per caratterizzare i suoi personaggi: solo analizzando a
fondo le parvenze di chi ci sta accanto, i loro modi di fare,
provando a ricalcarli e a capire che ruolo giocano nella nostra
esistenza, riusciamo ad addentrarci nella psicologia di
Joe, Gracie ed
Elizabeth. Come per un’attrice che si è calata
troppo nel personaggio, uscire dalla bolla domestica di Joe e
Gracie non sarà facile, e neanche riuscire a stabilire
effettivamente con certezza cosa ci stanno raccontando di vero e
quanto alcune informazioni che stiamo collezionando siano falsate
dalla percezione distorta che vogliono avere della realtà.
Tutto nella relazione e nella
quotidianità di questa improbabile coppia è ribaltato: valori,
ruoli, vita di coppia. Joe è un ragazzo cresciuto
troppo in fretta, con non troppa differenza di età rispetto ai suoi
figli, ma che deve prendersi cura della personalità fragile di
Gracie e, dunque, adempiere a molti più compiti e ruoli:
contemporaneamente è marito, padre e amico. Il personaggio della
Moore, dall’altro lato, ha fermato l’attimo
nel momento in cui ha conosciuto Joe: ha disintegrato il suo
precedente matrimonio per un ragazzino che allora andava alle medie
e, senza pensare a conseguenza alcuna, ha deciso di rifondare una
propria idea di nucleo famigliare. Gracie pensa
che riempiendosi la casa di gente, affetti, cimeli e futili ricette
di torte e pasticceria varia che i suoi vicini le commissionano per
pietà, possa colmare il vuoto che una relazione così sproporzionata
sotto ogni punto di vista ha lasciato in lei. In realtà,
mentalmente è regredita a uno stato pressochè adolescenziale e vede
in Joe un principe salvatore, solerte nel proteggere
contemporaneamente lei e tutta la famiglia allargata che si porta
dietro.
Un case study tra realtà e
finzione
L’Elizabeth di
Natalie Portman è il jolly che corrisponde al
punto di vista spettatoriale in May December e che
tenta di discernere il vero dal falso, ciò che è successo e le
percezioni amplificate dal presente e dalla manipolazione dei
tabloid, tra Gracie e Joe. Pur
avvicinandosi e toccando con mano la vita di Gracie, facendo alcune
delle sue esperienze quotidiane, Elizabeth mantiene
un’imperturbabilità di fondo. All’esterno, si ridicolizza al
massimo tentando di carpire il segreto di un’esistenza grottesca e
con lei
Natalie Portman, che accetta di mettersi nei panni di
un’attrice forse ancora più macchietta del personaggio reale che
dovrà interpretare. Mentalmente, invece, non siamo mai sullo stesso
livello di Elizabeth: è vero che fa esperienza assieme a noi
pubblico, che ci conduce passo a passo nella vita di Gracie e Joe
nella loro villa in Maine, ma diventa illeggibile tanto quanto i
suoi “case study“.
Tra le tre performance, forse quella
che emerge di più e che sorprende proprio perchè viene da un
giovanissimo della recitazione, è quella di Melton. L’attore di Riverdale
riesce a catturare in toto le sfaccettature del suo personaggio,
conferendogli un’aria da belloccio dei tanto popolari young adult
ma affibbiandogli anche un’aria costantemente desolata e
malinconica, incerta nel suo trovarsi costantemente in bilico tra
l’essere adulto e il tornare bambino. Il suo Joe è
contemporaneamente appetibile e tenero, solare e angoscioso. Un
personaggio vincente che si è auto-confinato in un terreno di
isolamento totale, lontano dal tono camp della pellicola, dai
colori vivi della sua fotografia e lussureggianti della natura che
lo circonda. Forse è proprio attraverso il personaggio di Joe che
Haynes riesce a sbugiardare i suoi personaggi, l’artificiosità dei
loro comportamenti e del finto paradiso che si sono creati.
Melodramma camp fino al midollo, l’ironia disturbante di Todd
Haynes fa luce con May December sulle
(s)proporzioni dei ruoli e dei valori famigliari di una realtà
pervasa dalla finzione.
E’ facile immaginare che per
Francesca Scorsese il mondo del Festival di Cannes non sia del tutto
nuovo, ma è chiaro che partecipare al Festival con un
cortometraggio in concorso è sicuramente un’esperienza differente.
Scorsese, che al festival del 2023 presenta Fish Out of Water, ha
parlato anche delle sue passate esperienze a
Cannes: “Ricordo solo il tappeto quando ero più piccola e
ricordo di aver guardato tutti perché avevo probabilmente 10 anni o
addirittura di meno”.
Fish Out of Water
segue la storia di una figlia che si riconnette con il padre
separato e la madre sempre più malata, e Francesca
Scorsese ha approfondito il concetto per la sua tesi di
laurea alla New York University. Sebbene la relazione padre-figlia
nel film non abbia, dice, alcuna relazione con la vita reale,
c’erano aspetti in linea con le esperienze di sua madre.
“Penso che volevo principalmente
raccontare una storia di legame familiare attraverso la malattia e
momenti davvero difficili, così come la cura di un membro della
famiglia, perché è qualcosa che ho fatto per la maggior parte della
mia vita con mia madre che ha il Parkinson. Quindi, è stato un po’
il mio modo di affrontare quei ricordi.”
Suo padre, Martin Scorsese, ha sostenuto enormemente i
suoi sogni di regista e questo film, ha detto. “L’ho mostrato a
mio padre. Mio padre lo ha inviato ai suoi amici. Sono abbastanza
sicuro che Ari Aster l’abbia visto. Ero tipo, ‘Oh mio
dio.'”
Ma ha poi spiegato che a causa della
rappresentazione della malattia del personaggio della madre, era
estremamente nervosa all’idea di mostrare il film a sua madre.
“È stato assolutamente terrificante mostrarlo a mia madre, più
che a tutte le altre persone”, ha detto. “Lei diceva
sempre, ‘Oh, voglio vederlo.’ E io dicevo, ‘OK, ma potresti non
essere davvero felice.’ Ovviamente è un argomento molto delicato.
Ma mostrandoglielo, mi sono seduta nella stanza e mio padre mi ha
detto che dovevo restare nella stanza. Ero tipo, ‘Vado, andiamo’. E
lui, ‘Siediti in quella stanza, resta nella stanza. Devi essere lì
con lei, basta tenerle la mano.’ E e poi gli ho detto, ‘Hai
ragione. Davvero.’”
Il supervisore degli effetti
speciali di Oppenheimer,
Scott R. Fisher, spiega come ha creato una finta
esplosione nucleare senza l’uso di CGI. Diretto da Christopher Nolan,
Oppenheimer racconta la vita e la
carriera del fisico teorico J. Robert Oppenheimer,
che fu una delle figure chiave responsabili della creazione della
bomba atomica. L’epopea storica vede Cillian Murphy nel ruolo del protagonista
dopo che per molti anni ha lavorato con Nolan sempre in ruoli
secondari.
Fisher fa un tuffo profondo negli
effetti speciali del film in una nuova intervista con Total
Film (tramite Slash Film). Il supervisore
degli effetti speciali entra nei dettagli su come è riuscito a
creare un’esplosione di una bomba nucleare senza CGI, rivelando che
si sono affidati ad alcune tecniche di ripresa “vecchia scuola” per
farlo sembrare reale.
“È come una tecnica della
vecchia scuola. Non le chiamiamo miniature; le chiamiamo big-ature.
Le facciamo più grandi che possiamo, ma riduciamo la scala in modo
che sia gestibile. Si avvicina la fotocamera e lo si fa
nell’ambiente il più grande possibile.
Si tratta principalmente di
benzina, propano, cose del genere. Ma poi introduciamo anche cose
come polvere di alluminio e magnesio per migliorare davvero la
luminosità e dargli un certo aspetto. Abbiamo fatto un po’ di
esperimenti, perché volevamo davvero che tutti parlassero di quel
lampo, quella luminosità. Quindi abbiamo cercato di replicarlo il
più possibile”.
È stato rivelato per la prima volta
l’anno scorso che l’esplosione nucleare di Oppenheimer è
stata creata senza CGI, il che è emblematico dell’atteggiamento
generale di Nolan verso gli effetti pratici. Sebbene i film di
Nolan presentino certamente CGI, è quasi sempre per abbellire o
migliorare le scene che sono state catturate dalla telecamera. È la
dedizione del regista alle tecniche cinematografiche della vecchia
scuola che fa davvero risaltare i suoi film nel panorama del cinema
moderno, con il suo uso di effetti pratici che conferiscono
all’azione una sensazione tattile e realistica che la CGI non può
proprio replicare.
Il film, che la Universal
distribuirà dal 21 luglio, è una delle uscite estive più ambiziose
degli ultimi anni. Quella estiva è una stagione che di solito è
riservata ai film di evasione e ai film sui supereroi, ma Oppenheimer
è alle prese con alcuni temi pesanti, per non parlare del fatto che
racconta di uno sviluppo scientifico che ha rimodellato il corso
della storia. Oppenheimer
ha guidato il Progetto Manhattan come capo del Los Alamos
Laboratory, prima di diventare un critico delle armi di distruzione
di massa. “La sua storia è sia un sogno che un incubo”, ha
detto Nolan.
Il film è stato girato in 70 mm con
telecamere Imax e il trailer che Nolan ha condiviso alternava scene
in bianco e nero e scene a colori con un design di produzione
impeccabile. Un Cillian Murphy dall’aspetto scarno e con in
testa un fedora è un duplicato esatto di Oppenheimer,
e ha l’aria di un distruttore di mondi.
Con a capo Murphy, che è un
fedelissimo di Christopher Nolan, il cast del film si
presenta davvero ricchissimo di star. Ci sono anche
Matt Damon nei panni del generale Leslie Groves,
Robert Downey Jr. nei panni di Lewis Strauss, un
membro della Commissione per l’energia atomica, ed Emily Blunt nei panni della moglie di
Oppenheimer, Katherine. Il cast include anche Rami
Malek e Florence Pugh.
Oppenheimer
uscirà al cinema in Italia il 23 agosto 2023. Distribuito da
Universal Pictures.
Michelle Randolph e
Jacob Lofland si sono uniti a Billy Bob Thornton nella prossima serie di
Taylor SheridanLand
Man alla Paramount+.
A darne la notizia è stato il noto sito
americano Variety
che ha appreso in esclusiva che anche Ali
Larter reciterà nella serie.Secondo il
logline ufficiale, la serie “è ambientata nelle proverbiali
città del boom del Texas occidentale ed è una moderna storia di
persone in cerca di fortuna nel mondo delle piattaforme
petrolifere. La serie racconterà la storia sia ai piani alti che ai
piani bassi che alimentano un boom così grande che sta rimodellando
il nostro clima, la nostra economia e la nostra geopolitica”.
La serie è basata sul podcast “Boomtown“.
Michelle Randolph
interpreterà Ainsley Norris, descritta come “la selvaggia e
volitiva figlia diciassettenne di Tommy Norris (Billy
Bob Thornton)”. Lofland interpreterà Cooper Norris,
“il figlio di Tommy, che è nuovo al lavoro impegnativo nei
giacimenti di petrolio e gas del Texas occidentale”. Ali
Larter interpreterà Angela, l’ex moglie di
Tommy. La serie vedrà riunirsi Sheridan e
Randolph, dopo aver recitato insieme nella serie prequel di
Yellowstone
e 1923.
È anche nota per ruoli in film come “The Resort” e “5 Years
Apart”. Lofland è esploso con il suo ruolo di
debutto nei panni di Neckbone nel film del 2012 Mud con
Matthew McConaughey e Tye Sheridan. Da allora ha continuato a
recitare nel franchise cinematografico “Maze
Runner” e in spettacoli come “Justified”, “Texas
Rising” e “The Son”. Apparirà anche nel sequel “Joker: Folie à Deux”.
Land Man è co-creato e prodotto da
Taylor Sheridan e Christian Wallace. Sheridan è
produttore esecutivo sotto la sua società Bosque Ranch
Productions, che è attualmente impegnata con un ricco
accordo generale con Paramount Global. Billy Bob Thornton è anche produttore
esecutivo oltre a recitare. David Glasser, David Hutkin, Ron
Burkle e Bob Yari sono anche produttori esecutivi tramite 101
Studios. Geyer Kosinski è produttore esecutivo insieme a Dan
Friedkin e Jason Hoch per Imperative Development LLC, e Scott Brown
e Megan Creydt per Texas Monthly. Peter Feldman è il
co-produttore esecutivo. MTV Entertainment Studios sta
producendo la serie.
Dopo una manciata di apparizioni
secondarie, Julia Louis-Dreyfus, che nel Marvel Cinematic Universe
interpreta Valentina Allegra de Fontaine, promette che il
suo ruolo in Thunderbolts
avrà molto più spazio.
Introdotto nell’universo
cinematografico Marvel in The Falcon and the Winter
Soldier, l’attrice di Seinfeld e Veep interpreta una losca
figura del governo che convince il John Walker di Wyatt
Russell a diventare US Agent e assume Yelena Belova
(Florence
Pugh) per uccidere Clint Barton in
Hawkeye. È stata vista l’ultima volta in
Black Panther: Wakanda Forever, dove è stato
rivelato che è l’ex moglie di Everett Ross (Martin
Freeman) e che ha recentemente ottenuto la posizione di
direttore della CIA.
Mentre parlava in esclusiva con
Screen Rant per promuover eil
suo nuovo film You Hurt My Feelings, a
Julia Louis-Dreyfus è stato chiesto del suo
imminente ritorno nel MCU con Thunderbolts. Pur mantenendo il segreto
sui dettagli della sua parte nel film, Julia
Louis-Dreyfus ha assicurato che il film collettivo avrebbe
esplorato di più il personaggio di Val rispetto a quanto è stato
fatto fino a questo momento. “Non posso dirti niente! [Ride]
Sì, te lo posso dire, si vedrà molto di più di lei. Ecco il tuo
scoop!”.
Il roster di Thunderbolts
il cast è attualmente composto da Red Guardian (David
Harbour), Ghost (Hannah
John-Kamen), Yelena Belova (Florence
Pugh), Bucky Barnes/The Winter Soldier
(Sebastian
Stan), John Walker/ Agente statunitense (Wyatt
Russell) e Taskmaster (Olga
Kurylenko). Secondo quanto abbiamo appreso la contessa
Valentina Allegra de Fontaine (Julia
Louis-Dreyfus) metterà insieme la squadra e potrebbe anche
essere parzialmente responsabile della creazione di
Sentry.
Harrison Ford sostituirà
il defuntoWilliam Hurt nei panni di Thaddeus
“Thunderbolt” Ross, che potrebbe finire per trasformarsi in Red
Hulk. Nel cast sono stati annunciati anche Ayo
Edebiri, in un ruolo ancora non stato rivelato.
Thunderboltsuscirà
nelle sale il 26 luglio 2024. Jake Schreier (Robot and Frank,
Dave) dirigerà Thunderbolts,
che si baserà su una sceneggiatore scritta dallo
sceneggiatore di Black Widow Eric
Pearson.
Dopo le
immagini della contemporanea Lydia Deetz (Wynona
Rider), nuove foto dal dietro le quinte di Beetlejuice
2 anticipano un set particolarmente adeguato al tema
del film: si tratta delle foto di un vecchio e spettrale
cimitero.
Il sequel del classico
Beetlejuice di Tim Burton del
1988 ha richiesto diversi decenni di conversazioni e accordi per
potersi mettere in moto. Nel febbraio 2022 è stato riferito che il
progetto era in fase di sviluppo e le riprese sono iniziate
ufficialmente questo mese. Beetlejuice 2 dovrebbe uscire il 6
settembre 2024 nelle sale USA.
Nelle foto dietro le quinte
pubblicate su Twitter da Mad Monster, le nuove immagini di Beetlejuice
2 mostrano una cripta inquietante e una chiesa
solitaria.
A couple more
#BehindtheScenes
#Beetlejuice2 set pics. Some sort of Crypt maybe? Currently
filming in Buckinghamshire U.K under the secret title “Blue Hawaii”
Starring Michael Keaton, Winona Ryder and Jenna Ortega. Beetlejuice
2 will likely be released in 2024. pic.twitter.com/Ok92IV6pZi
Michael Keaton, Winona
Ryder e Catherine O’Hara riprenderanno i
loro ruoli dal primo film, insieme a new entry di serie A nel cast
del film che sarà diretto da Tim Burton.
Jenna Ortega (Mercoledì) in particolare è stata scelta
per interpretare la figlia di Lydia Deetz. Justin
Theroux e William Dafoe sono stati scelti
per il film, con quest’ultimo destinato a interpretare un agente
delle forze dell’ordine nell’aldilà. Successivamente, è stato
annunciato che Monica Bellucci si era unita al
cast e interpreterà la moglie dello spiritello dispettoso
protagonista. Anche il compositore Danny Elfman,
sodale di Burton, è tornato nel team creativo. Beetlejuice
2 dovrebbe uscire il 6 settembre 2024 nelle sale
USA.
Si muove a partire da una premessa
interessante il filmRenfield, diretto da Chris
McKay (Lego Batman, The Tomorrow
War), ovvero quella secondo la quale il rapporto esistente tra
il Conte Dracula e il suo assistente R. M.
Renfield non è altro che, usando l’odierno modo di dire,
una relazione tossica. Che le dinamiche esistenti tra questi due
personaggi siano tutt’altro che sane non è certo un’invenzione di
Robert Kirkman, autore della storia, né dello
sceneggiatore Ryan Ridley, bensì di colui che
questi personaggi li ha inventati nel lontano 1897, ovvero
Bram Stoker. Tale chiave di lettura viene però qui
ulteriormente esaltata, specialmente grazie al fatto di avere, per
una volta, Renfield come assoluto protagonista.
Interpretato da Nicholas Hoult,
egli continua a servire il leggendario vampiro sin dagli eventi del
Dracula del 1931, di cui Renfield è un
“quasi-sequel“, secondo la definizione di McKay. Dopo aver
attraverso gli oceani del tempo ed essere arrivati nel mondo
contemporaneo, i due continuano indisturbati le loro attività, con
Renfield che procura nuove vittime al suo padrone e questi che se
ne ciba per diventare sempre più forte. La vita di Dracula sembra
però non avere né uno scopo né una direzione precisa, ed ecco
allora che il potente vampiro decide che è giunto il momento di
conquistare il mondo. Renfield inizia però ad assaporare una vita
diversa da quella, con la consapevolezza che intraprenderla
significherebbe tradire il suo maestro.
Un film pulp per il più famoso dei
vampiri
Sin dai primi materiali
pubblicitari rilasciati, Renfield lasciava intendere
di essere un progetto pensato con il piede schiacciato sul pedale
della follia. Con questa premessa, non ci si poteva dunque
aspettare qualcosa di particolarmente elaborato da un punto di
vista del racconto e l’aspettativa puntualmente non viene smentita.
L’intreccio è quantomai esile e quando le varie linee narrative
iniziano a convergere verso il finale ecco che diventa anche
noiosamente prevedibile. Il principale interesse di Kirkman, Ridley
e McKay risulta piuttosto essere quello di confezionare una serie
di scene, gag o anche solo battute che possano risultare memorabili
nella loro follia, intrattenendo e possibilmente reggendo l’intero
film.
Naturalmente affidare un intero
lungometraggio a tali elementi raramente è una buona idea.
Renfield riesce però ad offrire un numero
tale di momenti pulp, tra combattimenti estremamente sanguinolenti
e interazioni effettivamente divertenti tra i personaggi, da
riuscire a risultare – complice la sua adeguata durata di 93 minuti
– un prodotto godibile e divertente, che trova il suo giusto tono
tra horror, commedia ed azione splatter. Il che probabilmente è ciò
che conta di più. Innegabile però che anche il citato pedale della
follia appare ben presto non essere premuto fino in fondo,
lasciando dunque la sensazione che se proprio doveva essere questo
l’elemento su cui fondare il film, tanto valeva crederci un po’ di
più.
Renfield e la sua relazione tossica
La vera arma a doppio taglio, che
probabilmente farà però storcere il naso solo ai più smaliziati, è
proprio la sua chiave di lettura riguardante le relazioni tossiche.
Questa risulta inizialmente interessante applicata ai due
protagonisti, mostrando in particolare gli effetti che ha sulla
psiche di Renfield (con tanto di sua partecipazione a gruppi di
sostegno). È un elemento che rimane “sullo sfondo”, che giustamente
si fa percepire più per immagini che non per parole pronunciate dai
protagonisti. Nel momento in cui sul finale il concetto viene però
ribadito in maniera ancora più esplicita, a mo’ di lezione di vita,
ecco che diventa didascalico, svuotato di valore. Un di più che
spezza non solo il momento in cui è aggiunto ma fa acquisire
all’intero film un che di furbo poco gradevole.
Nicolas Cage: un magnifico Dracula
Innegabile che ad aver reso degno
di particolari attenzioni questo progetto, rimasto a lungo in stand
by per via dei problemi del Dark Universe, ci sia
la presenza del premio Oscar Nicolas Cage nei panni
del conte Dracula. L’attore, che negli ultimi anni sta vivendo una
seconda vita artistica grazie a film bizzarri come Mandy,
Pig o Il talento di Mr. C, aggiunge così alla sua
collezione di personaggi anche l’iconico vampiro, che interpreta
come suo solito con un fare sopra le righe che però, dato il
personaggio, risulta particolarmente appropriato. Ancor di più,
l’interprete riesce a rendere il proprio Dracula simpatico (nella
sua crudeltà) ed effettivamente minaccioso quando occorre.
Non sfigurano tuttavia neanche
Nicholas Hoult nei panni del protagonista del
titolo e, in particolare, Awkwafina – qui nel
ruolo dell’intransigente poliziotta Rebecca Quincy – dotata di una
verve comica e una presenza scenica che non si smentiscono mai.
Sono decisamente loro, con la notorietà ed esperienza di cui
godono, la principale attrattiva del film, che può comunque vantare
anche delle affascinanti scenografie ed un buon trucco per quanto
riguarda le trasformazioni fisiche di Dracula. I tre reggono sulle
loro spalle il film, contribuendo indubbiamente alla sua generale
riuscita nonostante le pecche più su evidenziate.
Dopo la Palma d’oro alla
carriera del 2021 e le tante partecipazioni (da Il traditore e Vincere, solo per citare gli ultimi in
concorso, o Esterno notte e Marx può aspettare, in
Cannes Première), Marco Bellocchio sceglie di nuovo il
Festival
di Cannes per
presentare la sua ultima opera. E
Thierry Frémaux sceglie di nuovo il nostro regista, questa volta
nella sezione più importante con il Rapito che 01
Distribution porta al cinema a partire dal 25 maggio. Una storia
vera, raccontata in maniera unica anche grazie alle interpretazioni
magistrali di un cast perfetto nel quale spiccano il Papa Pio IX di
Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi,
Filippo Timi e il Miglior Attore dei David di
Donatello 2023, Fabrizio Gifuni.
Rapito: la storia vera di tanti ebrei
italiani
Il piccolo Enea Sala e
Leonardo Maltese, una volta cresciuto, danno vita al bolognese
Edgardo Mortara, bambino ebreo che nel 1858 fu strappato alla sua
famiglia per essere allevato da cattolico sotto la custodia di Papa
Pio IX. Un caso internazionale trattato ampiamente – come anche i
tanti analoghi – da David I. Kertzer, Marina Caffiero o Vittorio
Messori (in Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX – memoriale
inedito del protagonista del “Caso Mortara”), oltre ovviamente
che in “Il caso Mortara” di Daniele Scalise, al quale si
sono liberamente ispirati il regista e
Susanna Nicchiarelli per la sceneggiatura, stesa con la
collaborazione di Edoardo Albinati, Daniela Ceselli e la consulenza
storica di Pina Totaro.
Tutto inizia nel
quartiere ebraico di Bologna, quando i soldati del Papa arrivano a
casa della famiglia Mortara per portare via il piccolo Edgardo, di
sette anni. Temendo per la sua vita, all’età di sei mesi, l’allora
domestica l’aveva segretamente battezzato e a distanza di anni il
diritto canonico dello Stato Pontificio esige che il ragazzino
riceva un’educazione cattolica e venga cresciuto dal Vaticano. E’
l’inizio di una battaglia legale, e politica, che non si conclude
nemmeno con il declino del potere temporale della Chiesa per la
conquista di Roma del 20 settembre 1870.
Il
racconto unico e potente di Marco Bellocchio
La componente tecnica è
importante nel racconto che fa Marco Bellocchio della storia di Edgardo
Mortara, ma ancora una volta è lo sguardo del regista di Bobbio a
rendere unico il risultato finale che arriva sul grande schermo.
Come sempre, la sua capacità di armonizzare dati oggettivi,
narrativa e suggestioni oniriche regala un film personale e
riconoscibile, capace di polarizzare lo sguardo del pubblico pur
rappresentando l’umanità dei soggetti in causa. Unico e potente,
grazie anche alla partecipazione determinante della fotografia di
Francesco Di Giacomo, la scenografia di Andrea Castorina, i costumi
di Sergio Ballo e Daria Calvelli o le musiche di Fabio Massimo
Capogrosso, chiamate in molti casi a farsi carico di un sottotesto
non secondario.
L’alternarsi delle
ottiche rende ancor più maestosi e distorti gli ambienti vaticani
nei quali si svolge il dramma di Edgardo e della famiglia Mortara,
una grandiosità soffocante che i crescendo drammatici del commento
musicale rendono ancora più opprimente. Costringendo il piccolo
ebreo rapito a rifugiarsi nella fantasia e in un personalissimo
rapporto con il Cristo al quale si trova costretto a rendere
continuo omaggio. Confuso, affascinato, curioso, nell’uomo
inchiodato alla croce il bambino vede quasi un compagno di
sventura, da aiutare, come nessuno sembra volere – o potere –
aiutare lui.
Qualcosa che lo accomuna
al Pio IX di un incredibile Pierobon, altra figura non rassicurante
né lineare. Un Papa minaccioso e violento (come sa la delegazione
della comunità ebraica romana guidata da Paolo Calabresi, irrisa e ricattata), eppure
costretto a combattere con il proprio essere Papa Re, pur malato e
a suo modo visionario, per mantenere il controllo sulla propria
gente, anche a costo di umilianti ‘lezioni’ (come quella impartita
all’impacciato Edgardo, ormai cresciuto e fedelissimo).
Nell’opera
Rapito di
Bellocchio convivono l’empatia e l’orrore, la commozione e il
sacro timore, componenti apparentemente inscindibili di una realtà
complessa, non semplice nemmeno per i più faziosi, che un tema
tanto divisivo sicuramente chiamerà in causa. Prova ulteriore ne
sia la messa in scena – molto riuscita e d’effetto – in parallelo
di riti e penitenze, tanto della famiglia ebrea riunita, quanto
dell’algido funzionario di Fabrizio Gifuni, capace di rendere ancor più
disumano il frate domenicano Pier Gaetano Feletti, inquisitore
nell’esercizio delle sue funzioni. Ma soprattutto dell’alternarsi
di volti e liturgie diverse del processo all’ecclesiastico e della
cresima del ragazzo che sanciscono la definitiva sconfitta da parte
della famiglia.
La scoperta delle reali
motivazioni della servetta alla base del rapimento e la sorda
presunzione dell’istituzione vaticana sono ‘dettagli’ che
renderanno ancora più inaccettabile il tutto allo spettatore
moderno, ma più dell’invito a contestualizzare ripetuto a più
riprese da regista e attori è lo stesso finale a creare una anomala
sospensione. La fervida immaginazione visiva di Bellocchio – come
già in Buongiorno, notte e altrove – lascia aperta una porta
tra sogno e cronaca. E il dubbio – anche se in una scena forse
troppo confusa e contraddittoria – di un’anima più tormentata di
quel che deve esser stata, viste le note finali sulla storia del
Mortara adulto, morto in monastero a novanta anni dopo una vita da
missionario.