Il regista giapponese
Ryusuke Hamaguchi con il suo Drive my
car, in uscita il 23 settembre, distribuito da Tucker Film,
accompagna lo spettatore in un viaggio a bordo di una Saab rossa,
che è anche viaggio interiore, utile ai protagonisti a scoprire
aspetti di sé fino ad allora ignorati e a risolvere conflitti
interiori.
Hamaguchi è un
regista molto amato dalle giurie dei festival internazionali e con
il suo precedente lavoro,
Il gioco del destino e della fantasia, si è
aggiudicato l’Orso d’Argento al Festival di
Berlino. Drive my car, tratto dall’omonimo
racconto di Murakami, inserito
nella raccolta Uomini senza donne, è stato premiato a
Cannes 2021 per la Migliore
sceneggiatura.
La trama di
Drive my car
Kafuku, Hidetoshi
Nishijima, è un regista e attore teatrale, sua moglie Oto,
Reika Kirishima, una sceneggiatrice per la tv. I due si
amano e tra loro c’è una buona intesa. Lei inventa spesso storie
fantastiche dopo l’amore. Quando Kafuku, rientrato a casa prima del
previsto, scopre che Oto lo tradisce con un giovane attore, non ha
il coraggio di parlargliene. Dopo la morte improvvisa di lei, però,
Kafuku resta solo e rimpiange di non averle parlato. Chiamato a
dirigere uno spettacolo ad Hiroshima, Zio Vanja di Cechov,
il suo cavallo di battaglia – ha interpretato spesso il
protagonista – gli viene affidata come autista una ragazza ventenne
silenziosa e assai discreta, Misaki, Toko Miura.
Durante i viaggi nella Saab 900 turbo cui Kafuku tiene tanto, i due
iniziano a conoscersi e si instaura un rapporto profondo, nutrito
dalle reciproche solitudini. Intanto Kafuku ha scelto gli attori
per il suo spettacolo e ha affidato il ruolo di Vanja proprio
all’ex amante della moglie. Mentre Cechov spinge tutti a guardarsi
dentro e confrontarsi, il protagonista cerca di elaborare il suo
dolore e percorrere nuove strade, anche grazie alla presenza di
Misaki, che apre a nuovi punti di vista.
La sceneggiatura
di Drive my car
E’ stata la capacità del
regista e sceneggiatore Hamaguchi nel costruire storie,
caratteristica anche di uno dei personaggi di Drive my
car, a conquistare Cannes. Storie nella storia, narrazioni
nella narrazione, letteratura e teatro nel cinema. Il film, scritto
a quattro mani dal regista con Takamasa Oe , trae
ispirazione dal racconto di Murakami contenuto nella
raccolta Uomini senza donne, mescolandovi altri spunti
provenienti dallo scrittore nipponico. A ciò si aggiunge, ed è
prtagonista, il teatro di Cechov, con Zio Vanja, e
non si rinuncia ad un accenno al Beckett di Aspettando
Godot. Il regista innesca così un gioco di rispecchiamenti tra
Kafuku e Vanja, ma anche tra gli altri attori, interpreti della
piece, e i rispettivi personaggi, tra il viaggio in macchina che
porta Kafuku e Misaki a condividere uno spazio in cui si aprono
l’un l’altro e il viaggio metaforico della compagnia di attori che
condividono il palco, il luogo delle prove, dando qualcosa di sé
stessi agli altri.
Questa materia densissima
di riferimenti letterari e teatrali è usata dal regista per
affrontare la solitudine, la morte, la perdita, la disabilità, ma
anche la passività, la tendenza a nascondere, la paura e
l’incapacità di aprirsi.
La recensione di
Drive my car
Drive my
car non è un film per tutti. I suoi 179 minuti richiedono
uno spettatore avvezzo a un andamento lento, non frenetico e che
sappia prescindere dai colpi di scena a ogni piè sospinto, che
piuttosto, sappia appassionarsi a viaggi interiori e silenzi
significativi.
La storia è divisa
nitidamente in quattro fasi – vita di Kafuku con la moglie fino
alla sua morte, preparazione e messa in scena di Zio Vanja,
viaggio di Kafuku e Misaki sui luoghi del passato, attualità.
Questi cambi di scenario con passaggi di tempo, oltre che segnare
le tappe emotive del percorso del protagonista, hanno l’obiettivo
di tenere viva l’attenzione dello spettatore lungo un film
eminentemente di parola, figlio di Murakami e Cechov.
Ciò nonostante,
l’incedere del film è e resta lento. Il testo finisce spesso per
dominare sull’azione davanti alla macchina da presa, raffreddando
le emozioni che arrivano allo spettatore. Vi sono, certo, momenti
intensi ed emotivamente coinvolgenti, e sono soprattutto quelli dei
silenzi, dove acquista importanza il primo piano che coglie le
emozioni o l’inquadratura dell’elemento emblematico: snodi stradali
come gli snodi dell’esistenza; due mani vicine, che compiono lo
stesso gesto. Restano però momenti, sparsi all’interno di un
racconto dove è pur sempre il testo a veicolare riflessioni e
concetti, ma anche emozioni, che sarebbero potute arrivare in
maniera molto più naturale, spontanea e fruibile, se svincolate da
esso. In particolare, la parte dedicata alla preparzione e alla
messa in scena di Zio Vanja, che descrive minuziosamente
tutto il processo, dalla selezione del cast, fino alla sera della
prima, appare davvero troppo ampia. Ragione ne è, si potrebbe dire,
il meccanismo di rispecchiamento di Kafuku nel personaggio di
Vanja, il che è evidente. Tuttavia, sembra che il regista abbia
difficoltà a staccarsi dalle proprie matrici d’ispirazione, il che
invece, avrebbe dato al film una maggiore agilità, rendendolo anche
più coinvolgente.
Il cast offre buone
prove, soprattutto Nishijima e Miura. Non è facile
interpretare la solitudine introversa che li contraddistingue, la
loro passività di fronte alla vita, lasciando trasparire però la
voglia e la speranza di cambiare. Tuttavia, l’interpretazione,
soprattutto quella del protagonista, soffre del fatto che non debba
valicare quasi mai i rigidi confini letterari e teatrali,
restandone in certi frangenti, appesantita.
Con Drive my
car, in sala dal 23 settembre, Hamaguchi lancia però
un messaggio di speranza nel futuro. Ogni ferita, anche la più
dura, è sanabile, ma non da soli. Occorre aprirsi all’altro,
abbandonare le proprie sicurezze e accettare di far entrare l’altro
nel proprio mondo, dandogliene le chiavi. Proprio come fa Kafuku
con Misaki, affidandole quelle della sua Saab 900 turbo rossa. Solo
attraverso lo scambio con l’altro si possono capire i propri
errori, far proprie prospettive nuove e pensare di cambiare, in
meglio, la propria vita.
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