Home Blog Pagina 445

One Piece: tutti i cambiamenti della serie Netflix rispetto al manga di Eiichiro Oda

La serie live-action di One Piece di Netflix (qui la recensione) modifica diversi elementi rispetto alla storia originale, pur rimanendo fedele al manga di Eiichiro Oda. La prima stagione di One Piece è composta da otto episodi e copre i primi 95 capitoli del manga. Considerando il numero di personaggi e luoghi raccontati dal manga fin dall’inizio, ci si aspettavano cambiamenti rispetto al materiale originale. Fortunatamente, la maggior parte delle modifiche apportate alla serie live-action di One Piece ha a che fare con il ritmo piuttosto che con cambiamenti sostanziali di personaggi o circostanze.

Eiichiro Oda era direttamente coinvolto nello show e avvisava i produttori ogni volta che qualcosa non andava bene. La prima stagione di One Piece ha mostrato molto rispetto per il materiale originale e dei riferimenti profondi e mirati nella ricreazione accurata di scene iconiche. Tuttavia, sono state apportate molte modifiche alla storia, a partire da personaggi scomparsi fino a nuovi ambienti. Ecco i cambiamenti più importanti apportati dalla prima stagione di One Piece al manga.

Garp ha condotto l’esecuzione di Gold Roger

Alcuni dei più grandi cambiamenti di One Piece per il live-action hanno a che fare con il personaggio di Garp, la cui prima apparizione nel manga è avvenuta nel capitolo 92. Nello show live-action, Garp è colui che guida l’esecuzione di Gold Roger. Questa scena viene rievocata anche nel finale della prima stagione, quando Garp, guardando Luffy che ride, ricorda la risata beffarda e divertita di Gold Roger nel momento dell’esecuzione.

Volti familiari vengono rivelati subito durante l’esecuzione di Gold Roger

Numerosi personaggi importanti di One Piece erano presenti all’esecuzione di Gold Roger, inclusi Shanks, Mihawk e Smoker. Anche se questo è esattamente ciò che accade nel manga, questi personaggi non vengono mostrati la prima volta che si racconta dell’esecuzione di Gold Roger. One Piece rivisita la morte di Roger molte volte, ma la serie live-action ha preferito mostrare subito questi personaggi importanti.

Shanks è più vecchio durante il flashback dell’esecuzione

L’esecuzione di Gold Roger è avvenuta 22 anni prima degli eventi principali di One Piece. Sebbene One Piece di Netflix mantenga la stessa sequenza temporale, Shanks è significativamente più vecchio nel flashback dell’esecuzione rispetto alla sua controparte manga/anime. Pertanto, lo Shanks di oggi è più vecchio nell’anime che nel manga.

Shanks dice che andrà alla ricerca del One Piece

Nel manga, Shanks dice a Luffy che la sua squadra è al Windmill Village da troppo tempo. Shanks saluta Luffy ma non dice esattamente dove sta andando con la sua ciurma. Nel live-action, Shanks dice espressamente che anche loro stanno inseguendo il One Piece.

Luffy non viene risucchiato in un vortice

L’attuale introduzione di Luffy nello show di One Piece è molto simile a come avviene nel manga, ma con alcune differenze. Invece di affrontare un mostro marino locale e poi essere risucchiato in un vortice, Luffy decide di entrare in un barile dopo che la sua barca ha iniziato ad affondare. Il risultato è lo stesso: Luffy viene ripescata dall’equipaggio di Alvida.

Vediamo Zoro che affronta Mr. 7 del Byzantine Works

L’introduzione di Zoro in One Piece di Netflix è molto diversa dal materiale originale. Invece di incontrare il “demone cacciatore di pirati” a Shells Town, Zoro viene presentato al pubblico davanti alla tomba di Kuina. Inoltre, Zoro combatte contro Mr. 7 dopo che il membro dei Byzantine Works ha cercato di reclutarlo. Sebbene questo combattimento avviene anche nella storia originale, se ne fa riferimento solo molto più tardi e non è mostrato all’inizio di One Piece.

Nami viene presentata a Shells Town

Nel manga, Nami si unisce alla storia solo nel capitolo 8, dopo la conclusione dell’arco narrativo di Shells Town. In One Piece di Netflix, Nami viene introdotta pochi minuti dopo l’episodio 1 e partecipa all’arco narrativo di Shells Town. Questo cambiamento è stato mutuato dall’anime, che vede Nami coinvolta negli eventi di Shells Town, proprio come accade nel live action.

La “lotta” tra Luffy e Koby non avviene

Koby ha un ruolo più importante in questa parte della storia nel live-action rispetto al manga. Anche se Koby il fatto che si unisce ai Marines a Shells Town corrisponde a quanto accade nel materiale originale, lo “scontro” tra lui e Luffy non avviene. Invece, Koby rimane con i Marines e viene successivamente interrogato da Garp.

La mappa della Rotta Maggiore è stata rubata ai Marines (non a Buggy)

La mappa della Rotta Maggiore è stata utilizzata come McGuffin nella prima stagione di One Piece, dal momento che ci sono diversi personaggi che la cercano. Tuttavia, invece di diventare un punto della trama durante l’arco narrativo di Orange Town dove i protagonisti incontrano Buggy, la mappa della Rotta Maggiore è stata introdotta nell’episodio 1. Luffy e Nami rubano la mappa ai Marines, anche se poi Buggy viene introdotto come uno dei contendenti in cerca della mappa.

Nami è subito una brava combattente

ONE PIECE netflixIl live-action di One Piece offre a Nami molte più scene di combattimento in questa parte della storia rispetto al manga o all’anime. Il bastone distintivo di Nami debutta nell’episodio 1, durante il quale Nami si unisce a Luffy e Zoro nella lotta contro Morgan Mano d’ascia. Nami ha anche alcune scene di combattimento interessanti nel segmento in cui compare Buggy.

Garp viene presentato (e insegue Luffy) molto prima

Oltre ad apparire nel flashback dell’esecuzione di Gold Rogers, Garp gioca un ruolo significativo in One Piece stagione 1. Garp è stato una sorta di antagonista generale per la ciurma di Cappello di Paglia. Quello che si rivela essere il nonno di Luffy ha inseguito i protagonisti da Shells Town al Villaggio Coco, cosa che non accade affatto nel manga. Inoltre, il fatto che Garp facesse da mentore a Koby e Helmeppo è stato spostato di livello superiore ed è avvenuto in concomitanza con le avventure di Luffy nel Mare Orientale.

Luffy è più intelligente di quanto dovrebbe essere

Luffy di Iñaki Godoy mette in scena molto bene sia l’aspetto del Luffy originale sia il suo buon cuore. Inoltre, il live-action di One Piece riesce anche a catturare l’umorismo di Luffy. Detto questo, il protagonista è più intelligente nell’adattamento Netflix che nel manga. Mentre il Luffy di Godoy è sempre spontaneo e ingenuo, il personaggio sembra più maturo e sveglio rispetto al Luffy del manga.

Luffy e Koby si riuniscono due volte nella prima stagione di One Piece

Luffy e Koby si riuniscono due volte dopo che il pirata del Cappello di Paglia lascia Shells Town nel live action. Koby ha incontrato Luffy a Syrup Village e poi nel finale di One Piece al Villaggio Coco. Tuttavia, nel manga, Luffy e Koby si vedono solo più di 400 capitoli dopo. Koby ha avuto un ruolo molto più importante in questa versione della storia rispetto al manga.

Il circo di Buggy e gli abitanti incatenati non provengono dal manga

Buggy il Clown ruba la scena nella prima stagione di One Piece, ma l’episodio incentrato su di lui era molto diverso dall’arco narrativo di Orange Town del manga. Nella serie live-action, Buggy gestisce un circo, la cui folla è formata da abitanti del villaggio incatenati. Sebbene Buggy e i suoi pirati distruggano un villaggio durante la loro introduzione, nel manga non c’è traccia del circo o dei prigionieri incatenati.

Lo scontro tra Buggy e Luffy è completamente diverso

Lo scontro tra Buggy e i pirati di Cappello di Paglia di Luffy è molto diverso dal materiale originale. Tutto accade all’interno del circo di Buggy piuttosto che nelle strade di Orange Town. Buggy non cattura Luffy, Zoro e Nami tutti insieme nel manga; inoltre non tortura Luffy allungando il suo corpo. Lo scontro di Zoro con Cabaji non avviene nel live-action e personaggi come il sindaco e il cane appaiono solo come brevi riferimenti.

Zoro ha ucciso il fratello di Cabaji

One Piece di Netflix ha aggiunto un elemento personale alla rivalità tra Zoro e Cabaji. Secondo il capo della ciurma di Baggy, Zoro ha ucciso suo fratello. Questo non è una informazione che deriva dal manga. Curiosamente, nonostante abbia creato una storia personale tra Zoro e Cabaji, la serie non mostra quello scontro. Invece, Zoro liquida rapidamente Cabaji con pochi colpi dopo essersi sciolto.

I pirati di Usopp non compaiono

Il retroscena di Usopp e la sua introduzione in One Piece di Netflix sono molto fedeli al materiale originale. In effetti, gli episodi di Syrup Village sono tra i migliori della prima stagione. Detto questo, un cambiamento significativo rispetto al manga è stato che Ninjin, Tamanegi e Piiman – i “pirati Usopp” – non appaiono. Nemmeno i compagni di Usopp sono menzionati né si fa riferimento a loro in forma di Easter Eggs.

Appaiono solo due dei Pirati del Gatto Nero di Kuro

Il piano e la motivazione di Kuro nella prima stagione di One Piece corrispondono a quelli del manga. Tuttavia, il climax dello scontro tra la ciurma di Cappello di Paglia e il capitano dei Pirati del Gatto Nero è leggermente diverso. Invece di affrontare tutto l’equipaggio di Kuro per salvare Kaya, Luffy e i suoi amici combattono solo contro Buchi e Sham.

Jango non appare

Anche se il piano di Kuro di uccidere Kaya prima di impossessarsi delle ricchezze della sua famiglia è rimasto lo stesso in One Piece di Netflix, il modo in cui sarebbe dovuto accadere è diverso. Nel manga, Kuro dei Mille Piani arruola Jango, un ipnotizzatore, per ipnotizzare Kaya. Nel live-action, Kuro, fingendosi il maggiordomo Klahadore, manipola semplicemente Kaya facendogli affidare a lui l’azienda di famiglia.

Il bacio di Usopp e Kaya

La dinamica tra Usopp e Kaya in One Piece di Netflix è vicina al materiale originale, con il primo che rallegra la seconda con il racconto delle sue mirabolanti (e inventate) avventure. Tuttavia, c’è una differenza sostanziale rispetto al manga. Usopp e Kaya si baciano nell’episodio 4, cosa che non accade nel manga e conferma che, nella serie live action, la loro relazione è romantica.

Kuro uccide Merry

Kuro attacca Merry dopo che quest’ultimo scopre la vera identità del primo sia nel manga che nella serie live-action. Tuttavia, Merry muore nell’episodio 4 di One Piece di Neflix, mentre nel manga sopravvive. Nello show, la morte di Merry è ciò che porta Luffy a chiamare la loro nuova nave “Going Merry”.

Johnny e Yosaku non appaiono

Johnny e Yosaku, gli amici cacciatori di taglie di Zoro, non compaiono in One Piece di Netflix. Originariamente introdotti prima dell’arco narrativo di Baratie, Johnny e Yosaku rimangono vicino ai pirati di Cappelli di Paglia fino al segmento di Arlong Park. L’assenza di Johnny e Yosaku nello show live-action può essere stata una delusione, ma la prima stagione di One Piece ha preferito concentrarsi esclusivamente sull’originale ciurma di Cappello di Paglia.

Arlong sostituisce Don Krieg al Baratie

Don Krieg è presente nella prima stagione di One Piece di Netflix, ma in un ruolo molto più piccolo rispetto al manga. Mihawk incontra i pirati di Don Krieg e provoca loro gravi perdite, proprio come nell’originale. Tuttavia, nello show, Mihawk uccide Don Krieg prima ancora che Luffy arrivi al Baratie. Invece di affrontare Krieg al ristorante, Luffy combatte Arlong in quello che è stato uno dei più grandi cambiamenti rispetto al manga. La sostituzione di Krieg con Arlong ha semplificato la storia e ha reso Arlong una presenza più ingombrante anche prima degli episodi di Arlong Park.

Arlong cattura Buggy

Arlong cattura Buggy nell’episodio 3 di One Piece e porta la testa del clown con sé fino al Baratie. Lì, viene rivelato che Baggy ha messo una delle sue orecchie nel cappello di Luffy, motivo per cui Arlong sapeva dove trovare il Cappelli di Paglia. Niente di tutto questo accade nel manga. Nella storia originale, Luffy dà un pugno alla testa di Buggy allontanandola dal corpo del clown. Buggy recupera solo alcune parti del suo corpo e poi intraprende un divertente viaggio prima di incontrare Alvida.

L’Isola degli Animali Rari non appare

L’Isola degli Animali Rari, una famosa località di One Piece nella regione del Mare Orientale, non appare nella prima stagione di One Piece. L’Isola degli Animali Rari appare due volte nel materiale originale durante questa parte della storia, poco prima che la ciurma di Cappelli di Paglia vada via dal Baratie e quando Buggy intraprende un’avventura in solitaria mentre gli manca la maggior parte del corpo. Di conseguenza, Gaimon non è presente nello show Netflix.

Nojiko e Genzo non sapevano dell’accordo di Nami con Arlong

Il segreto di Nami e il motivo per cui lavorava per Arlong sono rimasti inalterati in One Piece di Netflix. Tuttavia, nella serie live-action, né Nojiko né Genzo sono a conoscenza dell’accordo di Nami con Arlong. Entrambi credono che Nami abbia scelto di lavorare per la persona che ha ucciso Bell-mère. Nojiko scopre la verità solo nell’episodio 7 di One Piece, poco prima che i soldi di Nami vengano rubati. Nel manga, Nojiko e il resto del villaggio scoprono molto presto che Nami ha scelto di lavorare con Arlong solo per liberare il villaggio.

Venezia 80, le foto dal red carpet di Mads Mikkelsen e il cast

Venezia 80, le foto dal red carpet di Mads Mikkelsen e il cast

Si è tenuto questo pomeriggio il red carpet di Bastarden (The Promised Land, recensione), presentato in concorso a Venezia 80, 80esima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. A sfilare gli interpreti accompagnati dalla star Mads Mikkelsen, protagonista del film. 

Il film

Nel 1755, lo squattrinato capitano Ludvig Kahlen parte alla conquista delle aspre e desolate lande danesi con un obiettivo apparentemente impossibile: costruire una colonia in nome del Re. In cambio, riceverà per sé un titolo reale disperatamente desiderato. Ma l’unico sovrano della zona, lo spietato Frederik de Schinkel, ha la presuntuosa certezza che questa terra gli appartenga. Quando De Schinkel viene a sapere che la cameriera Ann Barbara e il marito servitore sono fuggiti per rifugiarsi da Kahlen, il privilegiato e perfido sovrano giura vendetta, facendo tutto ciò che è in suo potere per scoraggiare il capitano. Kahlen non si lascerà intimidire e ingaggerà una battaglia impari, rischiando non solo la sua vita, ma anche quella della famiglia di emarginati che si è venuta a formare intorno a lui.

Il commento del regista

Quando qualche anno fa ho vissuto l’esperienza assolutamente straordinaria di diventare padre, ho iniziato a vedere i miei film precedenti, compresi i ricordi della loro realizzazione, sotto una nuova luce. Per quanto ne rimanga orgoglioso (almeno della maggior parte!), quelle opere riflettono la visione di un uomo con un unico scopo: la dedizione entusiasta nei confronti della creazione di storie e di arte… ma non molto altro. Bastarden è nato da questa presa di coscienza esistenziale ed è a oggi, di gran lunga, il mio film più personale. Con l’aiuto del brillante romanzo di Ida Jessen, io e Anders Thomas Jensen volevamo raccontare una storia epica e grandiosa su come le nostre ambizioni e i nostri desideri siano destinati a fallire se rappresentano la sola cosa che abbiamo. La vita è un caos; dolorosa e sgradevole, bella e straordinaria, e spesso non la possiamo controllare. Come dice il proverbio: “Noi facciamo piani e Dio se la ride”.

The Promised Land, Mads Mikkelsen sperava di lavorare ancora con Nicolaj Arcel

Un dramma storico dalla forte intensità, Bastarden – The Promised Land arriva a Venezia 80. Un film fortemente voluto dal Arcel, anche un progetto intimo per lui che porta al Lido e che ottiene i suoi primi consensi. Come racconta il regista la paternità ha avuto un ruolo chiave nella sua realizzazione.

È una cosa banale da dire ma avere un figlio ti cambia la vita e non immagini quanto. Quando ho letto il romanzo stavo diventando padre e leggerlo mi ha fatto scoprire questa storia di ambizione che contrasta con la famiglia. Prima ragionavo sempre in termini di ambizione, ma ora mi rendo conto che la famiglia è il mio nuovo obiettivo. Ecco perché è un film così personale per me”.

Il film presenta anche molte scene violente e crude. Il regista e lo sceneggiatore hanno spiegato che per queste parti è stata fatta una ricerca su fatti realmente esistiti: “È realmente esistito un tale Schinkel, ma di lui abbiamo solo una citazione tramandata nel tempo e a partire da quella abbiamo costruito il personaggio che vedete nel film”, racconta Jensen.

Nonostante sia ambientato nel 1755 il film presenta alcuni elementi contemporanei e moderni che non sono assolutamente frutto dell’epoca passata anzi come dice Arcel si tratta di temi universali “il come bilanci e controlli la tua vita o come la lasci in balia del caos. Per me emotivamente questo risuona ancora oggi nel nostro contemporaneo”. Alla conferenza stampa, presenti anche gli attori che hanno raccontato il loro personaggio. Sono tutti diversi ed emotivamente a pezzi.

Sono stata affascinata dal personaggio ma c’è un momento in cui ho capito di dover dare tutto al regista per poter davvero trovare la strada e il carattere di Ann Barbara. Mi sono arresa al personaggio ed è stato un viaggio stupendo”, ha detto Amanda Collin. “È interessante interpretare un uomo così focalizzato su un unico obiettivo. L’ho trovato complesso e per questo stimolante. Ogni giorno era una nuova sfida”, racconta Mikkelsen che già aveva collaborato con Arcel per Royal Affair: “Non abbiamo lavorato più insieme per circa 10 anni, quindi prima ci siamo rincontrati per capire come lavorare di nuovo insieme e abbiamo concordato di immergerci il più possibile nella storia. Sarò sincero, speravo che (Arcel) non facesse passare così tanto per una nuova collaborazione insieme (ride)”, conclude l’attore

Bastarden – The Promised Land è un film di genere che ha avuto tante ispirazioni: “Penso sia ovvio vedendo questo film che io sia un film dei grandi film epici, sin da quando ero bambino. I film di David Lean ad esempio. Nel tempo ci ho sempre ripensato e l’obiettivo è stato quello di ambire a realizzare qualcosa di simile. Non considero Bastarden un Western, anche se naturalmente ci sono elementi di quel genere, ma c’è anche tutta una descrizione delle corti danesi di quel tempo”.

Una sterminata domenica, la recensione del film di Alain Parroni #Venezia80

Un auto con gomma a terra nel pieno della notte che impedisce ai suoi tre passeggeri di continuare i festeggiamenti; un cavalcavia da cui poter osservare il mondo sottostante o sputare sulle auto che passano; una campagna deserta dove poter vivere senza orari o regole. Queste sono solo alcune delle situazioni che Alain Parroni concepisce per Una sterminata domenica, il suo esordio alla regia di un lungometraggio, presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia. Immagini caotiche e frenetiche, estratti di una vita frenetica quale è quella dei tre giovai protagonisti, qui rappresentanti di una generazione allo sbando.

Una catena ininterrotta di situazioni, paradossi e caratteri si alternano dunque fra loro in una costruzione narrativa vicina a un anticonvenzionale romanzo di formazione che ha per protagonisti Alex (Enrico Bassetti), Brenda (Federica Valentini) e Kevin (Zackari Delmas), tre adolescenti che ronzano tra la campagna del litorale e la città eterna, tentando di resistere a proprio modo all’inesorabile avanzare del tempo e del caldo. Mentre Kevin ricopre ogni superficie di graffiti, Brenda si scopre incinta di Alex, che ha appena compiuto diciannove anni e si vede ora proiettato nel mondo dei grandi. Nel corso dell’estate, tutti e tre dovranno dunque imparare a crescere e trovare il proprio posto nel mondo.

Un sincero racconto generazionale

Raccontare le nuove generazioni, che sia con un film o una serie TV, è un compito assai arduo, che richiede di cogliere con onestà un panorama di voci, storie e caratteri quanto mai ampio, frammentato, liquido e complesso. Richiede di comprendere il disagio giovanile provato dagli attuali adolescenti e di contestualizzarlo nello spaventoso scenario del mondo odierno. Quello che Parroni si proponeva dunque di raggiungere con Una sterminata domenica era un obiettivo ambizioso e rischioso, che viene però complessivamente raggiunto grazie alla spontaneità che riesce ad infondere nelle sue scene e a ricavare dai suoi interpreti.

Parroni, Giulio Pennacchi e Beatrice Puccilli, autori della sceneggiatura, scelgono infatti di non strutturare un solido e preciso percorso narrativo bensì di proporre una sequenza – non casuale – di avventure, quasi piccoli eventi autonomi dai quale emerge tutto il senso e gli obiettivi del film. Nascono così situazioni particolarmente divertenti, dove i tre protagonisti, diversissimi tra loro per carattere e ideali, si pongono in aperto contrasto con contesti ai quali giurano di non arrendersi mai. Altresì, prendono vita momenti molto drammatici, che insieme ai primi offrono uno spettro completo del bene e del male di una generazione in cerca di punti di riferimento.

Ancor più di tale costruzione, è però il lavoro sul linguaggio ad essere uno degli aspetti più convincenti del film. Ascoltiamo i tre ragazzi parlare proprio come parlano i loro coetanei nella realtà, con modi di dire, espressioni, intonazioni e impacciamenti tipici del parlare quotidiano, contribuendo così a quella ricerca di spontaneità di cui si è già accennato. A tal proposito, straordinari sono i tre giovani interpreti, che riescono a farsi carico del senso di realtà ricercato dal regista e riproporlo con le proprie interpretazioni. Peccato che tale incanto si spezzi nel momento in cui si mettono in bocca ai personaggi parole che, pur servendo a ribadire le tematiche del film, risultano poco vere, costruite.

Una sterminata domenica Zackari Delmas

Un’opera prima imperfetta ma con tanto cuore

Per esprimere attraverso le vicende di Alex, Brenda e Kevin uno stato d’animo di abbandono e smarrimento, Parroni punta però sapientemente non solo sull’anarchica sceneggiatura ma anche e soprattutto, come accennato in apertura, sulla forza comunicativa delle immagini e in particolare dei luoghi e degli ambienti prescelti. Campagne desolate e palazzi popolari malridotti sono quantomai eloquenti, nonché palcoscenico perfetto per raccontare di questi giovani che sembrano sospesi nel tempo di un’apparentemente interminabile estate – o domenica, come suggerisce il titolo. Ovviamente si riscontrano in Una sterminata domenica, ed è anche normale che sia così, tutta una serie di ingenuità tipiche delle opere prime.

Talvolta sembra che il regista non sia sicuro di quanto fino a quel momento compiuto, avvertendo l’esigenza di inserire una serie di momenti che ribadiscono didascalicamente quanto già proposto, allungando così un film che soffre probabilmente di una durata “eccessiva” per tale racconto e l’approccio scelto per esso (il film dura 113 minuti). Si tratta però di aspetti su cui si può soprassedere, considerando le tante altre intuizioni che Parroni propone con questo suo esordio e che lo rendono un nome da tenere d’occhio per il futuro. Con Una sterminata domenica egli si dimostra infatti capace di raccontare i giovani con sincerità e tanto cuore, una capacità decisamente non comune.

Dogman, recensione del film di Luc Besson #Venezia80

Dogman, recensione del film di Luc Besson #Venezia80

Dopo la straordinaria prova attoriale di Nitram (2021), per cui si è aggiudicato la Palma d’oro come miglior interpretazione maschile al Festival di Cannes 2021, l’eclettico Caleb Landry Jones si mette nuovamente nei panni di un personaggio complesso ed estremamente sfaccettato in Dogman di Luc Besson, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2023. Cuore da eroe e mente da villain, il suo Douglas – soprannominato Doug, evidente richiamo fonetico al titolo e alla trama del film – è il vero punto di luce di un film soprendentemente valido, probabilmente l’opera del regista francese che meglio riuscirà a imporsi come mainstream.

Dogman: la storia di Douglas, da God a Dog

Dogman racconta la storia di Douglas, auto-soprannominatosi Doug: è una sorta di origin-story molto equillibrata nel suo arco. Dall’infanzia passata letteralmente chiuso in una gabbia, vittima di figure maschili dispotiche nella casa, arrivando al presente narrativo in cui Doug si trova in prigione e viene interrogato da una psichiatra, Besson ci accompagna alla scoperta di un personaggio molto sfaccettato, che “ruba” da tanti villain o anti-eroi moderni, fra cui il Joker di Heath Ledger e l’Elijah Price di Samuel L. Jackson, quanto da icone drag e dive del cinema passato. Una figura fluida nell’animo e nei modi, nonostante i gravi problemi fisici, apparentemente imprendibile, almeno fino a quando non avrà come interlocutrice un’altra persona che conosce il dolore e che varrà la pena proteggere.

Douglas ha passato una vita a psicoanalizzarsi, dunque, non sorprende che il suo dialogo con la psichiatra sia più da intendere come un racconto che una confessione. Il racconto di una vita su cui hanno gravato le disattenzioni altrui, la scarsa considerazione, l’incapacità di relazionarsi con altri esseri umani. Besson mette in chiaro fin da subito le condizioni in cui vive Douglas, mischiando senza soluzione di continuità l’asprezza e la decadenza del pertugio attiguo al canile dove abita e, contemporaneamente, non dimenticandosi mai di far risaltare dei dettagli di arredamento significativi per Doug: il letto a baldacchino, la sua postazione make-up, i libri di cucine. Non a caso, dirà che le prime cose che ha imparato dalla vita gli sono state insegnate dalle riviste americane per il pubblico femminile.

Dogman (2023)

Un giorno questo dolore ti sarà utile

Il vivere chiuso in una gabbia, tra la sporcizia animale, la melma e le sbarre che precludono un mondo, ha forgiato l’intera esistenza di Doug, il suo modus operandi come artista dell’animalità umana. La famiglia canina di cui si è circondato, che tanto dà e nulla toglie, funziona come un’estensione del protagonista. Lavorando in maniera serrata sul ritmo, sul montaggio e sulla scrittura, Luc Besson incanala la vitalità di Doug in ogni sequenza che coinvolge anche i suoi “figli“, quelli che si è scelto in epoca infantile anche per contrastare la violenza con cui il padre trattava queste creature. Tra Doug e i suoi cani vi è, inoltre, una terza figura: un Dio a cui Doug si affida, che ha sempre cercato, e da cui, come nel rapporto coi suoi cani, non ha mai preteso niente se non la sua volontà. In tanti modi – e anche in un fotogramma significativo – i lessemi God e Dog si fondono, a sottolineare la simbiosi tra forza ultraterrena e terrestre, carnale, che il film di Besson indaga.

Seppur derivativo nella scrittura, come abbiamo già sottolineato, Dogman è un’aggiunta spumeggiante al concorso ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia 2023, l’operazione recente meglio prodotta di Luc Besson, dopo una serie di film ritenuti insuccessi. Caleb Landry Jones conferma la sua natura da performance mimetico e presta la sua energia a un regista che avevamo bisogno di vedere così a fuoco.

The Wonderful story of Henry Sugar, la recensione del mediometraggio di Wes Anderson #Venezia80

Wes Anderson segna la sua doppietta quest’anno e dopo il Festival di Cannes 2023 sbarca al Lido di Venezia per Venezia 80. Il suo mediometraggio di quaranta minuti, che sarà distribuito da Netflix in tutto il mondo dal 27 settembre 2023 è intitolato The Wonderful Story of Henry Sugar e ancora una volta, così come nelle precedenti pellicole il regista americano punta su attori già visti: Ralph Fiennes, Benedict Cumberbatch, Dev Patel, Ben Kingsley, Richard Ayoade. Si tratta di un adattamento al romanzo omonimo di Roal Dahl che Anderson ha messo in cantiere oltre vent’anni fa. Un’opera originale che grazie alla scenografia e all’uso dei colori per cui Wes Anderson è già famoso prende vita come uno spettacolo teatrale.

The Wonderful Story of Henry Sugar, la trama

Un’amata storia di Roald Dahl su un uomo benestante che scopre un guru in grado di vedere senza usare gli occhi e decide di imparare l’arte per imbrogliare nel gioco d’azzardo. Henry – interpretato da Benedict Cumberbatch – è un giocatore d’azzardo che non ha mai lavorato un giorno in vita sua, prevede le opportunità finanziarie che questo potere potrebbe garantirgli. Per tre anni studia il metodo di meditazione e alla fine ottiene la capacità di vedere attraverso le carte da gioco e persino di prevedere il futuro. Henry porta il suo nuovo talento in un casinò e vede l’avidità di coloro che lo circondano dopo aver vinto una grossa somma di denaro. La sua “redenzione” sarà continuare a bluffare nei casinò di tutto il mondo per aprire orfanotrofi e aiutare i più bisognosi. Una storia abbastanza semplice resa particolare dallo stile del regista.

L’omaggio di Anderson a Dahl è in realtà un inno alla sua infanzia. Cresciuto con i libri dello scrittore, il regista di Grand Budapest Hotel ha ricercato informazioni per oltre un decennio affinché la messa in scena del film risultasse così fedele alla storia originale. Ralph Fiennes interpreta Dahl, nella sua cabina dello scrittore a Gipsy House ed è tra le voci narranti del film. The Wonderful Story of Henry Sugar ha la peculiarità di avere molte voci narranti perché il racconto continua a cambiare prospettiva. Questa caratteristica trova poi la sostanza nella recitazione degli attori come Dev Patel quando interpreta il medico che deve visitare il personaggio di Ben Kingsley. Lo stile dei vari protagonisti è incalzante e va veloce, così come mediometraggio. Le molte voci narranti fanno da effetto matrioska alla narrazione che si scopre pian piano.

The Wonderful Story of Henry Sugar film

Il cinema di Wes Anderson

È uno dei suoi film più artistici perché oltre all’uso dei colori c’è anche un utilizzo della scenografia che diventa quasi un gioco di prestigio, ti cattura. A differenza del suo film precedente presentato a Cannes 2023, Asteroid City, con The Wonderful Story of Henry Sugar tornano le scenografie dioramiche di Rushmore e Le avventure acquatiche di Steve Zizou. Più che un mediometraggio sembra un’opera teatrale fatta di lunghissimi monologhi dove Anderson lascia carta bianca ai suoi interpreti. Per chi ama il buon e vecchio cinema alla Wes Anderson, diventato ormai un marchio di fabbrica – e forse per questo troppo inflazionato – The Wonderful Story of Henry Sugar avrà il morale risollevato dopo un Asteroid City criticato nonostante sia uno dei suoi film più personali.

Megalopolis di Francis Ford Coppola ha raggiunto un accordo ad Interim con il SAG-AFTRA

0

Megalopolis, il tanto atteso progetto di Francis Ford Coppola, è l’ultimo film ad ottenere un accordo ad interim con SAG-AFTRA. La produzione del film è terminata all’inizio di quest’anno, quindi non si sa a cosa servirà l’accordo, ma con la stagione dei festival in accelerazione potrebbe ottenerne uno per essere venduto in uno dei mercati, o potenzialmente per essere proiettato a un festival, e in tal caso sarebbe necessario un accordo a fini pubblicitari.

Il film è apparso sugli aggiornamenti quotidiani di SAG-AFTRA della sua lista di accordi provvisori. Secondo la corporazione, il film ha ottenuto l’accordo mercoledì scorso. Le domande per gli accordi provvisori SAG-AFTRA sono state rese disponibili il primo giorno dello sciopero degli attori, il 14 luglio, e la gilda ha immediatamente ricevuto “centinaia di domande… risponderemo a tutte”, ha dichiarato il direttore esecutivo nazionale e capo negoziatore di SAG-AFTRA. Duncan Crabtree-Ireland ha detto all’epoca che i progetti non possono avere “alcuna impronta AMPTP su di loro” se sperano di ottenere un accordo.

Da allora il processo è stato perfezionato per includere accordi di casting e successivamente ha modificato la sua politica di richiesta per escludere qualsiasi progetto girato negli Stati Uniti coperto dalla WGA. Questa mossa è stata operata in solidarietà con lo sciopero simultaneo degli sceneggiatori che è giunto al suo 122esimo giorno.

Di cosa parla Megalopolis?

L’idea di Megalopolis è stata ispirata dalla seconda Congiura di Catilina. Tuttavia, il film sarà caratterizzato da un’ambientazione futuristica e sarà incentrato su un ambizioso architetto che cova l’idea innovativa di ricostruire New York City in un’utopia all’indomani di un disastro naturale che ha rovinato le infrastrutture della città. Il pubblico può aspettarsi immagini straordinarie poiché si dice che il film sia girato utilizzando una tecnologia rivoluzionaria che impiega nuove tecniche simili a quelle utilizzate per The Mandalorian.

Coppolla, che scrive e dirige il film, ha riunito un emozionante cast costellato di star per quello che potrebbe essere il suo canto del cigno. Oltre a Adam Driver, nel cast compaiono anche Forest Whitaker, Nathalie Emmanuel, Jon Voight, Laurence Fishburne, Aubrey Plaza, Talia Shire, Shia LaBeouf, Jason Schwartzman, Grace Vanderwaal, Kathryn Hunter e James Remar.

Wes Anderson voleva adattare da vent’anni The Wonderful Story of Henry Sugar

Con un mediometraggio a sorpresa, Wes Anderson ha partecipato a Venezia 80, dopo aver portato a Cannes 2023 il suo Asteroid City. Una iperattività che il regista di Huston racconta con grande serenità, dal momento che se il film cannense è stato un progetto che ha avuto un classico decorso, dall’idea alla realizzazione, The Wonderful Story of Henry Sugar, dal racconto di Roald Dahl, è un progetto che il regista aveva nel cassetto da oltre vent’anni.

“Ho incontrato la famiglia Dahl venti anni fa, quando volevo realizzare Fantastic Mr. Fox. Ho incontrato la vedova di Dahl quando ero sul set di I Tenenbaum, forse era il 2000. Sono cresciuto amando i suoi libri e Henry Sugar era uno dei miei preferiti, ma non riuscivo a vedere un modo per poterlo adattare, e così loro lo hanno tenuto da parte per me, mettendo da parte i diritti di sfruttamento. E poi un giorno ho capito che la chiave poteva essere quella di basarsi sul linguaggio di dhal e quindi realizzare un adattamento basato proprio sul linguaggio e sugli attori.”

Come tutti i film diretti da Anderson, il cast è all-stars, guidato da Benedict Cumberbatch nel ruolo da protagonista, e con Ralph Fiennes, Dev Patel, Ben Kingsley, Rupert Friend e Richard Ayoade. Sulle motivazioni che lo hanno spinto a realizzare un mediometraggio e non un film da 90 minuti, Wes Anderson è stato molto chiaro, spiegando che la storia aveva quel tipo di lunghezza e quindi andava raccontata con quel ritmo:

“Volevo adattare proprio questa storia. Per molti film si comincia da zero, per esempio adesso sto lavorando con Roman Coppola a un’idea originale, e in partenza non avevamo nulla. Ma quando adatti una cosa che già esiste, ce l’hai già davanti agli occhi, e quindi volevo trovare la forma più efficiente per raccontarla. Più che un film, Henry Sugar è stato una presentazione teatrale, l’abbiamo realizzato in due settimane circa.”

“Io non so quanta gente ha voglia di andare al cinema per un film che dura solo 40 minuti, ma a me piace andare al cinema e a cena, e così le due cose si possono combinare!” Ha concluso scherzando.

The Wonderful Story of Henry Sugar fa parte della selezione ufficiale Fuori Concorso della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, edizione 80, che si svolge al Lido dal 30 agosto al 9 settembre.

D’Argent et de Sang, la recensione della serie con Vincent Lindon #Venezia80

L’80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia presenta fuori concorso due serie quest’anno e la prima a mostrarsi è D’Argent et de Sang, diretta dal regista Xavier Giannoli (regista di Illusioni perdute) e basata sull’omonimo libro di Fabrice Arfi, liberamente ispirato all’incredibile storia della truffa della carbon tax avvenuta tra il 2008 e il 2009. Un’opera che affronta dunque un argomento scottante, forse meno noto – quantomeno agli estranei al settore – rispetto ad altre note truffe di questo tipo, ma certamente meritevole di essere raccontata, specialmente se da una serie ben congeniata come questa.

D’Argent et de Sang, la trama della serie

Protagonista della serie è l’ispettore doganale Simon Weynachter (Vincent Lindon), che parte per rintracciare Jérôme Attias (Niels Schneider) e Alain Fitoussi (Ramzy Bedia), artefici di una delle più grandi società truffe finanziarie di tutti i tempi. Miliardi vanno infatti in fumo nel nuovo mercato delle “quote di carbonio”, inventato per combattere l’inquinamento. Un gruppo di furfanti da quattro soldi di Belleville si unisce dunque a un trader altolocato per mettere in atto un raggiro epocale. Questo succede quando il “capitalismo da casinò” si scontra frontalmente con la politica, quando si scatenano passioni umane che vanno ben oltre la semplice cupidigia.

La finanza per tutti

Oggigiorno è più facile manipolare il mercato azionario che rubare una banca, spiega  l’ispettore interpretato da Lindon nei primi minuti del primo episodio. Una premessa che permette di inserirsi più facilmente nel contesto in cui si svolge il racconto, il quale pur essendo frutto di finzione, prende spunto dagli eventi realmente verificatisi e resi possibili dalla precaria situazione finanziaria causata dal crollo di Lehman Brothers nel 2008. Non bisogna però lasciarsi spaventare dall’argomento, perché pur non puntando ad una spettacolarità fatta di ritmi esagitati o grossi colpi di scena, D’Argent et de Sang sa come catturare l’attenzione dello spettatore.

Si parla molto, è vero, e spesso di questioni economiche che potrebbero non essere così accessibili, trovando però il modo di rendere chiaro ciò che occorre sapere sin da subito. Giannoli e il suo co-sceneggiatore Jean-Baptiste Delafon puntano infatti ad una semplificazione che non banalizzi l’argomento ma lo renda allo stesso tempo comprensibile sin da subito. Anzi, dagli episodi visti in anteprima la serie sembra riuscire a garantirsi una propria identità, evitando di raccontare la finanza in modo pedante ma anzi estetizzandola. Una scelta che potrebbe non piacere a tutti, ma di certo non dovrebbe scontentare gli interessati all’argomento.

La molteplicità di punti di vista, inoltre, permette di avere una panoramica ampia sul racconto, così da riuscire ad orientarsi nella progressione degli eventi. Ancora una volta però è bene ribadire che il regista sceglie di non puntare sugli aspetti più action o thriller a cui una storia come questa potrebbe prestarsi, puntando piuttosto sulla forza di ciò che emerge dai personaggi nel loro rapporto con quanto avviene loro. D’Argent et de Sang è sì una serie su una frode epocale, ma prima di ciò è il ritratto di come l’essere umano si rapporti e trasformi con l’ambito finanziario, ormai alla base del mondo.

D'Argent et de Sang Ramzy Bedia

Una serie guidata dai personaggi

Grazie all’ingresso facilitato di cui si è parlato, lo spettatore può dunque farsi conquistare da personaggi non solo ben scritti ma anche meravigliosamente caratterizzati dai loro interpreti. Su Lindon c’erano pochi dubbi, interprete francese tra i migliori in attività, capace di conferire un certo peso tragico ma anche una forza emotiva non indifferente al suo personaggio, un uomo che cerca di smascherare il male mentre cerca di tenere insieme la propria vita privata. Ruba però in più occasioni la scena Ramzy Bedia, che con il suo Fitoussi dà vita ad un personaggio sopra le righe, capace di risultare simpatico anche quando compie le proprie truffe.

Niels Schneider, invece, particolare, porta in scena una personalità inquietante nella sua imprevedibilità, che sempre più si svela come rappresentante di quelle menti criminali attive in questo ambito, che possono rivelarsi più pericolose del previsto. Sono dunque i personaggi, ben più che l’argomento, a rivelarsi la forza della serie. Personaggi profondamente umani, avidi, ingannevoli, pieni di vizi e virtù. Tutte caratteristiche che sembrano emergere con maggior forza quanto poste davanti alla tentazione del denaro e al pericolo del sangue.

The Marvels: il nuovo trailer mostra “il viaggio verso le meraviglie”

0

Arriverà il 10 novembre al cinema The Marvels, il film del MCU che vede tornare protagonista Brie Larson al fianco di Teyonah Parris e Iman Vellani per un team-up inedito tutto al femminile.

The Marvels, la trama

Nel film Marvel Studios The Marvels, Carol Danvers alias Captain Marvel deve farsi carico del peso di un universo destabilizzato. Quando i suoi compiti la portano in un wormhole anomalo collegato a un rivoluzionario Kree, i suoi poteri si intrecciano con quelli della sua super fan di Jersey City Kamala Khan, alias Ms. Marvel, e con quelli della nipote di Carol, il capitano Monica Rambeau, diventata ora un’astronauta S.A.B.E.R.. Insieme, questo improbabile trio deve fare squadra e imparare a lavorare in sinergia per salvare l’universo come “The Marvels”.

Tutto ciò che sappiamo su The Marvels

The Marvels, il sequel del cinecomic Captain Marvel con protagonista il premio Oscar Brie Larson che ha incassato 1 miliardo di dollari al box office mondiale, sarà sceneggiato da Megan McDonnell, sceneggiatrice dell’acclamata serie WandaVision. Sfortunatamente, Anna Boden e Ryan Fleck, registi del primo film, non torneranno dietro la macchina da presa: il sequel, infatti, sarà diretto da Nia DaCosta, regista di Candyman

Nel cast ci saranno anche Iman Vellani (Ms. Marvel, che vedremo anche nell’omonima serie tv in arrivo su Disney+) e Teyonah Parris (Monica Rambeau, già apparsa in WandaVision). L’attrice Zawe Ashton, invece, interpreterà il villain principale, del quale però non è ancora stata rivelata l’identità. Il film, salvo modifiche, arriverà in sala il 10 novembre 2023.

Maestro: Steven Spielberg ha convinto Bradley Cooper a dirigere il film

0

Sembra che Bradley Cooper debba ringraziare l’intercessione di Steven Spielberg se è riuscito a dirigere il suo secondo film, Maestro, che verrà presentato al Festival di Venezia in questo momento in svolgimento al Lido. Dopo il suo debutto alla regia, A Star is Born, apparso sugli schermi nel 2018 e sempre presentato a Venezia, Cooper torna alla regia cinque anni dopo con il suo nuovo film, Maestro. Il film esplorerà la vita, l’amore e la carriera del leggendario compositore Leonard Bernstein, che Cooper interpreta nel film insieme a un cast di supporto composto da Carey Mulligan, Maya Hawke e Matt Bomer.

Secondo la produttrice Kristie Macosko Krieger (via Deadline), il regista Steven Spielberg ha contribuito a spingere Cooper a dirigere Maestro. Spielberg avrebbe dovuto dirigere il film con Cooper come protagonista, ma mentre si concentrava invece sulla regia di West Side Story, Cooper gli suggerì di essere in grado di “mettersi in gioco”. Cooper ha poi incontrato Spielberg nel 2018 per mostrargli gli inizi di A Star is Born. Fu allora che Spielberg pronunciò una frase critica per esortare Cooper a dirigere il film su Bernstein: “Stai dirigendo questo film, devi dirigere Maestro”.

“Beh, ha invitato me, Josh e Steven a guardarlo molto prima che uscisse il film, e circa 20 minuti dopo l’inizio del film Steven si è insinuato e ha detto “Hai diretto questo film, devi dirigere Maestro.” Quindi a quel punto siamo nel 2018. I diritti sul progetto stavano scadendo e Bradley dovette convincere la famiglia Bernstein che era la persona giusta per intraprendere il progetto. E così è andato dalla famiglia. Ha ottenuto i diritti. Ora sta dirigendo e producendo, e si rendono conto che gestirà questo film con estrema cura e dettaglio. È andato davvero dalla famiglia e si è venduto e poi ha avuto tutto quello di cui aveva bisogno, ora faremo questo film, e Bradley non voleva fare un film biografico.”

Maestro, la trama

Maestro racconta la complessa storia d’amore di Leonard Bernstein e Felicia Montealegre Cohn Bernstein (Carey Mulligan), una storia che dura da oltre 30 anni. Forse meglio conosciuto per la colonna sonora di West Side Story di Broadway e del classico film di Marlon Brando Fronte del Porto, Bernstein ha sposato l’attrice nel 1951 e ha avuto tre figli con lei, con la coppia che si è divisa tra New York e il Connecticut. A complicare la dinamica tra i due sono state le relazioni che ha avuto nel corso degli anni, sia con uomini che con donne, anche se condotte con la consenziente consapevolezza di Felicia. I due sono stati separati a un certo punto per un periodo di un anno, anche se alla fine sono rimasti insieme fino alla morte di Felicia nel 1978.

Bradley Cooper ha scritto la sceneggiatura di Maestro con il premio Oscar per Il caso Spotlight Josh Singer, ed è anche affiancato nell’ensemble da Matt Bomer, Maya Hawke, Sarah Silverman, Josh Hamilton, Scott Ellis, Gideon Glick, Sam Nivola, Alexa Swinton e Miriam Shor.

DC Universe: una star di serie A potrebbe unirsi al franchise di James Gunn

0

Il DC Universe potrebbe essere pronto ad aggiungere un grande nome di Hollywood, dal momento che l’attore in questione ha confessato di aver avuto conversazioni con James Gunn su una futura collaborazione. Mentre gli scioperi della Writers Guild of America e del SAG-AFTRA sono ancora in vigore, il nuovo universo DC è in arrivo ai DC Studios, e diversi progetti hanno fatto alcuni passi nei loro processi di sviluppo. Superman: Legacy, ad esempio, ha trovato il suo protagonista in David Corenswet che interpreterà nel ruolo del prossimo Uomo d’Acciaio, con molti altri supereroi che si uniranno al film.

Anche se ci sono altri personaggi da scegliere per il capitolo 1, “Gods and Monsters“, molti fan sono curiosi di sapere quale attore sarà il prossimo ad iscriversi al DC Universe di Gunn. Data la presenza di diverse liste di casting di fan che suggeriscono vari attori per determinati supereroi o cattivi, il mondo sta prestando molta attenzione ad ogni mossa dei DC Studios.

Sebbene nulla sia stato scolpito nella pietra, sembra che James Gunn abbia incontrato un grande attore che potrebbe unirsi all’Universo DC. Al Comic-Con Panama (via @Swshriv) Giancarlo Esposito ha risposto a un fan quando gli è stato chiesto se ci fosse qualche possibilità che appaia in un film del DC Universe. Si è così scoperto che Esposito ha chiacchierato con i DC Studios, come ha detto: “Stavo parlando con James Gunn della possibilità di essere in un film, quindi chi lo sa? Potrebbe succedere presto.” Fino a questo momento, però, né i DC Studios, né James Gunn hanno confermato o smentito la dichiarazione.

Ferrari: ad Adam Driver è stato impedito di guidare macchine d’epoca sul set

0

Il protagonista di Ferrari, Adam Driver, rivela che non gli è stato permesso di guidare una Ferrari durante le riprese del film di Michael Mann. Dopo una pausa di otto anni dal cinema, Mann torna alla regia con un film biografico sull’imprenditore italiano. Oltre a Driver, nel cast di Ferrari figurano Shailene Woodley, Sarah Gadon, Penélope Cruz, Patrick Dempsey e Jack O’Connell.

Nonostante abbia interpretato Enzo Ferrari, Adam Driver afferma che non gli era permesso guidare vere Ferrari mentre era sul set. Secondo Collider, al co-protagonista di Driver, Dempsey, che ha una patente di guida, era consentito mettersi al volante, ma Driver era tenuto lontano dalle auto sportive classiche. L’attore ha citato “motivi assicurativi” per cui gli è stato negato la guida della Ferrari.

“Non mi avrebbero lasciato guidare le auto per motivi assicurativi. Non si fidano di me con piccoli pezzi di equipaggiamento. Grandi pezzi di attrezzatura come i panini me li lasciavano maneggiare.”

Adam Driver ha partecipato alla presentazione del film alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia edizione numero 80, occasione in cui ha fatto sentire la sua voce in merito allo sciopero degli attori e alla mancata volontà dei grandi streamer di andare incontro ai bisogno e alle rivendicazioni di categoria.

Nel cast il candidato all’Oscar® Adam Driver nel ruolo di Enzo Ferrari e il Premio Oscar® Penélope Cruz in quello della moglie Laura, oltre a Shailene Woodley che interpreta Lina Lardi, Patrick Dempsey e Jack O’Connell che indossano le tute dei piloti Piero Taruffi e Peter Collins, Sarah Gadon nel ruolo di Linda Christian e Gabriel Leone in quello del carismatico Fon De Portago.

Scritto da Troy Kennedy Martin (The Italian Job) e dallo stesso Mann, il film è basato sul romanzo di Brock Yates “Enzo Ferrari: The Man and The Machine” ed è stato girato in Italia.

Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente, le prime immagini ufficiali

0

Sono state diffuse da Empire (qui) le prime immagini ufficiali di Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente, il film prequel che racconta la storia di Panem prima delle avventure di Katniss Everdeen.

Dopo l’enorme successo dei libri e dei film di Hunger Games, Suzanne Collins ha scritto un romanzo prequel su Coriolanus Snow durante la decima edizione dei Giochi molto prima che diventasse Presidente Snow di Panem. Oltre a Snow e ad altri personaggi di Capitol City, il romanzo si concentra su Lucy Gray Baird, il tributo donna del Distretto 12, interpretata da Rachel Zegler nell’adattamento cinematografico che uscirà questo autunno.

I protagonisti sono l’inglese emergente Tom Blyth e Rachel Zegler di West Side Story e Hunter Schafer della serie Euphoria. Nei ruoli comprimari Viola Davis, Peter Dinklage e Jason Schwartzman.

La trama di Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente

Anni prima di diventare il tirannico presidente di Panem, il diciottenne Coriolanus Snow è l’ultima speranza per il buon nome della sua casata in declino: un’orgogliosa famiglia caduta in disgrazia nel dopoguerra di Capitol City. Con l’avvicinarsi della decima edizione degli Hunger Games, il giovane Snow teme per la sua reputazione poiché nominato mentore di Lucy Grey Baird, la ragazza tributo del miserabile Distretto 12. Ma quando Lucy Grey magnetizza l’intera nazione di Panem cantando con aria di sfida alla cerimonia della mietitura, Snow comprende che potrebbe ribaltare la situazione a suo favore. Unendo i loro istinti per lo spettacolo e l’astuzia politica, Snow e Lucy mireranno alla sopravvivenza dando vita a una corsa contro il tempo che decreterà chi è l’usignolo e chi il serpente.

Venezia 80: le foto di Luc Besson e il cast di Dogman

Venezia 80: le foto di Luc Besson e il cast di Dogman

L’acclamato regista francese Luc Besson insieme al cast ha sfilato sul red carpet per presentare in concorso a Venezia 80 DogMan, il suo ultimo film che vede protagonista Caleb Landry Jones.

L’ispirazione per questo film è scaturita, in parte, da un articolo che ho letto su una famiglia francese che ha rinchiuso il proprio figlio in una gabbia quando aveva cinque anni. Questa storia mi ha fatto interrogare sull’impatto che un’esperienza del genere può avere su una persona a livello psicologico. Come riesce una persona a sopravvivere e a gestire la propria sofferenza? Con Dogman ho voluto esplorare questa tematica.
La sofferenza è uno stato che accomuna tutti noi e il solo antidoto per contrastarla è l’amore. La società non ti aiuterà, ma l’amore può aiutare a guarire. È l’amore della comunità di cani che Dogman ha fondato a fungere da guaritore e da catalizzatore. Dogman non sarebbe il film che è senza Caleb Landry Jones. Questo complesso personaggio aveva bisogno di qualcuno che potesse incarnarne le sfide, la tristezza, il desiderio, la forza, la complessità.
Le persone guardano i film per cogliere una sorta di verità dalla storia, anche se sanno che si tratta di finzione. Volevo essere il più onesto possibile nella realizzazione del film. Voglio che proviate dei sentimenti nei confronti del protagonista, di ciò che fa, delle azioni che compie come reazione alla sofferenza che ha patito. Vorrete fare il tifo per lui.
Spero che il pubblico possa elaborare nella propria mente ciò che Dogman ha subito, il dolore che è davvero difficile da ingoiare. Ha sofferto più di quanto la maggior parte delle persone potrà mai soffrire, eppure possiede ancora una dignità.

Venezia 80: foto dal red carpet di Adam Driver, Patrick Dempsey e Michael Mann

Questa sera sul red carpet dell’80sima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è stata la serata di Ferrari, il film di Michael Mann che insieme ai protagonisti Adam Driver e Patrick Dempsey ha sfilato sul red carpet.

Molto tempo prima di girare Ferrari, ho avuto l’opportunità di camminare nelle stanze della casa di Enzo, vedere i suoi diari, conoscere le sue abitudini, meravigliarmi della carta da parati nella camera da letto in cui Laura ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, fare delle domande al loro medico, incontrare la nipote di Lina, capire il suo modo di fare e la sua modernità, sedermi sulla poltrona da barbiere di Enzo, camminare sui marciapiedi del suo quartiere e abitarci, esplorare le luccicanti parti meccaniche di un motore Lampredi V12 e le sculture dei modelli da corsa degli anni Cinquanta e, cosa più importante, interagire con il figlio di Enzo, Piero, da cui ho imparato e assorbito così tanto. Ho cercato di far rivivere le passioni e il fascino di Enzo, la sua arguzia pungente, la devastante perdita del figlio, le sfuriate teatrali, il bisogno di un rifugio emotivo, la tragedia, la monumentale scommessa su una singola gara e la lotta per la sopravvivenza: tutti elementi che sono entrati in collisione in quattro mesi del 1957.

Nel film È l’estate del 1957. Dietro lo spettacolo della Formula 1, l’ex pilota Enzo Ferrari è in crisi. Il fallimento incombe sull’azienda che lui e sua moglie Laura hanno costruito da zero dieci anni prima. Il loro matrimonio si incrina con la perdita del loro unico figlio Dino. Ferrari lotta per riconoscerne un altro, avuto con Lina Lardi. Nel frattempo la passione dei suoi piloti per la vittoria li spinge al limite quando si lanciano nella pericolosa corsa che attraversa tutta l’Italia: la Mille Miglia.

El Conde: recensione del film di Pablo Larraín #Venezia80

El Conde: recensione del film di Pablo Larraín #Venezia80

Un’ombra si staglia ancora oggi sul Cile, anche a decenni di distanza dal suo momento di maggior nitidezza. È l’ombra di Augusto Pinochet, il noto generale che l’11 settembre del 1973 prese il potere con un golpe, dando vita ad un regime dittatoriale tra i più crudeli della storia. Difficile dimenticare quella triste e nera pagina di storia, durata fino al 1990 e mai realmente voltata. Un horror a tutti gli effetti, ed è proprio così che in El Conde il regista Pablo Larraín sceglie di raccontare Pinochet, come un vampiro centenario che continua a succhiare il sangue cileno anche a distanza dalla propria caduta politica.

Questo suo nuovo film, presentato in concorso all’80ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, è dunque un ritorno a quello che è stato l’argomento che ha reso celebre Larraín e il suo cinema, ovvero la dittatura di Pinochet. Da prima affrontata attraverso i suoi effetti sul popolo cileno con Tony Manero e Post Mortem e in seguito nel racconto del referendum che ha portato alla sua caduta in No – I giorni dell’arcobaleno. Una trilogia dove Pinochet non viene dunque mai affrontato di petto e che proprio per via di questa presenza-assenza risulta ancor più spaventoso. Con El Conde, è però giunto il momento di affrontarlo direttamente.

El Conde, tra satira e rilettura storica

El Conde è una commedia dark che ipotizza un universo parallelo ispirato alla storia recente del Cile. Il film ritrae Augusto Pinochet, un simbolo del fascismo mondiale, nei panni di un vampiro che vive nascosto in una villa in rovina nella fredda estremità meridionale del continente: nutre il suo desiderio di malvagità al fine di perpetuare la propria esistenza. Dopo duecentocinquanta anni di vita, Pinochet decide però di smettere di bere sangue e di abbandonare il privilegio della vita eterna, non potendo più sopportare che il mondo lo ricordi come un ladro. Con sua sorpresa, però, troverà una nuova ispirazione per continuare a vivere una nuova vita di passioni attraverso una relazione inaspettata.

Pinochet il vampiro

Pinochet non era mai stato rappresentato al cinema, un tabù a lungo preservato che gli ha permesso di acquisire ancor di più un’aura controversa, considerando anche il suo essere morto nel 2006 senza aver mai scontato neanche un giorno di carcere per i suoi crimini o le sue frodi. Larraín, mostrandolo ora per la prima volta, punta non solo a rivelare la sua vera natura – quella di vampiro – ma anche a scalfire questa sua immagine rimasta ad oggi quasi inviolata o, peggio ancora, dimenticata. Ci viene così presentato questo anziano debilitato, isolato e apparentemente innocuo. Caratteristiche dalle quali però non bisogna lasciarsi ingannare, perché oltre a tutto ciò egli è prima di tutto un vampiro.

Una natura qui usata sì in senso letterale ma, ovviamente, più forte nel suo senso metaforico. Non bisogna infatti aspettarsi un film di vampiri come si è abituati a pensarli, per quanto non manchino spargimenti di sangue e mutilazioni. El Conde è prima di tutto un’opera satirica – unico modo per non scivolare nell’empatia, come affermato dal regista – che deride Pinochet in ogni modo possibile, a partire dal suo essere più preoccupato di venire ricordato come un ladro che non come un assassino. Si costruisce così un racconto che scena dopo scena va ad attaccare il dittatore, ma anche la sua famiglia, da ogni punto di vista possibile.

El Conde Jaime Vadell

Il film più politico di Larraín

Larraín, insieme a Guillermo Calderón, scrive dunque una “origin story” per Pinochet, facendolo divenire l’emblema del male che ciclicamente ritorna e proponendo dunque un monito nei confronti di tale rischio. Per arrivare a far emergere tale avvertimento, egli ci introduce al racconto con una voce narrante  – che all’inizio può far storcere il naso, ma che trova poi spiegazione una volta giunti al finale – dalla quale si viene accompagnati lungo la casa-museo di Pinochet alla scoperta di questa personalità tanto controversa. A dargli volto troviamo l’attore Jaime Vadell, che si fa carico di questo pesante ruolo riuscendo a renderlo sia tragico che buffo, portando così a compimento l’intento del regista.

Certo, rispetto alla trilogia poc’anzi citata, El Conde risulta un film dal minor impatto emotivo (per quanto via sia una costruzione estetica di grandissima eleganza), e forse con qualche libertà artistica di troppo, ma di certo dimostra che Larraín ha ancora da dire a riguardo, proponendo una propria personale interpretazione che, già dalla sua premessa, si può definire irresistibile. Da un punto di vista politico, invece, il film è tanto esplicito quanto feroce e in ciò trova la sua forza. Forse il suo finale potrebbe apparire estraneo alle caratteristiche ad oggi note del cinema del regista, ma forse è così che andrebbe inquadrato El Conde, come un punto d’arrivo che potrebbe dar vita ad una nuova fase nella carriera del regista, per la quale si possono avere grandi aspettative.

One Piece, la recensione della serie Netflix dal manga di Eiichirō Oda

0

Dal 31 agosto, su Netflix, la ciurma di Cappello di Paglia salpa per la sua prima avventura in live action. One Piece arriva in piattaforma, e, con la benedizione del Maestro Eiichirō Oda, sarà difficile per i diffidenti fan della saga originale (manga e anime) storcere il naso di fronte a quanto realizzato dallo streamer.

One Piece: cosa racconta la serie Netflix?

Adattamento fedele della storia di Oda, One Piece racconta le avventure di Monkey D. Luffy, che per realizzare il suo sogno di diventare Re dei Pirati e trovare il tesoro di Gol D. Roger vuole mettere insieme una ciurma e salpare per la Rotta Maggiore. Lungo il suo cammino incontra molti personaggi pittoreschi, pirati Clown, cuochi con una gamba di legno, tenaci ufficiali della Marina, dolci fanciulle dall’animo nobile. Soprattutto, Luffy incontra dei sognatori smarriti che si uniranno a lui: Nami, una ladra con una profonda conoscenza dei mari e un oscuro segreto; Zoro, un cacciatore di taglie di pirati, incredibile spadaccino; Usopp, orfano e bugiardo cronico, con una mira infallibile; Sanji, aspirante chef stellato e con un debole per le belle ragazze. Insieme formeranno una ciurma affiatata e imbattibile, anche se all’inizio riluttante, pronta a mettersi in mare per la Rotta Maggiore a caccia di avventure e storie da raccontare.

Uno sguardo puro e determinato

Se il mondo dei pirati è notoriamente popolato di tagliatore, tesori da trovare e navi da arrembare, quello di One Piece, attraverso lo sguardo puro e fanciullesco del determinato Luffy, che ricorda tanto quello del piccolo Goku di Dragon Ball, diventa un mondo colorato, dove ciò che conta è la lealtà verso il proprio sogno, l’essere fedeli a se stessi, l’amore per la propria ciurma, che poi diventa anche famiglia di elezione, e per lo spirito di avventura. E proprio per questo Luffy è un tipo strano e non perché si allunga a dismisura essendo fatto di gomma (ha ingerito il frutto Gom Gom!), quella può essere considerata quasi normalità in un mondo di personaggi bizzarri e pittoreschi!

Nell’universo sopra le righe, folle, grottesco e comico di One Piece, Luffy è l’eccezione per la sua convinzione che un pirata è colui che si dedica alla propria ricerca in nome dell’amore per avventura. One Piece ha il cuore grande di Luffy, lo stesso cuore e lo stesso spirito scanzonato che hanno fatto della serie originale un successo planetario che ancora va avanti nelle pagine dei manga.

One Piece. (L to R) Taz Skylar as Sanji, Mackenyu Arata as Roronoa Zoro, Iñaki Godoy as Monkey D. Luffy, Emily Rudd as Nami, Jacob Romero Gibson as Usopp in season 1 of One Piece. Cr. Courtesy of Netflix © 2023

Un adattamento fedele

Dopo qualche incidente di percorso (leggi Cowboy Bebop), questa volta Netflix è riuscita a trovare la chiave giusta per adattare un manga/anime di grande successo in live action. La scelta più saggia si è rivelata anche quella più ovvia: non fare grossi cambiamenti, né di trama né di look, ma abbracciare l’assurdo e l’eccesso, realizzando totalmente tutto ciò che rendeva ostica all’immaginazione una versione live action di One Piece, considerata una serie impossibile da adattare dal vivo. A questo successo contribuisce anche un cast che è perfettamente in grado di portare sullo schermo le migliori (e peggiori) qualità dei protagonisti. Iñaki Godoy (Monkey D. Luffy), Mackenyu (Roronoa Zoro), Emily Rudd (Nami), Jacob Romero Gibson (Usopp) e Taz Skylar (Sanji) sembrano nati per interpretare la ciurma di Cappello di Paglia, e restituiscono con convinzione ed entusiasmo ogni espressione, caratteristica, vezzo degli originali, risultando vincenti soprattutto nei dialoghi, sempre brillanti con un ottimo ritmo, e nelle scene d’azione, molto divertenti da guardare, che ricalcano alla perfezione i singoli stili di combattimento, tanto diversi quanto distintivi.

Si semplifica senza tradire

Il risultato è cartoonesco, eccessivo, buffo ma anche fresco, divertente, sorprendente, tutto ciò che i fan volevano ma che non osavano sperare. In più, la serie creata da Matt Owens e Steven Maeda per Netflix è un prodotto capace di soddisfare sia chi conosce bene il mondo di One Piece, sia chi non ha mai avuto accesso al materiale originale. L’unico prezzo da pagare al dio dell’algoritmo, che pretende produzioni adatte al più vasto pubblico possibile, è la leggera semplificazione delle trame, forse un appiattimento della profondità presente nella serie manga ma che comunque è presente e evidente dello show Netflix. One Piece si rivolge a un pubblico giovane, capace di apprezzare l’umorismo demenziale, la purezza e l’entusiasmo di Luffy, ma anche in grado di elaborare le scene cruente, che certo non mancano, ma soprattutto aperto ad accogliere anche i momenti di profondità che si manifestano nel corso del racconto, a mano a mano che questi cinque personaggi sgangherati, con le loro oscurità e le loro luci, diventano una famiglia, un gruppo coeso che condivide un sogno.

Gli adattamenti sono sempre pratiche rischiose, perché richiedono scelte, tagli, prese di posizione anche contrastanti rispetto al materiale originale; nel caso di One Piece la fedeltà si è rivelata la scelta migliore, una fedeltà che ricorda quella di Luffy al suo sogno e alla sua ciurma, ma anche quella dei fan verso il franchise, pronto a crescere e a espandersi.

One Piece. (L to R) Iñaki Godoy as Monkey D. Luffy, Emily Rudd as Nami in season 1 of One Piece. Cr. Courtesy of Netflix © 2023

Venezia 80: le foto di Olga Kurylenko e Pablo Larraín

Venezia 80: le foto di Olga Kurylenko e Pablo Larraín

Secondo giorno di 80esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, ecco le foto dal red carpet di Olga Kurylenko, Vincent Lindon, Ramzy Bedia, Judith Chemla. Juan di Dios Larrain, Rocio Jadue, Chilean, Paula Luchsinger, Pablo Larraìn, Gloria Münchmeyer.

La trama di D’argent et de sang

La storia della truffa del secolo avvenuta nel 2009. Miliardi vanno in cenere nel mercato delle nuove “quote di emissione di carbonio”, inventate per combattere l’inquinamento. Un gruppo di furfanti da quattro soldi di Belleville si unisce a un trader altolocato per mettere in atto un raggiro epocale. Questo succede quando il “capitalismo da casinò” si scontra frontalmente con la politica, quando si scatenano passioni umane che vanno ben oltre la semplice cupidigia.

“Volevo mettere insieme il genere thriller con uno studio della morale, un’indagine ambientale e un viaggio spirituale. Un affresco che include varie classi sociali, dagli strati elevati ai furfanti da quattro soldi, da Wall Street ai casinò di Manila. Tra i pezzi di questo puzzle scorre un’energia affascinante. Decadenza e gioco d’azzardo sono ottimi materiali filmici, ma volevo proiettare un’ombra su di essi: un investigatore ossessivo alla ricerca della verità. La macchina da presa si muove tra la fascinazione estetica del male e l’interesse a lottare per la società. Volevo ritrarre lo stato del mondo e le sue contraddizioni, evitando la complicità voyeuristica o la semplificazione morale.

Povere Creature! al cinema dal 25 gennaio 2024

Povere Creature! al cinema dal 25 gennaio 2024

Il film di Yorgos Lanthimos Povere Creature! arriverà il 25 gennaio 2024 nelle sale italiane, distribuito da The Walt Disney Company Italia. Il film sarà presentato domani in anteprima mondiale in concorso all’80ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Dal regista Yorgos Lanthimos e dalla produttrice Emma Stone arriva l’incredibile storia e la fantastica evoluzione di Bella Baxter (Stone), una giovane donna riportata in vita dal brillante e poco ortodosso scienziato Dr. Godwin Baxter (Willem Dafoe). Sotto la protezione di Baxter, Bella è desiderosa di imparare. Affamata della mondanità che le manca, Bella fugge con Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), un abile e dissoluto avvocato, in una travolgente avventura attraverso i continenti. Libera dai pregiudizi del suo tempo, Bella è sempre più decisa nel suo proposito di difendere l’uguaglianza e l’emancipazione.

Searchlight Pictures in associazione con Film4 e TSG Entertainment, una produzione Element Pictures, presenta Povere Creature!, diretto dal candidato all’Academy Award® Yorgos Lanthimos (La favorita, The Lobster). Con una sceneggiatura scritta dal candidato all’Academy Award® Tony McNamara (La favorita), basata sul romanzo di Alasdair Gray, il film è prodotto dal candidato all’Oscar® Ed Guiney p.g.a. (La favorita, Room), Andrew Lowe p.g.a. (The Eternal Daughter, The Souvenir: Part II), Yorgos Lanthimos p.g.a. ed Emma Stone p.g.a.

La vincitrice dell’Academy Award® Emma Stone, (La favorita, La La Land), è protagonista insieme al candidato all’Academy Award® Willem Dafoe (The Lighthouse, The French Dispatch), al candidato all’Academy Award® Mark Ruffalo (Il caso Spotlight, Foxcatcher – Una storia americana), al vincitore del Golden Globe® Ramy Youssef (Ramy, Mr. Robot), Christopher Abbott (Black Bear, Possessor), il vincitore del Primetime Emmy® Award Jerrod Carmichael (The Carmichael Show), Hanna Schygulla (Ai confini del paradiso), Kathryn Hunter (Macbeth) e la candidata al Primetime Emmy® Award Margaret Qualley (C’era una volta a… Hollywood, Maid).

Il direttore della fotografia è il candidato all’Oscar® Robbie Ryan, BSC, ISC (La favorita, C’mon C’mon), gli scenografi sono James Price (Judy) e Shona Heath, con i costumi di Holly Waddington (Lady Macbeth, War Horse), e le acconciature e il trucco prostetico della candidata all’Oscar® Nadia Stacey (La favorita, Crudelia). La colonna sonora originale è composta da Jerskin Fendrix, il montatore è il candidato all’Oscar® Yorgos Mavropsaridis, ACE (La favorita, The Lobster) e la set decorator è Zsuzsa Mihalek (La talpa).

The Continental: trailer della serie basata sul franchise di John Wick

0

Prime Video dopo il teaser ha rilasciato il trailer di The Continental l’annunciata serie prequel di John Wick. Il video di un minuto ha anche rivelato anche la data di uscita per lo spettacolo. La serie in tre parti inizierà a settembre 2023, anche se non sono state fissate date esatte. Il contributo introduce anche un sottotitolo che recita ” Dal mondo di John Wick “. Dai un’occhiata al teaser trailer di The Continental:

The Continental vedrà Colin Woodell nei panni del giovane Winston, l’esordiente Ayomide Adegun nei panni del giovane Charon, Mel Gibson nei panni di Cormac, Hubert Point-Du Jour nei panni di Miles, Jessica Allain nei panni di Lou, Mishel Prada nei panni di KD, Nhung Kate nei panni di Yen, Ben Robson nei panni di Frankie, Peter Greene come zio Charlie, Jeremy Bobb come Mayhew, Ray McKinnon come Jenkins, Adam Shapiro come Lemmy, Mark Musashi come Hansel, Marina Mazepa come Gretel e Katie McGrath come The Adjudicator.

Ambientato 40 anni prima degli eventi dei film, l’imminente spin-off prequel è incentrato su un giovane di nome Winston, che un giorno diventerà il personaggio interpretato da Ian McShane nei film di Wick“, si legge nella   sinossi Nel prequel ambientato sullo sfondo della New York degli anni ’70, i fan troveranno un giovane Winston nei panni di un albergatore emergente che, insieme ad altri, crea un rifugio per tipi sgradevoli“.

The Continental è stato introdotto nella prima film dei  film di John Wick  come rifugio sicuro per gli assassini ed è stato un luogo centrale nel franchise. Ogni puntata della serie di eventi dovrebbe durare 90 minuti e sarà presentata in anteprima nel corso di tre serate consecutive.

The Continental è stato annunciato per la prima volta nel 2017 dai creatori del franchise Chad Stahelski e Derek Kolstad. I produttori esecutivi sono Greg Coolidge, Kirk Ward e Shawn Simmons, che servono come showrunner, così come Albert Hughes, che dirige anche “Parte 1” e “Parte 3”, mentre Charlotte Brandstrom dirige “Parte 2”. Altri produttori esecutivi includono Basil Iwanyk ed Erica Lee della Thunder Road Pictures, Stahelski, Kolstad, David Leitch, Paul Wernick, Rhett Reese e Marshall Persinger.

Jeanne du Barry – La Favorita del Re, nuova clip dal film con Johnny Depp

0

Dopo la prima clip, ecco una nuova clip del film in questi giorni al cinema Jeanne du Barry – La Favorita del Re, diretto da Maïwenn con un inedito Johnny Depp. Al cinema dal 30 Agosto distribuito da Notorious Pictures. Dopo aver aperto fuori concorso il 76° Festival di Cannes, arriva anche in Italia Jeanne du Barry – La Favorita del Re, diretto da Maïwenn (attrice e regista pluricandidata ai Premi César e vincitrice del premio della giuria al Festival di Cannes con la sua terza opera da regista, Polisse).

Un’intensa storia d’amore e di passione alla corte di Versailles che racconta la vita, l’ascesa e la caduta di Jeanne – interpretata dalla stessa Maïwenn – amante di Sua Maestà Luigi XV, che ha il volto di un inedito Johnny Depp. A completare il cast, le star Benjamin Lavernhe (The French Dispatch), Melvil Poupaud (Brother and Sister), Pierre Richard (Ti presento i tuoi), Pascal Greggory (L’ultima ora) e India Hair (La Ligne – La linea invisibile). Il film sarà distribuito nelle nostre sale da Notorious Pictures a partire dal 30 agosto.

La trama

Jeanne Vaubernier, una giovane donna della classe operaia affamata di cultura e piacere, usa la sua intelligenza e il suo fascino per salire uno dopo l’altro i gradini della scala sociale. Diventa la favorita del re Luigi XV che, ignaro del suo status di cortigiana, riacquista attraverso di lei il suo appetito per la vita. I due si innamorano perdutamente e contro ogni decoro ed etichetta, Jeanne si trasferisce a Versailles, dove il suo arrivo scandalizza la corte…

L’ordine del tempo, la recensione del film di Liliana Cavani #Venezia80

C’è un preciso momento in L’ordine del tempo, il nuovo film di Liliana Cavani presentato Fuori Concorso all’80ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, che ci dice tutto ciò che occorre sapere sul film: i protagonisti, fino a quel momento angosciati dall’ipoteticamente imminente fine del mondo, si riuniscono per danzare tutti insieme in cerchio sulle note di Dance Me to the End of Love di Leonard Cohen. Tutti, tranne la domestica peruviana, relegata sullo sfondo ad osservare quel felice gruppetto senza che a lei sia concesso di potersi scrollare di dosso, anche solo per un attimo, le proprie  preoccupazioni.

Il ritorno dietro la macchina da presa, a vent’anni dall’ultimo film, della Cavani è dunque sin dalle primissime battute un’opera che vorrebbe aspirare a proporre riflessioni sulla vita e l’esistenza, ma si concentra piuttosto sul difficilmente sopportabile punto di vista dei suoi personaggi snob. Un peccato, considerando che la base di partenza per tale lungometraggio è stato l’affascinante saggio omonimo scritto dal fisico Carlo Rovelli, dove si approfondisce la natura del tempo e della sua percezione umana. Naturalmente la Cavani, co-sceneggiatrice insieme a Paolo Costella e allo stesso Rovelli, è costretta a costruire intorno a tali concetti un racconto originale, ed è qui che iniziano i problemi. Ma andiamo con ordine.

La trama di L’ordine del tempo

Al centro della vicenda vi sono un gruppo di amici di vecchia data – tra i quali ritroviamo come interpreti Alessandro GassmannEdoardo Leo, Claudia Gerini Kseniya Rappoport – che, come ogni anno, si ritrova in una lussuosa villa privata sul mare di Sabaudia per festeggiare un compleanno. La scoperta che un enorme meteorite viaggia a gran velocità verso la terra, con forti probabilità di colpirla e portare all’estinzione la specie umana, trasforma però irrimediabilmente quel giorno di festa in uno di angoscia e paura. Da quel momento, il tempo che separa il gruppo dalla possibile fine del mondo sembrerà scorrere diversamente, veloce ed eterno, durante una notte d’estate che, apparentemente, cambierà le loro vite.

La cecità di una classe sociale

La scena precedentemente descritta conferma dunque quanto fino a quel momento si è temuto e quanto successivamente non verrà che confermato più e più volte fino allo sfinimento: i protagonisti di questo film sono personaggi che vorrebbero apparire quali variegati rappresentanti di un’umanità a tutti comprensibile, ma invece si svelano essere personalità egocentriche, sostanzialmente incapaci di gettare le proprie maschere anche nel momento in cui sarebbe opportuno farlo. Tutti i loro buoni propositi di venire a patti con passati tradimenti, amori persi, traumi mai risolti risultano tentativi mal riusciti di dimostrarsi compassionevoli.

Ma come possono esserlo quando l’unica ad avere un reale motivo nel temere la fine del mondo, la domestica peruviana, viene continuamente ignorata? Madre di un figlio che ha dovuto lasciare in Perù per venire in Italia, così da potergli inviare soldi, è lei l’unica a preoccuparsi di ciò che conta davvero: il futuro, del suo bambino come quello della vita, e la sua potenziale assenza. L’ordine del tempo diventa dunque sostanzialmente – e involontariamente – il racconto di una classe sociale incurante dei bisogni altrui, troppo occupata a rimuginare sui propri problemi, che naturalmente visti in un’ottica più ampia non si rivelano affatto così importanti.

L'ordine del tempo Edoardo Leo Ksenia Rappoport

Personaggi problematici per un film problematico

Difficile dunque empatizzare con questi personaggi così poco umani, tanto per quello che dicono quanto per quello che pensano e compiono. Personaggi che sarebbero potuti essere ottimo materiale per un film satirico sulla loro classe d’appartenenza, smascherando tutta la loro ipocrisia nel momento in cui posti a confronto con l’ipotetica fine delle loro esistenze. “Sfortunatamente” non c’è mai questo tipo di intento nei loro confronti, il che non vuol dire che la regista avrebbe fatto meglio ad inserire tale sfumatura, ma che così come sono scritti e posti in scena tali personaggi risultano facilmente odiosi.

È chiaro che l’intento era piuttosto quello di riflettere sulle dinamiche relazionali, ma nel farlo vengono utilizzati degli argomenti che nella loro banalità impediscono di andare davvero al cuore di tale tematica. È davvero tutta qui l’essenza dell’essere umano, tra una confessione di tradimento e un pedante discorso sulla tragedia greca? Forse è questo l’aspetto più spaventoso del film, molto più dell’ipotetica apocalisse che anzi non si riesce a prendere sul serio neanche per un momento. Ma pur volendo discostarsi da questo tipo di lettura, L’ordine del tempo risulta essere problematico sotto più punti di vista.

Il più evidente tra tutti è la scrittura, tra situazioni inverosimili (chi inviterebbe mai un amico lì dove c’è anche la sua ex con il nuovo compagno, tanto per dirne una) e dialoghi non solo presuntuosi ma anche eccessivamente didascalici, che già solo a sentirli pronunciare risulta evidente l’abisso tra di essi e il modo in cui si parla realmente nella vita di tutti i giorni. Certo, Alessandro Gassmann ed Edoardo Leo ce la mettono tutta per dar credibilità a tali battute, ma tra queste, scene che si potrebbero definire “vicoli ciechi” e la generale superficialità nella costruzione del racconto e della sua messa in scena, L’ordine del tempo porta piuttosto a sperare che la fine sia davvero imminente.

MCU: tutte le sostanze strane e inspiegabili presenti nel franchise

Il MCU è un mondo ricco, variegato e affascinante, pieno di supereroi tenaci, folli villain e storie maestose. Ma sappiamo bene che non è solo questo a renderlo un franchise di grande successo. Una delle capacità, e quindi dei meriti, del Marvel Cinematic Universe – che lo ha reso sin da subito irresistibile – è l’inserire all’interno delle sue narrazioni particolarità interessanti, come per esempio la presenza di alcune sostanze a noi sconosciute, ma che vengono trattate dai personaggi come se si conformassero alle normali leggi della fisica. Che inevitabilmente ci incuriosiscono.

Molto spesso si è sentito parlare, ad esempio, del vibranio. Un materiale che da come viene raccontato potrebbe davvero esistere nel mondo reale ma che poi, approfondendo un po’ meglio le sue caratteristiche, si scopre essere inspiegabile e strano. In fondo, lo stesso Stan Lee disse di aver costruito questo universo attorno a termini che semplicemente suonavano bene, non che erano supportati dalla scienza. Ma quali sono?

Vibranio

Black-Panther-Wakanda-Forever-recensione

Fra le tante sostanze presenti nel MCU, il vibranio è quello più usato dai personaggi Marvel, oltre a essere inserito all’interno di più film. Intanto, diciamo subito che il vibranio è un raro minerale metallico con proprietà di manipolazione dell’energia. Nonostante fosse una sostanza estratta su diversi pianeti, ad un certo punto tutte le miniere si sono esaurite, e il vibranio è rimasto solo sulla Terra e la Torfa. Ed è sulla prima che, in teoria, esistono cinque tipi differenti del minerale, e due di questi sono quello wakandiano e quello antartico. Se si analizza il concetto che sta alla sua base, esso può essere scientificamente valido: esistono diversi elementi rari, come il rutenio e l’osmio, che si trovano spesso nei meteoriti. Esiste anche un metallo, il tecnezio, che è più introvabile, e non è presente naturalmente sulla Terra. È plausibile, in tal caso, che una nazione come il Wakanda possa aver costruito la sua ricchezza attorno a una fornitura limitata di un metallo così raro.

Il problema però arriva quando si prendono in esame le sue proprietà. Oltre ad assorbire le onde sonore o le vibrazioni, il vibranio riesce anche a reindirizzare l’energia cinetica; alcuni metalli, realmente esistenti, hanno davvero proprietà simili di insonorizzazione e trasferimento di energia, ma i film del MCU confondono molto spesso sulle sue “specialità”. Un esempio lo abbiamo con lo scudo di Capitan America, fatto di vibranio: i proiettili sparati contro la sua armatura dovrebbero in teoria rimbalzare, ma quando l’Agente Carter cerca di dimostrarne la resistenza, lo scudo li appiattisce. Anche l’eccesso di radiazioni è un altro grosso punto interrogativo del minerale. Da quanto si apprende, il meteorite arrivato a Wakanda dentro il quale era contenuto il vibranio, ha infuso il suolo e la vegetazione, portando alla crescita dell’Erba a Foglia di Cuore. Ma è qui che arriva il problema: se il vibranio “causa” radiazioni benefiche in grado di alterare piante e minerali, come è possibile che non abbia lo stesso effetto su persone e animali che si nutrono di quelle piante? È, praticamente, impossibile, considerando che è grazie a quella specifica erba che le Pantere Nere ricevono i loro poteri.

Uru

Thor

Un’altra sostanza particolarmente nota è l’Uru, un metallo mistico che nei fumetti Marvel è presente nel mantello di Thor, Mjölnir. Nei film appartenenti al MCU, il mantello non possiede questo nome, ma la descrizione del Dio del tuono in Thor: Ragnarok, quando dice che è stato “fatto con questo metallo speciale proveniente dal cuore di una stella morente”, ci fa capire che si riferisce al Mjölnir, poiché combacia con la sua rappresentazione nei fumetti. L’Uru ha le sembianze di una pietra, ed è altamente resistente ai danni. Su di esso è anche detto che si rafforzi quando subisce un incantesimo particolare, grazie alla sua capacità di assorbire la magia come una spugna. Questo fa sì che possa imbrigliare e reindirizzare altre energie, come il fulmine che Thor incanala.

L’elemento di Tony Stark

Iron Man 2

In Iron Man 2, Tony Stark realizza un nuovo elemento per creare un altro reattore ad arco che non sia tossico come il palladio. Di questo elemento non è mai spiegato niente, seppur Stark lo abbia brevettato dandogli il nome “badassium”. L’unica cosa appresa è che questa specie di metallo ha insolite proprietà di assorbimento dell’energia, tanto che in The Avengers Iron Man riesce ad assorbire i fulmini di Thor, bloccando il potere della Gemma della Mente. Pur essendo la creazione di un elemento teoricamente semplice, nell’atto concreto richiede molta energia, tanto che il risultato ottenuto non potrà mai, se non in rari casi, essere stabile per lungo tempo. Inoltre, i nuovi elementi hanno la tendenza ad essere radioattivi, indi per cui è quasi impossibile che Stark abbia creato qualcosa di non radioattivo e più sicuro del palladio.

Particelle Pym

Ant-Man and the Wasp Quantumania 8

Altra “materia di studio” sono poi le Particelle Pym, un raro gruppo di particelle subatomiche scoperte e isolate dal Dott. Henry Pym, le quali hanno la capacità di alterare le dimensioni e la massa di oggetti o esseri viventi. È, in realtà, una sorta di violazione della legge fisica del cubo quadrato, secondo la quale tutto ciò che diventa 10 volte più grande copre una superficie 100 volte maggiore e pesa 1000 volte di più. Queste particelle, però, ne superano il problema, poiché ad un certo punto riescono a spostare la massa in eccesso nel regno quantico subatomico. Nella realtà, tale processo non sarebbe mai possibile con la fisica che conosciamo noi.

Le Gemme dell’Infinito

Gemme dell'Infinito MCU

La causa scatenante che in Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame ha portato alla morte di alcuni degli Avenger più amati sono le Gemme dell’Infinito, le quali riescono ad arrivare nelle mani del folle Thanos facendogli distruggere interi universi. Delle Gemme, però, il MCU ha una conoscenza abbastanza limitata, indi per cui dobbiamo risalire ai fumetti, secondo i quali esse sono creazioni dei Celestiali, esseri cosmici che hanno creato il MCU e diversi altri universi. Il potere delle Gemme è davvero enorme, come si è potuto vedere, ma ciò che non si sa è che può essere esercitato solo in base ai capricci dei suoi creatori. In questo modo, capiamo che Thanos, come tutti gli altri Avenger e supereroi, sono solo una profezia. Ma tornando ai film del Marvel Universe, la storia delle Gemme dell’Infinito è abbastanza insensata. Queste pietre sono più mistiche che scientifiche, ma nelle pellicole sembra che debbano per forza essere conformi alle leggi naturali della scienza, in particolare quelle dello Spazio e del Tempo. Inoltre, la distruzione delle Gemme, nonostante il loro potere, non sembra avere avuto alcun effetto sul MCU. Ma il vero punto interrogativo è un altro: le Gemme sono davvero senzienti? Sembrerebbe di no, se si considera che in Avengers: Infinity War, quella dell’Anima si attiva e rivela solo dopo il sacrificio di Gamora. Ma in fondo… chi lo sa.

Raggi gamma

Hulk

Chiunque si stia ancora chiedendo in che modo Bruce Banner sia diventato Hulk, o meglio cosa abbia scatenato la sua trasformazione, la risposta è solo una: l’esposizione ai raggi gamma. Nella nostra realtà, i raggi gamma sono la lunghezza d’onda più corta delle onde elettromagnetiche rilasciate dai materiali radioattivi , e sono anche le più letali, in quanto causano danni intensi ai tessuti e al DNA. Nel MCU questo problema non è stato proprio affrontanto, con Banner che spiega a sua cugina Jennifer Walters (She-Hulk per intenderci), che entrambi hanno “una rara combinazione di fattori genetici che ci permettono di sintetizzare le radiazioni gamma in qualcos’altro”. Pur potendo essere alcuni più resistenti alle radiazioni, nessuno può davvero alterare completamente l’energia radioattiva nel corpo.

Il siero DNA Harvest

Nick Fury Thor

Un’altra sostanza inspiegabile è inserita all’interno di Secret Invasion, nuovo show targato Marvel uscito di recente su Disney+. Parliamo del siero del DNA Harvest, introdotto per giustificare la ribellione dello Skrull Gravik, portandolo a formare un esercito intenzionato a conquistare la Terra. In questa occasione, viene rivelato che Nick Fury ha raccolto nel tempo DNA di vari eroi e villain, distillandoli in un unico siero, chiamato per l’appunto Harvest, il quale può essere usato da uno Skrull per acquisire poteri di diversi personaggi del MCU. Nonostante ciò, non è ben chiaro come funzioni il siero: pur volendo far passare l’idea che G’iah e Gravik possano accedere a un elenco di tutti gli esseri il cui DNA è finito nel liquido, non c’è modo di sapere come funzionerebbero i loro poteri. È difficile, poi, pensare che Nick Fury possa immagazzinare tutte queste informazioni genetiche in un unico siero, tra l’altro conservato a temperatura ambiente.

Fluido cerebrale

Eternals

Concludiamo il nostro viaggio nelle sostanze strane del MCU con il fluido cerebrale dei Celestiali attraverso il quale, riferendoci ai fumetti, si ottengono i superpoteri. Nel passaggio al Marvel Cinematic Universe non si sa se questa cosa valga anche per i film: come vediamo chiaramente nella trilogia de Guardiani della Galassia, il cranio di un celestiale decapitato è stato trasformato in quella che conosciamo come Knowhere, città nella quale vivono i Guardiani e sede di una prosperosa attività mineraria. Si dice che Knowhere raccolga le ossa, il tessuto cerebrale e il fluido spinale dei Celestiali morti, ma non è chiaro a cosa questi in realtà servano. Altra cosa che non ha spiegazione, e lascia fra l’altro perplessi, è il fatto che i Celestiali, considerata l’importanta nell’Universo Marvel del fluido, consentano che uno di loro venga profanato in questo modo.

And Just Like That 2: si ritorna alle origini di Sex & The City?

Un Cosmopolitan e le chiacchiere fra amiche che rendono la vita migliore. Sono sempre stati questi i due tratti caratteristici di Sex & The City. Il marchio di fabbrica che ha distinto la serie anni Novanta da altri show televisivi. Gli stessi tratti che abbiamo ritrovato in And Just Like That, in particolare nel finale della seconda stagione del revival, in cui Carrie consuma il suo cocktail baciata dal sole greco insieme a Seema, mentre una borsa Yves Saint Laurent giace sulla sabbia.

Che fosse la nostalgia della serie cult ad aver spinto Darren Star (suo creatore) a farci tuffare di nuovo nelle vite di Carrie, Miranda e Charlotte è un dato di fatto. Che continuasse a voler essere quasi sua copia carbone è, invece, qualcosa di inaspettato. Con una prima stagione avvincente, And Just Like That, a distanza di tredici anni dal secondo film, ha riaperto le porte sulla quotidianità delle tre amiche (un tempo erano quattro), per mostrarci quanto fossero cambiate ed evolute e quanto lo show volesse impegnarsi ad affrontare tematiche più idonee all’età delle protagoniste maturate. Se quindi alla prima season era stato riconosciuto il merito di essere un revival degno, la seconda ha registrato un cambio di rotta, volendo chiaramente tornare ai fasti della serie madre. Ma questa, a guardarlo oggi, funziona ancora?

Quando andrà avanti Carrie?

And Just Like That 2 Carrie

Nella prima puntata di Sex & The City, andata in onda sulla HBO nel 1998, un pubblico che stava per entrare nel nuovo millennio fa la conoscenza di Carrie Bradshaw, una giornalista vivace e romantica che ha una rubrica sul sesso. Parlare apertamente dell’argomento e mostrarlo senza filtri è in realtà ciò che ha reso poi lo show così famoso e apprezzato. Carrie, affascinata dalla moda e dalla vita frenetica di New York, ci viene presentata come una giovane donna dai grandi sogni, che – come ribadirà lei stessa nel primo film della serie – è arrivata nella Grande Mela per cercare il vero amore.

Mentre scopre e prova, quasi come fossero cibi diversi, varie tipologie di uomini, insieme alle sue amiche del cuore, Carrie capisce qual è l’uomo che vuole al suo fianco, seppur nel corso delle stagioni la persona che desidera davvero, ossia Mr. Big, non ne rispecchi esattamente le caratteristiche. È così che la donna comincia ad avere alte aspettative sugli uomini che frequenta, nella speranza di poter coronare il suo sogno, che si trasforma quasi in una missione. Al tempo stesso questo la porta a essere continuamente illusa e indecisa, piena di preoccupazioni e dubbi e spesso anche avventata. Un comportamento giustificato dalla sua età e dal suo essere, in fondo, un’eterna fanciulla a volte anche capricciosa. Nella prima stagione di And Just Like That, dopo averla vista mettere in ordine i tasselli della sua vita con i due film del 2008 e 2010, abbiamo una Carrie leggermente diversa, più adulta, consapevole di chi è diventata.

È la morte di Big, e il successivo lutto, a dimostrarcelo: lei sa di non poter più tornare indietro e riavvolgere il nastro, e l’unico modo per superare quella sua condizione è guardare verso il futuro, continuando a crescere, pur essendo rimasta di nuovo sola. La Carrie matura, che si sente finalmente bene nella sua età e in quella quotidianità un po’ ordinaria ma stabile, è però spazzata via nella seconda stagione del revival, innescata dal ritorno di fiamma con Aidan. Dopo essersi visti ad Abu Dhabi nell’ultimo film, e aver capito, in seguito al bacio con lui, che è Mr. Big l’amore della sua vita, in And Just Like That 2 Carrie sembra fare ancora una volta un passo indietro. O meglio, dieci balzi nel passato, quando nella stagione quattro crede sia Aidan il partner giusto con il quale sistemarsi in pianta stabile, vendendo addirittura il suo appartamento per costruirci insieme un futuro.

Ma sappiamo molto bene quanto Carrie si sia pentita allora della decisione, mandando a monte il matrimonio con Aidan nel giro di poco tempo a causa del suo sentirsi in gabbia. E soprattutto quanto le sia costato mettere in vendita la sua bella casetta a Manhattan. Il risultato è che, come accadde in Sex & The City, la scelta ripetuta in And Just Like That 2 la porta a rimanere esattamente dove è sempre stata: in bilico fra l’andare avanti ed essere felice e il rimanere immobile, in una relazione che non sa dove attraccherà. Un limbo che non ha mai fine. Soltanto che adesso, l’aggravante, è che deve aspettare 5 anni per per poter stare tranquilla.

Big o Aidan?

And Just Like That 2 Carrie e Aidan

Ed è in realtà proprio a far inceppare gli ingranaggi di Carrie in And Just Like That 2. Sin dalle prime immagini, il pubblico che si era legato al giovane designer di mobili, ha immaginato come potesse essere l’incontro con la donna dopo l’episodio nelle terre d’Oriente. Abbiamo conosciuto Aidan nella terza stagione e sembrava essere perfetto per lei: un uomo strutturato, fatto e finito, con le idee e gli obiettivi chiari.

Era l’amore che Carrie cercava per le strade di New York, fra i vicoli, nei bar chic, nelle feste da sballo, nelle sfilate di alta moda. Salvo poi capire che Aidan non era – ancora – quello che voleva. Non era pronta ad affrontare un matrimonio, a impegnarsi sul serio, a fare quel passo avanti che le avrebbe cambiato la vita. Un comportamento infantile, che ha sempre caratterizzato la protagonista e che nella fine del rapporto con lui ha trovato conferma. Cosa voleva davvero Carrie? Solo Big. Solo il suo John. Ed è questa la consapevolezza a cui è arrivata nel secondo film, dopo il bacio improvviso con Aidan e il ritorno a casa da suo marito. Aidan non poteva essere quello adatto, perché Carrie aveva bisogno di quell’ “amore ridicolo, scomodo, che consuma, che non può vivere senza l’altro”, come disse a Petrovsky nel finale della sesta stagione a Parigi, prima di buttarsi fra le braccia di Big e trovare il suo per sempre. Invece Aidan era, semplicemente, grigio.

Nonostante Mr. Big sia stato nel corso delle stagioni sempre indeciso, inaffidabile e a volte vigliacco, non ha mai voluto davvero cambiarla, a differenza di Aidan, e ha sempre acceso in lei quella passione che cercava, e che si conformava bene al carattere sognatore, spensierato e a volte bambinesco di Carrie. Con lui decide di sposarsi, accetta l’etichetta di moglie, trovando con lui le regole per vivere un matrimonio felice e giusto, cosa che con Aidan era stato impossibile fare (lui la mise davanti ad un ultimatum nella quarta stagione: o mi sposi o ti lascio).

In And Just Like That 2 è strano perciò sentire Carrie chiedere a Miranda se Big sia stato un errore, quando tutti sanno, lei compresa, quanto non fosse così, soprattutto perché l’uomo è stato l’unico a permetterle di essere se stessa, soprattutto di essere libera. E se John fosse ancora vivo, a Carrie questo dubbio non sarebbe mai affiorato, e un ennesimo ritorno di Aidan non le avrebbe fatto prendere una nuova casa a Gramercy Park per lui e i suoi figli, come invece avviene nella season del revival. A livello narrativo, la re-introduzione del personaggio è stata molto frettolosa, non aderisce bene alla nuova realtà di Carrie e risulta persino monotona, non apportando alcun cambiamento o miglioramento significativo né alla protagonista né al suo modo di intendere i rapporti. Non la fa crescere ancora, come si sperava di vedere. Non la fa evolvere. Quello a cui perciò si assiste è un ripetere gli errori fatti in Sex & The City, constatazione confermata dalla richiesta di lui di aspettare che il figlio Wyatt finisca la pubertà per poter stare insieme. Non ci sono soluzioni o compromessi per lui. Ci sono solo le sue decisioni prese senza un autentico confronto di coppia. Aidan non è il vero amore di Carrie. È che Carrie, ancora una volta, si sta accontentando.

Samantha, il cuore pulsante dello show

And Just Like That 2 Samantha

E ora arriviamo al cuore pulsante di Sex & The City: Samantha Jones. Il cameo di Kim Cattrall in And Just Like That 2, da quando la stessa attrice lo annunciò sui suoi canali social, è stato il momento più atteso e desiderato da tutti i sostenitori della serie. Il personaggio di Cattrall è stato Sex & The City, una ventata d’aria fresca e nuova che ha dato allo show ciò di cui aveva davvero bisogno per differenziarsi ed essere risonante: l’irriverenza. Pur essendo Carrie la protagonista, Samantha è sempre riuscita a sovrastarla e in più di un’occasione oscurarla. Era lei il personaggio sovversivo, portatrice di un pensiero femminista, per non dire che fosse proprio una trasposizione su schermo del movimento. Jones, da quando è apparsa nella prima puntata, ha dichiarato subito la sua indole.

In una serie improntata sulla libertà dell’essere donne, sull’annullare i tabù legati al sesso e le sue declinazioni, Samantha è stata capace con le sue battute ironiche, la sua franchezza e il suo savoir fair, di dare un senso all’intera narrazione e ai suoi intenti. Molto più delle sue amiche, le quali hanno sempre rappresentato varianti più deboli del femminismo. Samantha si è battuta sin da subito per l’indipendenza che merita di avere una donna, anche nel rapporto con un uomo, tanto che lei stessa più di una volta sottolinea l’importanza di dominare sotto le lenzuola. Anche quando si innamora – parliamo sempre della serie – non si lascia sopraffare dal compagno, ma anzi ad un certo punto, proprio perché crede in se stessa e non vuole soccombere, lo lascerà con queste iconiche parole: “io ti amo, ma amo più me stessa.”

Il personaggio portato in scena da Kim Cattrall è stato da stimolo per tante donne all’epoca, ed assume ancora più valore nella nostra era contemporanea, nella quale siamo continuamente tartassati dal politically correct e dal dare più valore all’apparenza piuttosto che alla sostanza, oltre ad essere in un momento storico in cui la donna fa ancora fatica (seppur di meno rispetto a prima) a trovare il suo posto nel mondo e ad affermarsi. Samantha Jones è stata fonte di ispirazione, icona, paladina del body positive, devota alla verità, anche quella più volgare, e mai spaventata nell’esprimere il suo pensiero, scomodo o meno che fosse. Mai costretta in una gabbia. Mai etichettata, a meno che non fosse lei stessa a volerlo, e spesso era per gioco.

Per tutte queste ragioni, l’avere avuto anche solo 75 secondi all’interno di And Just Like That 2, pagati fra l’altro a Cattrall un milione di dollari – ha permesso alla serie di poter, anche solo per poco, tornare ad avere quell’armonia tipica dello show, in cui l’amicizia e l’humor sono la vera colonna portante. L’entusiasmo del pubblico nel rivedere la sua beniamina è servito a dare una scossa agli ultimi episodi sottotono, e seppur Samantha non sia ufficialmente tornata sulla giostra, la sua breve presenza è stata capace di imprimersi anche là dove non ci fosse. Inoltre, ha fatto sì che il personaggio avesse una sua meritata conclusione narrativa, che poi conclusione in realtà non è stata: mostrarci che Samantha esiste ancora nell’universo di And Just Like That e che sia ancora in buoni rapporti con le sue amiche, ma in particolare con Carrie, è stato il miglior modo per omaggiarla e dare a noi spettatori la conferma che sta bene. È presente. E lo sarà sempre.

Conclusioni

And Just Like That 2 Carrie e Miranda

Sulla base di quanto detto, And Just Like That 2 sembra non trovare una propria forma come accaduto con la prima season, e perciò tenta di modellarsi seguendo la stessa traccia della serie madre. Non considerando, però, che i tempi sono cambiati e che oggi le tematiche trattate negli anni Novanta sono affrontate tutti i giorni, esplorate in lungo e in largo nella maggior parte dei prodotti audiovisivi. Per cui, ciò che dovrebbe essere essenziale, e che speriamo di trovare nella terza stagione già annunciata, è una scrittura che, pur ancorandosi all’ossatura narrativa di Sex & The City, trovi una propria strada per parlare e raccontarsi a un pubblico diverso, evoluto, tanto quanto lo sono – o dovrebbero esserlo – le sue protagoniste.

Intanto, è un bene che la stagione abbia lasciato una porta aperta su quella che potrebbe essere, eventualmente, una presa di consapevolezza definitiva di Carrie riguardo il suo futuro. Dopo aver deciso di affittare il suo appartamentino floreale alla vicina di casa, la giornalista sceglie, nelle ultime battute, di non tornare sui suoi passi nonostante il periodo di pausa con Aidan, ma prova a guardare avanti e rimanere ferma nella sua ultima decisione di aver comprato una nuova casa. Soprattutto, fronteggia la sua ennessima situazione critica davanti ad un Cosmopolitan, per ricordare al suo pubblico che tutto si può affrontare davanti a un buon cocktail.

Venezia 80: Alexandre Desplat terrà la laudatio di Wes Anderson

Venezia 80: Alexandre Desplat terrà la laudatio di Wes Anderson

Sarà il compositore francese Alexandre Desplat a tenere la laudatio di Wes Anderson alla cerimonia di consegna del premio Cartier Glory to the Filmmaker dell’80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, venerdì 1 settembre nella Sala Grande del Palazzo del Cinema (Lido di Venezia) alle ore 14.30, prima della proiezione Fuori Concorso di The Wonderful Story of Henry Sugar (Usa, 40′), per il quale ha composto le musiche.

Alexandre Desplat ha scritto le colonne sonore dei film di Wes Anderson da Fantastic Mr. Fox (2009)  fino ad Asteroid City (2023). Per Grand Budapest Hotel (2014) ha vinto l’Oscar alla migliore colonna sonora nel 2015. Ha vinto il suo secondo Oscar nel 2018 per le musiche de La forma dell’acqua di Guillermo del Toro, film Leone d’oro nel 2017.

Alexandre Desplat è stato Presidente della giuria internazionale del concorso di Venezia nel 2014.

Adam Driver denuncia Netflix e Amazon per non aver soddisfatto le richieste del SAG-AFTRA

0

In occasione della conferenza stampa di Ferrari al Festival del cinema di Venezia, dove il film è stato presentato in Concorso, Adam Driver ha denunciato Amazon e Netflix per essersi rifiutati di soddisfare le richieste di SAG-AFTRA protese a stipulare accordi ad interim per permettere agli attori, presenti nei loro film, di partecipare alla promozione degli stessi nel corso dello sciopero di sindacato.

Senza mezzi termini, Adam Driver chiama in causa le grandi case di produzione / streamer per puntare il dito contro la loro mancanza di volontà di trovare accordi ad interim con gli attori (Driver si fa portavoce del SAG, ovviamente), cosa che invece fanno le produzioni più piccole, come la Neon, che produce il film di Michael Mann.

“Sono molto felice di essere qui per supportare questo film, e la programmazione ridotta che avevamo per girarlo e gli sforzi di tutti gli incredibili attori che ci hanno lavorato e della troupe. Ma sono anche molto orgoglioso di essere qui per rappresentare visivamente un film che non fa parte dell’AMPTP e per promuovere la direttiva sulla leadership del SAG che è una tattica efficace ovvero, gli accordi ad internim”, ha affermato Driver.

“L’altro obiettivo è ovviamente quello di mostrare come una società di distribuzione più piccola come Neon e STX International può soddisfare le richieste di SAG – si tratta di pre-negoziazioni – ma un grande aziende come Netflix o Amazon non lo fa. E ogni volta che i rappresentanti del SAG sono andati a sostenere un film che ha rispettato i termini dell’accordo provvisorio, diventa ancora più ovvio che queste persone sono disposte a sostenere le persone con cui collaborano, e gli altri no.”

Il cast di Ferrari protagonisti sono Adam Driver nei panni di Enzo Ferrari con Penélope Cruz nei panni di Laura Ferrari. Nel cast anche Shailene Woodley, Gabriel Leone, Sarah Gadon, Jack O’Connell, Patrick Dempsey, Michelle Savoia, Erik Haugen, Andrea Dolente e Giuseppe Bonifati.

Michael Mann: “Enzo Ferrari, una storia di lutto, passione e ambizione”

In Concorso, trai grandi nomi che presenteranno i loro film a Venezia 80, c’è anche Michael Mann, regista iconico del cinema mondiale, che porta al Lido la sua versione della vita di un’altra icona dell’imprenditoria italiana: Enzo Ferrari. Interpretato da Adam Driver, il fondatore della scuderia più amata del mondo è il protagonista di un melodramma operistico, una storia che nelle sua estremità trova la via verso l’universale.

“Quando incontri una personalità così forte come quella di Enzo Ferrari, più vai a fondo, più la storia diventa universale, e ho trovato che i suoi fortissimi contrasti interni, fossero in qualche modo un rimando a com’è la vita nella realtà.” Ha detto Michael Mann, per spiegare come mai ha scelto di raccontare proprio la storia dell’imprenditore italiano.

Il film non è un biopic classico, ma si concentra su un anno particolare della vita di Ferrari, il 1957, momento molto delicato e particolare per la sua vita. Nelle parole di Mann, ecco perché si è scelto di ambientare il film in quel momento storico: “Nel 1957 molti dei conflitti che serpeggiavano nella sua vita sono entrati in rotta di collisione: la compagnia in bancarotta, aveva appena perso suo figlio Dino, il suo matrimonio con Laura stava cadendo a pezzi. Ha dovuto affrontare diversi tipi di lutto. E queste ferite hanno comunque un che di universale. Succede in tutte le nostre vite: lutto, perdita, amore, passione, ambizione. Sono sentimenti universali e sono stati compressi tutti nella vita di Enzo Ferrari, in una maniera melodrammatica, operistica quasi.”

Un lavoro da antropologo, nelle parole di Michael Mann, che il regista ha portato avanti immergendosi nello spazio circoscritto di Modena, ripercorrendo ogni giorno, nella quotidianità, le tappe dello stesso Ferrari, andando persino dallo stesso barbiere. “Il ritratto è quello di un uomo che viveva verso il futuro, a differenza di sua moglie che era giustamente imprigionata nel lutto. Enzo era costantemente proiettato verso quello che sarebbe successo, quando gli si chiedeva quale fosse l’automobile più bella che avesse mai costruito, lui rispondeva sempre ‘la prossima’. E l’opposizione trai due caratteri era un altro elemento di grande interesse.”

Ricordiamo che Ferrari ha ricevuto l’ok da SAG-AFTRA con un accordo provvisorio che permette al cast del film di promuovere la pellicola durante lo sciopero, e infatti Adam Driver e Patrick Dempsey erano presenti a Venezia. Il film è infatti prodotto da Neon e poiché si tratta di uno studio indipendente non affiliato all’AMPTP, non ha avuto problemi a ricevere deroghe da SAG-AFTRA.

La produzione ha strappato un accordo ad interim per la promozione del film, che consentirà al cast di promuovere il film durante la sua prima al Festival del cinema di Venezia, al New York Film Festival e in qualsiasi altro evento in cui il film verrà proiettato.

Pablo Larrain racconta Pinochet in El Conde: “Nessuna forma di empatia era accettabile”

Sanguigno eppure chirurgico, Pablo Larrain, come il suo cinema, riesce sempre a scuotere ed emozionare. Prova a farlo anche a Venezia 80, con il suo El Conde, presentato in Concorso, una satira sulla vita di Pinochet, reso vampiro immortale dalla sua impunità, come ha avuto modo di spiegare lo stesso regista nel corso della conferenza stampa di presentazione del film al Lido.

“Volevo trovare il miglior modo per rappresentare l’uomo Pinochet. Non era mai stato rappresentato prima al cinema o in tv, quindi il cercare l’approccio giusto ci ha condotti al genere, la combinazione tra una farsa e una satira, con elementi che derivano dalla leggenda, dalla logica e del personaggio del Conte, il Vampiro. E credo fosse l’unico modo per raccontarlo. Se non si percorre la via della satira, potrebbe essere facile scivolare verso una forma di empatia, e questo non era accettabile.” Spiega Pablo Larrian ad una platea attenta.

“Tutte le scelte sono state guidate dalla consapevolezza che Pinochet non ha mai affrontato la giustizia e questo gli ha permesso di vivere e morire in libertà, e anche molto ricco. Quella impunità lo ha reso in qualche modo eterno, per questo lo abbiamo rappresentato come un vampiro.” 

Le scelte estetiche di El Conde sono, come sempre nella filmografia del regista cileno, molto definite e in molti modi aiutano la narrazione, sostenendo la tesi che nel film porta avanti Pablo Larrain: “Il film si svolge in una grande casa isolata, all’estremità del Cile, in Patagonia. Pensavamo che il bianco e nero facilitasse la prospettiva teatrale e che potesse essere considerato più lontano e fantasioso, rispetto a dei colori realistici. Il lavoro con Edward Lachman, il nostro direttore della fotografia, è stato rilevante, non solo per l’aspetto estetico, naturalmente molto bello, ma anche perché sentivo, mentre giravamo, che avendo lui come DOP, le nostre immagini sarebbero sembrate universali. Avere uno straniero, un non cileno, che ci ha aiutato a tenere insieme la storia, probabilmente ha contribuito molto a rendere il film universale, anche se questo lo deciderà il pubblico. Ma con il suo anche il lavoro di scenografia, costumi e trucco hanno reso questo film unico.”

Il film si avvale della distribuzione di Netflix, sostegno che Pablo Larrain ha elogiato in conferenza, non dandolo per scontato: “Penso sia bellissimo che Netflix abbia supportato un film come questo, non solo un film coraggioso e insolito, ma che dà voce alla cinematografia cilena che, attraverso lo streamer, può parlare al mondo intero. Non lo avrei mai dato per scontato, soprattutto in un mondo che cambia così velocemente.”

Saltburn: il primo trailer del nuovo film di Emerald Fennell

0
Saltburn: il primo trailer del nuovo film di Emerald Fennell

Amazon Studios ha diffuso il primo trailer di Saltburn, il secondo film da regista di Emerald Fennell che segue il successo di Una donna promettente, che è valso alla filmmaker un Oscar per la Migliore Sceneggiatura Originale. Il film è stato selezionato per aprire ufficialmente la 67° edizione del BFI London Film Festival.

Nel cast del film ci sono Jacob Elordi (Euphoria), Barry Keoghan (Gli Spiriti dell’Isola) e Rosamund Pike (Gone Girl). I dettagli della trama sono stati tenuti nascosti, con l’unico indizio che Saltburn è una “storia di ossessione”. Il personaggio di Keoghan, Oliver, incontra Felix (Elordi) in un collegio raffinato. Felix, scoprendo che la sua nuova conoscenza potrebbe non avere la situazione migliore a casa, dice: “Perché non vieni a casa da me? Vieni a Saltburn.”

Saltburn si scopre, è la tenuta della famiglia di Felix, con tanto di maggiordomo, una mamma snob e un’ingenua di alto rango che può o meno essere complementare ad Oliver quando gli dice: “Sei così… reale”.

Quella che segue è una storia di un pesce fuor d’acqua in cui Oliver intraprende un viaggio all’interno dell’eccesso. A un certo punto il personaggio di Keoghan si entusiasma: “Posso onestamente dire che questi ultimi mesi sono stati i più felici della mia vita”. Abbiamo la sensazione che la felicità, tuttavia, potrebbe non durare.

Pubblicità
Pubblicità
Pubblicità