L’animazione
stop-motion, ovvero quella tecnica che consiste nello scattare
un fotogramma dopo l’altro, muovendo i burattini davanti alla
macchina da presa, si sta affermando sempre di più, film dopo film
e oggi è finalmente considerata una tecnica valida per raccontare
storie sul grande schermo, al pari delle altre forme di animazione
come quella disegnata o quella in CG. Sono passati ormai trent’anni
da quel settembre 1993, quando, alla Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia, Tim Burton presentò in
anteprima mondiale
Tim Burton’s Nightmare before
Christmas, opera meravigliosa che avrebbe
risvegliato dall’oblio una tecnica antica quanto il cinema ma
relegata nell’ombra, per essere considerata macabra, di difficile
fruizione e soprattutto non adatta ai bambini. Tanti sono stati i
titoli che anno dopo anno si sono aggiunti, riaffermando la
validità di un mezzo che permette di evocare sensazioni al
cinema.
Manodopera, nuovo arrivato nella
famiglia della stop-motion
Ultimo arrivato, solo in
termini di tempo, è un piccolo meraviglioso
film intitolato Manodopera, immaginato
e diretto da Alain Ughetto, un animatore francese
di origini italiane, autore di diversi cortometraggi e del
lungometraggio Jasmine del 2013, candidato
nello stesso anno all’European Film Awards come miglior film
d’animazione.
Manodopera è ambientato in Piemonte agli
inizi del Novecento, ai confini con la Francia e racconta la storia
dei nonni dell’autore, della loro difficile vita e della speranza
di un’esistenza migliore. I protagonisti, Luigi Ughetto e sua
moglie Cesira, prendono la difficile decisione di varcare le Alpi,
passare il confine e insediarsi con tutta la famiglia in Francia,
lavorando come operai nel cantiere del traforo del Sempione,
sobbarcandosi di un lavoro massacrante, pericoloso e appena
sufficiente al sostentamento.
L’autore si balocca nel
giocare abilmente con la finzione, le sue mani fabbricano i piccoli
set e i tanti oggetti che li arricchiscono, interagiscono con i
burattini e si ingegna a mettere in scena un continuo scambio tra
mondo reale e i ricordi in scala ridotta. Immagina un dialogo con
la nonna, struggente, poetico, estremamente sincero. La finzione
dichiarata dei materiali è una scelta vincente e diventa un
espediente narrativo geniale. Il cartone ondulato diventa tenace
legno da segare, il polistirolo simula la roccia tagliente e
pericolosa della montagna, i trucioli si trasformano in fieno e gli
alberi sono dei broccoletti acquistati al mercato.
Nel film si parla di una
vita difficile, incerta, della fatica, della fame, della malattia e
della morte, sempre con grande sensibilità, mai cadendo nel pietoso
o nella tentazione di ottenere facili sentimentalismi.
Un titolo dal
significato doppio
La manodopera del titolo
italiano ha dunque una duplice valenza, indica il pesante lavoro
svolto dagli emigranti, ma è anche un riferimento diretto al sapore
artigianale del film, alla costruzione sullo schermo di ogni
dettaglio di un microcosmo evocativo, che per una magia singolare
risulta più vero del vero, comunicando informazioni visive degne di
un documentario o di un filmato d’epoca.
Il titolo originale
francese è invece Interdit aux chiens et aux
Italiens, ovvero ‘Vietato ai cani e agli
italiani’, sicuramente più duro, diretto e rappresentativo
della reputazione e del trattamento razzista i nostri connazionali
erano destinati a subire.
Alain
Ughetto racconta “Noi tutti conserviamo dei ricordi di
nostro padre, di nostra madre, un po’ dei nostri nonni, ma poi poco
altro: tutto il resto appartiene alla Storia. La mia idea era
quindi quella di tornare indietro nel tempo, intrecciando la mia
memoria familiare ed intima con l’evocazione storica.” E ancora
“Nella mia famiglia, quando eravamo seduti a tavola, mio padre
raccontava sempre che in Italia, in Piemonte, c’era un paese
chiamato Ughettera, dove tutti gli abitanti si chiamavano Ughetto,
come noi. Quando mio padre morì, decisi di andare a controllare.
Esisteva per davvero: Ughettera, la terra degli Ughetto! La mia
ricerca iniziò quel giorno di nove anni fa e, con essa, nacque
anche la storia di questo film.”
Un lavoro tecnico molto valido
L’animazione è
tecnicamente molto valida, dal sapore artigianale dichiarato, come
già detto, ma sempre fluida, funzionale, anche nelle scene con
tanti personaggi e azioni complesse da gestire con burattini da
muovere fotogramma per fotogramma. Peccato per il gesticolare
reiterato, tipico dell’idea delle movenze di una certa italianità
esagerata e macchiettistica, che stona con attori in carne e ossa e
non aiuta a sostenere un approccio reale, seppure simulato in
animazione. Ma è un piccolo dettaglio, sicuramente perdonabile per
questo piccolo gioiello animato.
Le musiche sono di
Nicola Piovani e contribuiscono a donare fascino e
poesia al racconto, essendo intrise della dolce malinconia
evocativa che sempre caratterizza le partiture del compositore
premio Oscar.
Manodopera è stato premiato con il ‘Prix du
jury’ al Festival internazionale del film d’animazione di Annecy
del 2022 e con l’European Film Awards per il miglior film
d’animazione sempre nel 2022. In occasione della proiezione nel
film nelle sale italiane è stata allestita la mostra
‘Vietato ai cani e agli italiani’ presso il MEI,
il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana di Genova, che rimarrà
visitabile fino 24 settembre. L’esposizione permette di ammirare
una serie di valigie di cartone, simbolo degli emigranti italiani,
nelle quali sono allestiti piccoli set con i personaggi del
film.
Poesia e memoria a passo uno
Manodopera è un piccolo manufatto
cinematografico, prezioso e sentito, ma da guardare e gustare con
la giusta predisposizione, è poesia e memoria a passo
uno. Rappresenta certamente un ulteriore importante
tassello per l’affermazione e la diffusione dell’animazione
stop-motion, ma rischia purtroppo di essere schiacciato o frainteso
di fronte a colossi animati spettacolari realizzati con questa
tecnica e sempre più diffusi.
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