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Causeway: recensione del film con Jennifer Lawrence

Causeway: recensione del film con Jennifer Lawrence

Jennifer Lawrence si rimette in gioco con Causeway, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022, e che sarà disponibile dal 4 novembre su Apple TV+. Consegnando il proprio bagaglio attoriale nelle mani della regista Lila Neugebauer, che ha saputo dare un taglio incisivo alla produzione seriale di stampo drammatico – sua la regia di alcuni episodi della miniserie Maid (2021) – Lawrence attraversa un ponte sospeso tra le sue interpretazioni femminili più ardite, Madre! di Darren Aronofsky, in cui la sua figura era piegata a volontà simboliche, e quelle emotivamente più verosimili, come quella nel film Il Lato Positivo, che le ha fruttato il suo primo Oscar.

Causeway: il viaggio di Lynsey

Lynsey è una soldatessa che fa ritorno a New Orleans, sua città natale, dopo essere stata vittima di un incidente quasi mortale in Afghanistan. Causeway segue il suo percorso di riabilitazione fisica e mentale nei confronti di una vita che le è sempre stata stretta, le cui radici traumatiche, forse, sono ben lontane dal sud-ovest asiatico molto più vicine alla città statunitense.

Quello di Causeway è un racconto estremamente lineare, diretto nitidamente e in maniera consapevole; una messa in scena asciutta, rarissimi accompagnamenti musicali e un uso sapiente del simbolismo cromatico lasciano che la storia di Lynsey si dispieghi lentamente, dandole il tempo per tornare a respirare o, ancor meglio, riuscire a rituffarsi nelle acque dove si è sempre divertita a nuotare. Proprio l’acqua sancisce il primo contatto della protagonista con l’idea di una realtà professionale estranea all’Afghanistan ma, quello che aveva pensato inizialmente come un impiego temporaneo, in attesa di riessere ammessa tra le fila dell’esercito, si rivelerà un regalo inaspettato per ricavare insegnamenti inaspettati dall’immobilità respingente di una condizione opprimente.

Il trauma invisibile

L’elaborazione del trauma di Lynsey passa soprattutto attraverso la riscoperta di una nuova idea di nucleo famigliare; le mancanze e i dissapori di un passato di cui non ci viene detto esplicitamente tanto, ma intuiamo dalla fattualità circostanziale, vengono progressivamente risanati dall’incontro fortuito con chi ha vissuto qualcosa di molto simile al nostro dolore, il personaggio di James, interpretato da un Brian Tyree Henry in stato di grazia. Nel consolidarsi di un legame inedito e che non è necessario etichettare, Causeway trova maggiormente vigore narrativo, unendo le strade di due personaggi che ci fanno scoprire una nuova facciata di New Orleans: quella di chi rimane ai margini della festosità che ne caratterizza l’atmosfera e di cui il cinema ci ha inondato, mettendo in primo piano le fatiche di adattamento di chi lotta contro un sistema affettivamente mai abbastanza inclusivo.

Forse i traumi che più ci attanagliano non corrispondono a quelli che hanno maggiore concretezza, a quelli imputabili di un malessere comprensibile e che combinano le difficoltà fisiche a quelle psicologiche. Le ferite vanno spesso a ritroso e la fuga verso un luogo apparentemente inospitale e pericoloso, in cui nessuno si rifugerebbe mai, potrebbe risultare l’unico sbocco di un ponte che ci sembra troppo lungo da percorrere. Lynsey continuerà a recitare davanti agli altri mantenendo una postura rigidissima – ottima prova attoriale per la Lawrence – per liberarsi del fardello di dover giustificare l’inesprimibile, una volontà ferrea che nessuno della cerchia di New Orleans può comprendere. Solo quando arriva qualcuno che non guarda ai piani futuri, quanto piuttosto allo scorrere del presente e al cercare di trattenerlo per rivedere il proprio passato, ecco che possiamo ascoltare gli altri, valutare più opzioni, sentirci liberi di scegliere e dare spazio alla nostra definitiva dichiarazione di intenti.

Tracciare il nostro ponte

Causeway non raggiunge le vette espressive di Maid, dove semplicità visiva e compattezza narrativa si univano perfettamente, ma si conferma un’opera interessante di una regista che sa lavorare benissimo con le proprie protagoniste, rendendole veicoli fisici di più livelli di lettura di storie che cercano prevalentemente nella verosimiglianza un aggancio col proprio pubblico.

Quando il coraggio di andare avanti si paleserà sotto forma di un costume blu con cui ci tuffiamo in piscina e che va a sostituire l’intimo nero che Lynsey indossa per tutto il film; quando capiamo che è giunta l’ora di riconnetterci con il nostro elemento per stringere la mano a chi abbiamo ritrovato, forse allora possiamo vedere la fine del nostro ponte, senza mai dimenticarci che in passato eravamo in grado di trattenere il respiro per tanto tempo senza annaspare, e forse lo siamo anche ora.

Black Panther: Wakanda Forever, un nuovo video mostra altri dettagli dell’armatura di Ironheart

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Un nuovo breve video di Black Panther: Wakanda Forever ci dà l’opportunità di dare un nuovo sguardo più approfondito all’armatura di Riri Williams/Ironheart, personaggio che farà il suo esordio nel MCU in questo film e che sarà poi protagonista di una serie Disney+. Dominique Thorne è stata scelta per interpretare Riri Williams.

https://www.youtube.com/watch?v=aL140sA-Ilo

Black Panther: Wakanda Forever, le storie che racconta il primo trailer

I dettagli ufficiali della trama sono ancora nascosti, ma ci è stato assicurato che il sequel del MCU onorerà il defunto Chadwick Boseman mentre continuerà l’eredità del suo personaggio, T’Challa. Black Panther: Wakanda Forever arriverà nelle sale l’11 novembre 2022. Il presidente dei Marvel Studios, Kevin Feige, ha confermato che T’Challa, il personaggio interpretato al compianto Chadwick Boseman nel primo film, non verrà interpretato da un altro attore, né tantomeno ricreato in CGI. Il sequel si concentrerà sulle parti inesplorate di Wakanda e sugli altri personaggi precedentemente introdotti nei fumetti Marvel.

Letitia Wright (Shuri), Angela Bassett (Ramonda), Lupita Nyong’o (Nakia), Danai Gurira (Okoye), Winston Duke (M’Baku) e Martin Freeman (Everett Ross) torneranno nei panni dei rispettivi personaggi interpretati già nel primo film. L’attore Tenoch Huerta è in trattative con i Marvel Studios per interpretare il villain principale del sequel.

Glass Onion – Knives Out, Rian Johnson parla della scena di Angela Lansbury

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Rian Johnson, regista di Glass Onion – Knives Out, ha condiviso il suo pensiero sull’opportunità che ha avuto di girare una scena con Dame Angela Lansbury prima della sua recente scomparsa. Secondo Deadline, Johnson ha parlato del ruolo di Lansbury in Glass Onion – Knives Out durante un evento stampa al London Film Festival.

Durante l’evento, ha rivelato le sue riflessioni sull’opportunità di lavorare sia con Lansbury che con Stephen Sondheim, scomparso lo scorso novembre, in Glass Onion. È rimasto scioccato e onorato che entrambi abbiano detto di sì, condividendo che “personalmente il solo fatto di poter avere 10 minuti con ciascuno di loro per dire loro cosa ha significato il loro lavoro per me è stato davvero speciale”.

“Erano così gentili e così generosi. Non avremmo mai pensato che uno dei due avesse potuto accettare? Non pensavamo che l’avrebbero fatto. Ed entrambi erano così fantastici. Per entrambi, oltre al solo onore di averli nel film, poter avere personalmente 10 minuti con ciascuno di loro per raccontare loro cosa ha significato per me il loro lavoro è stato davvero speciale.”

Glass Onion – Knives Out, il sequel di Cena con delitto – Knives Out diretto nuovamente da Ryan Johnson e sempre con Daniel Craig protagonista, arriverà prossimamente al cinema e poi su Netflix dal 23 dicembre. La trama di questo seguito, come rivelato di recente, si concentra sul magnate della tecnologia Miles Bron che invita alcuni dei suoi più cari amici in vacanza sulla sua isola privata in Grecia. Ben presto, tuttavia, quell’oasi di pace si macchia di sangue e mistero, un mistero che solo il detective Benoit Blanc può risolvere.

Dopo essersi mostrato grazie ad alcune prime immagini ufficiali, il film concede un’ulteriore assaggio di sé attraverso il primo trailer. In questo vengono presentati i personaggi principali, interpretati da un cast di attori del calibro di Edward Norton, Janelle Monáe, Jessica Henwick, Kathryn Hahn, Leslie Odom Jr, Madelyn Cline, Kate Hudson e Dave Bautista. Poco viene invece svelato del mistero alla base del film, anche se il regista ha rivelato che Glass Onion sarà diverso rispetto a Knives Out in quanto a tono, ambizioni e ragion d’essere.

Johnson ha inoltre spiegato che la sua tecnica per la scelta del cast è come “organizzare una cena per gli ospiti. Inviti sempre le persone che ti piacciono, ma è difficile sapere davvero come andrà e alla fine puoi solo cercare di scegliere i migliori attori per una parte, quelli che sembrano più adatti a un ruolo specifico. A quel punto ti tuffi e trattieni il respiro. Per fortuna abbiamo messo insieme un gruppo stupendo e davvero coeso”. Non resta dunque che attendere che il film diventi disponibile per la visione, potendo intanto godere del suo elettrizzante trailer.

Deadpool 3: un esilarante fan trailer con Hugh Jackman e Ryan Reynolds

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L’ufficializzazione di Hugh Jackman in Deadpool 3 nei panni di Wolverine ha ridestato improvvisamente l’attenzione del pubblico sul progetto Marvel/Disney con Ryan Reynolds e così, come spesso è accaduto negli ultimi giorni, ecco un nuovo fan trailer del film in cui vediamo i due personaggi interagire!

Deadpool 3, quello che sappiamo

Shawn Levy dirigerà Deadpool 3. Rhett Reese e Paul Wernick, che hanno già firmato i primi due film sul Mercenario Chiacchierone, scriveranno anche Deadpool 3, basandosi sui fumetti creati da Rob Liefeld, confermandosi nella squadra creativa del progetto, dopo che per un breve periodo erano stati sostituiti da Lizzie Molyneux-Loeglin e Wendy Molyneux.

Oltre a Ryan Reynolds non ci sono nomi confermati nel cast del film. In Deadpool 2 c’erano Josh Brolin nel ruolo di Cable e Zazie Beetz in quello di Domino, mentre il primo film vedeva la presenza di Morena Baccarin come Vanessa e T.J. Miller come Weasel. Nel cast è stato anche confermato Hugh Jackman, che torna a rivestire i panni di Wolverine/Logan, dopo la sua gloriosa uscita di scena nel 2017 in Logan, di James Mangold.

Paul Wernick e Rhett Reese hanno dichiarato sul film: “È una meravigliosa opportunità per i pesci fuor d’acqua. Deadpool è un pazzo al centro di un film. Far cadere un pazzo in un mondo molto sano di mente, è oro puro. Sarà davvero divertente.” Deadpool 3 uscirà il 8 novembre 2024.

Park Chan-wook vorrebbe dirigere un film di James Bond

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Park Chan-wook vorrebbe dirigere un film di James Bond

In una recente intervista con Deadline, Park Chan-wook ha parlato di come il franchise di James Bond abbia avuto una grande influenza sulla sua carriera di regista. Quando gli è stato chiesto se avrebbe voluto dirigere un film della serie, il regista di Oldboy ha dichiarato che “sarebbe stato divertente”, ma ha notato che il pubblico potrebbe non essere così interessato a una visione del franchise come la sua.

“Sì, sarebbe divertente. Ma non sono sicuro che le persone che lo guarderanno si potrebbero divertire tanto quanto me, a fare il film. Quelli di voi che hanno visto il mio ultimo film potrebbero trovarlo difficile da credere, ma penso che tutto sia iniziato con un film di Bond. Ero alle elementari in quel momento. Penso che fosse forse Moonraker – Operazione spazio, ma era certamente uno con Roger Moore. Mi sono davvero appassionato al film e mi sono divertito a immaginare storie diverse nella mia testa quando ero a casa da solo.

A quel tempo, la Corea era una società militare totalitaria, quindi non permettevano a tutti, o solo a persone particolari, di poter viaggiare fuori dal Paese. Questo è, credo, il motivo per cui mi è particolarmente piaciuto immaginarmi in un luogo esotico, interagire con diverse razze di persone e vivere avventure divertenti. Quindi sono rimasto suggestionato quelle trappole e quelle armi strane realizzate con tecnologia ed effetti speciali e i modi ingegnosi per fuggire da esse, avevo pensato storie molto dettagliate e fantasiose nella mia testa. Sono andato così tanto nei dettagli che ho anche immaginato il posizionamento della telecamera o il movimento della telecamera che riprende quelle situazioni. E penso che sia stato il mio primo storyboard mentale, anche se poi non li ho disegnati.”

Il futuro cinematografico di James Bond è al momento in sospeso, visto che deve ancora essere annunciato il nuovo interprete, dopo l’addio di Daniel Craig. Tuttavia, l’idea di affidare a Park Chan-wook un film del genere, sarebbe molto interessante.

Dune: The Sisterhood, Indira Varma protagonista della serie tv

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Dune: The Sisterhood, Indira Varma protagonista della serie tv

Deadline ha rivelato che Dune: The Sisterhood (che al momento è solo il titolo provvisorio dello show) inizierà la produzione a Budapest, in Ungheria, a novembre. Vale la pena notare che la serie HBO Max sarà in produzione contemporaneamente a Dune: Part Two. Il regista Denis Villeneuve si trova attualmente negli Origo Studios di Budapest, lo stesso luogo in cui hanno girato gran parte del primo film. Se ci sarà la possibilità di vedere una sorta di crossover non è stato ancora chiarito.

Dopo aver precedentemente scelto Emily Watson e Shirley Henderson, è stato anche confermato che la star di Obi-Wan Kenobi e di Game of Thrones Indira Varma si è unita al cast in un ruolo da protagonista. Questa notizia è un’aggiunta degna di nota al progetto, e si dice che l’attrice interpreterà l’imperatrice Natalya, “una formidabile reale che ha unito migliaia di mondi nel suo matrimonio con l’imperatore Corrino”.

Varma è anche nota per il suo lavoro in The Legend of Vox Machina e The Capture, e sarà presto vista insieme a Tom Cruise in  Mission: Impossible – Dead Reckoning – Part One del prossimo anno. C’è molta eccitazione tra i fan nel vedere il franchise di Dune espandersi in questo modo, in particolare dopo che la doppia uscita cinematografica/HBO Max del primo film gli ha impedito di conquistare il botteghino. Nonostante questo il film ha rappresentato un enorme successo di critica e ha ottenuto diversi premi, successo che ha assicurato alla produzione il proseguo.

Dune: The Sisterhood, la serie tv

Basato sul romanzo classico di Frank Herbert, Dune: The Sisterhood è ambientato 10.000 anni prima dell’ascesa di Paul Atreides e segue le sorelle Harkonnen, interpretate da Watson e Henderson, mentre combattono le forze che minacciano il futuro dell’umanità e fondano la leggendaria setta conosciuta come il Bene Gesserit.

In Dune: The Sisterhood Diane Ademu-John si prenderà cura dello show in qualità di creatrice, scrittrice, co-showrunner e produttrice esecutiva, mentre Alison Schapker sarà co-showrunner e produttrice esecutiva. Johan Renck dirigerà il primo episodio e sarà produttore esecutivo, mentre Villeneuve sarà anche produttore esecutivo. L’uscita di Dune: Part Two è prevista nelle sale il 17 novembre 2023, anche se al momento non si sa quando vedremo  Dune: The Sisterhood  su HBO Max.

Avengers: The Kang Dynasty, il regista e il villain sono già al lavoro!

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Mentre la sua priorità rimane, per ora, interpretare Kang in Ant-Man and the Wasp: Quantumania, Jonathan Majors conferma a Variety (tramite ComicBook) di aver già iniziato a discutere di Avengers: The Kang Dynasty con Destin Daniel Cretton. Non è chiaro se l’attore apparirà in qualsiasi altro progetto tra Ant-Man 3 e Avengers 5, poiché non c’è stato neanche alcun annuncio sul suo ritorno nella seconda stagione di Loki. Nonostante abbiano trascorso poco tempo insieme, Majors non ha altro che grandi cose da dire sul regista designato da Kevin Feige per The Kang Dynasty.

“Beh, abbiamo solo fatto qualche chiacchierata. Abbiamo parlato a lungo, e lui è una mente aperta, è un cuore aperto ed è radicato. Sia lui che il suo lavoro sono radicati, e penso che questa sia la parte più importante a questo proposito, perché abbiamo a che fare con miti, sai? Cos’è Kang? Cos’è un film? Cos’è un film MCU, sai? Cosa significa? Che aspetto ha? Queste sono le domande che ci siamo posti, ce lo stiamo chiedendo, ma tutto ciò funziona quando le risposte sono radicate nella realtà e nelle circostanze date da ciò che sta accadendo tra queste persone, e ciò che possiamo illuminare noi stessi come specie”.

Avengers: The Kang Dynasty, cosa sappiamo del film

Il capo dei Marvel Studios Kevin Feige ha annunciato Avengers: The Kang Dynasty durante l’ampia presentazione dell’azienda al San Diego Comic-Con di sabato, identificando il film come parte della conclusione in due parti della Multiverse Saga, allo stesso modo in cui Avengers: Infinity War del 2018 e Avengers: Endgame del 2019 hanno concluso la Infinity Saga.

Destin Daniel Cretton dirigerà il film da una sceneggiatura di Jeff Loveness. Avengers: The Kang Dynasty, che debutterà il 2 maggio 2025. Il seguito, Avengers: Secret Wars, uscirà solo sei mesi dopo, il 7 novembre 2025.

Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere 2, ecco cosa aspettarci dalla nuova stagione!

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Il finale de Il Signore degli Anelli: Gli anelli del potere ha confermato che Sauron si è nascosto in bella vista per tutto questo tempo, con Halbrand dichiarato il Signore Oscuro e non il Re delle Terre del Sud scomparso da tempo.

L’Hollywood Reporter ha incontrato gli showrunner e gli sceneggiatori JD Payne e Patrick McKay per svelare la grande rivelazione e hanno spiegato perché hanno dovuto mostrarci il lato umano del cattivo. Poco più di un occhio nella trilogia di Peter Jackson, il duo ha deciso di raccontare una storia sulle origini dell’iconico grande cattivo, seguendo il suo viaggio nell’essere mostruoso che regnava su Mordor.

“In Tolkien, Sauron è un ingannatore e sappiamo che nella Seconda Era appare in ‘buona forma’”, dice Payne. “E se si avvicinasse di soppiatto a te e fosse in grado di farti simpatizzare con lui e farti stare d’accordo con lui in modo che una volta che ti rendi davvero conto di chi è, ha già i suoi ganci in te?” McKay aggiunge: “Spero che dopo la messa in onda dell’ultimo episodio, gli spettatori guardino di nuovo l’intera stagione, che ora è un’esperienza diversa. Speriamo che, mentre entriamo nella seconda stagione, renda le persone come la prima stagione ancora migliori perché stai vedendo attraverso un nuovo prisma.

Le riprese della seconda stagione sono in corso

La stagione 2 de Il Signore degli Anelli: Gli anelli del potere non dovrebbe arrivare su Prime Video fino al 2024. La produzione si sta spostando dalla Nuova Zelanda al Regno Unito e le riprese sono iniziate solo di recente, quindi aspetteremo un po’ prima di saperne di più su Sauron. Tuttavia, Payne promette che tutte le risposte che vogliamo sono in arrivo.

“La prima stagione si apre con: chi è Galadriel? Da dove viene? Di cosa ha sofferto? Perché viene spinta? Stiamo facendo la stessa cosa con Sauron nella seconda stagione. Riempiremo tutti i pezzi mancanti”.

“Sauron ora può essere solo Sauron”, aggiunge McKay. “Come Tony Soprano o Walter White. È malvagio, ma complessamente malvagio. Ci siamo sentiti come se lo avessimo fatto nella prima stagione, avrebbe oscurato tutto il resto. Quindi la prima stagione è come Batman Begins, e il Cavaliere Oscuro è la prossima film, con Sauron che si muove all’aperto. Siamo davvero eccitati”. “La seconda stagione ha una storia canonica. Potrebbero esserci spettatori che dicono, ‘Questa è la storia che speravamo di ottenere nella prima stagione!’ Nella seconda stagione, glielo diamo”.

La prima stagione sembra un prequel della storia molto più grande che verrà, e con alcuni dei più grandi misteri dello show ora risolti, siamo sicuri che ci sarà molta eccitazione nel trascorrere del tempo con Sauron. C’è chiaramente più in lui di quanto sospettassimo all’inizio, e il viaggio di Halbrand da qui promette di essere affascinante e complesso in egual misura.

Quando uscirà la seconda stagione de Gli Anelli del Potere?

Chi si aspetta che la nuova stagione possa arrivare ad un anno di distanza dovrà farsene una ragione perché la stagione 2 de Il signore Degli Anelli difficilmente uscirà a settembre del 2023. A tal proposito Jennifer Salke, capo di Amazon Studios, ha affermato qualche tempo fa: Vogliamo che passi meno tempo possibile tra una stagione e l’altra, ma vogliamo anche che l’asticella si mantenga molto alta. Quindi ci vorrà quello che ci vorrà. Abbiamo una certa urgenza circa il muoverci rapidamente, che è il motivo per cui abbiamo messo gli sceneggiatori a scrivere durante la pausa del lockdown. Ci stiamo muovendo rapidamente.

The Boys 4: nuovo look dalle foto dal set

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The Boys 4: nuovo look dalle foto dal set

Sono attualmente in corso le riprese della quarta stagione di The Boys e alcune foto rivelatrici dal set di Toronto sono state condivise online. Di recente abbiamo dato un’occhiata ufficiale a Susan Heyward di Orange Is the New Black e all’attrice Valorie Curry di The Following nei panni rispettivamente delle nuove Supes Sister Sage e Firecracker, ed entrambi i personaggi possono essere visti qui partecipare a una sorta di manifestazione insieme a Homelander e altri membri dei Sette.Ciò sembrerebbe confermare che, come la maggior parte degli altri Supes, questi due non saranno particolarmente eroici.

Spoiler avanti!

È interessante notare che le foto rivelano anche il ritorno di Black Noir, che è stato ucciso da Homelander nel finale della terza stagione. Lo showrunner Eric Kripke ha già confermato che Noir è definitivamente morto, quindi dobbiamo presumere che si tratti di qualcun altro nella tuta.

Cosa sappiamo su The Boys 4?

I dettagli della trama della quarta stagione di The Boys sono un mistero per ora, ma sappiamo che l’ex di The Walking Dead Jeffrey Dean Morgan si unirà alla mischia in un ruolo sconosciuto. Abbiamo anche appreso che Cameron Crovertti (Ryan) è stato nominato regular della serie, il che non sorprende dopo il sinistro scatto finale della terza stagione.

Durante una recente intervista con Collider , Kripke ha confermato che Ryan sarà il punto focale della quarta stagione di The Boys. “Andando avanti, Ryan è una parte davvero importante. Sia Butcher che Homelander hanno ottime ragioni per litigare per Ryan perché la posta in gioco non potrebbe essere più alta. Se Ryan segue la strada di Homelander e poi ci sono due Homelander nel mondo, allora è tutto un incubo per il pianeta. Se Butcher riesce a portare Ryan alla luce, allora questa è probabilmente l’arma migliore che hanno contro Homelander. È sempre stato uno show sulla famiglia, e gran parte della terza stagione riguardava i padri, quindi penso che renda sento che la stagione 4 parla di figli”.

Ryan sembra già aver scelto “la via di Homelander”, ma ciò non significa che sia al di là del salvataggio. Butcher ha commesso un grave errore respingendo il giovane facilmente influenzabile nella falsa convinzione che sarebbe stato più al sicuro senza una figura paterna così fatalista nella sua vita, ma questo si è completamente ritorto contro quando Victoria Neuman ha dato a Homelander la posizione di suo figlio.

Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri, intervista al regista Matteo Parisini

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In occasione della Festa del Cinema di Roma 2022, abbiamo incontrato Matteo Parisini, documentarista e regista di Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri, un documentario sulla vita e l’opera del fotografo emiliano. Ecco cosa ci ha raccontato del suo film.

«Lo spazio tra infinitamente grande e infinitamente piccolo è riempito da qualcosa di infinitamente complesso: l’uomo e la sua vita, la natura. L’esigenza di conoscenza nasce dunque tra questi due estremi (…) per poter tradurre e interpretare il reale, il pensiero, la memoria, l’immaginazione. Da qui nasce il mio lavoro» Così affermava il fotografo, uno dei maggiori e più influenti fotografi italiani del Novecento.

A trent’anni dalla scomparsa, a lui è dedicato il documentario Infinito. L’universo di Luigi Ghirri del regista Matteo Parisini (Il nostro Paese, La mia virgola) e con la voce di Stefano Accorsi.

Le buone stelle – Broker: la recensione del film di Hirokazu Kore’eda

Consacratosi con la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2018 con Un affare di famiglia, il regista giapponese Hirokazu Kore’eda ha poi deciso nel 2019 di uscire dai confini del suo paese per recarsi in Francia e girare lì Le verità, un film da alcuni meno apprezzato rispetto ai suoi altri, con il quale il regista si era però misurato in modo interessante con una lingua e un modo di vivere le emozioni molto differente da quello che gli è proprio. A tre anni di distanza da quella prima volta fuori dal Giappone, Kore’eda decide di replicare l’esperienza, spostandosi però in un territorio a lui più vicino, quello della Corea del Sud. È qui che gira Le buone stelle – Broker.

Presentato in Concorso al Festival di Cannes di quest’anno, dove l’attore Song Kang-ho (lo stesso di Parasite) ha vinto il premio per la miglior interpretazione, il nuovo film del maestro giapponese si offre come un’ennesima variazione sul tema della famiglia, da Kore’eda esplorata con sfumature diverse sin dal suo folgorante esordio nel 1995 con Maborosi. A tale elemento tematico, però, si aggiungono alcune novità, specialmente a livello di impostazione narrativa, che permettono a Le buone stelle – Broker di risultare un’opera familiare e al contempo imprevedibile. Kore’eda esce stavolta dalle mura casalinghe dove la maggior parte dei suoi film si svolgono per rivolgersi invece al viaggio, sia fisico che esistenziale.

Lo spunto per il suo nuovo film nasce infatti dalla sempre più diffusa pratica nella Corea del Sud della Baby Box, ovvero dei luoghi dove i genitori che non possono (o non vogliono) più tenere con sé i propri figli hanno modo di lasciare i loro neonati, sapendo che verranno presi in custodia da chi, idealmente, potrà offrire loro un futuro migliore. Sang-hyeon e Dong-soo, due mercanti di bambini, entrano proprio così in possesso di un neonato abbandonato dalla giovane madre single So-young. Insieme a lei, parzialmente tornata sui suoi passi, tenteranno di vendere il bambino a due nuovi genitori, intraprendendo così quel viaggio che permetterà loro di scoprire il valore della famiglia.

Viaggio di famiglia con tempesta

Il regista giapponese, da molti considerato l’erede di Yasujiro Ozu per il modo in cui affronta il tema della famiglia, sembra realizzare con questo suo nuovo film una sorta di sequel spirituale proprio di Un affare di famiglia. I protagonisti di quel lungometraggio sono dei ladruncoli che avevano dato vita ad un nucleo famigliare auto-costituito, non caratterizzato cioè da legami di sangue quanto piuttosto affettivi. Ognuno di quei personaggi, a modo suo, commetteva atti che andavano contro la legge, perseguendo però ragioni del cuore ben più profonde. Anche in questo caso, i protagonisti di Le buone stelle – Broker sono persone discutibili, intente a compiere azioni tutt’altro che lecite ma giustificate da un presunto buon fine.

In un primo momento, dunque, ci si può comprensibilmente trovare in difficoltà ad entrare in sintonia con questi personaggi, non essendo chiaro quanto realmente ciò che fanno sia a fin di bene. Kore’eda non sembra affatto preoccupato da tale dinamica, ma anzi calca la mano su quanto la situazione che si viene a generare sia controversa. Ciò porta ad avere una prima ora del film caratterizzata da un certo distacco e diffidenza, che sono poi le stesse sensazioni che i personaggi provano reciprocamente tra di loro. Costretti a stare insieme nel tragitto tra Busan e Seul, i tre adulti più un bambino e il neonato da vendere vedranno però accadere ciò che accade sempre durante un viaggio: una trasformazione esistenziale.

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La famiglia che ti scegli

Nel momento in cui i loro cuori iniziano a schiudersi, ciò accade anche al film, il quale svela il proprio ai suoi spettatori. Più i personaggi si raccontano, si smontano di ogni preconcetto e si privano di ogni segreto, più il ritmo rallenta, concentrandosi quella dimensione intima ed esistenzialista che Kore’eda è un maestro nel mettere in scena. È in questa seconda metà del film che fuori escono tutte le riflessioni sul significato di famiglia, di genitorialità e, in particolare, sul conflitto tra il voler essere dei genitori e l’incapacità di esserlo davvero. Un’incapacità che è però anche in questo caso la conseguenza di un contesto sociale sempre più individualista, che non protegge i propri membri.

Tale dinamica è in particolare esplicitata dalla presenza delle due detective intente ad osservare i movimenti del gruppo per coglierli in flagrante e arrestarli. Si tratta di due personaggi che incarnano quella legge cieca a determinate dinamiche e unicamente motivata a punire ogni infrazione, senza valutare gli elementi di contorno. Quella legge che, come avvenuto anche in Un affare di famiglia, riporta il racconto ad una dimensione particolarmente cupa e soffocante. L’elemento crime è in effetti particolarmente presente all’interno di Le buone stelle – Broker, con una serie di indagini portate avanti dalla polizia e che contribuiranno a far emergere ulteriori scheletri nell’armadio dei protagonisti.

La sceneggiatura di Kore’eda si configura dunque come un continuo susseguirsi di elementi e generi diversi tra loro, che si incastrano a meraviglia grazie alla delicatezza con cui il tutto è narrato. Un lavoro di scrittura a dir poco brillante il suo, che traspare anche grazie al controllo con cui egli regola i toni del film, capace di passare dalla commedia spensierata al dramma più puro. Con un impostazione di regia come suo solito invisibile, discreta, che lascia parlare le immagini, Kore’eda si divincola dal solito rischio di ripetersi per regalarci un’opera che ancora una volta aggiunge qualcosa di nuovo alla poetica, ribadendo però la bellezza delle tante sfumature che una famiglia può possedere.

Houria, recensione del film di Mounia Meddour

Houria, recensione del film di Mounia Meddour

Dopo l’interessante esordio registico Non conosci Papicha (2019), Monia Meddour torna a lavorare con la splendida Lyna Khoudri in Houria, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022 e che esplora ancora una volta la condizione femminile nell’attuale Algeria, come i sogni e le speranze delle donne che abitano questa terra – incanalate in un feroce talento, per il fashion design in Papicha, per la danza in Houria – debbano inevitabilmente fare i conti con un’oppressione socio-politica fagocitante.

Houria: il rischio di un sogno precario

Houria (Lyna Khoudri) è una giovane ballerina che sogna di entrare nel corpo di ballo del Balletto Algerino. Insieme alle sue compagne di corso e alla mamma insegnante, sta preparando la coreografia per l’audizione che dovrebbe aprirle la strada a un futuro poderoso, quanto il mare verso cui si rivolge sempre dal terrazzo della sua palazzina, perfezionando i passi di frangenti prelevati dal Lago dei Cigni. Houria deve interpretare Odette ma, mentre balla, ha lo sguardo da Odile: fermezza e chiarezza di intenti sono due delle qualità principali che la nostra protagonista sarà chiamata a mettere in primo piano quando un imprevisto, che assume la forma del trauma, farà capire a Houria che non si balla soltanto con le ali ai piedi ma, soprattutto, con la fluidità delle mani collegate direttamente al nostro cuore.

Forse è proprio la parte più oscura di Houria, la tendenza ad accogliere su di sè l’intemperanza e la convinzione di Odile, esplicitate da un cappuccio nero, che la condurrà oltre i limiti della parte di Algeria che vorrebbe abbandonare, dove i cigni sono capre trattate miseramente, carne da macello su cui scommettere, che dipendono dalla volontà di uomini malvagiamente inscalfibili.

Il trauma diventa insegnamento

Ma come Odette parla sempre tramite le proprie ali, anche quando non ha voce e non può svelare il terribile incantesimo di cui è rimasta vittima, una volta che le scarpette da punta non avvolgeranno più i piedi di Houria, questa dovrà incanalare ogni sfumatura ritmica – che avvolge la regia e anche il montaggio del film – nella parte superiore del corpo. Scrivere con le proprie mani, stabilire un confine il più lontano possibile per chi non vuole smettere di sognare, anche quando l’occasione più importante della propria vita ci è appena scivolata tra le dita. Entrando in contatto con altre mani, altre storie da accogliere con premura, le donne di Houria cercano di sbloccare un nuovo livello di accessibilità, in cui l’insegnamento diventa viatico di accoglienza, la paura innerva la creatività e le onde vengono tracciate dalle braccia, innalzando canti di gioia e dolore nei confronti di un oceano che, in un qualche modo, si deve affrontare.

Le donne di Houria hanno conosciuto in diversa misura il trauma; nessuna ne è esente ed è proprio nella difficoltà di adattarsi a un percorso indesiderato che suggellano un patto di alleanza tersicoreo, facendo proprio un linguaggio anticonvenzionale, che dal singolo talento si estende al gruppo. La danza di Houria diventa coreografia di e per tutte queste donne, le avvolge con la fluidità delle carezze che si scambiano silenziosamente, forse incerte nei riguardi del domani, ma sempre in prima linea nel quotidiano, perchè il futuro si costruisce allenandosi.

Houria è donna

La regia di Mounia Meddour cavalca le onde di una danza inarrestabile, assecondando il tempo di recupero della sua protagonista, combinando il background professionale della Khoudri – che è stata ballerina – alla sua urgenza creativa. Da “maestra”, coordinatrice di un quadro tecnico e narrativo, Mounia Meddour diventa compagna di viaggio, si mescola alle sue donne per navigare nelle stesse acque, per rivaleggiare contro chi le vuole abbattere ma non sa che, proprio nella sopportazione, la danza diventa resilienza.

La regista consegna piccole parti di se alle donne che accompagnano Houria: è contemporaneamente madre, insegnante di una professione che diventa vita; è amica, solidale e intraprendente; è un gruppo di donne, eterogenee e allo stesso unicuum inossidabile, che parla danzando e danza vivendo. Houria è un viaggio dagli intenti chiarissimi, che trasforma il movimento vocale in una nuova idea di gineceo, in cui si urla a gran voce solo dopo aver ascoltato con fierezza la canzone del mare.

Poker Face: la recensione del film di e con Russell Crowe

Poker Face: la recensione del film di e con Russell Crowe

Poker Face: una canzone, un meme, uno stile di vita, ora anche un film diretto e interpretato dal premio Oscar Russell Crowe. L’attore celebre per film come Il gladiatore, A Beautiful Mind e Cinderella Man torna infatti dietro la macchina da presa a otto anni di distanza da The Water Diviner per dirigere una storia da lui anche scritta, che mescola dramma esistenziale a thriller psicologico, sfociando, tra le altre cose, anche nel cosiddetto home invasion. Dinanzi a tutto ciò, la celebre “poker face“, ovvero la faccia priva di qualsiasi espressione interpretabile, rischia di essere quella che assumono gli spettatori al termine della visione.

Il film, presentato nell’ambito di Alice nella Città, sezione parallela e autonoma della Festa del Cinema, narra di Jake Foley, un giocatore d’azzardo miliardario, il quale offre ai suoi migliori amici d’infanzia la possibilità di vincere più denaro di quanto abbiano mai sognato. In cambio, però, dovranno rinunciare a ciò che hanno protetto per tutta la vita: i loro segreti. Nel corso della serata in cui tutti loro si giocano quanto hanno di più caro, però, una serie di imprevisti vanno in scena e i piani di Foley devono prontamente essere riarrangiati, per il bene di tutti.

Un film dalle tante direzioni

La cosa che colpisce più di tutto di Poker Face è quanto possa rivelarsi un film disorientante. Non è certo se l’intenzione di Crowe fosse proprio quella di trasmettere questa sensazione, che è sostanzialmente quella che prova anche il suo personaggio, ma i tanti elementi narrativi, stilistici e tematici introdotti nel corso del lungometraggio finiscono proprio per far sentire lo spettatore piuttosto confuso su quanto si sta vedendo. Il problema non è tanto la quantità e la varietà di questi elementi, quanto il fatto che essi non riescano mai, se non raramente, ad apparire coesi verso un unico fine.

Il film, come poi rivelato, è stato ostacolato da una serie di problemi produttivi, tra cui il primo lockdown che ha portato all’abbandono del regista inizialmente chiamato a ricoprire tale ruolo. Crowe, dunque, si è trovato a gestire un film partendo innanzitutto dalla riscrittura della sceneggiatura, avvenuta come da lui raccontato in pochissimi giorni. In particolare, l’attore si è concentrato sul trasformare il film da un racconto d’azione ad uno incentrato sull’eredità che lasciamo a quanti a noi vicini. Cambiamenti e incidenti di percorso che certamente hanno influito sul risultato finale di Poker Face, da Crowe descritto come la sfida più assurda mai intrapresa.

Il poker, una metafora mancata

Guardando Poker Face viene dunque naturale chiedersi come sarebbe potuto essere se Crowe avesse avuto più tempo a disposizione per prendersene cura. Gli elementi dedicati alla ricerca di un senso della vita da parte del protagonista hanno un loro particolare fascino, ma finiscono con l’evocare più di quanto poi riescano a concretizzare. Questo continuo cambiare direzione, lasciando in sospeso quanto fino a quel momento mostrato finisce naturalmente con il trasmettere una certa frustrazione e la cosa non migliora nel momento in cui si passa alle sequenze più propriamente d’azione.

Si tratta a questo punto di un cambio di registro troppo drastico, troppo forzato, che si scontra con quanto proposto fino a quel momento in un modo che non permette di dar vita a nulla di buono. Il che è un peccato, perché si affossa così un film già instabile, che nonostante qualche trovata interessante (ad esempio il perverso gioco che si instaura tra Foley e i suoi amici) finisce con il non trovare una propria anima. A poco serve il fatto che Crowe vanti come sempre una presenza scenica invidiabile e che il suo personaggio possegga elementi psicologici interessanti.

In un’ultima analisi, non si può non menzionare il fatto che il poker, forse l’unico elemento ricorrente dall’inizio alla fine, non venga sfruttato come avrebbe meritato. Poker Face poteva infatti fare di questo gioco di carte una metafora della vita, accostamento certamente non nuovo ma sempre affascinante. In realtà, il poker in sé ha una presenza estremamente ridotta all’interno del film, cosa che non permette di conferirgli il valore che avrebbe meritato. Specialmente visto l’interesse di Crowe di parlare di come si giocano le carte della propria vita. Mancando anche in questo, Poker Face manca definitivamente nel trovare una propria voce.

Brado, la recensione del film di e con Kim Rossi Stuart

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Brado, la recensione del film di e con Kim Rossi Stuart

Se Brado di Kim Rossi Stuart fosse una canzone sarebbe sicuramente Father & Son di Cat Stevens. Contenuta nell’album “Tea for the Tillerman” del 1970, la canzone parla di un padre e un figlio che si confrontano in un momento difficile per entrambi, quello del cambiamento. Il film, che uscirà in sala dal 20 ottobre, è il terzo film da regista per Kim Rossi Stuart e segna anche un passaggio di testimone con i precedenti. I protagonisti, infatti, hanno nomi che ritornano nelle sue pellicole quelli di Renato e Tommaso, questa volta padre e figlio. Kim Rossi Stuart è Renato, un padre scontroso che, come i personaggi dei film di Clint Eastwood, non si lascia andare facilmente alle emozioni e tiene tutto dentro. E Saul Nanni che interpreta Tommaso, un ragazzo cresciuto troppo in fretta che, a differenza del padre, farà di tutto per esternare i suoi sentimenti.

Brado, la trama

Un figlio che non voleva più avere niente a che fare con suo padre è costretto ad aiutarlo a mandare avanti il ranch di famiglia dopo che questi si è fratturato alcune ossa. I due si ritrovano per addestrare un cavallo recalcitrante e portarlo a vincere una competizione di cross-country, ma allo stesso tempo provano a sciogliere quel grumo di rabbia, ostilità, rancore, che ha impedito loro per tanto tempo di essere vicini. È un difficile percorso a ostacoli quello che deve compiere il cavallo, ma anche quello che devono affrontare i due per ricostruire l’amore e la vicinanza che avevano perduto. In questa impresa li aiuterà un’addestratrice di cavalli, di cui il giovane si innamora.

Quella di Brado è una storia d’amore tormentata che segue padre e figlio in un rapporto apparentemente ai ferri corti. Il film è un adattamento del suo romanzo Le guarigioni, tema centrale nel film. Si parla di guarigione dei rapporti, di cucire le vecchie ferite e mettere da parte i vecchi rancori. Così nasce la contrapposizione simbolica tra il cavallo, Travor, e Renato. Due bestie indomabili che non accettano le costrizioni della società e che vogliono vivere liberi. Tommaso, il figlio, cercherà di domare entrambi ma per farlo dovrà lasciarsi andare e mettere via i vecchi dissapori.

Brado film Barbora Bobulova
Barbora Bobulova nel film Brado – Foto di Claudio Iannone

Il rapporto padre-figlio

Un’infanzia tormentata e difficile quella che ha vissuto Tommaso in Brado, sobbarcandosi i problemi del padre. I due avevano tagliato i ponti da parecchi anni e un incidente di percorso li ha rimessi sullo stesso cammino. Travor, il cavallo imbizzarrito, farà da veicolo per esternare le paure e le debolezze laddove entrambi non riescono a trovare le parole giuste. Ma i due “cowboy” sanno anche dialogare in silenzio e con gli sguardi. Tommaso guarda Renato quasi con orrore perché è l’unico che riesca davvero a guardargli dentro. Ma padre e figlio sono due facce della stessa medaglia, eppure rimangono comunque così distanti. Renato, il cavallo pazzo, capace di prendere le decisioni più brutali. Tommaso, il giovane domatore, che cerca di riuscire a portare a termine la sua impresa.

Ma da conflitto, dal caos che regna nella loro disfunzionale famiglia, nasce qualcosa di buono. Nasce un piccolo germoglio nel rapporto tra Travor e Tommaso in grado di pompare sangue anche al cuore malandato del buon Renato. Cresciuto nel suo ranch, Brado, Renato diventa arido di sentimenti, che ha dovuto sopprimere per paura di non essere corrisposto. Dopo la fine del matrimonio con Barbora Bobulova, che interpreta ancora una volta il ruolo di moglie di Kim Rossi Stuart nel grande schermo, ha chiuso il portone di legno del suo ranch, sconfitto. Il declino lento e inesorabile lo conduce verso una strada a senso unico: l’autodistruzione. Sarà proprio questa tendenza che darà il via al film per far riscoprire a padre e figlio gli anni persi e le occasioni perdute.

Terra e aria

Quando Tommaso ha lasciato il ranch, Brado, del padre per vivere la sua vita lo ha fatto per cercare sé stesso, la sua vera identità. Cercando sé stesso ha dovuto, per un momento, abbandonare le sue radici e la sua terra. Si trasferisce in città, nella metropoli, dove trova un lavoro nell’edilizia acrobatica. L’Aria diventa il suo nuovo elemento dove trovare un nuovo modo di vivere. L’Aria si contrappone alla Terra, al ranch di Renato. Ancora una volta padre e figlio, terra e aria, si scontrano. La libertà è il fattore che li accomuna. Renato che vive nella terra, nel suo letame, nella vita che si è scelto e che non hai mai rinnegato, libero di poter galoppare contro vento al chiaro di luna. Tommaso appeso a un filo di una palafitta con il vento, freddo, che batte sul viso guarda tutti dall’alto della sua imbracatura. Terra e Aria impareranno a vivere insieme, a domarsi come due cavalli imbizzarriti.

Nel finale – che riprende il finale del film Million Dollar Baby – nel sorriso di Renato c’è tutta la pace interiore, la serenità con cui un padre guarda il figlio, come se fosse la prima volta. E così, come in Father & Son, Brado inquadra uno scambio straziante tra un padre che non capisce il desiderio di un figlio di allontanarsi e di crearsi una nuova vita, e il figlio che non può davvero abbandonare le sue radici, la sua terra.

Sanctuary, incontro con il regista Zachary Wigon

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Sanctuary, incontro con il regista Zachary Wigon

Sanctuary parla di potere, di possesso, di controllo, lo fa attraverso il racconto della relazione tra Rebecca, una dominatrice di professione, e Hal, suo cliente. Il loro rapporto però potrebbe essere minato, subire delle modifiche a causa della loro natura, terribilmente umana, imperfetta e imprevedibile.

A raccontare la storia c’è Zachary Wigon, al suo secondo lungometraggio, che abbiamo incontrato in occasione della Festa del Cinema di Roma 2022, dove ha presentato il suo film. E partiamo dunque dal titolo: Sanctuary è “il santuario”, un “luogo in cui ci si sente al sicuro dalle pressioni esterne – dichiara il regista – E tutto il film è ambientato in uno spazio interno, circoscritto, per questo doveva essere un luogo sicuro, anche nel titolo.”

Sanctuary racconta anche di un gioco di ruolo, che è una pratica molto simile a ciò che fanno gli attori in scena e al criterio intorno a cui ruota tutta la macchina del narrare storie al cinema.

“L’idea centrale di partenza in fase di scrittura era quella di considerare il fatto che a volte siamo in grado di avere accesso ad una versione di noi più vera attraverso il gioco rispetto a quanto non accada nella vita reale. È un concetto che ha sempre trovato molta risonanza in me – ha spiegato Wigon – Penso a David Bowie che aveva dichiarato che si sentiva più se stesso mascherato da Ziggy Stardust rispetto a quando era se stesso nella vita reale. Queste erano alcune delle considerazioni nella mia mente mentre lavoravamo alla storia. In merito ai giochi di ruolo e al rapporto con la recitazione è che non credo sia il mio ruolo stabilire di cosa parla il film, ma credo che ci siano delle linee comuni tra il giocare di ruolo e il recitare.”

La genesi del progetto si deve a una serie di conversazioni che il regista ha avuto con Micah Bloomberg, lo sceneggiatore. “Ci siamo chiesti sin dall’inizio chi sarebbero stati Hal e Rebecca, che caratteristiche avrebbero avuto e come avrebbero reagito a determinate cose. Da questo confronto è nata la sceneggiatura e la definizione dei personaggi e solo con lo script tra le mani siamo andati da Christopher Abbott e Margaret Qualley.”

Sanctuary gioca moltissimo con i toni e con i generi. Sebbene si ascriva da subito alla categoria del thriller psicologico-erotico, si rivela presto come un’interessante commistione di generi, sfociando addirittura nella commedia romantica.

Questo accade, secondo Wigon, perché la commedia e il thriller sono due generi connessi, che si parlano in diversi momenti della storia del cinema e che lui voleva cucire insieme: “Credo che ci sia un tessuto comune tra screwball comedy e thriller psicologico-erotici e credo che la cosa più interessante per questo film sia stata cavalcare proprio questo confine. Volevamo fare di Sanctuary una corsa sulle montagne russe, in modo tale da creare appeal per il pubblico e generare una serie varia di emozioni.”

Il film si avvale di una messa in scena molto particolare e distintiva, una sola suite d’albergo, con più ambienti, con pochissime finestre, sempre tenute chiuse e pareti dai colori molto saturi. Così racconta le scelte stilistiche di fotografia e scenografia Wigon: “Quello che volevo dall’inizio era trovare un posto in cui non ci fossero troppe finestre. Negli USA è comune per gli alberghi moderni avere intere pareti di vetrate, ma con tante finestre si perde il senso di claustrofobia che volevo mantenere per tutta la storia. Quindi la mancanza di finestre era una caratteristica precisa che cercavo.

Poi avevo ben presente il fatto che un film ambientato solo in una stanza d’albergo doveva poter scivolare tra le parti di questa stanza in maniera organica, perché mantenere invariata la stessa location avrebbe reso il film noioso. Ero consapevole quindi che dovevo creare una progressione tra gli spazi e le stanze in cui i due personaggi agivano. È stata una scelta deliberata quella di farli spostare costantemente tra le stanze della suite. Sapevo anche che tutto dovesse essere intensamente colorato. La suite è lo specchio di una sensibilità molto intensa, e per rappresentare questo elemento visivamente, doveva essere tutto molto saturo, e così i colori delle pareti e della luce sono così intensi.”

Un risultato raggiunto grazie al contributo decisivo di Ludovica Isidori, direttrice della fotografia, che è riuscita a far dialogare la luce del film con le intenzioni artistiche del regista in maniera splendida, contribuendo a fare di Sanctuary un piccolo gioiello, che arriverà prossimamente nelle sale italiane distribuito da I Wonder Pictures.

The Crown 5, le foto: Diana, Carlo e la nuova Regina Elisabetta

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The Crown 5, le foto: Diana, Carlo e la nuova Regina Elisabetta

Netflix rilascia le prime immagini della quinta stagione di The Crown, che debutterà il 9 novembre in tutti i Paesi in cui il servizio è attivo con un nuovo cast guidato da Imelda Staunton nel ruolo della Regina Elisabetta II.

 

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Con l’inizio del nuovo decennio, la Famiglia Reale si trova davanti alla più grande sfida mai affrontata mentre il pubblico mette in dubbio apertamente il suo ruolo nella Gran Bretagna degli anni ‘90.

Questo turbolento decennio per la Famiglia Reale è stato ben documentato e interpretato da giornalisti, biografi e storici. Come spiega Elizabeth Debicki, nel ruolo della Principessa Diana, “Questa è la cosa incredibile di interpretare queste persone in questo momento, perché nel viaggio di The Crown, tra tutte le stagioni, la quinta è il contenuto visivamente più fedele che abbiamo della Famiglia Reale. Negli anni ‘90 si è cominciato a filmare tutto, anche con la nascita dei canali di notizie attivi 24 ore su 24, quindi c’è proprio questa incredibile quantità di contenuti a cui abbiamo accesso”.

Essendo questo l’ultimo cambio di cast, Dominic West (Principe Carlo) spiega: “Penso che la gente capisca, essendo il cast cambiato ogni due stagioni, che questa non è un’imitazione. Questa è l’evocazione di un personaggio”.

Mentre Imelda Staunton (Regina Elisabetta II) spera che, come il suo personaggio, abbia fatto il suo dovere nei confronti del pubblico: “Il bello, e spero di non dimostrare che si sbagliavano, è che le persone hanno detto: ‘Non vedo l’ora di vederla interpretare la regina’. Quindi, speriamo solo che funzioni per loro, perché ormai l’ho fatto. Non posso farci niente adesso!”.

The Crown è creata e scritta da Peter Morgan. I produttori esecutivi sono Peter Morgan, Suzanne Mackie, Andy Harries, Stephen Daldry, Matthew Byam Shaw, Robert Fox e Jessica Hobbs. Il cast include Imelda Staunton (Regina Elisabetta II), Jonathan Pryce (Principe Filippo), Lesley Manville (Principessa Margaret), Dominic West (Principe Carlo), Elizabeth Debicki (Principessa Diana), Claudia Harrison (Principessa Anne) e Olivia Williams (Camilla Parker Bowles). Jonny Lee Miller interpreta John Major, Salim Daw interpreta Mohamed Al Fayed e Khalid Abdalla interpreta Dodi Fayed.

The Crown 5, la trama

Prossima al 40° anniversario della sua ascesa al trono, la Regina Elisabetta II (Imelda Staunton) riflette su un regno che ha incluso nove primi ministri, l’avvento della televisione per le masse e il tramonto dell’Impero britannico. Ma nuove sfide si delineano all’orizzonte. Il crollo dell’Unione Sovietica e il trasferimento della sovranità di Hong Kong segnalano un cambiamento radicale nell’ordine internazionale e presentano sfide e opportunità alla Monarchia… ma nuovi problemi emergono non lontano da casa.

Il Principe Carlo (Dominic West) spinge la madre ad acconsentire al divorzio con Diana (Elizabeth Debicki), gettando le basi per una crisi costituzionale della Monarchia. La vita sempre più separata tra marito e moglie alimenta numerosi pettegolezzi. Quando lo scrutinio dei media si intensifica, Diana decide di prendere il controllo della situazione e infrange le regole familiari pubblicando un libro che minaccia il sostegno di Carlo da parte dell’opinione pubblica ed espone le divergenze all’interno del Casato di Windsor.

Le tensioni salgono quando entra in scena Mohamed Al Fayed (Salim Daw) che, spinto dal desiderio di essere accettato dalla nobiltà, sfrutta il patrimonio e il potere che si è guadagnato da solo per ottenere un posto alla tavola reale per lui e per il figlio Dodi (Khalid Abdalla).

Festa del Cinema di Roma: le foto dal red carpet di Rapiniamo il Duce

E’ stato presentato alla Festa del Cinema di Roma Rapiniamo il Duce, di Renato De Maria. Sul tappeto rosso dell’Auditorium Parco della Musica hanno sfilato i protagonisti: Pietro Castellitto, Matilda De Angelis, Coco Rebecca Edogamhe, Filippo Timi, Maccio Capatonda, Isabella Ferrari e Luigi Fedele.

Nella Milano del 1945, sul finire della guerra, un losco imprenditore e la sua ragazza formano una banda di disadattati e furfanti per poter organizzare un elaborato furto ed impossessarsi di un leggendario tesoro, nascosto da Mussolini in città.

Festa del Cinema di Roma 2022: A Noomi Rapace il Premio Progressive alla Carriera

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Noomi Rapace riceverà il Premio Progressive alla Carriera nel corso della diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Lo annuncia la Direttrice Artistica Paola Malanga, in accordo con Gian Luca Farinelli, Presidente della Fondazione Cinema per Roma, e Francesca Via, Direttrice Generale.

La premiazione si terrà oggi, domenica 16 ottobre alle ore 19.30, presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, in occasione dell’anteprima mondiale della serie Django, prodotta da Sky e Cattleya con Atlantique Production e Canal+, diretta da Francesca Comencini, nella quale Noomi Rapace interpreta il ruolo della potente e spietata Elizabeth Thurman.

Il riconoscimento sarà consegnato dalla regista e fumettista iraniana Marjane Satrapi, presidente della giuria del Concorso Progressive Cinema.

My Policeman: il trailer del film con Harry Styles

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My Policeman: il trailer del film con Harry Styles

Ecco il trailer italiano di My Policeman, diretto da Michael Grandage, scritto da Ron Nyswaner e basato sul romanzo di Bethan Roberts. Il film, prodotto da Greg Berlanti, Sarah Schechter, Robbie Rogers, Cora Palfrey e Philip Herd vede in veste di Executive Producer  Michael Grandage, Michael Riley McGrath, Caroline Levy, mentre nel cast ci sono Harry Styles, Emma Corrin, Gina McKee, Linus Roache, David Dawson e Rupert Everett.

My Policeman, la trama

La bellissima storia di un amore proibito e del cambiamento delle convenzioni sociali, My Policeman segue tre ragazzi – il poliziotto Tom (Harry Styles), l’insegnante Marion (Emma Corrin) e il curatore di un museo Patrick (David Dawson) – durante un viaggio emozionante nella Gran Bretagna degli anni ’50. Negli anni ’90, Tom (Linus Roache), Marion (Gina McKee) e Patrick (Rupert Everett) sono ancora in preda al desiderio e al rimpianto, ma ora hanno un’ultima possibilità di riparare i danni del passato. Basato sul romanzo di Bethan Roberts, il regista Michael Grandage realizza un ritratto visivamente commovente di tre persone coinvolte nelle mutevoli maree della storia, della libertà e del perdono.

My Policeman arriverà su Prime Video il 4 novembre.

“Mi venderei per un buon dialogo”: Russell Crowe incontra il pubblico di Alice nella Città

“Gli organizzatori di questo evento hanno un’idea ben precisa di come dovrebbe svolgersi la cosa. Dovremmo starcene qui a guardare spezzoni dei miei film per poi commentarli. Niente di tutto ciò accadrà”. È un Russell Crowe euforico quello che si presenta all’annunciata masterclass a lui dedicata e organizzata da Alice nella Città, sezione parallela e autonoma della Festa del Cinema di Roma. L’attore, accolto da una calorosa ovazione, racconta di essere venuto nella capitale italiana non solo per presentare il suo nuovo film da regista, Poker Face, ma anche per incontrare e parlare con gli studenti di cinema, ed è letteralmente questo che intende fare nel corso dell’evento.

Microfono alla mano, Crowe scende dunque dal palco e dà vita ad un incontro che infrange ogni possibile scaletta e prevedibilità, passeggiando amabilmente tra i tanti spettatori presenti nell’Auditorium della Conciliazione, raccontando episodi significativi della propria vita con la sua solita voce calda, profonda e ben modulata e poi passando personalmente il microfono ai presenti quando qualcuno di questi (ma solo se effettivamente studenti di cinema, chiede lui) vuole porgli una domanda. “Voglio parlare di cinema, parlare di narrazione, dello stare davanti o dietro la macchina da presa. – chiarisce Crowe – Non voglio ricevere domande del tipo cosa ho mangiato a colazione”.

Russell Crowe, dai primi ruoli ai film da protagonista

“Ho cominciato a recitare che avevo solo sei anni. – inizia dunque a raccontare l’attore – Era il 1970. Mia mamma si occupava del catering sui set cinematografici. Un giorno vado a trovarla sul lavoro e stavano girando una scena per cui non c’erano bambini a sufficienza. Così mia madre mi fece recitare e da lì è iniziato un percorso di vita che porto avanti ancora oggi. Non ho mai frequentato una scuola di recitazione, tutto quello che so l’ho imparato sul lavoro, recitando per la televisione e il teatro ma mantenendomi lavorando come DJ, barman e cameriere”.

“Ero ossessionato dalla performance. – continua l’attore – Passavo dal palco del teatro alla console da deejay di un pub all’altro. Dunque, questo sono io. Questa è la realtà. Non sono venuto fuori da nessuna fottuta Hollywood o roba del genere. Quando avevo 25 anni, infine, è arrivato il mio primo ingaggio per un lungometraggio. Diventare un attore protagonista però non mi ha fermato dal seguire anche la passione per il teatro e la musica. Le persone tendono a dire che bisogna concentrarsi su una cosa sola… non ascoltate queste stronzate. Accettate ciò chi siete davvero. Chi sa di avere una passione, non deve lasciarla andare.”

Da Il gladiatore a Noah, i ruoli più iconici di Russell Crowe

Crowe inizia poi a rispondere alle domande del pubblico, le prime delle quali sono dedicate ai segreti del mestiere dell’attore. “Il lavoro dell’attore non è semplice. – racconta Crowe – Personalmente vivo delusioni su base quotidiana. Ogni volta che recito una scena, poi torno a casa, ci ripenso e se mi viene in mente un modo migliore in cui avrei potuto interpretare quella scena, ecco che sono deluso da me stesso. Accade ogni volta e posso solo conviverci. Ma l’importante è compiacere il regista, la sua visione, e se ti chiede una cosa tu devi dargli precisamente quella cosa.”

“Io sono stato fortunato nel saper dare a Ridley Scott ciò che egli voleva sul set di Il gladiatore. Allo stesso tempo non si può essere totalmente senza controllo. L’attore è il burattinaio di sé stesso, deve sapere come controllarsi per raggiungere un determinato obiettivo. Ad esempio, proprio sul set di Il gladiatore Scott mi chiese di tirar fuori una serie di emozioni particolarmente forti nel momento in cui Massimo Decimo Meridio vede il corpo di sua moglie morta. Per riuscirci ho dovuto far affidamento a tutto il mio autocontrollo, un’esperienza estremamente difficile e dolorosa. A ripresa ultimata ero stremato e Scott estremamente soddisfatto, solo che poi mi ha chiesto di ripetere il tutto ancora una volta”.

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Foto tratta dal profilo Instagram di Alice nella Città.

“Per quanto riguarda il ruolo più complesso che abbia mai dovuto affrontare, – continua poi l’attore – questo è sicuramente quello di John Nash in A Beautiful Mind. Dovevamo mostrare i numerosi tic che il personaggio sviluppa al peggiorare della sua malattia e così sono arrivato al punto in cui mentre recitavo dovevo ricordarmi di mostrare tutti e 16 i suoi tic. Da un punto di vista fisico, invece, certamente Noah è stato un film molto complesso. Abbiamo girato per 70 giorni e la metà di questi eravamo sotto la pioggia artificiale, con un freddo estremo e in più dovevi recitare le tue battute”.

“Prima parlavamo di delusioni, – conclude poi Crowe – Les Miserables è ad esempio un film di cui sono deluso. Chiariamoci, l’esperienza è stata straordinaria, recitare in quel cast magnifico e potersi mettere alla prova con il canto. Il film in sé mi piace molto, ciò che non mi piace è il modo in cui è stato trattato il mio personaggio. Al montaggio hanno tagliato molte cose ed è venuto fuori qualcosa che non riconoscevo più come mio. All’anteprima di New York ho lasciato la sala per questo motivo, ero troppo deluso”.

Russell Crowe: un attore devoto ai dialoghi

In conclusione dell’incontro, a Crowe viene chiesto cos’è che lo motiva nello scegliere un ruolo piuttosto che un altro e l’attore non ha dubbi: i dialoghi. “Io amo i dialoghi. Mi innamoro delle battute che devo recitare. Non importa se questo comporta doversi alzare alle quattro del mattino a patto che io poi possa avere la possibilità di dire le battute di cui mi sono innamorato. Ciò non vuol dire che il mio personaggio debba essere necessariamente il protagonista. Posso avere anche solo due battute in tutto il film, ma quelle battute devono essere oro. Naturalmente mi interessa anche che la storia sia buona, ma fondamentalmente sono uno che per un buon dialogo si venderebbe”.

Lucca Comics & Games 2022, inaugurate le mostre di Palazzo Ducale

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L’apertura delle porte di Palazzo Ducale con l’inaugurazione delle prime mostresabato 15 ottobre alle 17.00 – dà il via al primo atto di HOPE, l’edizione 2022 di Lucca Comics & Games. Percorsi artistici totalmente inediti accoglieranno fino al 1° novembre i visitatori di ogni età, accompagnandoli alla scoperta di mondi che toccano tutte le corde dell’immaginario, unite dal filo conduttore del tema ispiratore di questa edizione, la Speranza.

Quella Speranza che uno dei maestri assoluti dell’imaginative realism, dell’illustrazione fantastica – l’artista canadese Ted Nasmith – ha trasformato in Hope, la Dama dell’Aurora, simbolo di questa edizione del festival.  E proprio nella loggia dell’Ammannati si svilupperà l’esposizione a lui dedicata, un percorso che celebra il suo dialogo tra luoghi e storie del grande fantastico, arricchite dalle potenti influenze dai paesaggi del luminismo americano e della pittura vittoriana del diciannovesimo secolo. Ma Hope è anche l’ideale antitesi ai pregiudizi e ai tabù, che Mirka Andolfo esprime sin dai suoi primi webcomic per arrivare poi alla sua affermazione come autrice con Contronatura, Mercy e Sweet Paprika; così come la capacità di Chris Riddell, il cui occhio critico sull’attualità si unisce alla capacità di raccontare storie alle nuove generazioni. E ancora uno spazio dedicato alle intuizioni grafiche e narrative della prosa a fumetti con cui Giacomo Nanni porta avanti la sua personale, e a volte eccentrica, indagine sulla realtà. Non manca un prezioso contributo dal Giappone con Atsushi Ohkubo, in un percorso curato da Alessandro Apreda aka DocManhattan sul sensei di Soul Eater e Fire Force. Quest’anno la principale sede espositiva del festival presenta anche un’assoluta novità: uno dei percorsi sarà infatti dedicato non al fumetto o al mondo dell’illustrazione per bambini e ragazzi ma alle opere di un autore di giochi. E il game-designer di cui raccontare il mondo, la vita, le opere non poteva che essere Alex Randolph, nell’anno del centesimo anniversario della sua nascita. Infine, nell’ideale commistione tra linguaggi e forme espressive che caratterizza Lucca Comics & Games, non poteva mancare una celebrazione dell’opera che quest’anno sarà al centro dell’inedito spettacolo di Graphic Novel Theater Celestia, tratto dallo straordinario lavoro di Manuele Fior.

Il 28 ottobre sarà inoltre inaugurata una serie di mostre che abbraccia tutte le anime del festival e che porterà i visitatori ad esplorare nuovi universi visivi: la Chiesa di San Cristoforo ospiterà POP SALANI – 160 anni di libri, cultura e fantasia a cura di Giorgio Bacci (ingresso gratuito fino al 06/11), mentre il Palazzo delle Esposizioni aprirà le sue porte al mondo di Manga: Love & Other Stories, a cura di J-POP Manga e Lucca Comics & Games, e di Castelli & Friends, a cura di Alex Dante e Lucca Comics & Games (ingresso con biglietto del festival). La Chiesa dei Servi, aperta al pubblico, custodirà le tavole di Corrado Roi: Diabolik, chi sei? a cura di Mauro Bruni e de Lo Scarabeo; mentre la Chiesa di San Franceschetto sarà l’ideale location di Atari 50 – Storia dell’azienda che ha inventato i videogame a cura di Fabio Viola (ingresso gratuito). Il sotterraneo del Baluardo San Pietro – anch’esso a ingresso libero – ci farà esplorare il futuro con il Multiverse of Metaverses, a cura di Daniele Luchi. Il Padiglione Carducci, accessibile con il biglietto del festival, accoglierà invece John Blanche – Within the Woods a cura di Tiziano Antognozzi, e Wild Boys of Eternia: 40 Litghyears Ago, from Eternia to Lucca Comics & Games a cura di Dimitri Galli Rohl. Nella Casa del Boia ci immergeremo invece nel mondo di Mario + Rabbids: Sparks of Hope acura di Ubisoft Milan (ingresso con biglietto del festival). In una delle aree più amate dal pubblico di Lucca Comics & Games, la Self Area in Biblioteca Agorà (a ingresso libero), omaggeremo l’amico Andrea Paggiaro e le sue opere con Anni di Tuono – Dalle autoproduzioni ai “Giorni di Tuono”, a cura della Fondazione Tuono Pettinato. Il Real Collegio, tornato Family Palace, “casa” per eccellenza dei visitatori più giovani, darà spazio alle opere del Premio di Illustrazione Editoriale Livio Sossi – Mostra Concorso Lucca Junior 2022, a cura di Sarah Genovese, a Fumetti dal mondo! – Comics & Graphic Novel per ragazzi premiati al Bolognaragazzi Comics Award, a cura di Bologna Children’s Book Fair, e ad Annual AI 2022 – La mostra dei premiati, a cura di AI – Associazione Autori di Immagini. Ulteriori info sono disponibili nel sito del festival.

Le mostre di Palazzo Ducale (15 ottobre – 1° novembre)

Ted Nasmith – La Natura del Mito (a cura di Chiara Codecà)
Autore del poster di Lucca Comics & Games 2022, fra i massimi esponenti dell’arte fantasy, il canadese Ted Nasmith è protagonista di una grande mostra il cui piatto forte sono le ormai classiche illustrazioni dedicate all’universo tolkieniano, affrontato con una peculiare sensibilità paesaggistica. Inoltre, illustrazioni realizzate per la saga di George R. R. Martin Cronache del ghiaccio e del fuoco e altre innumerevoli meraviglie.

Chris Riddell – Schizzi, scarabocchi e meraviglie (a cura di Roberto Irace)
Autore per ragazzi, vignettista politico, illustratore e straordinario creatore di mondi, sarà ospite a Lucca Comics & Games 2022 in collaborazione con l’Editrice Il Castoro e sarà allestita una mostra a Palazzo Ducale che ne celebrerà la prolifica carriera.

Mirka Andolfo – Eroine di carta (a cura di Mauro Bruni)
Mirka Andolfo è la nuova star del fumetto italiano. Disegnatrice e autrice, si è imposta in modo folgorante a partire da Sacro/Profano (2013), caratterizzato da un erotismo gioioso, sorretto da un tratto morbido e sensuale. È il segno distintivo del suo stile, che dopo svariate collaborazioni italiane e internazionali, la riporta alla ribalta col grande successo di Sweet Paprika.

Atsushi Ohkubo – Anima di fuoco (a cura di Alessandro Apreda)
Realizzata con la collaborazione di Panini, la mostra illustrerà, attraverso una ricca selezione di tavole originali delle sue opere più celebri, l’incredibile lavoro di world building che ha reso celebre questo mangaka. Dalla caccia alle anime della Death City di Soul Eater e del suo spin-off Soul Eater Not!, ai pompieri pirocinetici di Fire Force.

Alex Randolph, regista di giochi (a cura di Andrea Angiolino e Tiziano Antognozzi)
Una celebrazione in grande stile per ricordare il centenario della nascita di Alex Randolph, con pezzi per la prima volta messi in mostra in Italia ed illustrazioni inedite in anteprima assoluta in collaborazione con il Deutsches Spielearchiv Nürnberg, Studio Tapiro e Studio Giochi.

Giacomo Nanni, un altro sguardo sul mondo (a cura di Giovanni Russo)
Giacomo Nanni è uno dei fumettisti italiani più raffinati e profondi. Con Atto di Dio (2018), premiato anche ad Angoulême, ha prodotto uno dei migliori libri italiani degli ultimi anni, una riflessione, laica e religiosa insieme, sull’universo come portatore di un mistero radicale e sul ruolo dell’uomo al suo interno. Col successivo Tutto è vero (2021) approfondisce il suo sguardo esterno su un’umanità confusa e sbandata, alle prese con le moderne paure del terrorismo e dello scontro fra civiltà.

Graphic Novel Theater: fumetti in carne e ossa (a cura di Lucca Comics & Games)
La mostra racconta la breve ma già significativa storia del Graphic Novel Theater, concludendosi con un’anteprima del nuovo spettacolo, dedicato a Celestia di Manuele Fior.

Sanctuary, recensione del film con Margaret Qualley

Sanctuary, recensione del film con Margaret Qualley

Trai titoli più interessanti della Festa del Cinema di Roma, fa capolino Sanctuary, opera seconda di Zachary Wigon. Sono scrigni silenziosi le pareti degli hotel. Con il loro intonaco più o meno colorato, si ergono attorno a noi assorbendo ogni respiro, percependo ogni emozione, facendosi custodi di segreti inconfessabili, o momenti passeggeri. Tra le mura degli hotel dei corpi si incontrano, altri si lasciano; le bocche si baciano, o i cuori si spezzano.

Le mura della stanza di hotel che accoglie Rebecca e Hal in Sanctuary sono molto più che sguardi discreti che osservano il gioco al massacro compiuto dai due: sono sipari teatrali di un kammerspiel soffocante, quinte imprigionanti di un palcoscenico dove nulla è come sembra, e tutto appare per quel che non è. Entro i loro confini diventa quasi impossibile stabilire il ruolo affidato e svolto dai due protagonisti, entrambi schiavi di un continuo gioco all’inganno in cui nessuno ne esce vincitore, ma solo prigioniero. Prigioniero delle proprie maschere; prigioniero della propria performance perpetuamente mutabile e in evoluzione. Prigioniero dell’altro e di se stesso.

Sanctuary, la trama

Interno: suite di un albergo di lusso. Qui si incontrano un uomo sulla trentina e una giovane avvocatessa chiamata per delle verifiche burocratiche. Lui si chiama Hal Porterfield, erede di una catena di alberghi e prossimo amministratore delegato di un impero milionario a seguito della orte del padre. Lei è Rebecca, giovane aggressiva e misteriosa, che nella vita non svolge il ruolo di avvocatessa, bensì di dominatrice assunta dallo stesso Hal per testare la propria tenuta psicologica sul lavoro. In un continuo gioco di realtà e finzione, sarà difficile per entrambi – soprattutto per Rebecca – scindere se stessi dal proprio personaggio, cambiando continuamente i rapporti di forza fra cliente e padrone, dominatore e dominato. Chi la spunterà?

Non c’è nulla di lineare in Sanctuary. Nel film di Zachary Wigon, il rapporto di dominio si stacca della propria tangibilità fisica per elevarsi a una lotta psicologica dove ogni pensiero viene ribaltato, ogni parola messa in discussione, per creare nuovi pensieri, nuove realtà mentali in cui muoversi e recitare nuove parti. Ne consegue un labirinto senza fine, dai percorsi intrecciati e complicati, lungo i quali lo spettatore si ritrova a vagare senza meta. Sottratto di ogni direzioni con cui orientarsi, le uniche ancore a cui può affidarsi sono corpi di due giovani che si attraggono e respingono, abbracciano e attaccano. Un movimento continuo che destabilizza la visione, scaturendo un senso di nausea per un’incapacità di comprensione di un rapporto difficile da cogliere nel contesto logico e sentimentale. Rebecca e Hal sono colti nei loto tentativi reciproci di dominio fisico e psicologico, mentre tutto attorno crolla, perde le proprie base razionali, lasciando in bocca un retrogusto di visione perturbante.

Micce esplosive

È un santuario che di sacro ha ben poco quello eretto da Wigon: a muoversi silente tra gli inframezzi dei propri raccordi è adesso un effetto straniante pronto a riflettersi e influenzare ogni singolo elemento in campo. E se a dominare questo inafferrabile costrutto visivo è un’irrequietezza sia del corpo, che della mente, a orchestrare questa montagna russa perpetuamente in azione, non poteva essere che una regia ancora più disorientante e mutabile. Da primi piani affidati a grandangoli che distorcono i volti, tramutandoli in maschere dell’angoscia, a carrellate improvvise, passando per panoramiche a 360°, la macchina da presa di Wigon enfatizza ogni senso di perdita razionale, traducendo visivamente due anime fragili, incapaci di comprendere il proprio volere affidando alle fragilità dell’altro un senso di rivalsa e fisico predominio.

Sarà nel momento dei dialoghi, in quella creazione di nuovi contesti in cui inserirsi con maschere nuove e sempre uguali, che la macchina da presa si cristallizza mettendosi in pausa: immobile, lascia che il processo di creazione e reciproco influenzamento mentale faccia il proprio corso, ferma nell’attesa spasmodica di una miccia pronta di nuovo a esplodere, dando vita a un ulteriore gioco al massacro psicologico, tra recriminazioni, ricatti e bugie.

Un gioco al massacro

“Dimmi che per te è importante. Che non puoi viverne senza”. È un ritornello ridondante, una cantilena ripetuta da entrambi i protagonisti di Sanctuary, questa, una nenia recitata più per autoconvincersi che qualcosa per cui vale la pena vivere esista per davvero, che per pura asserzione. Nel microcosmo alberghiero di Hal e Rebecca nulla pare valere davvero. Che siano 6 milioni di dollari, un orologio prezioso, o una videocamera da scovare, la posta in gioco per questi due personaggi cambia perpetuamente al mutare del ricatto, sintomo che la vera mancanza per loro è da ritrovarsi più profondamente nei meandri di anime incomprese e incapaci di amare, che nella materialità di oggetti da distruggere. E così, nell’arco di un solo spazio, quelli che si attaccano, stuzzicano e uniscono, sono i corpi di mille maschere e diverse personalità.

Una galleria psicotica racchiusa nella cornice di due fisicità opposte, tra chi vuole dominare e chi si lascia manipolare. Rebecca e Hal sono lo Yin e lo Yang di una lotta continua, due pianeti che collidono senza congiungersi mai. Ciò che rimane da questo conflitto di maschere che cadono e altre che ritornano, è la perdita dell’umanità a favore di un istinto animalesco misto a tossica interdipendenza. Così come non possono fare a meno l’uno del potere fisico (ma anche economico) dell’altra, Rebecca e Hal ricercano le fragilità altrui, le sfruttano, per intelaiare una rete succuba di interdipendenza in cui, tra stanze distrutte, e giochi mentali, tutto viene sconvolto in una vertigine visiva lasciata scorrere lungo associazioni mentali, e fotografie rosso fuoco, o blu glaciale. 

Una, nessuna, centomila maschere

In un mondo che tutto cambia all’esternazione di parole che creano con fare divino, non poteva esserci interprete migliore di Margaret Qualley per dar vita all’ipnotica, e imprevedibile, Rebecca. Il volto dell’attrice è pura argilla da modellare sulla forza di mille espressioni. È una mimica volutamente caricata, la sua, che risponde in maniera coerente a un universo cangiante e mai afferrabile come quello di Sanctuary. Che sia l’imitazione del padre di Hal, o la declamazione del giuramento alla bandiera americano, la sua Rebecca è uno, nessuno e centomila sfumature di donna. La modulazione della voce è, infatti, un ponte privilegiato attraverso cui lasciar trasparire mille e altre personalità, facendo della Qualley un’intensa presta-corpo di identità sfuggevoli e pensieri complessi. Quello messo in campo dalla donna è un rifiuto netto di mostrarsi statica e fissa nei confini di un determinato carattere; una volontà che si ripercuote anche nel proprio corpo flessibile e dinamico, perennemente in movimento come la sua mente in elucubrazione.

Rebecca è, insomma, uno tsunami inatteso pronto a ingoiare la terra ferma di un Hal imprigionato in un’insicurezza che lo rende perfetta vittima del gioco al dominio della donna, e preda manipolabile bloccata sull’agire. È solo nel momento di vero terrore, preso dall’angoscia di mostrarsi nelle forme delle proprie fobie e trasgressioni, che Hal si tramuta in un fuoco che tutto arde e distrugge: ma le sue fiamme sono facilmente domate dalle onde di Rebecca, e così quell’incendio personale si spegnerà ben presto all’ombra dell’ennesimo ricatto. Quella che vive tra Hal e Rebecca è pertanto una costruzione psicologica dai tratti dicotomici non solo ben delineata dallo sceneggiatore Micah Bloomberg, ma soprattutto restituita in maniera impeccabile dai due attori che si fanno riflesso speculare di un’altra, indimenticabile, coppia del genere thriller come Laurence Olivier e Joan Fontaine nel capolavoro di Alfred Hitchcock, Rebecca.

Tanto nell’opera hitchcockiana, che in quella delineata da Bloomberg in Sanctuary, il potere va a braccetto con l’ingenuità e la manipolazione, in una danza eterna che tutto prende e decostruisce, fino all’esasperazione, fino alla nausea, fino al dominio della mente e il soggiogamento del corpo. 

The Lost King, recensione del film di Stephen Frears

The Lost King, recensione del film di Stephen Frears

Dopo Victoria e Abdul, il celebre regista inglese Stephen Frears torna a dirigere con The Lost King, storia ispirata alla realtà, rocambolesca e appassionata, tra commedia e dramma, di una comune signora borghese, Philippa Langley, e di come sia riuscita a ingaggiare un gruppo di archeologi e a finanziare gli scavi per cercare la tomba di re Riccardo III. Il film fa parte della sezione Grand Public della diciassettesima Festa del Cinema di Roma.

The Lost King, la trama

Philippa Langley, Sally Hawkins, è un’impiegata di mezza età, divorziata dal marito, Steve Coogan, e con due figli. Dopo aver assistito a teatro al Riccardo III shakespeariano, comincia a vedere il re seduto su una panchina sotto casa sua. È spinta quindi da questa presenza ad indagare meglio la figura del sovrano tra i più discussi della storia inglese, da sempre dipinto come deforme, malvagio e sanguinario, usurpatore del trono britannico. Leggendo e confrontandosi con i membri della Richard III Society, di cui entra a far parte, Philippa si convince che Riccardo III non fosse affatto un sanguinario, e forse neppure gobbo, come lo descrivono le cronache, e parte alla ricerca della sua tomba.

Il suo corpo, infatti, non è stato ancora ritrovato. Con incrollabile determinazione contatta gli enti locali e l’Università di Leicester, dove pensa si trovi il corpo, affinché finanzino lo scavo. Philippa ha infatti individuato un parcheggio dove, all’epoca del re, sorgeva la chiesa di Greyfriars, poi demolita, accreditata da alcuni studiosi come probabile luogo di sepoltura di Riccardo III. Vista la diffidenza degli ambienti accademici, che la considerano una pazza visionaria senza alcuna cognizione scientifica, indice una sottoscrizione pubblica, grazie alla quale partono i lavori. Il loro esito le darà ragione? 

The Lost King, una storia vera

Philippa Langley, la cui vicenda ha ispirato il film, è la fondatrice della sede scozzese della Richard III Society. Scrittrice e produttrice con una passione per “le storie che mettono alla prova la nostra concezione delle verità stabilite” – per usare le parole con le quali ella si descrive – ha raccontato la storia della ricerca di Riccardo III in diversi libri. Nel 2015 è stata nominata Membro dell’Impero Britannico – (MBE) Member of the Most Exellent Order of the British Empire – dalla Regina Elisabetta II.

Da Philomena a The Lost King

Per il suo ritorno dietro la macchina da presa, Stephen Frears, amato ed eclettico regista britannico, nato in quella Leicester in cui è ambientato questo suo nuovo lavoro, sceglie lo stesso team che lo aveva accompagnato per un altro suo film di successo, Philomena. Per The Lost King si avvale infatti della scrittura di Steve Coogan e Jeff Pope. Sceglie anche qui Steve Coogan come interprete, proprio come era accaduto allora, e soprattutto racconta ancora di una ricerca sul filo della storia, protagonista una donna tenace, come lo era la Philomena interpretata da Judi Dench.  L’eroina di tutti i giorni di questa nuova avventura è però esile e minuta. È una sognatrice, ma caparbia e determinata. Le dà corpo efficacemente Sally Hawkins. 

The Lost King fa riflettere con ironia ed eleganza

Il nuovo film di Stephen Frears tocca temi importanti, come la malattia e più in generale, l’essere differenti, difformi rispetto a una supposta “normalità”. Elementi che portano spesso, oggi come ai tempi di Riccardo III, allo stigma e al pregiudizio da parte dell’altro e della società. È in questo essere differente che la protagonista si sente affine al re tanto vituperato. È per sé stessa, oltre che per la memoria storica del personaggio, che desidera riabilitarlo. Sarebbe per lei una doppia vittoria. Anzi tripla, se si considera che si tratta di una donna e, come viene sottolineato nel film, le donne devono lottare assai più degli uomini per farsi valere, in ambienti spesso eminentemente maschili come quello universitario.

Non mancano infatti, neppure stoccate sarcastiche alle istituzioni e agli ambienti accademici. Ambienti elitari, snob, ormai votati al profitto, più che alla ricerca, alla formazione e alla divulgazione del sapere. Frears fa riflettere anche  sui meccanismi che fanno la storia, spesso scritta dai vincitori e crudele coi vinti, fino a distorcerne, almeno in parte, le caratteristiche. Per il regista la speranza per il futuro è dunque fuori dai circoli d’élite, dalle istituzioni e dai consessi d’intellettuali, tra la gente comune, appassionata e combattiva, come la protagonista; tra le brave persone, come suo marito; tra i bambini e i ragazzi delle scuole. 

Lo stile di The Lost King è quello cui il regista britannico ci ha abituato: curato ed elegante, come le musiche di Alexandre Desplat, che accompagnano la vicenda. Allo stesso tempo è sornione, divertito ed eccentrico. Il regista accentua la componente ironica e a volte sarcastica, inserendo perfino quel velo di surreale che si accorda molto bene allo spirito britannico. Riesce a integrarlo perfettamente nella narrazione, nella quale non stona affatto. Rende così il film un godibile ibrido tra giallo, commedia brillante e dramma, in una sintesi tra generi, che solo i grandi maestri sanno operare. 

MIA | Mercato Internazionale Audiovisivo, si chiude l’edizione 2022 nel segno della positività

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Si è chiusa oggi l’ottava edizione del MIA | Mercato Internazionale Audiovisivo, diretto da Gaia Tridente, che si è svolto a Roma dall’11 al 15 Ottobre 2022 a Palazzo Barberini e al Cinema Barberini. Nei 5 giorni del MIA, Roma è stata il punto di riferimento per l’industria audiovisiva, grazie all’ampia partecipazione di executive europei e internazionali. Presenze in crescita del +20% rispetto all’edizione 2021 con oltre 2400 accreditati da 60 paesi del mondo.

Sempre piene le sale del Cinema Barberini dove si sono tenuti gli oltre 70 panel e gli showcase. Tutto esaurito sugli stand di Palazzo Barberini con la presenza delle più importanti società di vendite internazionali italiane ed europee. In crescita anche i numeri del MIA sui social con oltre un milione di  visualizzazioni dell’account twitter dalla scorsa edizione ad oggi, mentre i follower della pagina facebook del MIA sono cresciuti del 27% e quelli di Linkedin del 23%. Numerosa anche la stampa accreditata, 160 giornalisti – di cui il 20% appartenenti alla stampa internazionale – che hanno seguito il MIA in presenza o da remoto tramite la piattaforma MIA Digital – con oltre 600 articoli usciti ad oggi sulle più importanti testate internazionali e italiane.

Concepito come un mercato curatoriale, uno spazio fisico e digitale di ragionamento, conversazione e strategia, il MIA è oggi il più importante evento di settore in Italia ed è entrato a pieno titolo nell’agenda internazionale degli appuntamenti dedicati ai professionisti dell’audiovisivo. Il MIA 2022 si è confermato uno strumento attraverso cui tutto il comparto può mostrare le sue eccellenze, intercettare nuovi partner internazionali e scoprire nuovi modelli di business, ragionare su strategie finanziarie legate alla produzione di contenuti, favorire la circolazione delle opere, facilitare lo sviluppo di diverse forme di sfruttamento e stringere fondamentali rapporti di business con gli operatori provenienti da tutto il mondo. Anche in questa sua ottava edizione il MIA è stato la piattaforma attraverso cui le istituzioni nazionali e internazionali hanno avuto l’occasione per mettere a sistema il lavoro su finanziamenti pubblici e regionali, sul soft money, sulla scoperta dei territori, in cui intessere le relazioni per l’ideazione e il potenziamento delle azioni a sostegno della produzione e della distribuzione.

L’ottava edizione del MIA si chiude oggi con risultati eccellenti. Oltre 2400 accreditati provenienti da 60 paesi del mondo che in queste cinque giornate di lavoro hanno letteralmente invaso il Cinema Barberini e Palazzo Barberini. L’affluenza è stata elevatissima con +20% rispetto alla passata edizione, sold out in tutte le sale e in tutte le conferenze del MIA al Cinema Barberini, per non parlare di Palazzo Barberini, cuore delle attività dei b2b del mercato di co-produzione e delle vendite internazionali. Per la prima volta al MIA abbiamo avuto una demo room di virtual production che ha attratto tantissimi professionisti del settore che hanno potuto vivere un’esperienza virtuale all’interno del meraviglioso museo che ospita il MIA. Questa rappresenta un’edizione di svolta, con una partecipazione internazionale davvero significativa, e Roma si è trasformata in questi 5 giorni in una fucina di discussione, dibattito e confronto tra i più importanti executive internazionali provenienti da Europa, Nord America, Medio Oriente e Africa, Sud America, Asia. Abbiamo costruito un programma editoriale forte, in grado di rappresentare l’intero ecosistema e i suoi paradigmi. Il MIA è oggi la destinazione per l’industria globale, che sta attraversando una fase di rapida evoluzione e di esplosione della produzione di nuovi contenuti”, ha dichiarato Gaia Tridente, direttrice del MIA.

Questa edizione del MIA conferma la vitalità dell’industria del Cinema e dell’Audiovisivo italiano e delle sue articolazioni. Una nuova tappa positiva per il MIA che ogni anno vede aumentare la presenza di operatori nazionali ed internazionali e che favorisce l’esportazione dei nostri prodotti e le coproduzioni. Crescono opportunità di incontri e business con la consapevolezza di quanto sia importante questa filiera per la crescita industriale e il lavoro, e per il Soft Power dell’Italia, ha dichiaratoFrancesco Rutelli, Presidente Anica.

Il MIA, edizione dopo edizione, continua ad affermarsi come un progetto ambizioso e senza dubbio fondamentale perché garantisce agli operatori di settore mondiali una vetrina ricca di prodotti d’eccellenza per potenziali grandi coproduzioni e importanti accordi di business. L’obiettivo resta quello di accendere i riflettori sulla filiera audiovisiva che in Italia ha un valore di circa 1,5 miliardi di euro e coinvolge più di 7mila imprese e circa 200mila occupati tra diretti e indiretti. La nostra industria diventa sempre più competitiva nel panorama internazionale, continua a crescere ed evolversi, come dimostrano anche i dati emersi nel 4° Rapporto APA sulla produzione audiovisiva nazionale, presentato proprio in occasione del Mercato, ha dichiarato il Presidente APA Giancarlo Leone.

Nato nel 2015 per volontà di ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Digitali) presieduta da Francesco Rutelli e APA (Associazione Produttori Audiovisivi) presieduta da Giancarlo Leone, il MIA gode del sostegno di Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, ICE-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, Ministero della Cultura, Ministero dello Sviluppo Economico, Regione Lazio ed è sostenuto anche grazie al supporto di sponsor privati: Unicredit è lo sponsor ufficiale e Fastweb è il partner tecnologico. Il MIA 2022 gode, quest’anno per la prima volta, del patrocinio di Eurimages, il fondo del Consiglio d’Europa.

Sulla piattaforma MIA DIGITAL gli accreditati al mercato potranno vedere o rivedere panel, talks e contenuti di questa edizione.

Nel corso della giornata conclusiva sono stati assegnati i MIA Awards 2022. Questa la lista dei premi e dei vincitori.

Co-Production and Pitching Forum

  • Premio Internazionale ARTEKINO – destinato a sostenere registi e produttori di Film emergenti di tutto il mondo – a Forastera  di  Lucia Alenar Iglesias, prodotto da Lastor Media (Spagna).
  • I Premi ILBE – due premi a sostegno dello sviluppo di progetti presentati al MIA Film co-production Market & Pitching Forum e nella sezione Wanna Taste IT?, dedicata ai progetti cinematografici italiani in fase di sviluppo – sono andati a Through the winter di Anita Rivaroli, prodotto da Indiana Production, e a Brianza di Simone Catania, prodotto da Indyca e Rough Cat.
  • Il Premio Paramount+ –  al miglior progetto presentato al MIA Drama Pitching Forum – è stato vinto da The Abbess, prodotta da Peter Carlton di Warp Films.
  • Il Premio WIFTMI – assegnato da Women in Film, Television and Media Italia a un progetto italiano selezionato nell’ambito del Co-Production Market & Pitching Forum di Animazione, Drama e Film con il maggior potenziale di realizzazione in base a criteri legati all’eliminazione della disuguaglianza di genere, alla rappresentazione positiva ed equilibrata, alla diversità e all’inclusione – è andato alla serie Cosplay Girl di Rodeo Drive, creata da Massimo Bacchini, Eleonora Cimpanelli e Giulio Rizzo. La serie è basata sull’omonimo romanzo di Valentino Notari.

Content Showcase

  • Il Premio Lazio Frames – al titolo che più valorizza il territorio della Regione, presente nelle vetrine di What’s Next Italy, GREENlit e Italians Doc It Better – a The Breath of the Mountain, film animato di Lorenzo Latrofa, prodotto da La Sarraz Pictures.
  • Lo Screen International Buyers’ Choice Award – assegnato ai film selezionati alla vetrina C EU Soon e votati da distributori, agenti di vendita e buyer – a Matria di Álvaro Gago (Spagna), prodotto da Matriuska Producciones, Elastica Films, Avalon P.C., Ringo Media. Sales Agent: New Europe Film Sales.

Hosted

  • I Premi La Bottega della Sceneggiatura: un’iniziativa di Premio Solinas e Netflix per scoprire e promuovere la nuova generazione di autori di serie televisive in Italia.  Primo Premio a Il peso del mondo di Jacopo Cazzaniga. Secondo Premio a Le figlie di Roma di Federica Baggio e Anna Francesca Leccia. Menzione speciale a Galena di Marco Panichella.

Festa del Cinema di Roma: le foto dal red carpet di Romulus II

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Festa del Cinema di Roma: le foto dal red carpet di Romulus II

E’ stata presentata in anteprima alla diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA, secondo capitolo della serie Sky Original firmata da Matteo Rovere e prodotta da Sky Studios, Cattleya e Groenlandia in collaborazione con ITV Studios.

Prima del mito, oltre la leggenda, la nascita di Roma come non è mai stata raccontata in 8 nuovi episodi. ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA arriverà dal 21 ottobre in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW.

Ai protagonisti della prima stagione Andrea Arcangeli (Yemos), Marianna Fontana (Ilia) e Francesco Di Napoli (Wiros) si aggiungonoValentina Bellè (Volevo fare la rockstar, L’uomo del labirinto, Catch-22) nei panni di Ersilia, a capo delle sacerdotesse Sabine; Emanuele Maria Di Stefano (La scuola cattolica, Siccità) che interpreta il re dei Sabini Tito Tazio, figlio del Dio Sancos, il più potente nemico di Roma;Max Malatesta (Favolacce, Il primo Re) è Sabos, consigliere e braccio destro del re dei Sabini; Ludovica Nasti (L’amica geniale) veste i panni di Vibia, la più giovane fra le sacerdotesse Sabine; mentre Giancarlo Commare (Skam Italia, Maschile singolare, La Belva) è Atys, il giovane re di Satricum. Tornano anche Sergio Romano (Amulius), Demetra Avincola (Deftri) e Vanessa Scalera (Silvia).

Come già la prima, venduta da ITV Studios – il distributore internazionale – in più di 40 territori, anche la seconda stagione della serie è stata interamente girata in protolatino. Il team di regia è formato da Matteo Rovere, Michele Alhaique ed Enrico Maria Artale, già registi della prima stagione, e da Francesca Mazzoleni (Punta Sacra, Succede). Alla sceneggiatura tornano Filippo Gravino e Guido Iuculano, cui si uniscono nella writers’ room Flaminia Gressi e Federico Gnesini.

La trama

Yemos, Wiros, Ilia, il gruppo di Ruminales e i cittadini di Alba a loro fedeli si sono insediati in quella che un tempo era Velia, consacrandola regno libero e indipendente e dandole il nome di ROMA. È per questo che Tito Tazio, giovanissimo re dei Sabini, figlio del dio Sancos, temuto e venerato dal suo popolo, temendo l’espansione del regno oltre i confini, invita i due re per un rito che si rivelerà un’imboscata volta alla sottomissione. In questa terra inospitale, Yemos e Wiros strapperanno al re le sacerdotesse Sabine, a lui molto care, in un gesto sacrilego ma inevitabile. Quando i Sabini invadono il Lazio per reclamare le donne, Yemos e Wiros restano fermi sulle loro posizioni ma di fronte a guerra e distruzione il loro sodalizio inizia a mostrare i segni di una crisi imminente, perché a Roma può esserci un solo re. Chi prenderà il nome di ROMULUS?

ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA è inoltre la prima serie Tv italiana certificata totalmente carbon neutral, anche a livello internazionale. Durante la fase di produzione è stata avviata una stretta collaborazione con Zen2030, società benefit italiana che ha come obiettivo la riduzione dell’impatto ambientale dell’intero settore audiovisivo italiano, sulla via delle zero emissioni nette. ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA ha quindi potuto beneficiare dell’applicazione del Protocollo Zen2030, finalizzato a ridurre l’impronta di carbonio delle produzioni cinematografiche fino a renderle carbon neutral. Una scelta in linea con l’impegno del gruppo Sky che, con la campagna Sky Zero, punta a essere la prima media company in Europa a diventare Net Zero Carbon entro il 2030.

ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA | Dal 21 ottobre in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW

Il principe di Roma: trailer del film con Marco Giallini

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Il principe di Roma: trailer del film con Marco Giallini

Guada il trailer de Il principe di Roma, con Marco Giallini, Giulia Bevilacqua, Filippo Timi, Sergio Rubini, Denise Tantucci, Antonio Bannò, Liliana Bottone, Massimo De Lorenzo con Andrea Sartoretti e con Giuseppe Battiston. In anteprima nella sezione GRAND PUBLIC alla XVII edizione della Festa del Cinema di Roma.

Roma, 1829. Bartolomeo è un uomo ricco e avido che brama il titolo nobiliare più di ogni cosa. Nel tentativo di recuperare il denaro necessario a stringere un accordo segreto con il principe Accoramboni per ottenere in moglie sua figlia, si troverà nel bel mezzo di un sorprendente viaggio a cavallo tra passato, presente e futuro. Accompagnato da compagni d’eccezione dovrà fare i conti con sé stesso e conquistare nuove consapevolezze.

Festa del cinema di Roma: Berenice Bejo e Michel Hazanavicius sul red per Cut! Zombi contro zombi

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E’ stato presentato alla Festa del cinema di Roma il film Cut! Zombi contro zombi, il nuovo film del regista Michel Hazanavicius che ha sfilato sul red cerpet di Roma al fiando della moglie e interprete Berenice Bejo.

Il film racconta la storia di una troupe cinematografica impegnata con le riprese di un horror a basso budget all’interno di una fabbrica abbandonata. Il gruppo, oltre alle difficoltà di gestione di cast e denaro, si ritroverà a dover fronteggiare una reale invasione di zombie, che porta confusione e terrore sul set. A causa dell’improvvisa occupazione degli spazi da parte dei non morti, la troupe faticherà a distinguere la realtà dalla finzione cinematografica…

Festa del cinema di Roma: le foto dal red carpet de La Cura

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Festa del cinema di Roma: le foto dal red carpet de La Cura

E’ stato presentato ieri alla Festa del cinema di Roma il film La cura. Sul red carpet hanno sfilato in protagonisti, il regista Francesco Patierno e gli interpreti Francesco Di Leva, Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli, Cristina Donadio, Andrea Renzi, Antonino Iuorio, Peppe Lanzetta, Ernesto Mahieux, Giuseppe D’Ambrosio, Eliana Miglio, Maritè Musella, Giancarlo Cosentino, Francesco Biscione, Margherita Romeo, Viviana Cangiano, Francesca Romana Bergamo, Vincenzo Del Prete, Pio Del Prete, Ramon D’Andrea, Giuseppe. Ecco tutte le foto dal red carpet:

LA CURA un film di Francesco Patierno | liberamente tratto da La Peste di Albert Camus, Editions Gallimard 1947 verrà presentato in CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA alla Festa del Cinema di Roma 2022 |una produzione RUN FILM in associazione con IN BETWEEN ART FILM prodotto da Alessandro e Andrea Cannavale con Beatrice Bulgari.

La trama del film

La storia della Peste di Albert Camus, ambientata originariamente in Algeria nel 1947, si sposta nella Napoli dei nostri tempi. Una troupe cinematografica, durante i giorni più duri del lockdown, gira un film tratto dalla Peste di Camus. La realtà delle vite degli attori si alterna alla finzione dei personaggi che interpretano: gradualmente i due piani narrativi si uniscono. Corso Umberto, il rione Sanità, le Terme, la stazione di Mergellina, l’Hotel Oriente, la prefettura, strade, angoli, per lo più deserti: Napoli in pieno lockdown. Una città spettrale e fuori dal tempo per la rilettura contemporanea di Francesco Patierno di La peste di Albert Camus, dove i sentimenti, le paure, i conflitti del libro scivolano armoniosamente dentro il disorientamento generato dalla pandemia, e pezzi di realtà, come un uomo disperato che urla di notte per strada, riflettono il testo. Un ospedale e i suoi medici e volontari, i funzionari, i commercianti, le persone normali, tutti si mescolano con una troupe che sta girando un film sulla Peste, in una coralità drammatica asciutta e coinvolgente. Chi vuole scappare. Chi decide di restare. Ma da soli non si resiste alla paura.

M. Il figlio del secolo: Joe Wright alla regia della nuova serie Sky Original

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Sarà il pluripremiato regista di fama internazionale Joe Wright (L’ora più buia, Espiazione, Cyrano) a dirigere M. Il figlio del secolo, la nuova serie Sky Original adattamento dell’omonimo romanzo di Antonio Scurati vincitore del Premio Strega e bestseller internazionale, che racconta la nascita del fascismo in Italia e l’ascesa al potere del Duce Benito Mussolini.

Wright, che dirigerà tutti gli otto episodi della serie e batterà il primo ciak presso i Cinecittà Studios nelle prossime settimane, ha dichiarato: «Portare sullo schermo un romanzo come “M – Il figlio del secolo” è una sfida incredibile che non vedo l’ora di affrontare. Spero di riuscire a restituire le luci e le ombre di un periodo storico e di un personaggio che, nel bene e nel male, hanno definito un’intera era».

Nell’ambito della diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma, il 18 ottobre il regista inglese sarà inoltre protagonista, insieme agli sceneggiatori Stefano Bises e Davide Serino, dell’incontro “M. La serie”.

M. Il figlio del secolo è una serie prodotta da Sky Studios e da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures, società del gruppo Fremantle, in collaborazione con Pathé.

M. Il figlio del secolo, la trama

La serie ripercorrerà la storia dalla fondazione dei Fasci Italiani nel 1919 fino al famigerato discorso di Mussolini in parlamento dopo l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti nel 1925. Offrirà inoltre uno spaccato del privato di Mussolini e delle sue relazioni personali, tra cui quelle con la moglie Rachele, l’amante Margherita Sarfatti e con altre figure iconiche dell’epoca. Come il romanzo, la serie racconterà la storia di un paese che si è arreso alla dittatura e la storia di un uomo che è stato capace di rinascere molte volte dalle sue ceneri.

Scritta da Stefano Bises (Gomorra – La Serie, The New Pope, ZeroZeroZero, Speravo de morì prima) e Davide Serino (1992, 1993, Il Re, Esterno Notte), la serie racconterà gli accadimenti con accuratezza storica, con ogni evento, personaggio, dialogo e discorso storicamente documentato o testimoniato da più fonti.

M. Il figlio del secolo arriverà in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW in tutti i territori Sky in Europa. La distribuzione internazionale è di Fremantle.

Pubblicato in Italia da Bompiani nel 2018, il romanzo di Antonio Scurati M. IL FIGLIO DEL SECOLO è stato tradotto ad oggi in 46 paesi, ha venduto oltre 600.000 copie. Negli Stati Uniti è edito da HarperCollins.

È il primo di una trilogia dedicata da Scurati al fascismo e a Benito Mussolini: il secondo romanzo è M. L’UOMO DELLA PROVVIDENZA, cui ha fatto seguito da qualche settimana il terzo romanzo della serie bestseller, M. GLI ULTIMI GIORNI DELL’EUROPA, che si concentra sul cruciale triennio tra il 1938 e il 1940.

BIOGRAFIA JOE WRIGHT

Il regista Joe Wright ha studiato al St. Martin’s College di Londra. Con i suoi nove lungometraggi da regista usciti ad oggi, Wright ha collezionato, tra candidature e vittorie, 35 BAFTA, 24 Academy Awards e 12 Golden Globe.

Nel 2005 debutta alla regia di un lungometraggio con ORGOGLIO & PREGIUDIZIO, con Keira Knightley, Matthew MacFadyen, Rosamund Pike e Donald Sutherland. Il film gli ha fatto vincere il Premio BAFTA come miglior regista.

ESPIAZIONE, adattamento del libro di Ian McEwan, esce nel 2007. Scritto da Christopher Hampton e interpretato da Knightley e James McAvoy, il film vince un Oscar per la migliore colonna sonora originale.

Nel 2009 esce il film IL SOLISTA, con Robert Downey Jr. e Jamie Foxx, seguito nel 2011 da HANNA, che vede protagoniste Cate Blanchett and Saoirse Ronan.

Nel settembre 2012 Wright presenta al pubblico ANNA KARENINA con Keira Knightley, Jude Law e Aaron Taylor-Johnson, che vince un BAFTA e un Oscar per i migliori costumi. Poco dopo Wright debutta nel mondo del teatro con TRELAWNY OF THE WELLS in scena al Donmar Theatre, seguito da A SEASON IN THE CONGO con Chiwetel Ejiofor, in scena al Young Vic.

Nel 2015 collabora con la Warner Bros per il lungometraggio PAN – VIAGGIO SULL’ISOLA CHE NON C’È. Il film, che vede Hugh Jackman fra i protagonisti, è una lettera d’amore agli scritti di JM Barrie e segue un giovane Peter mentre viaggia verso l’Isola che non c’è. Nel 2017 esce L’ORA PIÙ BUIA con Kristin Scott Thomas, Lily James e Gary Oldman che vince l’Oscar come miglior attore protagonista per la sua performance nei panni di Sir Winston Churchill.

LA DONNA ALLA FINESTRA è arrivato nel maggio 2021 su Netflix. Il cast comprende Amy Adams, Julianne Moore e Gary Oldman. L’ultimo film di Wright è CYRANO, musical tratto dal “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand. Vede come protagonisti Peter Dinklage, Haley Bennett, Kelvin Harrison Jr. e Ben Mendelsohn.

Il colibrì, recensione del film con Pierfrancesco Favino e Nanni Moretti

Una vita tranquilla, almeno apparentemente, è quella immaginata da Sandro Veronesi nel suo romanzo vincitore del Premio Strega 2020. Una storia difficile da sintetizzare e ricca di temi importanti, che Francesca Archibugi porta in sala – a partire dal 14 ottobre (distribuito da 01 Distribution) – nel film omonimo Il Colibrì. Scelto come titolo d’apertura della rinnovata Festa del Cinema di Roma, e inserito nella sezione Grand Public dedicata al cinema per il grande pubblico, il nuovo film della regista di Vivere colpisce al cuore, ma non solo, visto il cast All-Star riunito per l’occasione.

Quelli di Nanni Moretti e Pierfrancesco Favino spiccano tra i nomi di Kasia Smutniak, Berenice Bejo, Laura Morante, Benedetta Porcaroli, Massimo Ceccherini, Fotiní Peluso e Pietro Ragusa – tra gli altri – ed è paradossalmente tra loro due che si sviluppa il rapporto più importante in Il Colibrì. Tra tante relazioni, amorose o familiari, grandi amori e insopportabili dolori, la tensione che lega Daniele e Marco cambia con il passare del tempo e li lega sempre di più, dalle prime preoccupazioni professionali all’atto più estremo di vicinanza e amicizia.

Chi è il Colibrì?

Favino (che per una curiosa coincidenza, da anni convive felicemente con il soprannome di Picchio) è Marco Carrera, al quale sin da piccolo viene affibbiato quel nomignolo, per via di uno squilibrio ormonale che non lo faceva crescere e sviluppare come dovuto, ma che resta per tutta la vita il Colibrì, sebbene una cura sperimentale gli avesse permesso di avere infine una statura normale. Ed è la sua storia che seguiamo, nella sua quasi interezza, di ricordo in ricordo, saltando da un’epoca a un’altra, in un tempo liquido che va dai primi anni ‘70 fino a un futuro prossimo – il 2030 – nel quale lo Stato italiano si è finalmente deciso a dare una prova da tempo richiesta di umanità e civiltà.

Ma tutto inizia da bambini, quando al mare Marco conosce Luisa Lattes, una ragazzina bellissima e inconsueta. Una passione idealizzata e quindi ineguagliabile, un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà, per tutta la vita. A differenza di quello per la moglie Marina, madre della figlia Adele. Tra coincidenze incredibili e prove durissime, Marco passa da Roma a Firenze, spesso accompagnato dal vigile e amorevole sguardo di Daniele Carradori, lo psicoanalista di Marina, che insegnerà a Marco come accogliere i cambi di rotta più inaspettati.

La forza della vita

Dicevamo della difficoltà di adattare in maniera ineccepibile un intreccio tanto articolato, ricco di personaggi e di connessioni diverse a seconda del momento storico vissuto attraverso il costante alternarsi di passato e presente. Un reticolo esistenziale notevole, che tra momenti da ricordare e parentesi didascaliche non può che dare a tratti la sensazione di non riuscire a legare ugualmente tutti gli elementi. Nonostante la presenza di alcune costanti, veri fulcri della narrazione.

In primis la telefonata che riceve Marco, con cui si apre Il Colibrì e che rivediamo – ogni volta inquadrata diversamente, sempre più da vicino – mano a mano che prende forma il personaggio di Favino e si forma la sua consapevolezza del proprio vissuto. Che passa anche dalle rare e complicate riunioni familiare e dall’evoluzione del suo amore – idealizzato – per la onnipresente Lucia Lattes di Bérénice Bejo. Altro personaggio chiave, testimone distante e ambiguo, forse la figura femminile più interessante tra le varie (dalla Morante, alla sempre eccessiva Smutniak).

Non è mai facile assistere a una agonia, l’altrui come la propria, ma in quella che Il Colibrì descrive come la “strenua lotta che facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra insostenibile” resta la speranza. Di trovare la felicità, dopo tante finzioni e paure, di scoprirsi protagonisti di una vita vera, di non aver sprecato il proprio tempo – come un colibrì, costretto a uno sforzo “assurdo” per restare fermo – e anzi di aver trovato il coraggio di diventarne padroni e disporne nel momento più delicato di questo lungo addio.

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