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Brado, la recensione del film di e con Kim Rossi Stuart

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Brado, la recensione del film di e con Kim Rossi Stuart

Se Brado di Kim Rossi Stuart fosse una canzone sarebbe sicuramente Father & Son di Cat Stevens. Contenuta nell’album “Tea for the Tillerman” del 1970, la canzone parla di un padre e un figlio che si confrontano in un momento difficile per entrambi, quello del cambiamento. Il film, che uscirà in sala dal 20 ottobre, è il terzo film da regista per Kim Rossi Stuart e segna anche un passaggio di testimone con i precedenti. I protagonisti, infatti, hanno nomi che ritornano nelle sue pellicole quelli di Renato e Tommaso, questa volta padre e figlio. Kim Rossi Stuart è Renato, un padre scontroso che, come i personaggi dei film di Clint Eastwood, non si lascia andare facilmente alle emozioni e tiene tutto dentro. E Saul Nanni che interpreta Tommaso, un ragazzo cresciuto troppo in fretta che, a differenza del padre, farà di tutto per esternare i suoi sentimenti.

Brado, la trama

Un figlio che non voleva più avere niente a che fare con suo padre è costretto ad aiutarlo a mandare avanti il ranch di famiglia dopo che questi si è fratturato alcune ossa. I due si ritrovano per addestrare un cavallo recalcitrante e portarlo a vincere una competizione di cross-country, ma allo stesso tempo provano a sciogliere quel grumo di rabbia, ostilità, rancore, che ha impedito loro per tanto tempo di essere vicini. È un difficile percorso a ostacoli quello che deve compiere il cavallo, ma anche quello che devono affrontare i due per ricostruire l’amore e la vicinanza che avevano perduto. In questa impresa li aiuterà un’addestratrice di cavalli, di cui il giovane si innamora.

Quella di Brado è una storia d’amore tormentata che segue padre e figlio in un rapporto apparentemente ai ferri corti. Il film è un adattamento del suo romanzo Le guarigioni, tema centrale nel film. Si parla di guarigione dei rapporti, di cucire le vecchie ferite e mettere da parte i vecchi rancori. Così nasce la contrapposizione simbolica tra il cavallo, Travor, e Renato. Due bestie indomabili che non accettano le costrizioni della società e che vogliono vivere liberi. Tommaso, il figlio, cercherà di domare entrambi ma per farlo dovrà lasciarsi andare e mettere via i vecchi dissapori.

Brado film Barbora Bobulova
Barbora Bobulova nel film Brado – Foto di Claudio Iannone

Il rapporto padre-figlio

Un’infanzia tormentata e difficile quella che ha vissuto Tommaso in Brado, sobbarcandosi i problemi del padre. I due avevano tagliato i ponti da parecchi anni e un incidente di percorso li ha rimessi sullo stesso cammino. Travor, il cavallo imbizzarrito, farà da veicolo per esternare le paure e le debolezze laddove entrambi non riescono a trovare le parole giuste. Ma i due “cowboy” sanno anche dialogare in silenzio e con gli sguardi. Tommaso guarda Renato quasi con orrore perché è l’unico che riesca davvero a guardargli dentro. Ma padre e figlio sono due facce della stessa medaglia, eppure rimangono comunque così distanti. Renato, il cavallo pazzo, capace di prendere le decisioni più brutali. Tommaso, il giovane domatore, che cerca di riuscire a portare a termine la sua impresa.

Ma da conflitto, dal caos che regna nella loro disfunzionale famiglia, nasce qualcosa di buono. Nasce un piccolo germoglio nel rapporto tra Travor e Tommaso in grado di pompare sangue anche al cuore malandato del buon Renato. Cresciuto nel suo ranch, Brado, Renato diventa arido di sentimenti, che ha dovuto sopprimere per paura di non essere corrisposto. Dopo la fine del matrimonio con Barbora Bobulova, che interpreta ancora una volta il ruolo di moglie di Kim Rossi Stuart nel grande schermo, ha chiuso il portone di legno del suo ranch, sconfitto. Il declino lento e inesorabile lo conduce verso una strada a senso unico: l’autodistruzione. Sarà proprio questa tendenza che darà il via al film per far riscoprire a padre e figlio gli anni persi e le occasioni perdute.

Terra e aria

Quando Tommaso ha lasciato il ranch, Brado, del padre per vivere la sua vita lo ha fatto per cercare sé stesso, la sua vera identità. Cercando sé stesso ha dovuto, per un momento, abbandonare le sue radici e la sua terra. Si trasferisce in città, nella metropoli, dove trova un lavoro nell’edilizia acrobatica. L’Aria diventa il suo nuovo elemento dove trovare un nuovo modo di vivere. L’Aria si contrappone alla Terra, al ranch di Renato. Ancora una volta padre e figlio, terra e aria, si scontrano. La libertà è il fattore che li accomuna. Renato che vive nella terra, nel suo letame, nella vita che si è scelto e che non hai mai rinnegato, libero di poter galoppare contro vento al chiaro di luna. Tommaso appeso a un filo di una palafitta con il vento, freddo, che batte sul viso guarda tutti dall’alto della sua imbracatura. Terra e Aria impareranno a vivere insieme, a domarsi come due cavalli imbizzarriti.

Nel finale – che riprende il finale del film Million Dollar Baby – nel sorriso di Renato c’è tutta la pace interiore, la serenità con cui un padre guarda il figlio, come se fosse la prima volta. E così, come in Father & Son, Brado inquadra uno scambio straziante tra un padre che non capisce il desiderio di un figlio di allontanarsi e di crearsi una nuova vita, e il figlio che non può davvero abbandonare le sue radici, la sua terra.

Sanctuary, incontro con il regista Zachary Wigon

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Sanctuary, incontro con il regista Zachary Wigon

Sanctuary parla di potere, di possesso, di controllo, lo fa attraverso il racconto della relazione tra Rebecca, una dominatrice di professione, e Hal, suo cliente. Il loro rapporto però potrebbe essere minato, subire delle modifiche a causa della loro natura, terribilmente umana, imperfetta e imprevedibile.

A raccontare la storia c’è Zachary Wigon, al suo secondo lungometraggio, che abbiamo incontrato in occasione della Festa del Cinema di Roma 2022, dove ha presentato il suo film. E partiamo dunque dal titolo: Sanctuary è “il santuario”, un “luogo in cui ci si sente al sicuro dalle pressioni esterne – dichiara il regista – E tutto il film è ambientato in uno spazio interno, circoscritto, per questo doveva essere un luogo sicuro, anche nel titolo.”

Sanctuary racconta anche di un gioco di ruolo, che è una pratica molto simile a ciò che fanno gli attori in scena e al criterio intorno a cui ruota tutta la macchina del narrare storie al cinema.

“L’idea centrale di partenza in fase di scrittura era quella di considerare il fatto che a volte siamo in grado di avere accesso ad una versione di noi più vera attraverso il gioco rispetto a quanto non accada nella vita reale. È un concetto che ha sempre trovato molta risonanza in me – ha spiegato Wigon – Penso a David Bowie che aveva dichiarato che si sentiva più se stesso mascherato da Ziggy Stardust rispetto a quando era se stesso nella vita reale. Queste erano alcune delle considerazioni nella mia mente mentre lavoravamo alla storia. In merito ai giochi di ruolo e al rapporto con la recitazione è che non credo sia il mio ruolo stabilire di cosa parla il film, ma credo che ci siano delle linee comuni tra il giocare di ruolo e il recitare.”

La genesi del progetto si deve a una serie di conversazioni che il regista ha avuto con Micah Bloomberg, lo sceneggiatore. “Ci siamo chiesti sin dall’inizio chi sarebbero stati Hal e Rebecca, che caratteristiche avrebbero avuto e come avrebbero reagito a determinate cose. Da questo confronto è nata la sceneggiatura e la definizione dei personaggi e solo con lo script tra le mani siamo andati da Christopher Abbott e Margaret Qualley.”

Sanctuary gioca moltissimo con i toni e con i generi. Sebbene si ascriva da subito alla categoria del thriller psicologico-erotico, si rivela presto come un’interessante commistione di generi, sfociando addirittura nella commedia romantica.

Questo accade, secondo Wigon, perché la commedia e il thriller sono due generi connessi, che si parlano in diversi momenti della storia del cinema e che lui voleva cucire insieme: “Credo che ci sia un tessuto comune tra screwball comedy e thriller psicologico-erotici e credo che la cosa più interessante per questo film sia stata cavalcare proprio questo confine. Volevamo fare di Sanctuary una corsa sulle montagne russe, in modo tale da creare appeal per il pubblico e generare una serie varia di emozioni.”

Il film si avvale di una messa in scena molto particolare e distintiva, una sola suite d’albergo, con più ambienti, con pochissime finestre, sempre tenute chiuse e pareti dai colori molto saturi. Così racconta le scelte stilistiche di fotografia e scenografia Wigon: “Quello che volevo dall’inizio era trovare un posto in cui non ci fossero troppe finestre. Negli USA è comune per gli alberghi moderni avere intere pareti di vetrate, ma con tante finestre si perde il senso di claustrofobia che volevo mantenere per tutta la storia. Quindi la mancanza di finestre era una caratteristica precisa che cercavo.

Poi avevo ben presente il fatto che un film ambientato solo in una stanza d’albergo doveva poter scivolare tra le parti di questa stanza in maniera organica, perché mantenere invariata la stessa location avrebbe reso il film noioso. Ero consapevole quindi che dovevo creare una progressione tra gli spazi e le stanze in cui i due personaggi agivano. È stata una scelta deliberata quella di farli spostare costantemente tra le stanze della suite. Sapevo anche che tutto dovesse essere intensamente colorato. La suite è lo specchio di una sensibilità molto intensa, e per rappresentare questo elemento visivamente, doveva essere tutto molto saturo, e così i colori delle pareti e della luce sono così intensi.”

Un risultato raggiunto grazie al contributo decisivo di Ludovica Isidori, direttrice della fotografia, che è riuscita a far dialogare la luce del film con le intenzioni artistiche del regista in maniera splendida, contribuendo a fare di Sanctuary un piccolo gioiello, che arriverà prossimamente nelle sale italiane distribuito da I Wonder Pictures.

The Crown 5, le foto: Diana, Carlo e la nuova Regina Elisabetta

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The Crown 5, le foto: Diana, Carlo e la nuova Regina Elisabetta

Netflix rilascia le prime immagini della quinta stagione di The Crown, che debutterà il 9 novembre in tutti i Paesi in cui il servizio è attivo con un nuovo cast guidato da Imelda Staunton nel ruolo della Regina Elisabetta II.

 

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Con l’inizio del nuovo decennio, la Famiglia Reale si trova davanti alla più grande sfida mai affrontata mentre il pubblico mette in dubbio apertamente il suo ruolo nella Gran Bretagna degli anni ‘90.

Questo turbolento decennio per la Famiglia Reale è stato ben documentato e interpretato da giornalisti, biografi e storici. Come spiega Elizabeth Debicki, nel ruolo della Principessa Diana, “Questa è la cosa incredibile di interpretare queste persone in questo momento, perché nel viaggio di The Crown, tra tutte le stagioni, la quinta è il contenuto visivamente più fedele che abbiamo della Famiglia Reale. Negli anni ‘90 si è cominciato a filmare tutto, anche con la nascita dei canali di notizie attivi 24 ore su 24, quindi c’è proprio questa incredibile quantità di contenuti a cui abbiamo accesso”.

Essendo questo l’ultimo cambio di cast, Dominic West (Principe Carlo) spiega: “Penso che la gente capisca, essendo il cast cambiato ogni due stagioni, che questa non è un’imitazione. Questa è l’evocazione di un personaggio”.

Mentre Imelda Staunton (Regina Elisabetta II) spera che, come il suo personaggio, abbia fatto il suo dovere nei confronti del pubblico: “Il bello, e spero di non dimostrare che si sbagliavano, è che le persone hanno detto: ‘Non vedo l’ora di vederla interpretare la regina’. Quindi, speriamo solo che funzioni per loro, perché ormai l’ho fatto. Non posso farci niente adesso!”.

The Crown è creata e scritta da Peter Morgan. I produttori esecutivi sono Peter Morgan, Suzanne Mackie, Andy Harries, Stephen Daldry, Matthew Byam Shaw, Robert Fox e Jessica Hobbs. Il cast include Imelda Staunton (Regina Elisabetta II), Jonathan Pryce (Principe Filippo), Lesley Manville (Principessa Margaret), Dominic West (Principe Carlo), Elizabeth Debicki (Principessa Diana), Claudia Harrison (Principessa Anne) e Olivia Williams (Camilla Parker Bowles). Jonny Lee Miller interpreta John Major, Salim Daw interpreta Mohamed Al Fayed e Khalid Abdalla interpreta Dodi Fayed.

The Crown 5, la trama

Prossima al 40° anniversario della sua ascesa al trono, la Regina Elisabetta II (Imelda Staunton) riflette su un regno che ha incluso nove primi ministri, l’avvento della televisione per le masse e il tramonto dell’Impero britannico. Ma nuove sfide si delineano all’orizzonte. Il crollo dell’Unione Sovietica e il trasferimento della sovranità di Hong Kong segnalano un cambiamento radicale nell’ordine internazionale e presentano sfide e opportunità alla Monarchia… ma nuovi problemi emergono non lontano da casa.

Il Principe Carlo (Dominic West) spinge la madre ad acconsentire al divorzio con Diana (Elizabeth Debicki), gettando le basi per una crisi costituzionale della Monarchia. La vita sempre più separata tra marito e moglie alimenta numerosi pettegolezzi. Quando lo scrutinio dei media si intensifica, Diana decide di prendere il controllo della situazione e infrange le regole familiari pubblicando un libro che minaccia il sostegno di Carlo da parte dell’opinione pubblica ed espone le divergenze all’interno del Casato di Windsor.

Le tensioni salgono quando entra in scena Mohamed Al Fayed (Salim Daw) che, spinto dal desiderio di essere accettato dalla nobiltà, sfrutta il patrimonio e il potere che si è guadagnato da solo per ottenere un posto alla tavola reale per lui e per il figlio Dodi (Khalid Abdalla).

Festa del Cinema di Roma: le foto dal red carpet di Rapiniamo il Duce

E’ stato presentato alla Festa del Cinema di Roma Rapiniamo il Duce, di Renato De Maria. Sul tappeto rosso dell’Auditorium Parco della Musica hanno sfilato i protagonisti: Pietro Castellitto, Matilda De Angelis, Coco Rebecca Edogamhe, Filippo Timi, Maccio Capatonda, Isabella Ferrari e Luigi Fedele.

Nella Milano del 1945, sul finire della guerra, un losco imprenditore e la sua ragazza formano una banda di disadattati e furfanti per poter organizzare un elaborato furto ed impossessarsi di un leggendario tesoro, nascosto da Mussolini in città.

Festa del Cinema di Roma 2022: A Noomi Rapace il Premio Progressive alla Carriera

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Noomi Rapace riceverà il Premio Progressive alla Carriera nel corso della diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Lo annuncia la Direttrice Artistica Paola Malanga, in accordo con Gian Luca Farinelli, Presidente della Fondazione Cinema per Roma, e Francesca Via, Direttrice Generale.

La premiazione si terrà oggi, domenica 16 ottobre alle ore 19.30, presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, in occasione dell’anteprima mondiale della serie Django, prodotta da Sky e Cattleya con Atlantique Production e Canal+, diretta da Francesca Comencini, nella quale Noomi Rapace interpreta il ruolo della potente e spietata Elizabeth Thurman.

Il riconoscimento sarà consegnato dalla regista e fumettista iraniana Marjane Satrapi, presidente della giuria del Concorso Progressive Cinema.

My Policeman: il trailer del film con Harry Styles

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My Policeman: il trailer del film con Harry Styles

Ecco il trailer italiano di My Policeman, diretto da Michael Grandage, scritto da Ron Nyswaner e basato sul romanzo di Bethan Roberts. Il film, prodotto da Greg Berlanti, Sarah Schechter, Robbie Rogers, Cora Palfrey e Philip Herd vede in veste di Executive Producer  Michael Grandage, Michael Riley McGrath, Caroline Levy, mentre nel cast ci sono Harry Styles, Emma Corrin, Gina McKee, Linus Roache, David Dawson e Rupert Everett.

My Policeman, la trama

La bellissima storia di un amore proibito e del cambiamento delle convenzioni sociali, My Policeman segue tre ragazzi – il poliziotto Tom (Harry Styles), l’insegnante Marion (Emma Corrin) e il curatore di un museo Patrick (David Dawson) – durante un viaggio emozionante nella Gran Bretagna degli anni ’50. Negli anni ’90, Tom (Linus Roache), Marion (Gina McKee) e Patrick (Rupert Everett) sono ancora in preda al desiderio e al rimpianto, ma ora hanno un’ultima possibilità di riparare i danni del passato. Basato sul romanzo di Bethan Roberts, il regista Michael Grandage realizza un ritratto visivamente commovente di tre persone coinvolte nelle mutevoli maree della storia, della libertà e del perdono.

My Policeman arriverà su Prime Video il 4 novembre.

“Mi venderei per un buon dialogo”: Russell Crowe incontra il pubblico di Alice nella Città

“Gli organizzatori di questo evento hanno un’idea ben precisa di come dovrebbe svolgersi la cosa. Dovremmo starcene qui a guardare spezzoni dei miei film per poi commentarli. Niente di tutto ciò accadrà”. È un Russell Crowe euforico quello che si presenta all’annunciata masterclass a lui dedicata e organizzata da Alice nella Città, sezione parallela e autonoma della Festa del Cinema di Roma. L’attore, accolto da una calorosa ovazione, racconta di essere venuto nella capitale italiana non solo per presentare il suo nuovo film da regista, Poker Face, ma anche per incontrare e parlare con gli studenti di cinema, ed è letteralmente questo che intende fare nel corso dell’evento.

Microfono alla mano, Crowe scende dunque dal palco e dà vita ad un incontro che infrange ogni possibile scaletta e prevedibilità, passeggiando amabilmente tra i tanti spettatori presenti nell’Auditorium della Conciliazione, raccontando episodi significativi della propria vita con la sua solita voce calda, profonda e ben modulata e poi passando personalmente il microfono ai presenti quando qualcuno di questi (ma solo se effettivamente studenti di cinema, chiede lui) vuole porgli una domanda. “Voglio parlare di cinema, parlare di narrazione, dello stare davanti o dietro la macchina da presa. – chiarisce Crowe – Non voglio ricevere domande del tipo cosa ho mangiato a colazione”.

Russell Crowe, dai primi ruoli ai film da protagonista

“Ho cominciato a recitare che avevo solo sei anni. – inizia dunque a raccontare l’attore – Era il 1970. Mia mamma si occupava del catering sui set cinematografici. Un giorno vado a trovarla sul lavoro e stavano girando una scena per cui non c’erano bambini a sufficienza. Così mia madre mi fece recitare e da lì è iniziato un percorso di vita che porto avanti ancora oggi. Non ho mai frequentato una scuola di recitazione, tutto quello che so l’ho imparato sul lavoro, recitando per la televisione e il teatro ma mantenendomi lavorando come DJ, barman e cameriere”.

“Ero ossessionato dalla performance. – continua l’attore – Passavo dal palco del teatro alla console da deejay di un pub all’altro. Dunque, questo sono io. Questa è la realtà. Non sono venuto fuori da nessuna fottuta Hollywood o roba del genere. Quando avevo 25 anni, infine, è arrivato il mio primo ingaggio per un lungometraggio. Diventare un attore protagonista però non mi ha fermato dal seguire anche la passione per il teatro e la musica. Le persone tendono a dire che bisogna concentrarsi su una cosa sola… non ascoltate queste stronzate. Accettate ciò chi siete davvero. Chi sa di avere una passione, non deve lasciarla andare.”

Da Il gladiatore a Noah, i ruoli più iconici di Russell Crowe

Crowe inizia poi a rispondere alle domande del pubblico, le prime delle quali sono dedicate ai segreti del mestiere dell’attore. “Il lavoro dell’attore non è semplice. – racconta Crowe – Personalmente vivo delusioni su base quotidiana. Ogni volta che recito una scena, poi torno a casa, ci ripenso e se mi viene in mente un modo migliore in cui avrei potuto interpretare quella scena, ecco che sono deluso da me stesso. Accade ogni volta e posso solo conviverci. Ma l’importante è compiacere il regista, la sua visione, e se ti chiede una cosa tu devi dargli precisamente quella cosa.”

“Io sono stato fortunato nel saper dare a Ridley Scott ciò che egli voleva sul set di Il gladiatore. Allo stesso tempo non si può essere totalmente senza controllo. L’attore è il burattinaio di sé stesso, deve sapere come controllarsi per raggiungere un determinato obiettivo. Ad esempio, proprio sul set di Il gladiatore Scott mi chiese di tirar fuori una serie di emozioni particolarmente forti nel momento in cui Massimo Decimo Meridio vede il corpo di sua moglie morta. Per riuscirci ho dovuto far affidamento a tutto il mio autocontrollo, un’esperienza estremamente difficile e dolorosa. A ripresa ultimata ero stremato e Scott estremamente soddisfatto, solo che poi mi ha chiesto di ripetere il tutto ancora una volta”.

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Foto tratta dal profilo Instagram di Alice nella Città.

“Per quanto riguarda il ruolo più complesso che abbia mai dovuto affrontare, – continua poi l’attore – questo è sicuramente quello di John Nash in A Beautiful Mind. Dovevamo mostrare i numerosi tic che il personaggio sviluppa al peggiorare della sua malattia e così sono arrivato al punto in cui mentre recitavo dovevo ricordarmi di mostrare tutti e 16 i suoi tic. Da un punto di vista fisico, invece, certamente Noah è stato un film molto complesso. Abbiamo girato per 70 giorni e la metà di questi eravamo sotto la pioggia artificiale, con un freddo estremo e in più dovevi recitare le tue battute”.

“Prima parlavamo di delusioni, – conclude poi Crowe – Les Miserables è ad esempio un film di cui sono deluso. Chiariamoci, l’esperienza è stata straordinaria, recitare in quel cast magnifico e potersi mettere alla prova con il canto. Il film in sé mi piace molto, ciò che non mi piace è il modo in cui è stato trattato il mio personaggio. Al montaggio hanno tagliato molte cose ed è venuto fuori qualcosa che non riconoscevo più come mio. All’anteprima di New York ho lasciato la sala per questo motivo, ero troppo deluso”.

Russell Crowe: un attore devoto ai dialoghi

In conclusione dell’incontro, a Crowe viene chiesto cos’è che lo motiva nello scegliere un ruolo piuttosto che un altro e l’attore non ha dubbi: i dialoghi. “Io amo i dialoghi. Mi innamoro delle battute che devo recitare. Non importa se questo comporta doversi alzare alle quattro del mattino a patto che io poi possa avere la possibilità di dire le battute di cui mi sono innamorato. Ciò non vuol dire che il mio personaggio debba essere necessariamente il protagonista. Posso avere anche solo due battute in tutto il film, ma quelle battute devono essere oro. Naturalmente mi interessa anche che la storia sia buona, ma fondamentalmente sono uno che per un buon dialogo si venderebbe”.

Lucca Comics & Games 2022, inaugurate le mostre di Palazzo Ducale

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L’apertura delle porte di Palazzo Ducale con l’inaugurazione delle prime mostresabato 15 ottobre alle 17.00 – dà il via al primo atto di HOPE, l’edizione 2022 di Lucca Comics & Games. Percorsi artistici totalmente inediti accoglieranno fino al 1° novembre i visitatori di ogni età, accompagnandoli alla scoperta di mondi che toccano tutte le corde dell’immaginario, unite dal filo conduttore del tema ispiratore di questa edizione, la Speranza.

Quella Speranza che uno dei maestri assoluti dell’imaginative realism, dell’illustrazione fantastica – l’artista canadese Ted Nasmith – ha trasformato in Hope, la Dama dell’Aurora, simbolo di questa edizione del festival.  E proprio nella loggia dell’Ammannati si svilupperà l’esposizione a lui dedicata, un percorso che celebra il suo dialogo tra luoghi e storie del grande fantastico, arricchite dalle potenti influenze dai paesaggi del luminismo americano e della pittura vittoriana del diciannovesimo secolo. Ma Hope è anche l’ideale antitesi ai pregiudizi e ai tabù, che Mirka Andolfo esprime sin dai suoi primi webcomic per arrivare poi alla sua affermazione come autrice con Contronatura, Mercy e Sweet Paprika; così come la capacità di Chris Riddell, il cui occhio critico sull’attualità si unisce alla capacità di raccontare storie alle nuove generazioni. E ancora uno spazio dedicato alle intuizioni grafiche e narrative della prosa a fumetti con cui Giacomo Nanni porta avanti la sua personale, e a volte eccentrica, indagine sulla realtà. Non manca un prezioso contributo dal Giappone con Atsushi Ohkubo, in un percorso curato da Alessandro Apreda aka DocManhattan sul sensei di Soul Eater e Fire Force. Quest’anno la principale sede espositiva del festival presenta anche un’assoluta novità: uno dei percorsi sarà infatti dedicato non al fumetto o al mondo dell’illustrazione per bambini e ragazzi ma alle opere di un autore di giochi. E il game-designer di cui raccontare il mondo, la vita, le opere non poteva che essere Alex Randolph, nell’anno del centesimo anniversario della sua nascita. Infine, nell’ideale commistione tra linguaggi e forme espressive che caratterizza Lucca Comics & Games, non poteva mancare una celebrazione dell’opera che quest’anno sarà al centro dell’inedito spettacolo di Graphic Novel Theater Celestia, tratto dallo straordinario lavoro di Manuele Fior.

Il 28 ottobre sarà inoltre inaugurata una serie di mostre che abbraccia tutte le anime del festival e che porterà i visitatori ad esplorare nuovi universi visivi: la Chiesa di San Cristoforo ospiterà POP SALANI – 160 anni di libri, cultura e fantasia a cura di Giorgio Bacci (ingresso gratuito fino al 06/11), mentre il Palazzo delle Esposizioni aprirà le sue porte al mondo di Manga: Love & Other Stories, a cura di J-POP Manga e Lucca Comics & Games, e di Castelli & Friends, a cura di Alex Dante e Lucca Comics & Games (ingresso con biglietto del festival). La Chiesa dei Servi, aperta al pubblico, custodirà le tavole di Corrado Roi: Diabolik, chi sei? a cura di Mauro Bruni e de Lo Scarabeo; mentre la Chiesa di San Franceschetto sarà l’ideale location di Atari 50 – Storia dell’azienda che ha inventato i videogame a cura di Fabio Viola (ingresso gratuito). Il sotterraneo del Baluardo San Pietro – anch’esso a ingresso libero – ci farà esplorare il futuro con il Multiverse of Metaverses, a cura di Daniele Luchi. Il Padiglione Carducci, accessibile con il biglietto del festival, accoglierà invece John Blanche – Within the Woods a cura di Tiziano Antognozzi, e Wild Boys of Eternia: 40 Litghyears Ago, from Eternia to Lucca Comics & Games a cura di Dimitri Galli Rohl. Nella Casa del Boia ci immergeremo invece nel mondo di Mario + Rabbids: Sparks of Hope acura di Ubisoft Milan (ingresso con biglietto del festival). In una delle aree più amate dal pubblico di Lucca Comics & Games, la Self Area in Biblioteca Agorà (a ingresso libero), omaggeremo l’amico Andrea Paggiaro e le sue opere con Anni di Tuono – Dalle autoproduzioni ai “Giorni di Tuono”, a cura della Fondazione Tuono Pettinato. Il Real Collegio, tornato Family Palace, “casa” per eccellenza dei visitatori più giovani, darà spazio alle opere del Premio di Illustrazione Editoriale Livio Sossi – Mostra Concorso Lucca Junior 2022, a cura di Sarah Genovese, a Fumetti dal mondo! – Comics & Graphic Novel per ragazzi premiati al Bolognaragazzi Comics Award, a cura di Bologna Children’s Book Fair, e ad Annual AI 2022 – La mostra dei premiati, a cura di AI – Associazione Autori di Immagini. Ulteriori info sono disponibili nel sito del festival.

Le mostre di Palazzo Ducale (15 ottobre – 1° novembre)

Ted Nasmith – La Natura del Mito (a cura di Chiara Codecà)
Autore del poster di Lucca Comics & Games 2022, fra i massimi esponenti dell’arte fantasy, il canadese Ted Nasmith è protagonista di una grande mostra il cui piatto forte sono le ormai classiche illustrazioni dedicate all’universo tolkieniano, affrontato con una peculiare sensibilità paesaggistica. Inoltre, illustrazioni realizzate per la saga di George R. R. Martin Cronache del ghiaccio e del fuoco e altre innumerevoli meraviglie.

Chris Riddell – Schizzi, scarabocchi e meraviglie (a cura di Roberto Irace)
Autore per ragazzi, vignettista politico, illustratore e straordinario creatore di mondi, sarà ospite a Lucca Comics & Games 2022 in collaborazione con l’Editrice Il Castoro e sarà allestita una mostra a Palazzo Ducale che ne celebrerà la prolifica carriera.

Mirka Andolfo – Eroine di carta (a cura di Mauro Bruni)
Mirka Andolfo è la nuova star del fumetto italiano. Disegnatrice e autrice, si è imposta in modo folgorante a partire da Sacro/Profano (2013), caratterizzato da un erotismo gioioso, sorretto da un tratto morbido e sensuale. È il segno distintivo del suo stile, che dopo svariate collaborazioni italiane e internazionali, la riporta alla ribalta col grande successo di Sweet Paprika.

Atsushi Ohkubo – Anima di fuoco (a cura di Alessandro Apreda)
Realizzata con la collaborazione di Panini, la mostra illustrerà, attraverso una ricca selezione di tavole originali delle sue opere più celebri, l’incredibile lavoro di world building che ha reso celebre questo mangaka. Dalla caccia alle anime della Death City di Soul Eater e del suo spin-off Soul Eater Not!, ai pompieri pirocinetici di Fire Force.

Alex Randolph, regista di giochi (a cura di Andrea Angiolino e Tiziano Antognozzi)
Una celebrazione in grande stile per ricordare il centenario della nascita di Alex Randolph, con pezzi per la prima volta messi in mostra in Italia ed illustrazioni inedite in anteprima assoluta in collaborazione con il Deutsches Spielearchiv Nürnberg, Studio Tapiro e Studio Giochi.

Giacomo Nanni, un altro sguardo sul mondo (a cura di Giovanni Russo)
Giacomo Nanni è uno dei fumettisti italiani più raffinati e profondi. Con Atto di Dio (2018), premiato anche ad Angoulême, ha prodotto uno dei migliori libri italiani degli ultimi anni, una riflessione, laica e religiosa insieme, sull’universo come portatore di un mistero radicale e sul ruolo dell’uomo al suo interno. Col successivo Tutto è vero (2021) approfondisce il suo sguardo esterno su un’umanità confusa e sbandata, alle prese con le moderne paure del terrorismo e dello scontro fra civiltà.

Graphic Novel Theater: fumetti in carne e ossa (a cura di Lucca Comics & Games)
La mostra racconta la breve ma già significativa storia del Graphic Novel Theater, concludendosi con un’anteprima del nuovo spettacolo, dedicato a Celestia di Manuele Fior.

Sanctuary, recensione del film con Margaret Qualley

Sanctuary, recensione del film con Margaret Qualley

Trai titoli più interessanti della Festa del Cinema di Roma, fa capolino Sanctuary, opera seconda di Zachary Wigon. Sono scrigni silenziosi le pareti degli hotel. Con il loro intonaco più o meno colorato, si ergono attorno a noi assorbendo ogni respiro, percependo ogni emozione, facendosi custodi di segreti inconfessabili, o momenti passeggeri. Tra le mura degli hotel dei corpi si incontrano, altri si lasciano; le bocche si baciano, o i cuori si spezzano.

Le mura della stanza di hotel che accoglie Rebecca e Hal in Sanctuary sono molto più che sguardi discreti che osservano il gioco al massacro compiuto dai due: sono sipari teatrali di un kammerspiel soffocante, quinte imprigionanti di un palcoscenico dove nulla è come sembra, e tutto appare per quel che non è. Entro i loro confini diventa quasi impossibile stabilire il ruolo affidato e svolto dai due protagonisti, entrambi schiavi di un continuo gioco all’inganno in cui nessuno ne esce vincitore, ma solo prigioniero. Prigioniero delle proprie maschere; prigioniero della propria performance perpetuamente mutabile e in evoluzione. Prigioniero dell’altro e di se stesso.

Sanctuary, la trama

Interno: suite di un albergo di lusso. Qui si incontrano un uomo sulla trentina e una giovane avvocatessa chiamata per delle verifiche burocratiche. Lui si chiama Hal Porterfield, erede di una catena di alberghi e prossimo amministratore delegato di un impero milionario a seguito della orte del padre. Lei è Rebecca, giovane aggressiva e misteriosa, che nella vita non svolge il ruolo di avvocatessa, bensì di dominatrice assunta dallo stesso Hal per testare la propria tenuta psicologica sul lavoro. In un continuo gioco di realtà e finzione, sarà difficile per entrambi – soprattutto per Rebecca – scindere se stessi dal proprio personaggio, cambiando continuamente i rapporti di forza fra cliente e padrone, dominatore e dominato. Chi la spunterà?

Non c’è nulla di lineare in Sanctuary. Nel film di Zachary Wigon, il rapporto di dominio si stacca della propria tangibilità fisica per elevarsi a una lotta psicologica dove ogni pensiero viene ribaltato, ogni parola messa in discussione, per creare nuovi pensieri, nuove realtà mentali in cui muoversi e recitare nuove parti. Ne consegue un labirinto senza fine, dai percorsi intrecciati e complicati, lungo i quali lo spettatore si ritrova a vagare senza meta. Sottratto di ogni direzioni con cui orientarsi, le uniche ancore a cui può affidarsi sono corpi di due giovani che si attraggono e respingono, abbracciano e attaccano. Un movimento continuo che destabilizza la visione, scaturendo un senso di nausea per un’incapacità di comprensione di un rapporto difficile da cogliere nel contesto logico e sentimentale. Rebecca e Hal sono colti nei loto tentativi reciproci di dominio fisico e psicologico, mentre tutto attorno crolla, perde le proprie base razionali, lasciando in bocca un retrogusto di visione perturbante.

Micce esplosive

È un santuario che di sacro ha ben poco quello eretto da Wigon: a muoversi silente tra gli inframezzi dei propri raccordi è adesso un effetto straniante pronto a riflettersi e influenzare ogni singolo elemento in campo. E se a dominare questo inafferrabile costrutto visivo è un’irrequietezza sia del corpo, che della mente, a orchestrare questa montagna russa perpetuamente in azione, non poteva essere che una regia ancora più disorientante e mutabile. Da primi piani affidati a grandangoli che distorcono i volti, tramutandoli in maschere dell’angoscia, a carrellate improvvise, passando per panoramiche a 360°, la macchina da presa di Wigon enfatizza ogni senso di perdita razionale, traducendo visivamente due anime fragili, incapaci di comprendere il proprio volere affidando alle fragilità dell’altro un senso di rivalsa e fisico predominio.

Sarà nel momento dei dialoghi, in quella creazione di nuovi contesti in cui inserirsi con maschere nuove e sempre uguali, che la macchina da presa si cristallizza mettendosi in pausa: immobile, lascia che il processo di creazione e reciproco influenzamento mentale faccia il proprio corso, ferma nell’attesa spasmodica di una miccia pronta di nuovo a esplodere, dando vita a un ulteriore gioco al massacro psicologico, tra recriminazioni, ricatti e bugie.

Un gioco al massacro

“Dimmi che per te è importante. Che non puoi viverne senza”. È un ritornello ridondante, una cantilena ripetuta da entrambi i protagonisti di Sanctuary, questa, una nenia recitata più per autoconvincersi che qualcosa per cui vale la pena vivere esista per davvero, che per pura asserzione. Nel microcosmo alberghiero di Hal e Rebecca nulla pare valere davvero. Che siano 6 milioni di dollari, un orologio prezioso, o una videocamera da scovare, la posta in gioco per questi due personaggi cambia perpetuamente al mutare del ricatto, sintomo che la vera mancanza per loro è da ritrovarsi più profondamente nei meandri di anime incomprese e incapaci di amare, che nella materialità di oggetti da distruggere. E così, nell’arco di un solo spazio, quelli che si attaccano, stuzzicano e uniscono, sono i corpi di mille maschere e diverse personalità.

Una galleria psicotica racchiusa nella cornice di due fisicità opposte, tra chi vuole dominare e chi si lascia manipolare. Rebecca e Hal sono lo Yin e lo Yang di una lotta continua, due pianeti che collidono senza congiungersi mai. Ciò che rimane da questo conflitto di maschere che cadono e altre che ritornano, è la perdita dell’umanità a favore di un istinto animalesco misto a tossica interdipendenza. Così come non possono fare a meno l’uno del potere fisico (ma anche economico) dell’altra, Rebecca e Hal ricercano le fragilità altrui, le sfruttano, per intelaiare una rete succuba di interdipendenza in cui, tra stanze distrutte, e giochi mentali, tutto viene sconvolto in una vertigine visiva lasciata scorrere lungo associazioni mentali, e fotografie rosso fuoco, o blu glaciale. 

Una, nessuna, centomila maschere

In un mondo che tutto cambia all’esternazione di parole che creano con fare divino, non poteva esserci interprete migliore di Margaret Qualley per dar vita all’ipnotica, e imprevedibile, Rebecca. Il volto dell’attrice è pura argilla da modellare sulla forza di mille espressioni. È una mimica volutamente caricata, la sua, che risponde in maniera coerente a un universo cangiante e mai afferrabile come quello di Sanctuary. Che sia l’imitazione del padre di Hal, o la declamazione del giuramento alla bandiera americano, la sua Rebecca è uno, nessuno e centomila sfumature di donna. La modulazione della voce è, infatti, un ponte privilegiato attraverso cui lasciar trasparire mille e altre personalità, facendo della Qualley un’intensa presta-corpo di identità sfuggevoli e pensieri complessi. Quello messo in campo dalla donna è un rifiuto netto di mostrarsi statica e fissa nei confini di un determinato carattere; una volontà che si ripercuote anche nel proprio corpo flessibile e dinamico, perennemente in movimento come la sua mente in elucubrazione.

Rebecca è, insomma, uno tsunami inatteso pronto a ingoiare la terra ferma di un Hal imprigionato in un’insicurezza che lo rende perfetta vittima del gioco al dominio della donna, e preda manipolabile bloccata sull’agire. È solo nel momento di vero terrore, preso dall’angoscia di mostrarsi nelle forme delle proprie fobie e trasgressioni, che Hal si tramuta in un fuoco che tutto arde e distrugge: ma le sue fiamme sono facilmente domate dalle onde di Rebecca, e così quell’incendio personale si spegnerà ben presto all’ombra dell’ennesimo ricatto. Quella che vive tra Hal e Rebecca è pertanto una costruzione psicologica dai tratti dicotomici non solo ben delineata dallo sceneggiatore Micah Bloomberg, ma soprattutto restituita in maniera impeccabile dai due attori che si fanno riflesso speculare di un’altra, indimenticabile, coppia del genere thriller come Laurence Olivier e Joan Fontaine nel capolavoro di Alfred Hitchcock, Rebecca.

Tanto nell’opera hitchcockiana, che in quella delineata da Bloomberg in Sanctuary, il potere va a braccetto con l’ingenuità e la manipolazione, in una danza eterna che tutto prende e decostruisce, fino all’esasperazione, fino alla nausea, fino al dominio della mente e il soggiogamento del corpo. 

The Lost King, recensione del film di Stephen Frears

The Lost King, recensione del film di Stephen Frears

Dopo Victoria e Abdul, il celebre regista inglese Stephen Frears torna a dirigere con The Lost King, storia ispirata alla realtà, rocambolesca e appassionata, tra commedia e dramma, di una comune signora borghese, Philippa Langley, e di come sia riuscita a ingaggiare un gruppo di archeologi e a finanziare gli scavi per cercare la tomba di re Riccardo III. Il film fa parte della sezione Grand Public della diciassettesima Festa del Cinema di Roma.

The Lost King, la trama

Philippa Langley, Sally Hawkins, è un’impiegata di mezza età, divorziata dal marito, Steve Coogan, e con due figli. Dopo aver assistito a teatro al Riccardo III shakespeariano, comincia a vedere il re seduto su una panchina sotto casa sua. È spinta quindi da questa presenza ad indagare meglio la figura del sovrano tra i più discussi della storia inglese, da sempre dipinto come deforme, malvagio e sanguinario, usurpatore del trono britannico. Leggendo e confrontandosi con i membri della Richard III Society, di cui entra a far parte, Philippa si convince che Riccardo III non fosse affatto un sanguinario, e forse neppure gobbo, come lo descrivono le cronache, e parte alla ricerca della sua tomba.

Il suo corpo, infatti, non è stato ancora ritrovato. Con incrollabile determinazione contatta gli enti locali e l’Università di Leicester, dove pensa si trovi il corpo, affinché finanzino lo scavo. Philippa ha infatti individuato un parcheggio dove, all’epoca del re, sorgeva la chiesa di Greyfriars, poi demolita, accreditata da alcuni studiosi come probabile luogo di sepoltura di Riccardo III. Vista la diffidenza degli ambienti accademici, che la considerano una pazza visionaria senza alcuna cognizione scientifica, indice una sottoscrizione pubblica, grazie alla quale partono i lavori. Il loro esito le darà ragione? 

The Lost King, una storia vera

Philippa Langley, la cui vicenda ha ispirato il film, è la fondatrice della sede scozzese della Richard III Society. Scrittrice e produttrice con una passione per “le storie che mettono alla prova la nostra concezione delle verità stabilite” – per usare le parole con le quali ella si descrive – ha raccontato la storia della ricerca di Riccardo III in diversi libri. Nel 2015 è stata nominata Membro dell’Impero Britannico – (MBE) Member of the Most Exellent Order of the British Empire – dalla Regina Elisabetta II.

Da Philomena a The Lost King

Per il suo ritorno dietro la macchina da presa, Stephen Frears, amato ed eclettico regista britannico, nato in quella Leicester in cui è ambientato questo suo nuovo lavoro, sceglie lo stesso team che lo aveva accompagnato per un altro suo film di successo, Philomena. Per The Lost King si avvale infatti della scrittura di Steve Coogan e Jeff Pope. Sceglie anche qui Steve Coogan come interprete, proprio come era accaduto allora, e soprattutto racconta ancora di una ricerca sul filo della storia, protagonista una donna tenace, come lo era la Philomena interpretata da Judi Dench.  L’eroina di tutti i giorni di questa nuova avventura è però esile e minuta. È una sognatrice, ma caparbia e determinata. Le dà corpo efficacemente Sally Hawkins. 

The Lost King fa riflettere con ironia ed eleganza

Il nuovo film di Stephen Frears tocca temi importanti, come la malattia e più in generale, l’essere differenti, difformi rispetto a una supposta “normalità”. Elementi che portano spesso, oggi come ai tempi di Riccardo III, allo stigma e al pregiudizio da parte dell’altro e della società. È in questo essere differente che la protagonista si sente affine al re tanto vituperato. È per sé stessa, oltre che per la memoria storica del personaggio, che desidera riabilitarlo. Sarebbe per lei una doppia vittoria. Anzi tripla, se si considera che si tratta di una donna e, come viene sottolineato nel film, le donne devono lottare assai più degli uomini per farsi valere, in ambienti spesso eminentemente maschili come quello universitario.

Non mancano infatti, neppure stoccate sarcastiche alle istituzioni e agli ambienti accademici. Ambienti elitari, snob, ormai votati al profitto, più che alla ricerca, alla formazione e alla divulgazione del sapere. Frears fa riflettere anche  sui meccanismi che fanno la storia, spesso scritta dai vincitori e crudele coi vinti, fino a distorcerne, almeno in parte, le caratteristiche. Per il regista la speranza per il futuro è dunque fuori dai circoli d’élite, dalle istituzioni e dai consessi d’intellettuali, tra la gente comune, appassionata e combattiva, come la protagonista; tra le brave persone, come suo marito; tra i bambini e i ragazzi delle scuole. 

Lo stile di The Lost King è quello cui il regista britannico ci ha abituato: curato ed elegante, come le musiche di Alexandre Desplat, che accompagnano la vicenda. Allo stesso tempo è sornione, divertito ed eccentrico. Il regista accentua la componente ironica e a volte sarcastica, inserendo perfino quel velo di surreale che si accorda molto bene allo spirito britannico. Riesce a integrarlo perfettamente nella narrazione, nella quale non stona affatto. Rende così il film un godibile ibrido tra giallo, commedia brillante e dramma, in una sintesi tra generi, che solo i grandi maestri sanno operare. 

MIA | Mercato Internazionale Audiovisivo, si chiude l’edizione 2022 nel segno della positività

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Si è chiusa oggi l’ottava edizione del MIA | Mercato Internazionale Audiovisivo, diretto da Gaia Tridente, che si è svolto a Roma dall’11 al 15 Ottobre 2022 a Palazzo Barberini e al Cinema Barberini. Nei 5 giorni del MIA, Roma è stata il punto di riferimento per l’industria audiovisiva, grazie all’ampia partecipazione di executive europei e internazionali. Presenze in crescita del +20% rispetto all’edizione 2021 con oltre 2400 accreditati da 60 paesi del mondo.

Sempre piene le sale del Cinema Barberini dove si sono tenuti gli oltre 70 panel e gli showcase. Tutto esaurito sugli stand di Palazzo Barberini con la presenza delle più importanti società di vendite internazionali italiane ed europee. In crescita anche i numeri del MIA sui social con oltre un milione di  visualizzazioni dell’account twitter dalla scorsa edizione ad oggi, mentre i follower della pagina facebook del MIA sono cresciuti del 27% e quelli di Linkedin del 23%. Numerosa anche la stampa accreditata, 160 giornalisti – di cui il 20% appartenenti alla stampa internazionale – che hanno seguito il MIA in presenza o da remoto tramite la piattaforma MIA Digital – con oltre 600 articoli usciti ad oggi sulle più importanti testate internazionali e italiane.

Concepito come un mercato curatoriale, uno spazio fisico e digitale di ragionamento, conversazione e strategia, il MIA è oggi il più importante evento di settore in Italia ed è entrato a pieno titolo nell’agenda internazionale degli appuntamenti dedicati ai professionisti dell’audiovisivo. Il MIA 2022 si è confermato uno strumento attraverso cui tutto il comparto può mostrare le sue eccellenze, intercettare nuovi partner internazionali e scoprire nuovi modelli di business, ragionare su strategie finanziarie legate alla produzione di contenuti, favorire la circolazione delle opere, facilitare lo sviluppo di diverse forme di sfruttamento e stringere fondamentali rapporti di business con gli operatori provenienti da tutto il mondo. Anche in questa sua ottava edizione il MIA è stato la piattaforma attraverso cui le istituzioni nazionali e internazionali hanno avuto l’occasione per mettere a sistema il lavoro su finanziamenti pubblici e regionali, sul soft money, sulla scoperta dei territori, in cui intessere le relazioni per l’ideazione e il potenziamento delle azioni a sostegno della produzione e della distribuzione.

L’ottava edizione del MIA si chiude oggi con risultati eccellenti. Oltre 2400 accreditati provenienti da 60 paesi del mondo che in queste cinque giornate di lavoro hanno letteralmente invaso il Cinema Barberini e Palazzo Barberini. L’affluenza è stata elevatissima con +20% rispetto alla passata edizione, sold out in tutte le sale e in tutte le conferenze del MIA al Cinema Barberini, per non parlare di Palazzo Barberini, cuore delle attività dei b2b del mercato di co-produzione e delle vendite internazionali. Per la prima volta al MIA abbiamo avuto una demo room di virtual production che ha attratto tantissimi professionisti del settore che hanno potuto vivere un’esperienza virtuale all’interno del meraviglioso museo che ospita il MIA. Questa rappresenta un’edizione di svolta, con una partecipazione internazionale davvero significativa, e Roma si è trasformata in questi 5 giorni in una fucina di discussione, dibattito e confronto tra i più importanti executive internazionali provenienti da Europa, Nord America, Medio Oriente e Africa, Sud America, Asia. Abbiamo costruito un programma editoriale forte, in grado di rappresentare l’intero ecosistema e i suoi paradigmi. Il MIA è oggi la destinazione per l’industria globale, che sta attraversando una fase di rapida evoluzione e di esplosione della produzione di nuovi contenuti”, ha dichiarato Gaia Tridente, direttrice del MIA.

Questa edizione del MIA conferma la vitalità dell’industria del Cinema e dell’Audiovisivo italiano e delle sue articolazioni. Una nuova tappa positiva per il MIA che ogni anno vede aumentare la presenza di operatori nazionali ed internazionali e che favorisce l’esportazione dei nostri prodotti e le coproduzioni. Crescono opportunità di incontri e business con la consapevolezza di quanto sia importante questa filiera per la crescita industriale e il lavoro, e per il Soft Power dell’Italia, ha dichiaratoFrancesco Rutelli, Presidente Anica.

Il MIA, edizione dopo edizione, continua ad affermarsi come un progetto ambizioso e senza dubbio fondamentale perché garantisce agli operatori di settore mondiali una vetrina ricca di prodotti d’eccellenza per potenziali grandi coproduzioni e importanti accordi di business. L’obiettivo resta quello di accendere i riflettori sulla filiera audiovisiva che in Italia ha un valore di circa 1,5 miliardi di euro e coinvolge più di 7mila imprese e circa 200mila occupati tra diretti e indiretti. La nostra industria diventa sempre più competitiva nel panorama internazionale, continua a crescere ed evolversi, come dimostrano anche i dati emersi nel 4° Rapporto APA sulla produzione audiovisiva nazionale, presentato proprio in occasione del Mercato, ha dichiarato il Presidente APA Giancarlo Leone.

Nato nel 2015 per volontà di ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Digitali) presieduta da Francesco Rutelli e APA (Associazione Produttori Audiovisivi) presieduta da Giancarlo Leone, il MIA gode del sostegno di Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, ICE-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, Ministero della Cultura, Ministero dello Sviluppo Economico, Regione Lazio ed è sostenuto anche grazie al supporto di sponsor privati: Unicredit è lo sponsor ufficiale e Fastweb è il partner tecnologico. Il MIA 2022 gode, quest’anno per la prima volta, del patrocinio di Eurimages, il fondo del Consiglio d’Europa.

Sulla piattaforma MIA DIGITAL gli accreditati al mercato potranno vedere o rivedere panel, talks e contenuti di questa edizione.

Nel corso della giornata conclusiva sono stati assegnati i MIA Awards 2022. Questa la lista dei premi e dei vincitori.

Co-Production and Pitching Forum

  • Premio Internazionale ARTEKINO – destinato a sostenere registi e produttori di Film emergenti di tutto il mondo – a Forastera  di  Lucia Alenar Iglesias, prodotto da Lastor Media (Spagna).
  • I Premi ILBE – due premi a sostegno dello sviluppo di progetti presentati al MIA Film co-production Market & Pitching Forum e nella sezione Wanna Taste IT?, dedicata ai progetti cinematografici italiani in fase di sviluppo – sono andati a Through the winter di Anita Rivaroli, prodotto da Indiana Production, e a Brianza di Simone Catania, prodotto da Indyca e Rough Cat.
  • Il Premio Paramount+ –  al miglior progetto presentato al MIA Drama Pitching Forum – è stato vinto da The Abbess, prodotta da Peter Carlton di Warp Films.
  • Il Premio WIFTMI – assegnato da Women in Film, Television and Media Italia a un progetto italiano selezionato nell’ambito del Co-Production Market & Pitching Forum di Animazione, Drama e Film con il maggior potenziale di realizzazione in base a criteri legati all’eliminazione della disuguaglianza di genere, alla rappresentazione positiva ed equilibrata, alla diversità e all’inclusione – è andato alla serie Cosplay Girl di Rodeo Drive, creata da Massimo Bacchini, Eleonora Cimpanelli e Giulio Rizzo. La serie è basata sull’omonimo romanzo di Valentino Notari.

Content Showcase

  • Il Premio Lazio Frames – al titolo che più valorizza il territorio della Regione, presente nelle vetrine di What’s Next Italy, GREENlit e Italians Doc It Better – a The Breath of the Mountain, film animato di Lorenzo Latrofa, prodotto da La Sarraz Pictures.
  • Lo Screen International Buyers’ Choice Award – assegnato ai film selezionati alla vetrina C EU Soon e votati da distributori, agenti di vendita e buyer – a Matria di Álvaro Gago (Spagna), prodotto da Matriuska Producciones, Elastica Films, Avalon P.C., Ringo Media. Sales Agent: New Europe Film Sales.

Hosted

  • I Premi La Bottega della Sceneggiatura: un’iniziativa di Premio Solinas e Netflix per scoprire e promuovere la nuova generazione di autori di serie televisive in Italia.  Primo Premio a Il peso del mondo di Jacopo Cazzaniga. Secondo Premio a Le figlie di Roma di Federica Baggio e Anna Francesca Leccia. Menzione speciale a Galena di Marco Panichella.

Festa del Cinema di Roma: le foto dal red carpet di Romulus II

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Festa del Cinema di Roma: le foto dal red carpet di Romulus II

E’ stata presentata in anteprima alla diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA, secondo capitolo della serie Sky Original firmata da Matteo Rovere e prodotta da Sky Studios, Cattleya e Groenlandia in collaborazione con ITV Studios.

Prima del mito, oltre la leggenda, la nascita di Roma come non è mai stata raccontata in 8 nuovi episodi. ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA arriverà dal 21 ottobre in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW.

Ai protagonisti della prima stagione Andrea Arcangeli (Yemos), Marianna Fontana (Ilia) e Francesco Di Napoli (Wiros) si aggiungonoValentina Bellè (Volevo fare la rockstar, L’uomo del labirinto, Catch-22) nei panni di Ersilia, a capo delle sacerdotesse Sabine; Emanuele Maria Di Stefano (La scuola cattolica, Siccità) che interpreta il re dei Sabini Tito Tazio, figlio del Dio Sancos, il più potente nemico di Roma;Max Malatesta (Favolacce, Il primo Re) è Sabos, consigliere e braccio destro del re dei Sabini; Ludovica Nasti (L’amica geniale) veste i panni di Vibia, la più giovane fra le sacerdotesse Sabine; mentre Giancarlo Commare (Skam Italia, Maschile singolare, La Belva) è Atys, il giovane re di Satricum. Tornano anche Sergio Romano (Amulius), Demetra Avincola (Deftri) e Vanessa Scalera (Silvia).

Come già la prima, venduta da ITV Studios – il distributore internazionale – in più di 40 territori, anche la seconda stagione della serie è stata interamente girata in protolatino. Il team di regia è formato da Matteo Rovere, Michele Alhaique ed Enrico Maria Artale, già registi della prima stagione, e da Francesca Mazzoleni (Punta Sacra, Succede). Alla sceneggiatura tornano Filippo Gravino e Guido Iuculano, cui si uniscono nella writers’ room Flaminia Gressi e Federico Gnesini.

La trama

Yemos, Wiros, Ilia, il gruppo di Ruminales e i cittadini di Alba a loro fedeli si sono insediati in quella che un tempo era Velia, consacrandola regno libero e indipendente e dandole il nome di ROMA. È per questo che Tito Tazio, giovanissimo re dei Sabini, figlio del dio Sancos, temuto e venerato dal suo popolo, temendo l’espansione del regno oltre i confini, invita i due re per un rito che si rivelerà un’imboscata volta alla sottomissione. In questa terra inospitale, Yemos e Wiros strapperanno al re le sacerdotesse Sabine, a lui molto care, in un gesto sacrilego ma inevitabile. Quando i Sabini invadono il Lazio per reclamare le donne, Yemos e Wiros restano fermi sulle loro posizioni ma di fronte a guerra e distruzione il loro sodalizio inizia a mostrare i segni di una crisi imminente, perché a Roma può esserci un solo re. Chi prenderà il nome di ROMULUS?

ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA è inoltre la prima serie Tv italiana certificata totalmente carbon neutral, anche a livello internazionale. Durante la fase di produzione è stata avviata una stretta collaborazione con Zen2030, società benefit italiana che ha come obiettivo la riduzione dell’impatto ambientale dell’intero settore audiovisivo italiano, sulla via delle zero emissioni nette. ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA ha quindi potuto beneficiare dell’applicazione del Protocollo Zen2030, finalizzato a ridurre l’impronta di carbonio delle produzioni cinematografiche fino a renderle carbon neutral. Una scelta in linea con l’impegno del gruppo Sky che, con la campagna Sky Zero, punta a essere la prima media company in Europa a diventare Net Zero Carbon entro il 2030.

ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA | Dal 21 ottobre in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW

Il principe di Roma: trailer del film con Marco Giallini

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Il principe di Roma: trailer del film con Marco Giallini

Guada il trailer de Il principe di Roma, con Marco Giallini, Giulia Bevilacqua, Filippo Timi, Sergio Rubini, Denise Tantucci, Antonio Bannò, Liliana Bottone, Massimo De Lorenzo con Andrea Sartoretti e con Giuseppe Battiston. In anteprima nella sezione GRAND PUBLIC alla XVII edizione della Festa del Cinema di Roma.

Roma, 1829. Bartolomeo è un uomo ricco e avido che brama il titolo nobiliare più di ogni cosa. Nel tentativo di recuperare il denaro necessario a stringere un accordo segreto con il principe Accoramboni per ottenere in moglie sua figlia, si troverà nel bel mezzo di un sorprendente viaggio a cavallo tra passato, presente e futuro. Accompagnato da compagni d’eccezione dovrà fare i conti con sé stesso e conquistare nuove consapevolezze.

Festa del cinema di Roma: Berenice Bejo e Michel Hazanavicius sul red per Cut! Zombi contro zombi

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E’ stato presentato alla Festa del cinema di Roma il film Cut! Zombi contro zombi, il nuovo film del regista Michel Hazanavicius che ha sfilato sul red cerpet di Roma al fiando della moglie e interprete Berenice Bejo.

Il film racconta la storia di una troupe cinematografica impegnata con le riprese di un horror a basso budget all’interno di una fabbrica abbandonata. Il gruppo, oltre alle difficoltà di gestione di cast e denaro, si ritroverà a dover fronteggiare una reale invasione di zombie, che porta confusione e terrore sul set. A causa dell’improvvisa occupazione degli spazi da parte dei non morti, la troupe faticherà a distinguere la realtà dalla finzione cinematografica…

Festa del cinema di Roma: le foto dal red carpet de La Cura

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Festa del cinema di Roma: le foto dal red carpet de La Cura

E’ stato presentato ieri alla Festa del cinema di Roma il film La cura. Sul red carpet hanno sfilato in protagonisti, il regista Francesco Patierno e gli interpreti Francesco Di Leva, Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli, Cristina Donadio, Andrea Renzi, Antonino Iuorio, Peppe Lanzetta, Ernesto Mahieux, Giuseppe D’Ambrosio, Eliana Miglio, Maritè Musella, Giancarlo Cosentino, Francesco Biscione, Margherita Romeo, Viviana Cangiano, Francesca Romana Bergamo, Vincenzo Del Prete, Pio Del Prete, Ramon D’Andrea, Giuseppe. Ecco tutte le foto dal red carpet:

LA CURA un film di Francesco Patierno | liberamente tratto da La Peste di Albert Camus, Editions Gallimard 1947 verrà presentato in CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA alla Festa del Cinema di Roma 2022 |una produzione RUN FILM in associazione con IN BETWEEN ART FILM prodotto da Alessandro e Andrea Cannavale con Beatrice Bulgari.

La trama del film

La storia della Peste di Albert Camus, ambientata originariamente in Algeria nel 1947, si sposta nella Napoli dei nostri tempi. Una troupe cinematografica, durante i giorni più duri del lockdown, gira un film tratto dalla Peste di Camus. La realtà delle vite degli attori si alterna alla finzione dei personaggi che interpretano: gradualmente i due piani narrativi si uniscono. Corso Umberto, il rione Sanità, le Terme, la stazione di Mergellina, l’Hotel Oriente, la prefettura, strade, angoli, per lo più deserti: Napoli in pieno lockdown. Una città spettrale e fuori dal tempo per la rilettura contemporanea di Francesco Patierno di La peste di Albert Camus, dove i sentimenti, le paure, i conflitti del libro scivolano armoniosamente dentro il disorientamento generato dalla pandemia, e pezzi di realtà, come un uomo disperato che urla di notte per strada, riflettono il testo. Un ospedale e i suoi medici e volontari, i funzionari, i commercianti, le persone normali, tutti si mescolano con una troupe che sta girando un film sulla Peste, in una coralità drammatica asciutta e coinvolgente. Chi vuole scappare. Chi decide di restare. Ma da soli non si resiste alla paura.

M. Il figlio del secolo: Joe Wright alla regia della nuova serie Sky Original

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Sarà il pluripremiato regista di fama internazionale Joe Wright (L’ora più buia, Espiazione, Cyrano) a dirigere M. Il figlio del secolo, la nuova serie Sky Original adattamento dell’omonimo romanzo di Antonio Scurati vincitore del Premio Strega e bestseller internazionale, che racconta la nascita del fascismo in Italia e l’ascesa al potere del Duce Benito Mussolini.

Wright, che dirigerà tutti gli otto episodi della serie e batterà il primo ciak presso i Cinecittà Studios nelle prossime settimane, ha dichiarato: «Portare sullo schermo un romanzo come “M – Il figlio del secolo” è una sfida incredibile che non vedo l’ora di affrontare. Spero di riuscire a restituire le luci e le ombre di un periodo storico e di un personaggio che, nel bene e nel male, hanno definito un’intera era».

Nell’ambito della diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma, il 18 ottobre il regista inglese sarà inoltre protagonista, insieme agli sceneggiatori Stefano Bises e Davide Serino, dell’incontro “M. La serie”.

M. Il figlio del secolo è una serie prodotta da Sky Studios e da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures, società del gruppo Fremantle, in collaborazione con Pathé.

M. Il figlio del secolo, la trama

La serie ripercorrerà la storia dalla fondazione dei Fasci Italiani nel 1919 fino al famigerato discorso di Mussolini in parlamento dopo l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti nel 1925. Offrirà inoltre uno spaccato del privato di Mussolini e delle sue relazioni personali, tra cui quelle con la moglie Rachele, l’amante Margherita Sarfatti e con altre figure iconiche dell’epoca. Come il romanzo, la serie racconterà la storia di un paese che si è arreso alla dittatura e la storia di un uomo che è stato capace di rinascere molte volte dalle sue ceneri.

Scritta da Stefano Bises (Gomorra – La Serie, The New Pope, ZeroZeroZero, Speravo de morì prima) e Davide Serino (1992, 1993, Il Re, Esterno Notte), la serie racconterà gli accadimenti con accuratezza storica, con ogni evento, personaggio, dialogo e discorso storicamente documentato o testimoniato da più fonti.

M. Il figlio del secolo arriverà in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW in tutti i territori Sky in Europa. La distribuzione internazionale è di Fremantle.

Pubblicato in Italia da Bompiani nel 2018, il romanzo di Antonio Scurati M. IL FIGLIO DEL SECOLO è stato tradotto ad oggi in 46 paesi, ha venduto oltre 600.000 copie. Negli Stati Uniti è edito da HarperCollins.

È il primo di una trilogia dedicata da Scurati al fascismo e a Benito Mussolini: il secondo romanzo è M. L’UOMO DELLA PROVVIDENZA, cui ha fatto seguito da qualche settimana il terzo romanzo della serie bestseller, M. GLI ULTIMI GIORNI DELL’EUROPA, che si concentra sul cruciale triennio tra il 1938 e il 1940.

BIOGRAFIA JOE WRIGHT

Il regista Joe Wright ha studiato al St. Martin’s College di Londra. Con i suoi nove lungometraggi da regista usciti ad oggi, Wright ha collezionato, tra candidature e vittorie, 35 BAFTA, 24 Academy Awards e 12 Golden Globe.

Nel 2005 debutta alla regia di un lungometraggio con ORGOGLIO & PREGIUDIZIO, con Keira Knightley, Matthew MacFadyen, Rosamund Pike e Donald Sutherland. Il film gli ha fatto vincere il Premio BAFTA come miglior regista.

ESPIAZIONE, adattamento del libro di Ian McEwan, esce nel 2007. Scritto da Christopher Hampton e interpretato da Knightley e James McAvoy, il film vince un Oscar per la migliore colonna sonora originale.

Nel 2009 esce il film IL SOLISTA, con Robert Downey Jr. e Jamie Foxx, seguito nel 2011 da HANNA, che vede protagoniste Cate Blanchett and Saoirse Ronan.

Nel settembre 2012 Wright presenta al pubblico ANNA KARENINA con Keira Knightley, Jude Law e Aaron Taylor-Johnson, che vince un BAFTA e un Oscar per i migliori costumi. Poco dopo Wright debutta nel mondo del teatro con TRELAWNY OF THE WELLS in scena al Donmar Theatre, seguito da A SEASON IN THE CONGO con Chiwetel Ejiofor, in scena al Young Vic.

Nel 2015 collabora con la Warner Bros per il lungometraggio PAN – VIAGGIO SULL’ISOLA CHE NON C’È. Il film, che vede Hugh Jackman fra i protagonisti, è una lettera d’amore agli scritti di JM Barrie e segue un giovane Peter mentre viaggia verso l’Isola che non c’è. Nel 2017 esce L’ORA PIÙ BUIA con Kristin Scott Thomas, Lily James e Gary Oldman che vince l’Oscar come miglior attore protagonista per la sua performance nei panni di Sir Winston Churchill.

LA DONNA ALLA FINESTRA è arrivato nel maggio 2021 su Netflix. Il cast comprende Amy Adams, Julianne Moore e Gary Oldman. L’ultimo film di Wright è CYRANO, musical tratto dal “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand. Vede come protagonisti Peter Dinklage, Haley Bennett, Kelvin Harrison Jr. e Ben Mendelsohn.

Il colibrì, recensione del film con Pierfrancesco Favino e Nanni Moretti

Una vita tranquilla, almeno apparentemente, è quella immaginata da Sandro Veronesi nel suo romanzo vincitore del Premio Strega 2020. Una storia difficile da sintetizzare e ricca di temi importanti, che Francesca Archibugi porta in sala – a partire dal 14 ottobre (distribuito da 01 Distribution) – nel film omonimo Il Colibrì. Scelto come titolo d’apertura della rinnovata Festa del Cinema di Roma, e inserito nella sezione Grand Public dedicata al cinema per il grande pubblico, il nuovo film della regista di Vivere colpisce al cuore, ma non solo, visto il cast All-Star riunito per l’occasione.

Quelli di Nanni Moretti e Pierfrancesco Favino spiccano tra i nomi di Kasia Smutniak, Berenice Bejo, Laura Morante, Benedetta Porcaroli, Massimo Ceccherini, Fotiní Peluso e Pietro Ragusa – tra gli altri – ed è paradossalmente tra loro due che si sviluppa il rapporto più importante in Il Colibrì. Tra tante relazioni, amorose o familiari, grandi amori e insopportabili dolori, la tensione che lega Daniele e Marco cambia con il passare del tempo e li lega sempre di più, dalle prime preoccupazioni professionali all’atto più estremo di vicinanza e amicizia.

Chi è il Colibrì?

Favino (che per una curiosa coincidenza, da anni convive felicemente con il soprannome di Picchio) è Marco Carrera, al quale sin da piccolo viene affibbiato quel nomignolo, per via di uno squilibrio ormonale che non lo faceva crescere e sviluppare come dovuto, ma che resta per tutta la vita il Colibrì, sebbene una cura sperimentale gli avesse permesso di avere infine una statura normale. Ed è la sua storia che seguiamo, nella sua quasi interezza, di ricordo in ricordo, saltando da un’epoca a un’altra, in un tempo liquido che va dai primi anni ‘70 fino a un futuro prossimo – il 2030 – nel quale lo Stato italiano si è finalmente deciso a dare una prova da tempo richiesta di umanità e civiltà.

Ma tutto inizia da bambini, quando al mare Marco conosce Luisa Lattes, una ragazzina bellissima e inconsueta. Una passione idealizzata e quindi ineguagliabile, un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà, per tutta la vita. A differenza di quello per la moglie Marina, madre della figlia Adele. Tra coincidenze incredibili e prove durissime, Marco passa da Roma a Firenze, spesso accompagnato dal vigile e amorevole sguardo di Daniele Carradori, lo psicoanalista di Marina, che insegnerà a Marco come accogliere i cambi di rotta più inaspettati.

La forza della vita

Dicevamo della difficoltà di adattare in maniera ineccepibile un intreccio tanto articolato, ricco di personaggi e di connessioni diverse a seconda del momento storico vissuto attraverso il costante alternarsi di passato e presente. Un reticolo esistenziale notevole, che tra momenti da ricordare e parentesi didascaliche non può che dare a tratti la sensazione di non riuscire a legare ugualmente tutti gli elementi. Nonostante la presenza di alcune costanti, veri fulcri della narrazione.

In primis la telefonata che riceve Marco, con cui si apre Il Colibrì e che rivediamo – ogni volta inquadrata diversamente, sempre più da vicino – mano a mano che prende forma il personaggio di Favino e si forma la sua consapevolezza del proprio vissuto. Che passa anche dalle rare e complicate riunioni familiare e dall’evoluzione del suo amore – idealizzato – per la onnipresente Lucia Lattes di Bérénice Bejo. Altro personaggio chiave, testimone distante e ambiguo, forse la figura femminile più interessante tra le varie (dalla Morante, alla sempre eccessiva Smutniak).

Non è mai facile assistere a una agonia, l’altrui come la propria, ma in quella che Il Colibrì descrive come la “strenua lotta che facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra insostenibile” resta la speranza. Di trovare la felicità, dopo tante finzioni e paure, di scoprirsi protagonisti di una vita vera, di non aver sprecato il proprio tempo – come un colibrì, costretto a uno sforzo “assurdo” per restare fermo – e anzi di aver trovato il coraggio di diventarne padroni e disporne nel momento più delicato di questo lungo addio.

Captain America: le tre incarnazioni del MCU in un fan poster

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Captain America: le tre incarnazioni del MCU in un fan poster

L’account Instagram ha realizzato una fanart che riunisce, in un incontro possibile nel Multiverso MCU, le tre incarnazioni di Captain America del Marvel Universe, almeno quelle che abbiamo incontrato fino a questo momento.

Nell’immagine vediamo ovviamente lo Steve Roger di Chris Evans al centro, mentre ai suoi lati c’è Sam Wilson/Anthony Mackie, che ha ufficialmente raccolto il suo testimone alla fine di Avengers: Endgame, e Peggy Carter/Hayley Atwell, che è stata brevemente Cap in Doctor Strange nel Multiverso della Follia e ancora prima in What If…?

Ecco il suggestivo poster di seguito:

Ke Huy Quan, l’attore de I Goonies torna sul set del film di Richard Donner

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La star de I Goonies, Ke Huy Quan, ha recentemente condiviso sui social media il suo emozionante ritorno sul set dopo 36 anni. Dopo aver iniziato come co-protagonista di Harrison Ford in Indiana Jones e il Tempio Maledetto nel 1984, Quan è tornato sul grande schermo nel successo degli anni ’80, I Goonies. L’attore ha interpretato il ruolo di Richard “Data” Wang, un membro di un gruppo di amici nella città di Astoria, nell’Oregon. Conosciuto per la sua personalità esuberante e i suoi gadget folli, Data ha assistito il suo amico Mikey (Sean Astin) nella ricerca del tesoro del pirata Willy l’Orbo.

Dopo il suo ruolo ne I Goonies, Quan ha lottato per mantenere la sua carriera a Hollywood. L’attore ha subito trovato difficile trovare ruoli adatti a lui e ha cominciato a lavorare dietro alla macchina da presa. Dopo aver completato il programma cinematografico presso l’Università della California meridionale, Quan ha lavorato in varie produzioni in tutto il mondo anche come stunt rigger in Canada per X-Men (2000) e assistente alla regia per Wong Kar Wai in 2046. Tuttavia, dopo l’uscita di Crazy Rich Asians, Quan è stato ispirato a tornare alla recitazione. È stato scelto per un piccolo ruolo per il film Netflix Alla ricerca di Ohana, un’avventura familiare chiaramente ispirata a I Goonies, e in seguito ha ottenuto il ruolo di Waymond Wang nell’acclamato Everything Everywhere All at Once.

Dopo 36 anni, Quan è finalmente tornato allo studio di produzione dove aveva originariamente girato parte di I Goonies e si è rivolto a Instagram per condividere il momento. Nelle immagini, Quan indica una targa sul muro della Warner Bros. Stage 16 che presenta un elenco di film importanti girati in loco e che include proprio I Goonies. L’attore ammette di essersi emozionato tornando dopo così tanti anni.

Namor: qual è il futuro del personaggio nel MCU dopo Black Panther 2?

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In una recente intervista con Total Film (tramite The Direct), Tenoch Huerta, che dà vita a Namor in Black Panther: Wakanda Forever, discute del futuro di Namor nel MCU dopo la sua introduzione nel film di Ryan Coogler. Anche se l’attore non rivela nulla di concreto, sembra certamente eccitato dalla prospettiva di esplorare la ricca storia di Namor nel MCU, se gliene verrà data la possibilità.

“Lo spero! Lo spero! Perché voglio un contratto più grande! Voglio più zeri nel mio contratto! No, sto scherzando. Voglio dire, la mitologia attorno a Namor è enorme. Puoi impazzire con tutta questa cultura aspetto, e puoi creare un sacco di cose con Namor, perché sono una fantastica fonte di storie, mitologia, religione e tutto il resto. Quindi spero che decidano di continuare con il personaggio, oltre la sua storia o altro”.

Black Panther: Wakanda Forever, le storie che racconta il primo trailer

I dettagli ufficiali della trama sono ancora nascosti, ma ci è stato assicurato che il sequel del MCU onorerà il defunto Chadwick Boseman mentre continuerà l’eredità del suo personaggio, T’Challa. Black Panther: Wakanda Forever arriverà nelle sale l’11 novembre 2022. Il presidente dei Marvel Studios, Kevin Feige, ha confermato che T’Challa, il personaggio interpretato al compianto Chadwick Boseman nel primo film, non verrà interpretato da un altro attore, né tantomeno ricreato in CGI. Il sequel si concentrerà sulle parti inesplorate di Wakanda e sugli altri personaggi precedentemente introdotti nei fumetti Marvel.

Letitia Wright (Shuri), Angela Bassett (Ramonda), Lupita Nyong’o (Nakia), Danai Gurira (Okoye), Winston Duke (M’Baku) e Martin Freeman (Everett Ross) torneranno nei panni dei rispettivi personaggi interpretati già nel primo film. L’attore Tenoch Huerta è in trattative con i Marvel Studios per interpretare il villain principale del sequel.

Daniel Radcliffe porge omaggio allo scomparso Robbie Coltrane

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Daniel Radcliffe porge omaggio allo scomparso Robbie Coltrane

Sono tanti gli attori del panorama mondiale che, nelle ore serali di ieri, hanno rilasciato dichiarazioni e omaggi alla memoria di Robbie Coltrane, attore scozzese scomparso all’età di 72 anni. Tra questi anche Daniel Radcliffe ha rilasciato una dichiarazione affidata a Deadline. 

Coltrane era stato compagno di set del giovanissimo Radcliffe in tutta la fase di produzione, oltre dieci anni, del franchise di Harry Potter, in cui Robbie interpretava il personaggio chiave di Rubeus Hagrid, il Custode delle Chiavi e dei Luoghi di Hogwarts e primo amico “magico” del piccolo Harry (Daniel Radcliffe). Ecco cosa ha dichiarato Radcliffe:

“Robbie era una delle persone più divertenti che abbia mai incontrato e ci faceva ridere costantemente da bambini sul set. Ho ricordi particolarmente affettuosi di lui che teneva alto il morale durante la lavorazione de Il Prigioniero di Azkaban, quando ci nascondevamo tutti dalla pioggia torrenziale per ore nella capanna di Hagrid e lui raccontava storie e scherzava per tenere alto il morale. Mi sento incredibilmente fortunato di aver avuto modo di incontrarlo e lavorare con lui e sono molto triste per la sua morte. Era un attore incredibile e un uomo adorabile”.

Ryan Reynolds porterà al cinema l’attrazione di Disneyland Society of Explorers and Adventurers

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Ryan Reynolds e il co-regista di Strange World stanno sviluppando un film basato sull’attrazione dei parchi a tema Disney Society of Explorers and Adventurers. Disneyland e Disney World hanno avuto grandi influenze sul mondo in generale. Con la capacità di questi parchi di immergere ed emozionare i visitatori con un layout sapientemente progettato e le numerose offerte, i parchi a tema non hanno mostrato segni di rallentamento. L’inclusione di contenuti Marvel e Star Wars nei parchi aggiunge divertimento generale e continua a giustificare la convinzione di Walt Disney che i parchi a tema non conosceranno mai crisi e continueranno a crescere e cambiare.

E’ già capitato in passato che la Disney usasse attrazioni dei parchi a tema come base per dei film. Chiaramente l’esempio più illustre è Pirati dei Caraibi in quanto ha dimostrato di essere l’attrazione più redditizia dei parchi a tema per avviare un franchise cinematografico, segue poi Jungle Cruise di Dwayne Johnson, che ha debuttato con recensioni modeste e sottoperformato al botteghino durante la pandemia, ma sta ottenendo ora un discreto seguito. Oltre ai due, la Disney ha provato ad adattare altre giostre che però non hanno avuto un impatto al botteghino tra cui Country Bears, Mission to Mars, Tomorrowland e The Haunted Mansion, e con la Disney che sta attualmente riavviando quest’ultimo, sembra che ora stiano arricchendo ulteriormente il loro elenco di progetti in base alle loro attrazioni.

Come annunciato da The Hollywood Reporter, Ryan Reynolds sta collaborando con il co-regista di Strange World Qui Nguyen per produrre un adattamento cinematografico di  Society of Explorers and Adventurers. Il film non sarà correlato alla serie televisiva Disney+ sviluppata da Ron Moore, ma sarà invece un film autonomo che esplora il mondo di SEA ai giorni nostri e includerà elementi soprannaturali e nuove idee non presenti nelle giostre originali. Nguyen scriverà il nuovo lungometraggio mentre Reynolds produrrà il film sotto il suo marchio Maximum Effort.

Con Deadpool 3 che verrà prodotto sotto l’ombrello della Walt Disney Company, sembra che per Ryan Reynolds si stia inaugurando una collaborazione importante con lo Studio.

The Batman: Michael Giacchino non ha mai ascoltato QUELLA canzone dei Nirvana prima di comporre la colonna sonora

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In una recente intervista con SlashFilm, il compositore Michael Giacchino ha riflettuto sul periodo trascorso a mettere insieme la colonna sonora di The Batman. Il compositore della soundtrack del film DC ha rivelato di non aver mai ascoltato la canzone dei Nirvana, chiave per la colonna sonora del film, “Something in the Way”, e che aveva iniziato a scrivere la musica prima ancora che Robert Pattinson venisse scelto per interpretare il protagonista.

“Questo è davvero imbarazzante, ma non conoscevo quella canzone. Non conoscevo affatto quella canzone. Mi sento come un vecchio che dice che non lo sapeva. Certo, ora lo so. Nel momento in cui stavo scrivendo, non ne avevo idea. Non lo sapevo. È stata una fortuna eterna che quelle due tracce (il tema di The Batman e la canzone dei Nirvana, ndr) siano stati in grado, in qualche modo con un piccolo ritocco, di coesistere per i trailer nel modo in cui hanno fatto. Ha funzionato davvero bene. Non era qualcosa che era stato pianificato in anticipo, era solo una specie di, ho scritto quel tema dopo aver parlato della sceneggiatura con [il regista Matt Reeves] per così tanto tempo e aver parlato dei personaggi e di tutto il resto. Il tema è stato scritto, non so, due anni prima che il film fosse finito. Matt aveva quel tema prima che scegliessero ufficialmente Robert Pattinson. Voglio dire, è stato pazzesco averlo così presto. È raro che succeda. Tutto ha funzionato. E’ stata solo una fortuna. Il tema principale di Batman è proprio quel dun dun dun, in un certo senso vivono insieme così bene.”

The Batman, il film

The Batman diretto da Matt Reeves è uscito nelle sale il 4 marzo distribuito da Warner Bros Italia. Protagonisti del film insieme a Robert Pattinson nei panni di Bruce Wayne, ci saranno anche Colin Farrell (Oswald Chesterfield/Pinguino), Zoe Kravitz (Catwoman), Jeffrey Wright (Jim Gordon), Paul Dano (Enigmista) e Andy Serkis (Alfred). Infine, John Turturro sarà il boss Carmine Falcone. Nel cast anche Peter Sarsgaard che sarà Gil Colson, il Procuratore Distrettuale di Gotham.

Due anni trascorsi a pattugliare le strade nei panni di Batman (Robert Pattinson), incutendo timore nel cuore dei criminali, hanno trascinato Bruce Wayne nel profondo delle tenebre di Gotham City. Potendo contare su pochi fidati alleati – Alfred Pennyworth (Andy Serkis) e il tenente James Gordon (Jeffrey Wright) – tra la rete corrotta di funzionari e figure di alto profilo della città, il vigilante solitario si è affermato come unica incarnazione della vendetta tra i suoi concittadini. Quando un killer prende di mira l’élite di Gotham con una serie di malvagi stratagemmi, una scia di indizi criptici spinge il più grande detective del mondo a indagare nei bassifondi, incontrando personaggi come Selina Kyle / alias Catwoman (Zoe Kravitz), Oswald Cobblepot / alias il Pinguino (Colin Farrell), Carmine Falcone (John Turturro) e Edward Nashton / alias l’Enigmista (Paul Dano). Mentre le prove iniziano a condurlo più vicino alla soluzione e la portata dei piani del malfattore diventa chiara, Batman deve stringere nuove alleanze, smascherare il colpevole e rendere giustizia all’abuso di potere e alla corruzione che da tempo affliggono Gotham City.

Mahmood: la recensione del documentario di Giorgio Testi

Mahmood: la recensione del documentario di Giorgio Testi

“Non sono mai stato bravo a parlare di me, per questo ho iniziato a scrivere canzoni”. Si apre con questa dichiarazione d’intenti il documentario Mahmood, diretto da Giorgio Testi e scritto da Virginia W. Ricci. Dedicato al celebre cantautore che a neanche trent’anni ha già vinto due volte il Festival di Sanremo, il film, che fa parte delle proiezioni speciali del Panorama Italia di Alice nella città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, ancor prima di essere un’opera celebrativa nei confronti del cantante, vuole dar prova della sua umiltà, della sua umanità e, soprattutto, della sua sensibilità.

Si ripercorrono dunque le principali tappe della sua vita e del suo percorso artistico, dai primi concorsi alla delusione di X Factor, dalla vittoria a Sanremo Giovani con Gioventù bruciata a quelle a Sanremo Big con Soldi e Brividi, dalle partecipazioni all’Eurovision Song Contest fino al recente tour europeo andato sold out. Quello di Mahmood è un percorso ricco di ostacoli, speranze, incidenti di percorso, cadute e ripartenze che hanno portato infine al successo tanto sperato, dietro il quale si nascondono profondi dolori personali da metabolizzare attraverso la musica e un forte amore, ricambiato, per la propria famiglia.

Mahmood: dallo sgabuzzino di casa ai palchi d’Europa

Quello dedicato a Mahmood è solo l’ultima di una serie di opere audiovisive dedicati a popolari star della scena musicale italiana. Da Ferro, documentario su Tiziano Ferro a Famoso, con protagonista il trapper Sfera Ebbasta, fino al più recente Laura Pausini: Piacere di conoscerti, che ripercorre la vita della celebre cantante in modo molto particolare. Di Mahmood non si può certo dire che proponga un approccio originale da un punto di vista narrativo. Il film è infatti costruito seguendo un ordine cronologico che se da un lato offre un ovvio e piacevole ordine, dall’altro rischia di rendere il progetto scontato e dimenticabile.

Se ciò non avviene del tutto lo si deve in particolare a due precisi aspetti, il cui “merito” di entrambi va prima di tutto allo stesso Alessandro Mahmoud. Il primo è relativo alle riprese dei concerti sostenuti nel 2022 dal cantante in alcune capitali europee. Come ormai risaputo, Mahmood ha molta cura per le immagini che lo riguardo, i look da sfoggiare, le luci e le scenografie con cui interagisce. La sua attenzione per questi dettagli fa sì che i suoi concerti risultino dei veri e propri spettacoli visivi e riproponendo alcuni frammenti di essi anche lo stesso film acquisisce un po’ per osmosi quel fascino.

Il secondo aspetto è dato dal vissuto di Mahmood. Non sono infatti tanto i retroscena dietro i suoi successi musicali a generare interesse, bensì i racconti che egli offre riguardo il suo ardente desiderio di fare musica nonostante le tante porte in faccia, riguardo il rapporto con l’amata madre, con quel padre assente e con quel desiderio di potersi sentire a casa. Di Mahmood si è detto che il suo sguardo sembra sempre rivolto altrove, come se ogni volta dovesse partire per una nuova meta o tornare a casa dopo un lungo viaggio, più nello specifico magari in quello sgabuzzino di casa dove da piccolo racconta di essersi sentito al sicuro, costruendo i propri mondi di fantasia.

Mahmood-documentario

Lo sguardo di Mahmood

Il film offre dunque un maggior approfondimento della vita di Alessandro Mahmoud prima di diventare il Mahmood cantante capace di emozionare persone proveniente di contesti diversi, infrangendo barriere linguistiche e culturali. All’interno di un documentario dalla struttura canonica, dunque, si cerca di far emergere quel mondo emotivo che Mahmood non ha mai saputo esprimere se non attraverso le proprie canzoni, svelando tutto di sé attraverso queste. Addirittura la madre, che fornisce una delle testimonianze più belle del film, racconta di aver conosciuto meglio suo figlio attraverso tali testi che non tramite le loro conversazioni quotidiane.

Si può naturalmente scegliere di credere o non credere all’umiltà che il cantante mette sul piatto con questo documentario. Mahmood è notoriamente un artista molto divisivo, controverso e spesso difficile da definire (cosa, quest’ultima, non necessariamente negativa). Il film manca di essere tutto ciò, non raggiungendo dunque quella somiglianza tra artista e opera a lui dedicata che in altri casi simili si è dimostrata vincente, ma è certamente emozionante nell’offrire il racconto di un ragazzo che ha creduto talmente tanto nei propri sogni da riuscire infine a realizzarli. Un discorso che certamente toccherà l’animo di quanti, si spera molti, coltivano i propri sogni con cura e impazienza.

Ninjababy, recensione del film di Yngvild Sve Flikke

Ninjababy, recensione del film di Yngvild Sve Flikke

Crescere, che fatica! Se lo deve essere ripetuta spesso Rakel, la protagonista di Ninjababy, dal 13 ottobre nelle sale italiane. Il dramedy norvegese della regista Yngvild Sve Flikke, presentato al TIFF 2021 e al Festival di Berlino e tratto dalla graphic novel Fallteknikk, illustra tutti gli spettri delle gravidanze inaspettate da una prospettiva arguta e comica al punto giusto, collegando all’enfasi fumettistica il conflitto di una mamma in divenire e di una protagonista a cui deve essere ricordato che è padrona della propria storia.

Ninjababy: dialogare con la nostra creatura

Un bambino si è depositato inaspettamente nel ventre di Rakel (Kristine Kujath Thorpe) e se c’è una cosa che questa sa della sua vita è che non lo vuole. Sotto ai vestiti ingombranti e al disordine apparente di un’esistenza che non padroneggia, Rakel è una sognatrice dalla fervida immaginazione, aspirante fumettista che disegna sempre la sua quotidianità. Forse è proprio la matita, il segno, il mezzo perfetto per cercare di stabilire un contatto con questa figura inafferrabile, un Ninjababy che vuole continuare a lottare per stare nella pancia della mamma.

Parlare con chi non conosciamo ancora è quasi impossibile ed è per questo che l’unico modo che Rakel ha per instaurare un dialogo con l’inaspettato è tramite la sua creatività. Proiettando sull’effetto figurativo un’idea a cui non siamo in grado di dare forma, riusciamo quantomeno a pensare di poterne avere il controllo. La verità con cui presto dovrà però confrontarsi Rakel è che la creatura è sì figlia di una madre che rinnova la propria coscienziosità, ma è illustratrice a suo modo: vaglia assieme a lei le scelte che potrebbe effettuare, suggerisce ciò che sarebbe meglio per lui/lei, avanza proposte di collaborazione, quasi come se si stesse prefigurando un dialogo tra colleghi.

Chi è la vera ninja?

Con il proprio Ninjababy, piccolo ma impavido lottatore, linfa creativa che Rakel ha sempre portato con sè ma si è probabilmente assopita in una quotidianità che ha lasciato il passo alla negligenza, la giovane madre (ri)vive in maniera inusuale un’infanzia di cui non ci viene detto niente: l’unico tratto della backstory di Rakel che conserviamo è il fatto che studiasse design ma si sia ritirata dall’università e, al di là di una sorellastra che conosceremo lungo il corso del film, non sappiamo nulla sui suoi genitori. Partendo già dall’idea di un personaggio dal passato frammentato, Ninjababy fa egregiamente i conti con la destrutturazione ulteriore del nucleo famigliare, ormai scevro delle categorie genitoriali archetipiche, e che ha assunto un’idea di fluidità, più legata allo scegliere chi vogliamo lungo il nostro cammino.

Nel passaggio di testimone tra la bambina che (non) è stata e che diventa durante il film, Rakel assume consapevolezza dello scambio, dialogico ed emotivo, necessario per dare forma a un mondo disordinato, con la comicità sottile tipica del cinema nordico ma un ritmo da vero e proprio coming-of-age statunitense. Kristine Kujath Thorp è la vera ninja del film: ipnotica e abilissima nel costruire la caratterizzazione di Rakel partendo dallo sguardo, fulcro vero e proprio dei conflitti che ne attraversano l’interiorità.

Cosa succede quando ci troviamo faccia a faccia con la creatura che, fino a pochi secondi prima, era solo una nostra proiezione? Ninjababy sfrutta ogni svolta di trama per fare entrare lo spettatore sempre più nella mente di Rakel, favorendo il processo empatico anche con le parti più astruse del suo dialogo con il feto, che si rivelano essere i frangenti in cui in realtà riusciamo a scorgere molto più a fondo le crepe di una donna che, forse, non è stata abbastanza bambina.

Ninjababy: ti regalo un libro

Forse Rakel non ha mai imparato veramente il linguaggio dell’affetto, quasi certamente fatica a essere anche madre di se stessa. Allora, la scoperta della maternità passa attraverso la percezione idiomatica del suo, particolarissimo, linguaggio. Il figlio che aspetta deve diventare libro, l’idea deve assumere contorni e forma visuale per fare comprendere a Rakel che madre e figlia si sono fatte a vicenda, che i confini tra creatore e creatura sono estremamente labili quando di mezzo c’è un legame indissolubile.

NinaBibbi: nell’atto del nominare, nello scegliere chi si vuole essere e dove ci si rincontrerà, assistiamo alla sinergia massima tra Rakel e il suo bimbo: nel conservare parte del nome che lo stesso Ninjababy avrebbe voluto – Angelina, per ragioni spassosissime – Rakel decide di lasciarle quello che vorrebbe le riservasse il futuro. Contemporaneamente, in questa parola-macedonia, trattiene l’impronta creativa che questo bambino porterà sempre con sè; il modo, di certo anomalo e inconsapevole in cui Rakel, sotto mille strati di vestiti sdruciti, si è sempre curata del suo piccolo ninja.

The Midnight Club: come finisce la storia di Dusty?

The Midnight Club: come finisce la storia di Dusty?

Di tutte le storie narrate dai personaggi di The Midnight Club, quella di Kevin è la più ingombrante. Il racconto riguarda un serial killer di nome Dusty e ha un significato importante per i personaggi della serie tv Netflix. La storia si divide in tre parti e lascia col fiato sospeso per due intere puntate. Quando finalmente scopriamo il significato del racconto, appare chiaro perché la narrazione è così prolungata in The Midnight Club.

Kevin racconta di Dusty, un ragazzo che drante il giorno è un perfetto studente ma di notte si trasforma e uccide spietatamente le persone. Dusty agisce in modo metodico: usa un martello per fare fuori le vittime e le seppellisce in una grotta segreta. Inoltre, su ogni scena del crimine Dusty lascia un biglietto con la clessidra, il simbolo del culto Paragon. Dusty è perseguitato dai fantasmi delle sue vittime e da quello di sua madre. DI volta in volta, la mamma defunta pronuncia al figlio solo poche parole: dice i nomi delle persone che Dusty deve uccidere. L’attività notturna di Dusty assume una piega inaspettata quando l’assassino fa amicizia con Sheila, una cara amica della sua ultima vittima Nancy. Sarà proprio Sheila ad incastrare Dusty.

Cosa succede a Dusty nella storia narrata da Kevin

The Midnight Club Kevin

Sperando di ritrovare l’amica scomparsa, Sheila si reca insieme a Dusty a casa di Nancy. Non trovando nessuno, chiama la polizia. I commissari iniziano a sospettare che si tratti di un omicidio. Nonostante ciò, i sospetti non cadono su Dusty. Il detective a cui viene affidato il caso crede che il serial killer che usa il biglietto di Paragon si muova a piede libero da almeno quarant’ani. Al contrario il detective, interpretato da Georgina Stanton di Brightcliffe Hospice, si serve di Dustyper saperne di più sulla sua generazione. La situazione inizia a scaldarsi ancora di più quando lo spirito della madre di Dusty (interpretata da Veronika Hadrava di Resident Alien) rivela al figlio che la sua prossima vittima dev’essere Sheila.

Dusty accetta a malincuore la sentenza della madre: invita Sheila a casa sua, le confessa la folle tradizione omicida della sua famiglia e poi solleva il martello per colpirla. Tuttavia, Dusty viene sopraffatto dai suoi sentimenti per Sheila ed esita. Non appena sua madre percepisce la sua titubanza, striscia nella stanza. Prontamente Dusty la colpisce con il suo martello. Così facendo, non solo lascia fuoriuscire dalla madre la forza oscura che l’ha posseduta per buona parte di The Midnight Club, ma libera anche gli spiriti di tutte le sue vittime dal loro stato di limbo. La forza malvagia entra nel corpo di Dusty e prova a costringerlo a finire il lavoro. Dusty resiste e, per evitare di fare danni, chiede a Sheila di ucciderlo. Lei lo mette soltanto KO e chiama la polizia. Alla fine, Dusty viene incarcerato e passa il resto della sua vita in isolamento, dove continua a lottare per domare le voci malvagie nella sua testa.

Il senso della storia di Dusty in The Midnight Club

The Midnight Club

La storia di Dusty è il riflesso della vita reale del suo narratore. Nel racconto, Dusty non può fare a meno di seguire gli ordini omicida della madre. In The Midnight Club, Kevin (interpretato da Igby Rigney di Midnight Mass) non riesce a sottrarsi dall’ombra della perfetta immagine che i suoi genitori hanno di lui. Ogni volta che i genitori di Kevin vanno a trovarlo, parlano solo di quanto fosse bravo a scuola. Kevin, come Dusty, vuole liberarsi dalle aspettative dei suoi genitori, ma fatica a farlo. I terribili omicidi di Dusty riflettono il peso del ricordo della vita che Kevin conduceva prima di entrare nell’ospizio. Kevin vorrebbe chiudere le sue relazioni passate e ricominciare da capo – vuole rompere con la sua ragazza e lasciare la sua vecchia scuola – ma non riesce a trovare le parole giuste per farlo. I fantasmi delle vittime di Dusty in The Midnight Club alludono a tutte i rapporti che Kevin lascia in sospeso per paura di ferire i suoi cari.

Alla fine, Kevin sceglie di lasciare la sua ragazza, non senza sensi di colpa. Kevin si punisce, proprio come fa Dusty nel finale della sua storia: invece di darsi una seconda possibilità con Sheila, l’assassino sceglie una vita di sacrifici e di isolamento. Fortunatamente, la storia di Kevin ha una piccola svolta poositiva nel finale di The Midnight Club. Ilonka aiuta Kevin a capire che può capitare di ferire le persone che si amano, ma questo non è un motivo per vivere senza affetti. The Midnight Club si conclude con un augurio: anche se Kevin e Dusty si sono fatti sopraffare dalla colpa e dagli errori del loro passato, tutti meritano un nuovo inizio.

L’imperatrice: la vera storia dietro la serie Netflix

L’imperatrice: la vera storia dietro la serie Netflix

La serie Netflix L’imperatrice racconta in 6 episodi la storia dei primi anni di vita dell’imperatrice Elisabetta d’Austria. Tutti conoscono Elisabeth per il celebre adattamento cinematografico: la trilogia di Sissi degli anni Cinquanta con protagonista l’affascinante Romy Schneider.

Settant’anni dopo, L’imperatrice fornisce una nuova interpretazione della drammatica storia d’amore tra Elisabeth e Franz. La prima (e per ora unica) stagione della serie è incentrata sul fatidico incontro tra la giovane duchessa bavarese Elisabetta (Devrim Lingnau) e l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe I (Philip Froissant). Come spesso accade con i drammi storici, L’imperatrice mescola fatti storici e fiction.

L’obiettivo non è quello di fornire la massima accuratezza storica, ma piuttosto quello di narrare una storia d’amore avvincente che possa affascinare il pubblico. Tuttavia, la curiosità rimane: chi era davvero Elisabetta e quali lotte ha dovuto affrontare per diventare la leggendaria imperatrice d’Austria?

Realtà e finzione

L'imperatrice Netflix

La duchessa Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach era la terzogenita e la seconda figlia femmina del duca Massimiliano Giuseppe di Baviera e di sua moglie Ludovica. Anche al tempo era nota come Sissi ed era una ragazza affascinante e la libertina che viveva con la sua famiglia nel castello di Possenhofen. Come ogni giovane del tempo, Sissi sognava la felicità e il vero amore. Nel frattempo, alla corte viennese Sofia, la madre autoritaria di Francesco Giuseppe (Melika Foroutan) creava alleanze per trovare in fretta una moglie per il monarca 22enne. La premura era stata scatenata da un tentativo di assassinio a spese di Francesco (il 18 febbraio 1853), fatto che avrebbe potuto lasciare l’Austria senza un erede maschio.

In realtà la duchessa bavarese non era stata la prima scelta di Sofia. Il giovane imperatore Francesco Giuseppe era piuttosto schizzinoso: disprezzava sia la principessa Anna di Prussia che la principessa Sidonia di Sassonia. Alla fine, la decisione era ricaduta sulla figlia della duchessa Ludovica di Baviera, Helena (Elisa Schlott). Francesco, impaziente di vedere la sua promessa sposa, si era messo in viaggio verso Bad Ischl, la piccola città austriaca in cui erano attese la duchessa Ludovica e la figlia. Tuttavia, nel viaggio il giovane imperatore rimane rapito dalla figlia quindicenne della zia, Elisabetta appunto.

La serie Netflix è fedele ai fatti storici?

'imperatrice matrimonio

L’imperatrice è fedele alla realtà solo in una certa misura. Sicuramene, quello a Bad Ischl non è stato il primo incontro tra Francesco e i suoi cugini. In realtà, Elisabetta e Francesco Giuseppe fanno conoscenza nel giugno 1848, quando la duchessa Ludovica va a far visita a Innsbruck alla sorella Sofia. All’epoca, Elisabettaera sicuramente troppo giovane per suscitare l’interesse del futuro imperatore, troppo impegnato ad occuparsi di eventi rivoluzionari che minacciavano di far crollare la monarchia. Inoltre, L’imperatrice mostra una versione romanzata dell’incontro. L’audace mossa dei “due balli di fila” di Francesco Giuseppe (segno rivelatore di un imminente fidanzamento), non è stata un’iniziativa spontanea, ma nasce dal piano di Sofia. La proposta di fidanzamento ufficiale viene fatta in modo molto più formale dall’arciduchessa Sofia, che organizza con la sorella l’accordo tra le famiglie per far sposare Elisabetta e Francesco Giuseppe.

Poco dopo il matrimonio, Elisabetta scopre che la favola d’amore è solo un’illusione. Fin dai primi giorni, la giovane imperatrice si sente costretta in una trappola per topi. L’etichetta rigorosa e gli ordini del tribunale soffocano lo spirito libero di Sissi. Per non parlare delle pressioni della suocera, che controlla costantemente la sua condotta. Seppur romanzati nella serie, gli scontri tra Elisabetta, l’arciduchessa Sofia e il fratello di suo marito (Johannes Nussbaum) – entrambi desiderosi di prendere il trono imperiale – hanno un fondamento reale: Sissi ne parla anche nei suoi diari.

Un altro personaggio di spicco ne L’imperatrice è infatti il fratello minore di Francesco Giuseppe, l’arciduca Ferdinando Massimiliano d’Asburgo. Anche se non ci sono prove dirette delle intenzioni di Massimiliano di rovesciare Francesco Giuseppe, il fatto che il minore appoggiasse le idee liberali e più progressiste costituiva una minaccia dormiente per il maggiore.

Halloween Ends, recensione del film con Jamie Lee Curtis

Halloween Ends, recensione del film con Jamie Lee Curtis

Halloween Ends arriva nelle sale cinematografiche 44 anni dopo il primo film di John Carpenter del 1978 e si presenta come il 13° film di una delle saghe horror più longeve in assoluto. La nuova trilogia a cura di David Gordon Green, iniziata nel 2018, è stata concepita come una diretta continuazione della prima, ovviando a tutti i remake che ci sono stati proposti nel corso degli anni e convogliado l’attenzione del pubblico sul ritorno del personaggio di Laurie Strode interpretato nuovamente dall’impavida e magnetica Jamie Lee Curtis.

Halloween Ends: la paranoia del Male

Senza entrare nel territorio degli spoiler, chi ha seguito la saga sa che Laurie è stata affidata alla nipote Allyson dopo il drammatico finale di Halloween Kills. Dopo aver vissuto come una sorta di predatrice con l’unico scopo di uccidere Michael Myers e il massacro che ne è seguito, Laurie opta per una vita più tranquilla, cercando di ricostruire gradualmente la sua vita. Nonostante siano passati quattro anni in cui non si sa nulla di lei, la paranoia sembra essersi insediata a Haddonfield, dove la paura suscitata dal brutale serial killer continua a mietere vittime.

Halloween Ends inizia con una sequenza promettente, organizzata addirittura secondo quella che era la tipica tecnica di ripresa degli oggetti di scena hitchockciani. A Haddonfield, nella notte di Halloween del 2019, Corey Cunningham (Rohan Campbell), personaggio centrale di questo terzo film, viene scelto come babysitter di un ragazzino dispettoso di nome Jeremy. Quando questi viene accusato di aver ucciso il piccolo Jeremy, si scatena un’ondata di violenza e terrore che costringerà Laurie a confrontarsi per l’ultima volta con il male che ha reso la sua vita un inferno.

È uno strano incidente. Corey non ha fatto nulla di male. Ma, anche se è stato assolto dall’accusa di omicidio colposo, rimane emarginato dalla comunità di Haddonfield, che inizia a designarlo come il “babysitter sensitivo” che ha ucciso un bambino. Non sarebbe l’unica persona nella saga ad essere accusata di cose che non ha fatto. Si potrebbe pensare che Laurie Strode, a questo punto, sia una sorta di eroina locale, ma no. La gente ora la ritiene responsabile dell’attentato a un bambino. La gente ora la ritiene responsabile della catena di eventi nefasti che ha avuto inizio con Michael Myers.

Personaggi persi in un vicolo cieco

Dall’interminabile body count di Halloween Kills, si passa in questo terzo e ultimo capitolo a una sorta di simulazione dell’intenzione seminale di John Carpenter di trasformare la sua saga originale di Halloween in capitoli autoconclusivi con il fallimentare Halloween III: Day of the Witch (1982). Volontà che è presente, appunto, in Halloween Ends, dove ci viene presentato lo scontro finale tra Laurie e Michael Myers, ma anche la genesi di un nuovo criminale, diretta conseguenza del precedente. È qui, soprattutto in questa nascita di una nuova forma del male che risiede il “concetto alto” che Gordon Green ha voluto venderci con la sua trilogia: un’indagine su come il Male, la paura, si muova come un virus nell’America contemporanea ma abbia anche bisogno di una radice interiore o di una predisposizione per il suo sviluppo.

Per un po’, il film è all’altezza della sua promessa. Se non ci troviamo esattamente in un terreno di malvagità fuori dagli schemi, Halloween Ends è almeno – in netto contrasto con i suoi predecessori – incentrato sui personaggi, relativamente privo di sangue e meno ammaccatto dall’umorismo pervasivo e spesso incongruo che il co-sceneggiatore Danny McBride ha impresso alla serie.

In Halloween Ends, Green gioca con un’idea a cui la serie ha accennato nel corso dei due precedenti film: che Michael non sia un semplice mortale, ma piuttosto una forza soprannaturale, l’incarnazione fisica del male puro e incancellabile. Ognuno di noi è suscettibile al virus di Michael Myers: bastano umiliazioni, insulti e rifiuti per accendere la miccia della nostra predisposizione interiore alla violenza. Ma dato che, come abbiamo detto, l’attrazione principale del film è il duello Myers/Strode, è sorprendente che gran parte dello sviluppo del film non sia dedicato a loro, personaggi centrali del film, ma ad altri comprimari che vengono presentati come eredi della malvagità del villain, senza mai realmente incrociarsi: in poche parole, troppe deviazioni per raggiungere un vicolo cieco.

Un altro dei temi più importanti degli spin-off di questa nuova trilogia è stato il trattamento e l’evoluzione di Laurie Strode, che deve fare i conti con il suo rancore e la sua furia ma non abbassa mai la guardia. È in questo episodio che la percepiamo più umana, più bisognosa di voltare pagina e di intraprendere un nuovo cammino, lasciandosi alle spalle le sue paure più intime, che le hanno fatto sviluppare un sesto senso per percepire la presenza di Myers o la sua influenza malevola.

Haddonfield – oggi più che mai una brutta città industriale – diventa sfondo per la storia di personaggi secondari in un film che si cristallizza tra la narrazione seriale televisiva, che segue direttamente il dramma dei sopravvissuti, e i bruschi sfalsamenti di un sequel horror anni Ottanta, con nuovi volti che rimangono ben poco impressi.

Halloween Ends

Halloween Ends è davvero la resa dei conti?

Questo capitolo finale, che si chiude non con un botto, ma piuttosto con un piagnisteo, non è solo superfluo e pieno di cliché, ma rappresenta anche ciò che si prova quando si raschia il fondo di un barile che è stato arido e sterile per decenni. A parte la trama francamente assurda, Halloween Ends non è spaventoso e neanche satirico: in assenza di una premessa coerente, David Gordon Green e i suoi co-sceneggiatori ricorrono ai peggiori tropi slasher e nulla più.

Il film impiega troppo tempo a svelare una storia che vorrebbe portare a un’escalation, con solo gli ultimi 20 minuti che entrano davvero nel vivo della questione. In questo ultimo frangente, tutto è studiato su misura per ottenere effetti piuttosto drastici ed esageratamente sanguinosi: semplicemente, non ci sono abbastanza vittime che possano morire in pochi minuti e la disinvoltura con cui vengono commessi gli omicidi sembra spesso del tutto disumana. Passo dopo passo, il film si trasforma in un groviglio di uccisioni gratuite e cinico fan service, mentre si avvia verso l’inevitabile conclusione: la resa dei conti corpo a corpo tra Laurie e Michael, una distruzione corporea tanto prevedibile quanto insoddisfacente.

Ma si tratta davvero dell’ultimo scontro? Halloween Ends sembra quasi riconoscere la natura condizionale della sua stessa fine in una delle sue battute finali, pronunciata da Laurie: “Il male non muore, cambia forma“. Finchè ci sarà da guadagnare, sembra che Micheal Myers rimarrà sempre in agguato nell’ombra.

La Cura, recensione del film di Francesco Patierno

La Cura, recensione del film di Francesco Patierno

Girato in più fasi a partire dall’inizio del lockdown, La Cura di Francesco Patierno è presentato nella sezione in concorso della Festa del Cinema di Roma, oggi che i giorni più diffcili dell’emergenza pandemica possono sembrare un ricordo lontano e ci si sta avviando verso una sorta di normalità.

D’altra parte, un evento drammatico e inaspettato come la pandemia, che ci ha messo di fronte a scenari impensabili, non poteva non finire sotto la lente del cinema italiano. Nel caso di Patierno, con la rilettura del romanzo La Peste di Albert Camus, che fin troppo bene si adatta al recente passato.

La trama de La Cura

Napoli. Una troupe cinematografica gira un film tratto da La Peste di Camus durante i giorni più difficili della pandemia da Covid -19. Le vicende di attori e tecnici si intrecciano con quelle dei personaggi del romanzo. Bernard, Francesco Di Leva, è un medico, la cui moglie gravemente malata, lascia Napoli per curarsi. Intanto, in città si hanno i primi segni del diffondersi di un’epidemia. Mentre il medico, assieme al collega Castel, Giancarlo Cosentino, cerca di convincere le autorità ad avvertire la popolazione del pericolo, l’epidemia si aggrava sempre più e si rende necessario chiudere la città, affinchè il contagio si diffonda il meno possibile. Di fronte all’emergenza, c’è chi, come Tarrou, Alessandro Preziosi, si mette a disposizione per ospitare chi ne ha bisogno e organizza un gruppo di volontari per aiutare ad affrontare la situazione. Tra lui e Bernard nasce una profonda amicizia. Rambert, Francesco Mandelli, invece, è un attore che vuole tornare nella sua città e cerca di farlo con ogni mezzo. C’è chi nega la pericolosità del virus, chi dice di star bene, mentre soffre i primi sintomi del male, come l’infermiere Grand, Antonino Iuorio; c’è chi considera il male un flagello di Dio mandato sulla terra per punire gli uomini, come Padre Paneloux, Peppe Lanzetta. Ci sono vittime innocenti di un male sconosciuto in una Napoli deserta. Su tutte, la piccola figlia del prefetto, Andrea Renzi. La sfida per Bernard e i suoi colleghi, è trovare al più presto un farmaco efficace, una cura contro il virus.

Tra realtà, finzione e metacinema

La Cura può risultare nella prima parte un po’ confuso, vista la labilità del confine tra la vita degli attori durante le riprese e la messinscena de La Peste, tra realtà, finzione e riflessione sul cinema, su se e come farlo in quei momenti drammatici. C’è il rischio che diventi un mix farraginoso e poco chiaro. Invece, man mano si entra nel meccanismo del film, i piani si fondono, diventa più immediato seguire la vicenda e immedesimarsi. Non occorre molto perché lo spettatore torni con la mente alle proprie giornate di lockdown, mentre vede le immagini scorrere sullo schermo, grazie anche a un gruppo di appassionati interpreti, su cui spiccano Alessandro Preziosi e Francesco Di Leva. Ecco, allora, la rappresentazione delle divisioni all’interno della società, dei vari punti di vista che si sono scontrati anche in modo acceso. Qualcuno si crede immune dal contagio, altri si chiedono se “ne usciremo migliori”. Una costruzione d’impronta teatrale, non verbosa, ma piuttosto minimalista, per trasporre il romanzo di Camus e calarlo nel presente.

Napoli protagonista ne La Cura

La vera protagonista del film, tuttavia, è la Napoli deserta del lockdown. È la città partenopea a destare la maggiore impressione nello spettatore. La scelta dell’ambientazione non poteva essere più appropriata. Napoli, sempre così viva, piena di allegria, di schiamazzi e di un vociare di per sé simbolo di vitalità, è invece qui silenziosa e vuota. Rappresenta così, all’ennesima potenza, quello che è accaduto nelle città italiane in quei mesi. Colpiscono le sue strade vuote, in cui si sente solo il suono delle ambulanze o un grido disperato. Quelle atmosfere sono le più efficaci per riportare lo spettatore indietro a momenti che sembrano lontani, sebbene con la pandemia ancora si conviva.  

Umanità empatica e pudore rispettoso del dolore e della morte

Da apprezzare anche il pudore, il tatto, con cui Patierno tratta la malattia e la morte, senza indulgere in esse, senza spettacolarizzarle. Il che, nell’era della spettacolarizzazione eccessiva è una dote rara. L’occhio della macchina da presa resta a distanza, rispetta, ci si muove in punta di piedi. 

La Cura è poi un film con molti abbracci, quelli che sono mancati in quei giorni, entrando a far parte dei “gesti proibiti” a causa del virus. È anche un film senza troppi dispositivi di protezione, neanche in ospedale. Ciò risulta un po’ straniante per lo spettatore, ma sembra che il regista abbia tenuto a non perdere l’umanità, il contatto anche fisico nel suo racconto, come invece lo si è perso nella realtà. In questo modo, egli pone l’accento sull’empatia, sul senso di comunità e dà spazio alla speranza e alla fiducia nell’uomo, nonostante tutto. Sebbene al regista non interessi esprimere un giudizio sui punti di vista e i comportamenti che mostra, il suo sguardo è particolarmente benevolo verso chi fa, chi si spende, aiuta e si sporca le mani, proprio come i due protagonisti.

La Cura è una lettura lucida e garbata dei giorni bui del lockdown, ma non per questo meno appassionata. Invita lo spettatore a salvaguardare i legami umani, l’amicizia, la comprensione, la solidarietà, a riscoprire il senso di comunità. È questo che ha aiutato, assieme alla scienza e al lavoro dei medici, a superare i momenti più difficili.  

Il ragazzo e la tigre, la recensione del film con Claudia Gerini

Il ragazzo e la tigre, la recensione del film con Claudia Gerini

Un’operazione encomiabile, che non a caso ha ottenuto il patrocinio del WWF, quella di Brando Quilici (Il mio amico Nanuk), che porta alla Festa del Cinema di Roma il suo nuovo film. Presentato in anteprima ad Alice nella Città – e distribuito in sala da Medusa Film dal 14 ottobre 2022, anno della Tigre secondo il calendario cinese – Il ragazzo e la tigre racconta una storia ricca d’avventura ed emozioni interpretata anche da Claudia Gerini, presenza familiare in un Nepal splendido e ammaliante, vero e proprio protagonista al pari dell’attrice romana e del giovanissimo Sunny Pawar. 

Il ragazzo e la tigre – Due cuccioli in fuga

E’ lui il piccolo Balmani di dodici anni, scappato dall’orfanotrofio per tornare nella sua Kathmandu, che sulla strada si imbatte in un gruppo di bracconieri riuscendo a salvare un cucciolo di tigre del Bengala, Mukti. La strana coppia intraprende così un viaggio pericoloso e rivelatore verso il monastero Taktsang, noto come Tana della Tigre, dove i due dovrebbero finalmente essere al sicuro e sotto la protezione dei monaci buddhisti himalayani. Sulle loro tracce, oltre a cacciatori senza scrupoli e personaggi ambigui, anche la preoccupata Hannah (Claudia Gerini), direttrice della struttura che ospitava il bambino e in apprensione dopo la sua scomparsa

Amore e fratellanza, ma anche tradimento e delusioni si alternano in questa piccola grande Odissea, che il regista ha immaginato a partire dalla leggenda del Guru Rimpoche, l’uomo santo per i Buddisti, che volò nel IX secolo a cavallo di una tigre dal Tibet al Bhutan per fondare il monastero citato nel film. Uno spunto al quale sono seguiti diversi viaggi nel Nepal distrutto dal terremoto del 2015, nei quali Quilici ha potuto documentarsi e approfondire molti degli elementi che oggi irrobustiscono la sua ultima fatica.

Salvate la tigre

Coerentemente con gli obiettivi del programma del WWF “Save the tigers now”, il film racconta dei maestosi felini (dei quali restano solo 3900 esemplari, in libertà) e lo fa nella speranza di sensibilizzare il pubblico, soprattutto – ed espressamente – dei più giovani. Anche se forse potrebbero essere i “giovanissimi” gli spettatori ideali di una vicenda che mette insieme “le emozioni della fanciullezza e della crescita” e i temi della “conservazione della fauna selvatica e la scomparsa delle specie”.

Obiettivi senza dubbio raggiunti, da un prodotto che però oltre al grande lavoro di preparazione e al messaggio non sembra in grado di offrire una pari qualità a livello narrativo. Non è sicuramente facile lavorare con una fiera, e questo giustifica sicuramente le sequenze che le vedono in scena, ma a essere ancora più forzate sono alcuni snodi e caratterizzazioni – tanto tra i villain quanto tra i protagonisti – un po’ troppo ‘per bambini’.

Un limite che il film avrebbe potuto non porsi (ammesso che questo sia l’effetto di una strategia produttiva), consentendosi di raggiungere un pubblico più vario ed esigente di quello della sezione “dedicata alle giovani generazioni”. Che insieme a una generale perdita di spontaneità, delle premesse e uno sviluppo piuttosto canonici e una immagine degli animali quasi da cartoon d’altri tempi, offre qualche lezioncina di troppo, pur mostrando una interessante alternanza tra i diversi piani rappresentati da una Gerini meno sopra le righe di altre volte e dal piccolo ed espressivo  Sunny.

Impossibile non pensare al Due fratelli di Jean-Jacques Annaud e non restare a bocca aperta davanti alle splendide location scelte da Quilici, non a caso produttore e regista di oltre 100 special per reti televisive di tutto il mondo, tra cui National Geographic e Discovery Channel. Panorami difficili da vedere, quelli della giungla del Chitwan (dove riprese sono state possibili solo dall’alto degli elefanti, per non disturbare le tigri) e di Kathmandu, fino alle vette più alte dell’Himalaya, che fanno passare in secondo – o terzo – piano anche la fretta con cui si arriva al rassicurante (e un po’ slegato) finale.

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