È la volta dell’argentino Karnawal, esordio alla regia di lungometraggio per Juan Pablo Félix, alla XXX edizione del Noir in Festival. Regista, produttore esecutivo, sceneggiatore e aiuto regista, Félix ha affiancato registi come Lucrecia Martel (La niña santa), Pablo Trapero (Il Clan, ZeroZeroZero), Juan José Campanella (Il segreto dei suoi occhi). Prima di arrivare in Italia, Karnawal è stato presentato in anteprima al Tolouse Latin America Film Festival 2020.
Karnawal, la trama
Cabra, Martín López Lacci, vive con sua madre Rosario, Mónica Lairana, nel nord dell’Argentina, al confine con la Bolivia. Ha 16 anni ed è un danzatore di malambo – danza tipica dei gauchos. Il suo sogno è diventare un ballerino professionista, ma nella periferia in cui vive la vita non è semplice e il ragazzo ricorre a qualche espediente. Rosario cerca di mandare avanti la famiglia e sta pensando di rifarsi una vita con Eusebio, Diego Cremonesi. Quando il marito, El Corto, Alfredo Castro, esce dal carcere per un permesso di tre giorni è carnevale. Cabra è alla vigilia di una gara importante, che può spalancargli le porte di un concorso nazionale. Moglie e figlio accompagnano il padre in un viaggio. La famiglia sembra ritrovarsi, ma resta anche invischiata negli affari poco puliti del Corto. I protagonisti riusciranno a cavarsela? Cabra arriverà in tempo per la gara?
Il carnevale del riscatto del sedicenne Cabra
Juan Pablo Félix definisce il suo film “un racconto di formazione sulla necessità di costruirsi un’identità contro l’omologazione della società”. In effetti Karnawal è una storia di formazione e identità, ma è anche di più. Racconta del rapporto di un ragazzo con la sua passione, la danza, la stessa che aveva il regista da bambino perchè, sostiene ancora Félix, generava in lui un “entusiasmo incredibile” e rappresentava un “rifugio […] dall’incoerenza del mondo adulto”. Attraverso la danza Cabra esprime infatti tutto sé stesso, la sua voglia di vivere e di cercare una strada diversa da quella percorsa dagli adulti. C’è dunque nella narrazione per immagini del regista argentino, la passione che deriva dal racconto di un’esperienza in parte personale. Si parla di strade da percorrere. Non per niente, Félix sceglie di realizzare un road movie. Una famiglia sgangherata ma a suo modo unita, che macina chilometri seguendo El Corto nelle sue peregrinazioni su e giù per la pampa.
Karnawal è soprattutto il difficile rapporto tra un padre e un figlio. A restare nella mente dello spettatore sono El Corto e suo figlio Cabra, interpetati entrambi ottimamente da Alfredo Castro e dal giovane Martín López Lacci. L’uno perfetto nell’incarnare la classica simpatica canaglia che ne combina di tutti i colori ma nonostante tutto riesce a farsi voler bene, in versione scapigliata e sdrucita. L’altro testardo e determinato, capace di evoluzioni spettacolari con i suoi stivali da gaucho. Un rapporto forse logorato quello tra i membri di questa famiglia, pieno di incomprensioni, ma nonostante tutto ancora fecondo. Ecco che la danza nel film non è solo la speranza per il futuro di Cabra, ma un atto liberatorio per tutti e tre, anche per l’apparentemente rassegnata Rosario. È la scelta di lasciarsi alle spalle i trascorsi amari e riscoprire la gioia di stare insieme e la possibilità di essere ancora felici, come rappresentato perfettamente nella scena del carnevale. Il regista riesce attraverso il movimento, la musica, i colori a comunicare esattamente la gioia e l’energia di quel momento. Merito anche della fotografia di Ramiro Civita, delle musiche di Leonardo Martinelli, come delle scenografie curate da Daniela Villela e dei costumi di Gabriela Varela.
La pecca del film sta nel fatto che la parte noir, crime, nella sceneggiatura dello stesso Juan Pablo Félix sia sacrificata rispetto al cuore della vicenda e diventi secondaria. Non è quella che ci fa appassionare alla storia, capace di coinvolgere ed emozionare più con il racconto dei caratteri e delle relazioni. Il fatto che El Corto non sappia stare lontano dai guai neanche per i tre giorni del suo permesso, che questo metta in pericolo la moglie e il figlio, diventa quasi irrilevante. Ciò non toglie nulla al valore del lavoro, sebbene possa lasciare un po’ di amaro in bocca agli amanti del genere.
Tuttavia, non si può non essere affascinati dall’energia travolgente del piccolo danzatore protagonista, che non solo fa acrobazie portentose sui tacchi e sulle punte, ma esprime al meglio la voglia di rivalsa, il desiderio di essere visto da adulti troppo spesso persi nei loro problemi. Cabra col suo fisico esile e lo sguardo fiero, danzando grida il suo esserci, a modo suo. Invita a osservarlo, a vedere il suo talento. Grida che può e vuole farcela ad essere diverso. Karnawal si potrebbe definire un Billy Elliot argentino che riesce ad essere anche, finalmente, non il solito dolente film sulla marginalità, ma ad avere il respiro della speranza.

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Il finale di

A prima vista il titolo del film, Wildland, “terra selvaggia”, sembrerebbe in aperto contrasto con l’immagine che lo accompagna: una famiglia apparentemente normalissima seduta su un divano. Non vi è infatti nessun segno di catastrofi, di minacce incombenti legate al mondo della natura, una natura che si riveli un pericolo per l’uomo e lo metta a dura prova. È proprio questo che la regista vuole mostrare: come una famiglia, che dovrebbe essere il luogo più sicuro, in cui ci si sente più protetti, possa essere invece quello in cui si è più in pericolo, peggio di una giungla. Soprattutto se, come nel caso dei protagonisti, si tratta di una famiglia disfunzionale, dedita ad attività criminali. Jeanette Nordahl dunque si mostra ben più interessata ai meccanismi emotivi, relazionali e psicologici che possono innescare una situazione di tensione, di suspense e di pericolo, piuttosto che a indagare pericoli esterni.
Ad ogni modo, l’ambiguità, l’ambivalenza dei legami morbosi al centro del film avvince lo spettatore, alimenta la sua curiosità, insieme a un sentimento di angoscia crescente, dovuto all’aggravarsi della situazione, man mano che una vera e propria trappola si stringe attorno all’ultima arrivata, Ida. Dunque, il film funziona, pur con qualche sbavatura in scrittura: qualche traccia narrativa accennata e poi abbandonata, dunque prescindibile. Il film è scritto da Ingeborg Topsøe e basato su un’idea della regista assieme alla stessa Topsøe. Un evento tragico nel sottofinale e il finale aperto lasciano sul piatto più di un interrogativo, e se quest’indeterminatezza può non piacere a tutti, si tratta di una scelta d’impatto, che spinge lo spettatore ad immaginare un possibile futuro.

Il dolore può spingere le persone a compiere gesti totalmente folli. Ognuno ha il suo modo di elaborarlo, con alcuni che decido di intraprendere un percorso spesso oscuro per liberarsi da rabbia e frustrazione. Dopo la scomparsa della sua famiglia in seguito allo Snap, Clint intraprende un percorso accecato dalla rabbia e dalla vendetta, assumendo l’identità di Ronin e diventando a tutti gli effetti un serial killer.
All’inizio del suo viaggio nel 
Uno dei punti principali della trama del primo film degli Avengers è la natura ambigua dello S.H.I.E.L.D. Dopo la visita di Thor sulla Terra, le autorità decidono che la Terra ha bisogno di un sistema di difesa più elevato per combattere gli Dei e i mostri che si stanno generando rapidamente.

Se c’è un personaggio nel MCU che è sinonimo di tradimento, quello è certamente Loki. Dopotutto, è il Dio dell’Inganno, ed è più che all’altezza del suo titolo. Di volta in volta, Loki tradisce suo fratello maggiore, riuscendo a ingannare il Dio del Tuono nove volte su dieci.
